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La legalità ferita
La Costituzione è la legge più alta. Dunque un paese senza Costituzione è un paese senza legge. E infatti dagli anni Novanta in poi - quando la crisi costituzionale diventa una malattia cronica della nostra società - in Italia comincia il far west. Un far west senza sceriffi e con molti fuorilegge. Le prove? Sono conservate in un rapporto di Transparency International diffuso nel 2005, quando l’infezione ha ormai toccato il picco: secondo quel rapporto il grado di legalità in Italia è appena un gradino sopra la Nigeria, e però l’ultimo in Europa. Nel contempo cresce l’evasione fiscale: l’Istat la misura al 7,1% del Pil, che in soldoni significa 200 miliardi di euro scuciti dalle casse dello Stato. Su 390 società estere controllate direttamente dalle banche italiane, 140 e passa hanno il proprio recapito in paradisi fiscali. Nel Mezzogiorno un lavoratore su 4 è in nero, e in generale il lavoro sommerso tocca quota 3,5 milioni di persone. La pirateria informatica copre il 75% del software con cui girano i nostri computer (la media europea è del 35%). Fra il 2001 e il 2005 le truffe aumentano del 69%, e in questa cifra c’è di tutto: dalle cure dimagranti al prefisso 709, dai viaggi «tutto compreso» ai trucchetti delle assicurazioni o delle banche. Nelle spiagge del Lazio si registra un abuso edilizio ogni 1.000 metri. A Catanzaro si conclude con una promozione in massa l’esame di avvocato dove 2.585 candidati avevano copiato pari pari lo stesso compitino. Legambiente denunzia un’impennata della caccia di frodo: viene allegramente praticata in 11 parchi nazionali, dall’Abruzzo al Friuli, tanto solo un bracconiere su 20 ne paga poi le conseguenze. Del resto la giustizia negata costituisce l’altra faccia della legalità negata. È un fenomeno cui gli italiani sono ben avvezzi, e al quale si sono ormai ampiamente rassegnati. [...] Questa diffusa inosservanza delle regole - da parte dei cittadini così come da parte di chi ha la responsabilità di farle rispettare - si verifica proprio mentre le regole sono un fiume in piena, al punto che nessuno sa con precisione a quanto ammonti il numero degli atti legislativi che abbiamo sul groppone (la stima più attendibile li misura in 50.000, ma c’è anche chi raddoppia o triplica questa cifra già di per sé considerevole). Eppure nel diritto edificato dalla patria del diritto trovano ancora posto fossili risalenti all’Ottocento, o altrimenti norme bislacche come quella che regola la costituzione di pegno sui prosciutti (legge 24 luglio 1985, n. 401) o la lunghezza massima delle banane e dei cetrioli (stabilita da due provvedimenti adottati rispettivamente nel 1994 e nel 1988). Eppure in tale giungla si annidano all’incirca 35.000 tipi di reato, con la conseguenza che ciascuno di noi corre il rischio d’essere inquisito per infrazioni delle quali non sospetta neppure l’esistenza. C’è sempre una vittima, anzi una doppia vittima, quando l’illegalità si trasforma da eccezione in regola. In primo luogo l’idea di libertà. Come diceva Montesquieu, non c’è libertà al di fuori della legge. E argomentava con queste parole la sua massima:
«la libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; difatti se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del pari questo potere».
In secondo luogo ne rimane vittima l’eguaglianza, o per meglio dire la giustizia. Questo perché se il diritto si trasforma in giungla, chi ci rimette sono i deboli. «Le grida son tante!» esclama un personaggio di Manzoni «e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare». E infatti le nostre normative sono sempre più spietate con i deboli, e viceversa cieche con i forti. Sempre nel 2005, succede così che a Como un barbone sorpreso a rovistare tra i rifiuti sia denunziato per furto di cosa pubblica. Che un addetto ai bagagli di Linate venga condannato a 7 mesi di galera per aver rubato tre pezzi di formaggio. Che in luglio al tribunale di Macerata una nonnina di 98 anni si sia vista rinviare il processo al 2010. Che a Milano un marocchino venga processato per una truffa da 28 centesimi, impegnando per mesi magistrati, cancellieri, traduttori.
Ma se c’è un episodio, una vicenda eloquente e inquietante, istruttiva e distruttiva, in cui la morte della Costituzione coincide con la morte della legalità tout court, ecco: l’emblema di questo doppio funerale si trova nei referendum sulla fecondazione assistita. Perché in quei referendum c’erano molte cose in ballo, c’erano in discussione temi alti, i temi della vita e della morte, della laicità e della fede, della fertilità, della malattia, dei confini della scienza.
Ma la posta in palio era in primo luogo lo stesso referendum, l’istituto costituzionale del referendum. La posta in palio era la «seconda scheda» che i costituenti hanno consegnato agli italiani, che il Parlamento ha messo in mano agli italiani solo a distanza di un quarto di secolo dalla Costituente (all’epoca del referendum sul divorzio), che la successiva prassi referendaria ha via via svuotato e deformato, e che infine è arrivata alla prova del 12 giugno 2005 come un malato davanti all’ultimo consulto. In palio c’era insomma il futuro del referendum - di quell’istituto che a suo tempo Bobbio definì la «gemma» della nostra Costituzione - e c’era dunque in palio la stessa legalità costituzionale. Ma questa legalità è stata violata, è stata tradita, è stata vilipesa durante tutto l’arco della vicenda referendaria.
Michele Ainis insegna Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Teramo. Oltre all’impegno accademico, svolge un’intensa attività di editorialista. Tra i suoi ultimi volumi, Se 50.000 leggi vi sembran poche (con i disegni di Vincino, Mondadori 1999) e Le libertà negate (Rizzoli 2004)
www.laterza.it
Nel sito, sul tema, si cfr.:
L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Chi s’è arreso alle armate del Papa
di MICHELE AINIS (La Stampa, 21/2/2009)
Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».
La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.
La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo.
michele.ainis@uniroma3.it
Il Parlamento non decide?
Perda un turno
di MICHELE AINIS (La Stampa, 20/10/2008)
C’è un modo per uscire dallo stallo, dal gioco di reciproci dispetti e di veti incrociati che sta paralizzando le due Camere? C’è una soluzione tecnica all’impasse della politica? Sì che c’è, e andrebbe sperimentata con urgenza. Perché sta di fatto che il Parlamento è moribondo. Pensavamo d’aver scoperto l’assassino, dopo il monito del Capo dello Stato contro l’abuso dei decreti, ospitato sulle colonne di questo giornale. Ma non è colpa del governo lo spettacolo che è poi andato in scena nei giorni successivi. Non è un caso d’omicidio quello cui assistiamo da dietro le vetrate del Palazzo. No, si tratta piuttosto di suicidio. E la 19ª fumata nera per eleggere il successore di Vaccarella alla Consulta, nonché il blocco prolungato sul presidente della Vigilanza Rai, ne offrono la prova più eloquente.
Insomma il Parlamento non sa più fare le leggi (soltanto 6 in 6 mesi, ma 4 per ratificare trattati internazionali stipulati dal governo) e non sa decidere le nomine, pur costituzionalmente doverose. Sicché muore d’inedia, come un corpo che rifiuti gli alimenti. Oltretutto, non è neppure un suicidio dignitoso. Le Camere da giovedì scorso convocate a oltranza, ma sconvocate venerdì. Sempre giovedì, sciami di parlamentari che ondeggiano contro il bancone della presidenza, supplicando d’annullare la terza votazione, perché coincide con la cena. I trolley accatastati uno sull’altro nel guardaroba di Montecitorio, dato che il giorno dopo c’è uno sciopero dei voli. Gli sms di Cicchitto e Gasparri sui cellulari dei peones, per invitarli a disertare il voto. Le 87 anime presenti in aula venerdì mattina, meno del 10% di tutto il Parlamento. Lo striscione dei radicali, con il vicepresidente della Camera Leone che chiede per due volte di rimuoverlo e l’altra vicepresidente Bonino che s’oppone, finché non intervengono i commessi. E sullo sfondo l’improprio baratto fra la Consulta e la Rai, fra l’acqua santa e il diavolo.
Per salvare il moribondo, e per salvare inoltre ciò che resta del comune senso del pudore, la terapia può essere una sola: poteri sostitutivi. Formula ermetica, che tuttavia ricorre già nella Costituzione italiana così come in altri sistemi federali. In sintesi, significa che quando una regione o qualche ente locale rimanga inerte circa un particolare adempimento, lo Stato vi provvede al posto suo. La macchina pubblica, difatti, non può arrestarsi solo perché il conducente di turno schiaccia un pisolino. In questi casi si cambia conducente. E allora perché non dovremmo togliere il volante pure al Parlamento? Quando s’incarta sulle nomine basta fissare un tempo massimo, oppure un massimo di votazioni a vuoto: facciamo 10, benché la metà sarebbe già abbastanza.
Semmai il problema è individuare il sostituto, senza ledere la dignità delle assemblee legislative, senza inventarci un salvatore della Patria. Ma non è affatto un problema insormontabile. Rispetto al quindicesimo giudice costituzionale potremmo farlo scegliere ai 14 che hanno già un ufficio alla Consulta: è il sistema della cooptazione, in uso per il Senato dell’antica Roma. Oppure potrebbe entrare in gioco il Capo dello Stato, anticipando la sua futura nomina salvo poi restituirla la volta dopo alle due Camere; in questo modo gli equilibri costituzionali non verrebbero alterati. Più arduo rimediare alla paralisi quando si tratta d’eleggere il presidente della Vigilanza Rai, così come di qualsiasi altra commissione formata in Parlamento. Qui ogni soccorso esterno suonerebbe come un’invasione dell’autonomia parlamentare, dunque la soluzione va trovata dentro le mura della stessa commissione. Potremmo assegnare la poltrona al commissario più anziano, come del resto avviene in occasione della prima riunione delle Camere, presieduta per l’appunto dal decano; ma l’età non è mai un segreto, e sapendo come andrà a finire ci sarebbe sempre un partito cui conviene lo stallo. Meglio il sorteggio, quindi, meglio una puntata ai dadi. Dopotutto nell’antica Grecia le cariche pubbliche erano quasi sempre sorteggiate, fu con questo sistema che la democrazia diffuse i suoi primi vagiti. Usiamolo di nuovo, trasformiamo il moribondo in un neonato.
michele.ainis@uniroma3.it