Chi scalpella il Quirinale
di MICHELE AINIS (La Stampa, 6/10/2008)
Serve ancora alla Repubblica italiana un presidente della Repubblica italiana? Domanda impertinente, se non fosse che la politica ci sta recando in pasto un ultimo frutto avvelenato; e il veleno goccia a goccia intossica la nostra più alta istituzione. Perché scalfisce i suoi poteri, ne diminuisce il peso. Senza attacchi frontali, senza una lapidazione in piazza come sperimentarono Scalfaro e Cossiga. No, l’avvelenamento piuttosto si consuma svuotando il ruolo che ricoprì per primo Enrico De Nicola, sottoponendolo a un processo d’erosione, di neutralizzazione progressiva.
In questo, la vicenda del quindicesimo giudice costituzionale suona quantomai eloquente. Manca da un anno e mezzo, ma in Parlamento non si trovano mai i numeri per eleggere il successore del dimissionario Vaccarella. Uno scandalo istituzionale, che ha indotto Napolitano a un pubblico richiamo, dopo lo sciopero della sete inaugurato da Marco Pannella. Tuttavia lo scandalo dipende dal fatto che maggioranza e opposizione vogliono saziarsi entrambe, e allora temporeggiano in attesa che il menù raddoppi. Succederà a febbraio, con la scadenza del giudice Flick.
A quel punto uno a te, uno a me. Da qui il gioco delle coppie, perché il successo di ciascun candidato si lega al profilo del candidato proposto dallo schieramento avverso: un tecnico tira la volata a un tecnico, un uomo di partito s’accompagna giocoforza a un uomo di partito.
Niente di nuovo, la politica ci ha ormai resi avvezzi a questi mercatini. Peccato tuttavia che il successore di Flick non lo designi il Parlamento, bensì il Capo dello Stato. Se i partiti ne contrattano la nomina, se i vari candidati fanno capriole e giravolte per ottenere la benedizione dei partiti, con ciò stesso oltraggiano le prerogative del nostro Presidente. Ma c’è qualcuno che ancora si rammenti del galateo istituzionale? Nessuno, né a destra né a sinistra. Almeno in questo caso, l’oltraggio non chiama in causa un unico imputato.
Non è un oltraggio viceversa la proposta del governo - anticipata da Ghedini - di dividere il Csm in due, sottraendone la presidenza al Quirinale. Non un oltraggio, ma un errore di grammatica (costituzionale). Perché il Presidente ha un ruolo di cerniera fra i diversi poteri dello Stato. Perché presiedendo il Csm evita di conseguenza che la magistratura divenga un corpo separato. Perché infine nel 1947 i costituenti gli assegnarono il compito di moderare le tensioni fra politica e giustizia, e chissà come potrebbe mai provarci rimanendo fuori della porta. Dice Ghedini: ma con la nostra riforma Napolitano nominerà un terzo dei futuri componenti. E allora? Pure il Consiglio supremo di difesa viene presieduto dal Capo dello Stato, che però volta per volta ne decide altresì la composizione, invitando altri ministri in aggiunta a quanti vi fanno parte di diritto. Dovremmo perciò togliergli anche tale presidenza? Senza dire che la pressione dei partiti impedisce nomine serene. Ma forse il disegno sotterraneo è proprio questo: regaliamo pure al Presidente un’altra nomina, purché per interposto partito.
C’è poi il capitolo dei decreti legge, dove l’abuso si è ormai trasformato in un sopruso. Dall’avvio della legislatura le Camere hanno approvato la miseria di due leggi: il rinnovo dell’Antimafia e il lodo Alfano. Il resto del tempo è andato via per convertire 12 decreti del governo, senza contare quelli che s’aggiungono al paniere (5 nel solo mese di settembre). Una prepotenza contro il Parlamento, come è stato denunziato da più voci. Ma anche contro il Presidente, cui vengono confiscati i poteri di controllo in sede di promulgazione. Infatti i decreti scadono dopo 60 giorni, le assemblee legislative li convertono sempre all’ultimo minuto, e dunque se il Presidente rinviasse la legge di conversione al Parlamento provocherebbe la decadenza dei decreti, finendo alla berlina come traditore della Patria.
E la moral suasion? Napolitano ha già alzato la voce contro la pioggia di decreti, contro lo stallo alla vigilanza Rai, contro la rissa quotidiana fra i partiti. Semplicemente non gli danno retta. D’altronde sono caduti nel vuoto anche gli appelli su una riforma costituzionale condivisa. C’è forse chi abbia visto un testo, un’ipotesi, un progetto? L’aria che tira è questa: ossequio formale, irriverenza sostanziale. Il Quirinale resta l’istituzione più popolare fra la gente, ma nel Palazzo è come il cavaliere inesistente di Calvino.
michele.ainis@uniroma3.it
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Deriva pericolosa
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 01.04.11)
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia.
Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo.
Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Chi s’è arreso alle armate del Papa
di MICHELE AINIS (La Stampa, 21/2/2009)
Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».
La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.
La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo.
michele.ainis@uniroma3.it
La mela stregata per Roma Capitale
di Mario Pirani (la Repubblica, 20.10.2008)
Che il federalismo d’impianto leghista si prestasse ad aggravare i guasti apportati dalla modifica del titolo V della Costituzione ad opera delle sinistre, era stato denunciato più volte su queste colonne. La rubrica scorsa, appunto, lamentava come i post comunisti, nell’ansia di cancellare le proprie radici, avessero finito per gettare via, oltre a Marx e Stalin, anche Garibaldi e Cavour. Ed ora se ne vedono i frutti velenosi. Il «Comitato per la bellezza», un organismo dedito alla difesa artistica e paesaggistica, presieduto da Vittorio Emiliani, mi ha inviato in proposito una mappa delle fasi di fioritura di una di queste «mele stregate», destinata non certo ad avvelenare Biancaneve. L’11 settembre il governo presenta il disegno di legge sul federalismo fiscale che, sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni, passa quasi indenne. Il 3 ottobre il medesimo testo arriva al Consiglio dei ministri. A fine seduta viene inserito un copioso articolo aggiuntivo di cui non si era parlato fino a quel momento, neppure con le Regioni, col quale viene, tra le altre cose, trasferita all’Ente Roma Capitale «la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali», sin qui di competenza statale o demaniale, nonché le funzioni di urbanistica e pianificazione finora devolute alla Regione.
Appena venuto a conoscenza dell’inserimento dell’«articolo aggiuntivo» su Roma Capitale nella legge sul federalismo fiscale il sindaco Alemanno se ne rallegra pubblicamente: «E’ un risultato storico. La città avrà uno statuto europeo. I più importanti processi decisionali - inclusa la tutela dei beni culturali e ambientali - invece di passare per tre diversi livelli Comune-Provincia-Regione (e Stato) sono concentrati nell’assemblea capitolina. Così si potranno prendere con più rapidità le decisioni». Contemporaneamente il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, dice di non saperne nulla.
La cosa, però, non finisce qui. Prima di proseguire vorrei, però, premettere che la legge su Roma Capitale è un obbiettivo da lungo tempo giustamente atteso. Non è possibile, infatti, governare con gli stessi strumenti regolamentari di un qualsiasi capoluogo, una metropoli dove, oltre alla amministrazione comunale, sono installate tutte le istituzioni di governo e di rappresentanza della Repubblica, nonché quelle vaticane. Ciò non significa, però, che Roma debba essere sottratta ad ogni vincolo di controllo, soprattutto in tema di salvaguardia ambientale e culturale. E qui l’articolo approvato dal Consiglio dei ministri entra in conflitto con la stessa Costituzione, laddove, all’art. 9, proclama che «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Non si tratta, si badi bene, di una proclamazione retorica ma di una direttiva pratica: se questa tutela fosse stata delegata ad enti, altri dallo Stato, e in special modo a quelli locali, ne sarebbero derivati continui conflitti d’interesse per la presenza sul territorio di forze potenti, capaci di influire direttamente e indirettamente sulle rappresentanze, per loro natura più permeabili ad operazioni clientelari. Lo scandalo esploso a Roma, allorquando venne permessa la costruzione dell’Hilton sui crinali di Monte Mario, si sarebbe ripetuto ovunque e su più larga scala. Gli scempi ci sono stati egualmente ma senza il potere vincolante autonomo delle Sovrintendenze, ripreso anche dal Codice attuale dei Beni culturali sulla scia di tutti quelli precedenti, dalla legge giolittiana del 1908, a quella di Croce del ‘22, dalle due leggi Bottai del ‘39 al Testo unico del 1999, ebbene l’intera Penisola sarebbe uscita devastata.
Ricordato tutto questo, torniamo alla vicenda del famigerato articolo aggiuntivo di cui sopra. Ebbene, uscito da Palazzo Chigi il 3 settembre, si perde per strada e non arriva al Quirinale. Al presidente della Repubblica, che deve firmare il testo prima di avviarlo all’iter parlamentare, viene sottoposta la stesura precedente, quella sancita dalla Conferenza Stato-Regioni, che non contiene la corposa aggiunta su Roma Capitale, malgrado, nel frattempo, i ministri Calderoli e Matteoli dichiarino di averla approvata. Cosa c’è dietro? Probabilmente la stessa tattica seguita con l’emendamento salva-manager infilato di soppiatto nel decreto Alitalia: si nasconde la «mela stregata» agli occhi del Quirinale per non incappare in una possibile obiezione ostativa del Presidente, quindi la si ripresenterà, come emendamento, nel corso della discussione parlamentare sul federalismo. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato, ma si indovina. Del resto gli interessi in gioco sono enormi.
Il Parlamento non decide?
Perda un turno
di MICHELE AINIS (La Stampa, 20/10/2008)
C’è un modo per uscire dallo stallo, dal gioco di reciproci dispetti e di veti incrociati che sta paralizzando le due Camere? C’è una soluzione tecnica all’impasse della politica? Sì che c’è, e andrebbe sperimentata con urgenza. Perché sta di fatto che il Parlamento è moribondo. Pensavamo d’aver scoperto l’assassino, dopo il monito del Capo dello Stato contro l’abuso dei decreti, ospitato sulle colonne di questo giornale. Ma non è colpa del governo lo spettacolo che è poi andato in scena nei giorni successivi. Non è un caso d’omicidio quello cui assistiamo da dietro le vetrate del Palazzo. No, si tratta piuttosto di suicidio. E la 19ª fumata nera per eleggere il successore di Vaccarella alla Consulta, nonché il blocco prolungato sul presidente della Vigilanza Rai, ne offrono la prova più eloquente.
Insomma il Parlamento non sa più fare le leggi (soltanto 6 in 6 mesi, ma 4 per ratificare trattati internazionali stipulati dal governo) e non sa decidere le nomine, pur costituzionalmente doverose. Sicché muore d’inedia, come un corpo che rifiuti gli alimenti. Oltretutto, non è neppure un suicidio dignitoso. Le Camere da giovedì scorso convocate a oltranza, ma sconvocate venerdì. Sempre giovedì, sciami di parlamentari che ondeggiano contro il bancone della presidenza, supplicando d’annullare la terza votazione, perché coincide con la cena. I trolley accatastati uno sull’altro nel guardaroba di Montecitorio, dato che il giorno dopo c’è uno sciopero dei voli. Gli sms di Cicchitto e Gasparri sui cellulari dei peones, per invitarli a disertare il voto. Le 87 anime presenti in aula venerdì mattina, meno del 10% di tutto il Parlamento. Lo striscione dei radicali, con il vicepresidente della Camera Leone che chiede per due volte di rimuoverlo e l’altra vicepresidente Bonino che s’oppone, finché non intervengono i commessi. E sullo sfondo l’improprio baratto fra la Consulta e la Rai, fra l’acqua santa e il diavolo.
Per salvare il moribondo, e per salvare inoltre ciò che resta del comune senso del pudore, la terapia può essere una sola: poteri sostitutivi. Formula ermetica, che tuttavia ricorre già nella Costituzione italiana così come in altri sistemi federali. In sintesi, significa che quando una regione o qualche ente locale rimanga inerte circa un particolare adempimento, lo Stato vi provvede al posto suo. La macchina pubblica, difatti, non può arrestarsi solo perché il conducente di turno schiaccia un pisolino. In questi casi si cambia conducente. E allora perché non dovremmo togliere il volante pure al Parlamento? Quando s’incarta sulle nomine basta fissare un tempo massimo, oppure un massimo di votazioni a vuoto: facciamo 10, benché la metà sarebbe già abbastanza.
Semmai il problema è individuare il sostituto, senza ledere la dignità delle assemblee legislative, senza inventarci un salvatore della Patria. Ma non è affatto un problema insormontabile. Rispetto al quindicesimo giudice costituzionale potremmo farlo scegliere ai 14 che hanno già un ufficio alla Consulta: è il sistema della cooptazione, in uso per il Senato dell’antica Roma. Oppure potrebbe entrare in gioco il Capo dello Stato, anticipando la sua futura nomina salvo poi restituirla la volta dopo alle due Camere; in questo modo gli equilibri costituzionali non verrebbero alterati. Più arduo rimediare alla paralisi quando si tratta d’eleggere il presidente della Vigilanza Rai, così come di qualsiasi altra commissione formata in Parlamento. Qui ogni soccorso esterno suonerebbe come un’invasione dell’autonomia parlamentare, dunque la soluzione va trovata dentro le mura della stessa commissione. Potremmo assegnare la poltrona al commissario più anziano, come del resto avviene in occasione della prima riunione delle Camere, presieduta per l’appunto dal decano; ma l’età non è mai un segreto, e sapendo come andrà a finire ci sarebbe sempre un partito cui conviene lo stallo. Meglio il sorteggio, quindi, meglio una puntata ai dadi. Dopotutto nell’antica Grecia le cariche pubbliche erano quasi sempre sorteggiate, fu con questo sistema che la democrazia diffuse i suoi primi vagiti. Usiamolo di nuovo, trasformiamo il moribondo in un neonato.
michele.ainis@uniroma3.it
Decreti, vigilerò con rigore
di GIORGIO NAPOLITANO (La Stampa, 7/10/2008)
Gentile Direttore,
ho vivamente apprezzato il senso delle istituzioni cui era ispirato l’articolo di Michele Ainis (pubblicato su La Stampa di ieri), e la sua preoccupazione per ogni erosione delle prerogative e degli equilibri costituzionali.
In Italia si governa - come in tutte le democrazie parlamentari - con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi Regolamenti, e solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza» con decreti (cioè «provvedimenti provvisori con forza di legge») che al Parlamento spetta decidere entro sessanta giorni se convertire in legge. Continuerò a esercitare a questo proposito - nessuno ne dubiti - con rigore e trasparenza le prerogative attribuitemi dalla Costituzione.
In quanto alla mancata elezione, da parte del Parlamento, del giudice costituzionale chiamato a sostituire il prof. Vaccarella dimessosi dalla carica nell’aprile 2007, il professor Ainis ricorda di certo come nella storia della Repubblica accadde più di una volta che si ritardasse a lungo nel colmare simili vacatio per l’assenza di un accordo tra maggioranza e opposizione. Ma non accadde mai che la soluzione venisse trovata attraverso la contestuale «contrattazione» della nomina di un giudice costituzionale che debba succedere ad uno dei cinque nominati dal Presidente della Repubblica. Non accadrà neppure questa volta: stia certo il professor Ainis che considero semplicemente ingiuriosa l’ipotesi che il Presidente possa piegarsi ad una simile, impropria e prevaricatoria, contrattazione tra partiti.
Il capo dello Stato scrive una lettera alla Stampa: "Solo in casi
di straordinaria necessità e urgenza si governa con decreti"
Napolitano: "Eserciterò con rigore
le mie prerogative costituzionali"
ROMA - "Continuerò ad esercitare con rigore e trasparenza le prerogative attribuitemi dalla Costituzione". Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una lettera al quotidiano La Stampa, risponde alla preoccupazione per ogni erosione delle prerogative e degli equilibri costituzionali.
"In Italia si governa, come in tutte le democrazie parlamentari con leggi discusse e approvate dalle Camere - scrive Napolitano - nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi regolamenti e solo in casi di straordinaria necessità e urgenza con decreti". Su questo punto, il Capo dello Stato ha assicurato che eserciterà con rigore le prerogative attribuitegli dalla Costituzione.
In quanto alla mancata elezione da parte del Parlamento del giudice costituzionale, in sostituzione del dimissionario prof. Vaccarella, il presidente Napolitano ribadisce che non accadrà mai - sebbene la nomina possa ritardare per la mancanza di un accordo tra maggioranza e opposizione - che questa avvenga con una contrattazione tra partiti.
"Non è mai accaduto e non accadrà neppure questa volta - assicura Napolitano - considero semplicemente ingiuriosa l’ipotesi che il Presidente possa piegarsi ad una simile, impropria e prevaricatoria contrattazione tra partiti".
* la Repubblica, 7 ottobre 2008
Io davo soltanto buoni consigli
di FRANCESCO COSSIGA ( La Stampa, 8/10/2008)
Caro direttore,
ho letto con grande attenzione, come qualsiasi cosa che pubblica il suo giornale, l’articolo di fondo di Michele Ainis dal titolo: «Chi scalpella il Quirinale».
Sia per i miei studi che per aver avuto una certa esperienza pratica delle nostre istituzioni repubblicane, penso di potere fare una chiosa a quanto scritto nel quotidiano da lei diretto, che mi è caro perché pubblicato nell’Antica Capitale del nostro regno: il Regno di Sardegna, cui sia lei che io apparteniamo anche se per non antiche annessioni per via diplomatica, ma pur sempre importanti dato che la Sardegna, Genova e il Genovesato, oltre che il Principato del Piemonte e il Ducato d’Aosta erano ben più grandi dello Stato originale, e cioè il Ducato di Savoia, che esse fecero regno. Dopo questa forse inutile digressione teorica, veniamo al dunque.
Passato il sessantennale dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica e terminate le celebrazioni, necessariamente encomiastiche, posso finalmente dire, augurandomi che in riferimento a detta Costituzione non sia stata adattata per il XX e il XXI secolo la dura condanna risorgimentale: «Ha parlato male di Garibaldi!», tramutata in: «Ha parlato male della Costituzione!». Anch’io, ahimè! Per quella patriottica bugia che ha dovere di dire chi come me abbia ricoperto quasi tutte le cariche dello Stato repubblicano, ho proclamato alto, non credendoci: «La Costituzione italiana del 1948 è la migliore costituzione del dopoguerra e forse di sempre!».
Non mi sento invero di sottoscrivere quanto anni fa detto da uno dei più illustri costituzionalisti inglesi: essere quella italiana la peggiore delle costituzioni adottate dopo il secondo conflitto mondiale dagli Stati europei occidentali e, dopo la scomparsa della Cortina di ferro, anche dell’Est europeo. E ciò anche se ricordo che partecipando da giovanissimo a un congresso internazionale di diritto pubblico e trovandomi insieme ad Antonino La Pergola accanto al grande giurista boemo-tedesco Hans Kelsen, quando un incauto professore definì l’Italia patria del diritto, lo sentii esclamare: «Delle leggi forse, malfatte e peggio applicate da giudici e governanti, ma patria del diritto: Roma sì, ma l’Italia giammai». E quando il professor Antonio Segni e il mio maestro Giuseppe Guarino mi mandarono dal sommo giurista e maestro di morale e di vita Giuseppe Capograssi, egli tentò inutilmente di dissuadermi dal coltivare il diritto costituzionale, affermando che in Italia un diritto costituzionale non sarebbe mai potuto esistere e meno che meno una scienza del diritto costituzionale, poiché nel nostro Paese l’unico criterio interpretativo del diritto costituzionale - e la scienza del diritto costituzionale è in fondo la scienza della interpretazione di esso e della sistemazione delle varie ipotesi interpretative - sarebbe potuto essere soltanto uno: avere la maggioranza nel Parlamento e nel Paese o non averla!
Ciò premesso, ho letto l’interessante articolo sull’erosione tentata dall’attuale maggioranza dei poteri del Presidente della Repubblica, articolo colto invero ma che, a parte i riferimenti politici, riguarda il presidente di un’altra repubblica, non di quella italiana.
Il costituente italiano, respinta ogni ipotesi di repubblica presidenziale o semipresidenziale, ancorché sostenuta nell’assemblea da giuristi quali Calamandrei e Tosato, ma duramente avversata dai comunisti che volevano un tipo di regime ciellenistico - e in parte lo ottennero: e così il presidente del Consiglio italiano, unico caso credo al mondo, può nominare i ministri ma non revocarli! -, adattò alla nuova forma di Stato, quella repubblicana, il modello di Capo dello Stato adottato dallo Statuto Albertino tuttavia, mantenendo nei termini la configurazione che fu sostanziale per un brevissimo tempo, quella di un capo dello Stato che era anche capo dell’esecutivo, fu in breve tempo solo formale, divenendo capo dell’esecutivo il solo presidente del Consiglio dal momento nel quale, credo si trattasse del cattolico liberale Cesare Balbo, egli si dimise per essere stato sfiduciato dalla Camera dei deputati subalpina.
Introducendo così nell’ordinamento statutario, prima per prassi e poi per consuetudine - innovativa o interpretativa lasciamola stabilire ai giuristi! - il principio della responsabilità parlamentare in sostituzione di quello della responsabilità verso il Capo dello Stato e trasformando il regime del Regno di Sardegna da regime «costituzionale puro», come fu poi quello del Regno di Prussia e del II Reich germanico, in un regime parlamentare quale era già quello del Regno Unito, del Regno dei Belgi, del Regno del Württemberg e così via.
E così il costituente, pur volendo chiaramente adottare il regime parlamentare, usò la terminologia dello Statuto Albertino nella sua originaria applicazione di istituente un regime costituzionale puro, o come si direbbe oggi con terminologia «repubblicana»: presidenziale o anche semipresidenziale. E così la Costituzione imputa al Presidente della Repubblica poteri di nomina e altro con l’uso del termine «decreta» e simili. In realtà l’interpretazione dei poteri del Presidente della Repubblica varia secondo i rapporti di forza politici: l’opposizione o anche la maggioranza di sinistra è sempre a favore di un’espansione dei poteri del Capo dello Stato per limitare i poteri del governo.
Quando io, per sfortuna del Paese e mia, ero al Quirinale, l’opposizione di sinistra, che mi era non solo avversa ma nemica!, e la stessa maggioranza di governo che aveva come asse portante la Democrazia Cristiana, partito cui io appartenevo, ma cui divenni rapidamente inviso, erano per l’interpretazione la più restrittiva possibile dei poteri del Capo dello Stato. Faccio degli esempi: i nomi dei comandanti generali dell’arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o di quelli dei capi di Stato maggiore della Difesa o di forza armata non erano oggetto di una preventiva concertazione o tanto meno dell’ottenimento di un consenso, ma mi erano semplicemente comunicati, quasi sempre oralmente e per telefono, prima dell’inizio del Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto nominarli o al massimo la sera prima. Il mio consigliere per gli affari interni, e soltanto perché era un prefetto e solo dopo un’accanita controversia, ottenne che io apprendessi i nomi dei prefetti che dovevano essere destinati alle sedi più importanti non dal comunicato del Consiglio dei ministri, ma da una nota scritta, ma per lo più verbale, indirizzatami poco prima dell’inizio della seduta.
Quando io volli inviare alle Camere un messaggio, il presidente del Consiglio rifiutò di controfirmarlo. E io non mi sono mai neanche lontanamente immaginato di poter concedere una grazia o di poter sciogliere il Parlamento senza la previa proposta del governo! E così mai io nominai un senatore a vita o un giudice costituzionale senza il previo consenso del governo. Mai alcuno pensò che il Presidente della Repubblica potesse giudicare dei presupposti di necessità e urgenza dei decreti-legge e che egli potesse rifiutarne l’emanazione. Quando il governo nominò una commissione ad altissimo livello scientifico, presieduta da Livio Paladin, per chiarire chi in situazioni di emergenza avesse il comando politico effettivo delle forze armate e che portata avesse la disposizione costituzionale che ne attribuiva il comando al Presidente della Repubblica, la commissione concluse i lavori con una dotta relazione nella quale si affermava che il comando attribuito al Capo dello Stato consisteva nel... non avere alcun potere di comando!
Non riesco a capire quindi in che cosa consista: «scalpellare il Quirinale», salvo che si tratti di scalpellare il granito che orna alcune parti del palazzo da macchie di umido o di cacca di uccelli. Certo con Oscar Luigi Scalfaro e poi con Carlo Azeglio Ciampi si ebbe una forte sterzata in senso, per così dire, almeno semipresidenzialista. Sempre però io ho ritenuto, con il grande costituzionalista inglese Walter Bagehot, che le prerogative del Capo dello Stato siano esclusivamente quelle di essere informato su tutto dal governo, dare a questo dei consigli in via riservata e sempre in via riservata metterlo in guardia da iniziative o comportamenti inopportuni; e che dell’esercizio di esse un Capo dello Stato si dovrebbe accontentare.