UNA FESTA DELLA BEATIFICAZIONE NELLA “SMEMORATEZZA”. Una nota *
"Il comitato parrocchiale, guidato dal monsignor Spingi, parroco di Contursi, e il comitato diocesano, presieduto dall’arcivescovo Luigi Moretti, hanno individuato la zona del Tufaro, quale luogo in cui celebrare la beatificazione".
Quando i contursani e le contursane hanno saputo della scelta del luogo (in esso fu ritrovato, nel 1959, il corpo di una giovane uccisa), hanno pensato subito che le ragioni non fossero casuali o solo logistiche, ma che fossero dettate da una bella e buona volontà - in nome di don Mariano Arciero (nato a Contursi nel 1707 e morto a Napoli nel 1788: le sue ossa furono riportate a Contursi nel 1950) - di risanare le ferite di un momento terribile di tutta la comunità. Ma poi hanno dovuto ricredersi.
Incredibilmente, da parte dei due comitati, c’è stato silenzio assoluto su quanto accaduto nella "zona del Tufaro", nel 1959. La preoccupazione dominante da parte loro è stata unicamente quella di mettere a punto la macchina organizzativa. Di tutto il resto, niente! "Smemoratezza" totale!
Che dire?! C’è solo da sperare che lo spirito di don Mariano Arciero li illumini alla grande e produca un grande miracolo!
Che il 24 giugno 2012, la giornata della celebrazione della sua beatificazione, possa essere una giornata memorabile di rinnovamento civile e morale di tutta la comunità locale e di tutta la comunità religiosa (da quella parrocchiale a quella diocesana e a quella vaticana - vista anche la presenza del cardinale Angelo Amato alla cerimonia)!
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Federico La Sala (16 maggio 2012)
Per approfondimenti, nel sito, si cfr.:
DUE CITAZIONI (per capire meglio):
IN ONORE DI DON MARIANO ARCIERO:
...E DEL PARROCO DON SALVATORE SIANI. LA SUA CONSAPEVOLE AUTOCRITICA:
* da: "Breve vita del venerabile Sac. D. Mariano Arciero", del parroco che nel 1950 riportò - anche con l’aiuto del vescovo di Campagna, mons Giuseppe M. Palatucci - le ossa di don Mariano Arciero a Contursi - don Salvatore Siani ( Gonnella Grafica, Contursi Terme 1995, pag. 10 e pag. 22).
FLS
COMUNE DI CONTURSI TERME (SA).: "Venerdì 24 giugno, alle ore 19, in piazza Salvatore Mastrolia, in occasione del decimo anniversario della Beatificazione di Don Mariano Arciero, la proclamazione del Beato a compatrono della Città di Contursi Terme. La celebrazione eucaristica sarà presieduta dall’Arcivescovo Andrea Bellandi".
AL SINDACO E AL PARROCO DI CONTURSI TERME. Ai Santi Patroni, forse, non è tempo di affiancare anche qualche Santa Patrona? Si potrebbe proporre Santa Teresa d’Avila (con le sue 12 Sibille - Apostole della Chiesa della Madonna del Carmine) .... a ricordo anche delle 21 donne dell’Assemblea Costituente, le 21 madri della Costituzione della Repubblica Italiana? Sicuramente don Mariano Arciero ne sarebbe felicissimo. Grazie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
BEATIFICAZIONE:
PROGRAMMA PER LA SETTIMANA DAL 17 AL 24 GIUGNO 2012
SI LEGGE:
"Sabato 23 giugno 2012, ore 19.00
Area del Tufaro, Santa Messa prefestiva
a purificazione della memoria del luogo"
Benedetto XVI e la crisi del papato in quanto forma istituzionale.
"I corvi, il papa e la posta in gioco". Un’analisi di Aldo Maria Valli
LA "SMEMORATEZZA" FA BRUTTI SCHERZI. DON MARIANO ARCIERO, BEATO ... TRA LE BRACCIA DELLA VECCHIA DEA "MEFITE"!!!
LA ZONA DEL TUFARO DI CONTURSI TERME, LUNGO IL FIUME SELE, ERA ED E’ LA ZONA DELLA DEA "MEFITE". LE RAGIONI PER CUI LA GIOVANE UCCISA NEL 1959 FU PORTATA E RITROVATA IN QUESTO LUOGO ERANO DOVUTE PROPRIO AL SAPERE CHE QUESTO LUOGO ERA UN LUOGO "MEFITICO", DI MORTE..
DOPO IL TERREMOTO DEL 1980 LA ZONA DEL TUFARO E’ STATA BONIFICATA ED E’ DIVENTATA LA "ZONA INDUSTRIALE" DEL PAESE. ORA, PROPRIO NEL PIAZZALE APPUNTO DI QUEST’ AREA INDUSTRIALE AVVERRA’ LA BEATIFICAZIONE DEL VENERABILE DON MARIANO ARCIERO.
PER MEGLIO CAPIRE CHI ERA "MEFITE" E COSA SIGNIFICA "MEFITICO", E’ PIU’ CHE INTERESSANTE LEGGERSI E RILEGGERSI L’ ARTICOLO DI PAOLO RUMIZ:
MEFITE
Capatina all’inferno e ritorno
di Paolo Rumiz (la Repubblica, 19 agosto 2009, p. 35).
Visita alla pozza di fango di Rocca San Felice in Irpinia. È chiamata Mefite e il nome dice tutto. Quando la notte del 22 novembre 1980 il parroco la vide asciutta capì che qualcosa di tremendo stava per succedere. E successe. Qui i popoli pre-romani adoravano la dea della fertilità. E la più forte emissione gassosa di tipo non vulcanico che si sia mai vista in Europa. Sfiata anidride carbonica più di Stromboli e Vulcano messi insieme.
Il parroco di Rocca San Felice in Irpinia lo sapeva bene. Da secoli nella valletta sotto il paese accadevano brutte cose. Passanti uccisi da veleni, animali morti, odore tremendo di uova marce specialmente la sera; e tutto sempre lì, attorno a una pozza di fango detta Mefite dove popoli pre-romani avevano adorato la dea della fertilità. Ma quando la notte del 22 novembre 1980 il prete vide che la pozza s’era disseccata e una tempesta elettromagnetica stava sparando strani fulmini globulari, capì che qualcosa stava per succedere. E difatti arrivò il terremoto.
Poi, gli scienziati ci misero anni a capire che l’epicentro della cannonata che aveva scardinato il Sud dalle fondamenta stava proprio lì, in quella valletta mefitica a due passi dalla via Appia dove Virgilio aveva collocato una porta dell’inferno e dove il poeta Orazio, in una locanda lì accanto, aveva tentato di portarsi a letto una servetta di campagna. Il Terribile era lì, visibilissimo, mille volte esplorato e raccontato nei secoli, ma nessuno lo prendeva sul serio. Eppure nel 1980 aveva parlato chiaro: la pozza della morte che si era disseccata, solo per poi vomitare con maggior violenza i miasmi che aveva temporaneamente trattenuto.
Una capanna all’inferno! Come farne a meno? Stavolta ho con me un amico, Livio Sirovich, un sismologo di prim’ordine dell’Osservatorio Geofìsico Sperimentale di Trieste che nel 1980 ha battuto l’Irpinia metro per metro per conto del Cnr. Ora è venuto a rivedere i suoi luoghi. È un raffinato esploratore, ma nemmeno lui si è mai avvicinato alla Nera Madre che cucina i veleni e depista gli scienziati. Così la nostra curiosità è allo spasimo, unita a un vago timore.
«Nun ci jate, se more», ci avverte una donna sotto il tiglio della piazza, a Rocca San Felice. C’è da capirla: è dal XVII secolo che i registri parrocchiali segnalano decessi di esploratori e ficcanaso. Gli ultimi, due archeologi, asfissiati mentre cercavano monete antiche attorno alla palude. Ma noi andiamo lo stesso. Abbiamo una guida speciale, Giovanni Martinelli, super-esperto di gas sotterranei, uno che sente la Terra dall’odore. È lui che,via telefono,ci pilota fin sull’orlo del cratere e come una Sibilla ci enumera oscure meraviglie.
«Ah, la Mefite, luogo parlante della profondità. La più forte emissione gassosa d’Europa di tipo non vulcanico. Sfiata CO2 più di Stromboli e Vulcano messi insieme...». Passiamo il cartello con la scritta "Pericolo di morte" e l’altro incalza: «Ribollendo, il fango fa riemergere resti sanniti e romani... la Mefite è il collegamento più diretto al Profondo che esista in Italia...». Ecco, ora siamo sull’orlo, l’ambiente è selvaggio, il fondo scroscia come una cascata; ma non è vapore, è gas, mortale ossido di carbonio unito ad anidride solforosa.
Perché si adorava un luogo simile? «Morte e fertilità erano sempre collegate. I fanghi erano rimedi contro le malattie, si son trovati ex voto antichissimi a forma di piede o braccio...». Verso il fondo si vedono carcasse. Un cane, qualche uccello, insetti a non finire, olocausti involontari. Possiamo scendere? Martinelli: «Attenti al vento, all’inversione termica, il gas può salire...». Così dopo un po’ ce ne andiamo, prima che la dea si accorga di noi e ci catturi.
Trent’anni fa c’era un asino che viveva in un cunicolo scavato sotto il castello di Calitri. Per arrivare alla stalla, che aveva una finestrella sul precipizio, la bestia doveva passare per la cucina, la camera da letto e la cantina dei padroni. Un po’ come nella rupestr eMatera, anche sulle alture irpine uomini e animali talvolta dividevano gli stessi spazi. «Ma quando alle 19.34 del 23 novembre 1980 il terremoto arrivò come un’onda di tempesta, lo strapiombo e un pezzo di castello vennero giù con tutta la stalla. Ore dopo, nel marasma dei soccorsi, il padrone andò a vedere che ne era del ciuco, e lo trovò vivo sessanta metri sotto. Malfermo e con i denti rotti, ma incredibilmente in piedi».
Torniamo a caccia dei luoghi sulla linea dell’Ofanto, e intanto Livio ripesca dalla memoria le storie di quei giorni in prima linea. Prodigi, coincidenze, salvataggi funambolici, furbizie di speculatori, guerre di resistenza al cemento. Storie di un’altra Irpinia, che ha saputo uscire talvolta migliore dalla prova del fuoco. Sant’Angelo dei Lombardi, sbarrata alle ruspe dalla determinazione di un funzionario della soprintendenza, Vito De Nicola, e oggi centro delizioso, con castello medievale, chiesa madre e basilica paleocristiana. Ca litri, in bilico su una frana antichissima, con corso Matteotti piazzato sulla linea di distacco dello smottamento e il resto del paese che scivola di metri a ogni sisma, ma in modo così compatto che tutti ci hanno fatto l’abitudine. E che dire del destino di Caposele, nell’alta valle, uscita solo malconcia dalla catastrofe e immediatamente condannata dai geologi a un sommario abbattimento per via delle faglie individuate sotto le case?
Qualcuno chiese delle verifiche, vennero i tecnici triestini dell’Ogs, e presto si vide che le faglie c’erano davvero, ma non erano attive, dunque il paese poteva tranquillamente essere ricostruito nel vecchio posto. Così Caposele si salvò, e per la contentezza il sindaco offrì ai tecnici forestieri una delle cene più memorabili dellaloro vita.
Un chiavistello, un lucchetto che si apre, ed ecco i ruderi di Conza proibiti agli occhi degli uomini. Con Livio e Vito De Nicola scendiamo come palombari nel fondo dei secoli, fino al ciclopico basamento romano, una solidità che ridicolizza tutto quello che è stato costruito dopo. L’evidenza stratigrafica è sconvolgente. Più si sale verso il recente, più la friabilità aumenta, come se dopo l’Evo Antico nulla fosse stato più costruito a rego la d’arte. De Nicola: «È come se la distruzione aumentasse col rarefarsi della memoria delle tecniche edilizia antiche».
Per quali misteriosi canali la Bestia colpisca un paese e non un altro a poca distanza, è spesso un mistero. Sirovich mostra una mappa della "microzonazione sismica" dell’Irpinia, dove - a farla breve - si individuano i punti dove è sensato costruire e quelli dove invece è pericoloso farlo. «Ci sono aree proibite in partenza, per esempio quelle su terreni soffici e sabbie che possono fluidificarsi in certe condizioni. Ma spesso tutto dipende da geometrie profondissime che fanno concentrare diverse onde sismiche in un certo posto e non in un altro. Un po’ come uno specchio ustorio fa con i raggi del sole». Ma lì ogni previsione è un temo al lotto.
DON MARIANO ARCIERO E DON PRIMO MAZZOLARI: DUE “TROMBE DI CRETA” CHE SOFFIAVANO PER TUTTI E PER TUTTE!!!
DON MARIANO ARCIERO: Le sue prediche duravano sino a due ore: non solo il popolo non si stancava, ma erano ascoltate anche dai sacerdoti e dallo stesso Arcivescovo di Napoli. Quando veniva richiesto da alcuni Sacerdoti di volere qualche predica scritta, D. Mariano rispondeva che “quello che diceva in Parrocchia era opera di Dio”. “Badate - diceva agli uditori - approfittatene delle mie parole poiché sebbene la tromba è di creta, è lo Spirito Santo che vi soffia”(da "Breve vita del venerabile Sac. D. Mariano Arciero", del parroco che riportò (anche con l’aiuto del vescovo di Campagna, mons. Giuseppe M. Palatucci) le ossa di don Mariano Arciero a Contursi - don Salvatore Siani, Gonnella Grafica, Contursi Terme, pag. 10).
DON PRIMO MAZZOLARI. (...) don Primo Mazzolari era solito dire che rimettersi totalmente, ciecamente a un uomo, per autorevole che fosse, era come dimettersi da uomo. E agli uomini della sua parrocchia puntualmente ricordava: "Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa". (Angelo Casati, Libera parola. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Ovvero della paura di pensare, “mosaico di pace”, novembre 2010)
Cronache del parroco di Bozzolo
di Angelo Paoluzi (“Europa”, 28 febbraio 2012)
Non è morto nel 1959 perché il suo messaggio sembra scritto oggi. Don Primo Mazzolari, «la tromba dello Spirito Santo della Bassa mantovana» - così lo definì papa Giovanni XXIII -, è ancora fra noi, con il suo potere di ammonimento e possiamo dire di profezia.
Nelle centoventi pagine di un’antologia dal titolo Come pecore in mezzo ai lupi le edizioni, Chiarelettere (Milano 2011, 7 euro) ripropongono testi che continuano a servire come catechismi di moralità politica. Nella prefazione don Virginio Colmegna parla di «attività provocatoria » di don Primo, di una «nuova cultura politica, partecipata, rilanciando la connessione virtuosa fra etica e impegno politico, riscoprendo una soggettività che ha il coraggio del servizio disinteressato, del bene comune come responsabilità».
Un concetto al quale risponde - sembra per i nostri giorni - il brano di un articolo scritto su Adesso nel 1950: «Un popolo che stenta a vivere e conta a milioni i suoi disoccupati e ha lo schifo di pochi avventurieri che buttano via volgarmente il denaro, ha diritto di vedere che almeno gli uomini da lui scelti per governarlo, se non proprio poveri, siano almeno distaccati, in omaggio a quello spirito di povertà da cui prendono nome e vanto». Così un’amara osservazione sui principi, sui quali «è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali, posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità materiale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alle necessità». E sullo spettacolo (triste immagine dei nostri tempi) «poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria, che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari, che esaltano la santità della famiglia».
Abbiamo di don Mazzolari un ricordo preconciliare. Si svolse a Napoli, negli anni che precedettero il Vaticano II, un convengo di scrittori cattolici, cui partecipò il meglio della cultura di allora, da Giancarlo Vigorelli a Giorgio La Pira, da Carlo Bo a Mario Pomilio. Fra essi un silenzioso don Primo: il suo Adesso era sotto il tiro della censura clericale. In un gruppo di lavoro si sfogò: chiese a tutti i laici presenti che cosa stessero rischiando, in quanto credenti, della loro libertà: un povero prete come me questo rischia, disse, e sventolò la tonaca. Erano gli anni in cui, fra la generale diffidenza ecclesiale, si batteva per la pace, per l’obiezione di coscienza, per una Chiesa che respingesse - come più tardi essa fece - la legittimità della guerra.
Come pecore fra i lupi restituisce al nostro ricordo il tenace parroco di Bozzolo, che non soltanto i fascisti non riuscirono a piegare