[...] Per riuscire a contenere i processi patologici delle democrazie ci vuole ben altro e soprattutto è necessario individuare nuove forme di comunicazione fra “governanti” e “governati” e nuove relazioni fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa attivando nuovi contrafforti nei confronti delle dinamiche dispotiche e nuove forme di equilibrio e di bilanciamento dei poteri.
Come diceva Montesquieu, si può essere tutti uguali e tutti servi; per poter essere tutti uguali e tutti liberi bisogna impegnare una grande battaglia; ed è precisamente questa che bisogna combattere oggi in Italia [...]
In Italia le basi del potere repubblicano sono messe a dura prova.
Per questo, oltre ai Quaderni, bisogna rileggere Tocqueville
di Michele Ciliberto, Università Normale di Pisa (l’Unità, 28.10.2009)
In Italia, sono toccate in questi giorni le fondamenta stesse del potere repubblicano. La sentenza della Corte costituzionale sul Lodo Alfano ha fatto esplodere tensioni e contrasti che riguardano il problema di chi sia il sovrano in Italia. Problema radicale, nel senso letterale della parola: esso riguarda le radici ultime dell’esistenza della Repubblica. Di questo si tratta: e bisogna averne lucidissima coscienza. Il Presidente del Consiglio rivendica la sua primazia sostenendo di essere stato eletto dal popolo e di avere per questo funzioni e diritti che travolgono funzioni, equilibri e reciproci bilanciamenti dei poteri. Una posizione di carattere populistico, è stato detto; di una nuova forma populismo, aggiungo io, che stravolge le fondamenta della democrazia rappresentativa italiana.
Di fronte a tutto questo da alcune parti si è parlato del tradizionale “sovversivismo” delle nostre classi dirigenti, frutto diretto del tradizionale distacco - anzi separazione - tra “governanti” e “governati” nel nostro paese. È l’analisi di Gramsci nei Quaderni che individua nel sovversivismo delle nostre classi dirigenti un punto caratteristico, e rivelatore, della storia nazionale italiana.
Senza alcun dubbio, è un’interpretazione interessante, con la quale continuare a fare i conti; ma non coglie appieno il dato nuovo della situazione italiana. Quello che abbiamo di fronte è una generale patologia della democrazia rappresentativa che non riguarda, in quanto tale, solo il nostro Paese. Non tenderei ad interpretare ciò che sta accadendo in termini di arretratezza della società italiana. Penso invece che da noi siano esplosi, in maniera precoce e più violenta, anche per fragilità - questa sì della nostra struttura istituzionale e sociale, dei fenomeni che riguardano il destino della democrazia rappresentativa nei prossimi anni. È per questo motivo, credo, che la crisi italiana e le iniziative del presidente del Consiglio sono diventate oggetto di attenta analisi da parte dei giornali stranieri, sia europei che americani. Essi intuiscono che il problema non concerne solo l’Italia, ma che la favola riguarda, o potrebbe riguardare, anche loro, e non in un futuro lontano.
Da questo punto di vista sono persuaso che oggi sarebbe utile rileggere, oltre che Gramsci, Tocqueville, e , in modo particolare, la seconda Democrazia in America un testo classico che come tutti i grandi classici ha la capacità di sporgere oltre il proprio tempo storico.
In quelle pagine Tocqueville dimostra come la democrazia si possa risolvere nella costituzione di un potere statale dispotico, da un lato; in una forte “passivizzazione”, dall’altro, delle masse, le quali rinunciando alla propria individuale responsabilità affidano la loro sorte ad un potere che progressivamente si impadronisce e domina l’intera realtà politica e sociale.
Ovviamente, l’analisi di Tocqueville va riattualizzata alla luce del potere che oggi hanno assunto i mezzi di comunicazione di massa, e specialmente la televisione, quali strumenti prioritari delle nuove forme di dispotismo attraverso un generale processo di “passivizzazione” degli individui, il dato più inquietante della situazione in cui ci troviamo.
Ma, precisato questo, quell’analisi resta un punto di riferimento indispensabile. «Volesse il cielo che ci fossero delle rivoluzioni!» - esclama Tocqueville nella seconda Democrazia sottolineando la situazione di apatia, di staticità, di perdita di autonoma iniziativa, nella quale possono precipitare i popoli democratici. Ma non si arrende a questa situazione. Proprio nelle pagine finali della Democrazia in America fa l’elogio dell’insopprimibile esigenza di libertà dell’uomo, un ostacolo insuperabile per qualunque forma di vecchio o nuovo dispotismo. Quella di Tocqueville, però, prima di essere una constatazione, era soprattutto un auspicio, un’ultima speranza.
Per riuscire a contenere i processi patologici delle democrazie ci vuole ben altro e soprattutto è necessario individuare nuove forme di comunicazione fra “governanti” e “governati” e nuove relazioni fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa attivando nuovi contrafforti nei confronti delle dinamiche dispotiche e nuove forme di equilibrio e di bilanciamento dei poteri.
Come diceva Montesquieu, si può essere tutti uguali e tutti servi; per poter essere tutti uguali e tutti liberi bisogna impegnare una grande battaglia; ed è precisamente questa che bisogna combattere oggi in Italia. ❖
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA. Un’analisi di Gianrico Carofiglio
Una crisi dello stato, pericolosa
di Valentino Parlato (il manifesto, 30.10.2009)
A ben vedere nella nostra Italia siamo a una crisi dello Stato, non dico dello stato democratico, ma dello stato in quanto tale. Provo a segnalarne i sintomi. Mai in Italia, a mia memoria, c’era stata una grande manifestazione di protesta della polizia. Cortei e slogan contro il governo e i suoi ministri. E ora si «sospende» il parlamento. Mai, almeno in queste forme, c’era stato un conflitto così esplicito e violento tra il governo e la magistratura, tra l’esecutivo e il potere giudiziario (il potere legislativo, allo stato attuale, è un non potere e questo aggrava la situazione).
Una crisi dello stato è - è stato sempre - un affare serio, dal quale di solito si esce o con una rivoluzione o, com’è probabile, dati i tempi, con una controrivoluzione, con una messa in frigorifero della democrazia. Preoccupa così non poco che sia stata decisa la sospensione del parlamento per dieci giorni perché il governo deve aggiustare la riforma finanziaria per la quale ha fatto solo promesse. Mai come in questi tempi è stato così evidente il rapporto tra crisi della politica, dei grandi obiettivi e ideali, e crisi della democrazia. Senza democrazia la politica si riduce ad affari privati di gruppi di potere, e questa caduta in basso della politica mortifica, porta sempre più in basso il valore della democrazia.
In questa situazione anche la caduta di Berlusconi (magari per la scarlattina) fa prevedere, temo, un ulteriore disordine con esiti deboli e autoritari e potenzialmente molto più autoritari nella debolezza crescente della politica e della democrazia. Un potere legislativo debole e burocratizzato, con la polizia che scende in piazza per protestare e la magistratura sotto attacco di un esecutivo personalizzato - in una persona malata - non annunciano niente di buono. A meno che queste proteste democratiche dentro lo stato non si saldino con le nuove emergenze e istante sociali.
Ps. I magistrati accusati da Berlusconi di essere comunisti hanno replicato affermando che le loro toghe sono rosse sì ma del sangue versato nell’adempimento del loro dovere. Verità sacrosanta. Ma, vorrei aggiungere: comunisti non è un insulto. È una lunga storia che non è finita e noi del manifesto che continuiamo a definirci «quotidiano comunista» non pensiamo affatto di autoinsultarci.
L’ANALISI
Il Cavaliere tra processi, prescrizioni e voglia di cambiare la Carta
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Anche per i giudici dell’appello, David Mackenzie Mills è un testimone corrotto e, se c’è un corrotto, ci deve essere un corruttore. Il corruttore è Silvio Berlusconi. Non è in aula, è decisamente in salvo. Ma questa nuova sentenza pesa su di lui come un macigno - o come un incubo - perché ripropone un paio di cose che sappiamo (o dovremmo sapere) del capo del governo. Se ne possono elencare tre. Raccontano come la frode sia stata la via maestra per costruire - prima - e per difendere - poi - l’impero Fininvest/Mediaset. Spiegano le torsioni della sintassi legale del presente. Annunciano la tempesta politica che scuoterà il Paese in un prossimo futuro.
Non c’è bisogno di farla tanto lunga. Mills, per conto di Berlusconi, crea un arcipelago di società off-shore (All Iberian). Quando i procuratori di Milano ne scorgono il profilo, per Berlusconi è questione vitale inventarsi l’impossibile per uscire dall’angolo. La corruzione di Mills, pagato dal capo del governo per mentire in aula, è un passaggio obbligato. Il motivo è elementare. Le società, create e amministrate dall’avvocato inglese, custodiscono il grande, indicibile segreto dell’Egoarca. Lungo i sentieri storti del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che premiano Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.
Strappato il velo che nasconde questa scena, Berlusconi non solo ci rimette le penne in un tribunale, ma del mito che ha costruito per sé e il suo talento, che cosa resta? Il tableau polverizza il "corpo mistico" dell’ideologia berlusconiana. Ecco ora che cosa si vede: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Ancora nel giugno dell’anno scorso, Berlusconi nega: "Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia" (Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47).
Come sempre, Berlusconi intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, "responsabile di fronte agli elettori", e il suo passato di imprenditore di successo. Crea un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell’ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell’infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell’incanto" che lo beatifica. Per salvarsi da questo disvelamento, Berlusconi è disposto a ogni magia. E’ storia dell’altro ieri. Cancella reati. Distorce le regole del processo. Riscrive i tempi della prescrizione. In posa da povero cristo, dice di aver subito 106 processi.
E’ una favola. La ripetono come un’eco i commessi a stipendio e le ugole obbedienti retribuite con il canone televisivo (sono dodici i processi finora, più quattro ancora in corso). Non si accontenta. Minaccia di gettare per aria l’intera amministrazione della giustizia fermando centomila processi per affossarne uno solo, il suo. Ottiene in cambio dal Parlamento - quasi fosse un’estorsione - una legge che lo rende immune. La scrivono male. E’ uno sgorbio. La Corte costituzionale la cancella, ma il risultato - l’Egoarca - l’incassa. Era a un passo dalla condanna, la "legge Alfano" lo esclude dal processo. Che ora ricomincia di nuovo, davanti a nuovi giudici che dovranno valutare le fonti di prova, le ventidue testimonianze, le nove rogatorie, come se un processo non ci fosse già stato.
Non ce la si farà in un anno e mezzo e quindi il processo nasce ferito a morte in attesa che l’uccida la prescrizione. Siamo al presente. Berlusconi non si fida di quest’esito. Si sente accerchiato dalle ombre. Vive di sospetti. Vede in ogni angolo un congiurato. Avverte, come un tormento, il declino della sua parabola. "E se usassero quel processo per farmi fuori?" si chiede. Vuole una norma ordinaria, approvata presto, prima di Natale, che gli dia la certezza che quella storia si chiuda definitivamente. Vuole una prescrizione ancora più stretta. Difficilmente l’avrà, a quanto pare. Manipolerà così un "legittimo impedimento" più rigido e restrittivo, che gli consentirà di prendere tempo, di rinviare le udienze, di deciderne il calendario, di mandarlo a cart’e quarantotto. Salvo, ancora una volta, dal giudizio, Berlusconi non può accontentarsi. E’ impensabile che possa insediarsi al Quirinale nell’anno 2013 con quella condanna indiretta sul gobbo.
Siamo al futuro. E’ un corruttore, anche se in tribunale ci ha rimesso soltanto il corrotto. Pure un Parlamento, comandato come una scolaresca, potrebbe negargli l’ascesa a Monte Cavallo. L’Egoarca sceglierà la via più breve, la più diretta. Come sempre. Vorrà riscriversi la Costituzione e farsi spingere lassù dal "popolo" per far dimenticare la rete di imbrogli che lo ha fatto ricco, i garbugli che lo hanno protetto, l’inganno del suo mito.
© la Repubblica, 28 ottobre 2009