25 Giugno: Salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio”[Charitas"] e “Mammona” ["Caritas"] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA "CONFUSA E AGITATA" E OFFESA!!!
Nuovo governo. Fedelta’ alla costituzione e alla repubblica....
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
FILOSOFIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ... *
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Il riscatto della Repubblica
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2011)
Oggi, 2 giugno, potrà essere ricordato come la data che segna l’inizio di una rinascita morale e civile della nostra Repubblica. Repubblica, lo ricordo a chi l’ha dimenticato o a chi non lo ha mai capito, non vuol dire soltanto che la sovranità appartiene al popolo e non ad un re, ma anche governo della legge, virtù civile, disprezzo per le corti, intransigenza nella difesa della libertà comune, amore per la propria città. Il voto dei cittadini italiani ha testimoniato, in realtà fra loro assai diverse come Milano e Napoli o Trieste e Cagliari, adesione a questi principi.
Sia Pisapia che De Magistris sono stati fin dall’inizio fermi sostenitori dell’idea che le leggi devono valere per tutti e che la Costituzione, legge fondamentale dello Stato, deve essere rispettata soprattutto da chi governa e da chi ha il potere legislativo. A dare esempio di virtù civile ci hanno pensato i cittadini in forme e modi tali da sorprendere tutti coloro che pensavano (e probabilmente continueranno a pensare) che gli Italiani sono, per varie ragioni, incapaci di forti passioni civili.
I cittadini che si sono impegnati per fare vincere candidati che non avevano alle spalle consolidati apparati di partito lo hanno fatto per passione, per quell’amore del bene comune che è il segno distintivo di un vero cittadino. Queste esigenze sono state valorizzate, finalmente, da leaders che hanno capito che la politica, soprattutto quella che mira all’emancipazione dal dominio di uomini potenti, non può essere soltanto razionalità, calcolo e competenza ma deve essere anche matura passione, spirito critico e sdegno in una cornice di sobrietà e serietà.
L’ASPETTO CHE PIÙ DI OGNI ALTRO EMERGE da queste elezioni amministrative (dalle primarie fino ad oggi) è che i cittadini hanno saputo identificare le corti grandi e piccole e le hanno respinte. Infine, hanno vinto i candidati che per la loro biografia e per il loro linguaggio sono sempre stati avversari intransigenti di Silvio Berlusconi a tal segno che bisogna riconoscere che se il primo grande sconfitto è il presidente del consiglio, i secondi sono gli alfieri di un’opposizione accomodante, tenue, grigia.
Negli interventi dei candidati che hanno vinto le elezioni tema ricorrente è stato l’impegno per ridare alle città dignità e bellezza, sottrarle alla ferocia devastatrice della speculazione che mira esclusivamente ai grandi profitti e farne luoghi di accoglienza, d’incontro e di memoria. Soltanto in una città armoniosa si può costruire la cittadinanza piena.
Nella sua storia, la Repubblica ha vissuto esperienze importanti di riscatto civile: le lotte dei lavoratori, i movimenti per la conquista dei diritti civili, la difesa della Costituzione contro il terrorismo, ma mai in passato era emerso così netto uno spirito repubblicano.
Le lotte dei decenni passati erano sostenute da forti ideologie e forti partiti e sindacati. Il movimento attuale è invece, in gran parte, il frutto di un’emancipazione delle coscienze individuali che diventa movimento di emancipazione collettiva di cui abbiamo osservato la prima scintilla nel referendum contro la riforma costituzionale vinto nonostante l’opposizione della maggioranza berlusconiana e la freddezza di quasi tutti i partiti di sinistra.
La ragione principale è facile da intendere: mai l’Italia aveva subito un attacco così pericoloso contro i fondamenti della vita repubblicana come quello di Silvio Berlusconi e dei suoi. Lo scontro politico dal 1994 ad oggi non è stato fra diverse ideologie e diversi partiti leali ai valori repubblicani, ma una lotta mortale fra la Repubblica ed un signore. Pare proprio che i cittadini lo abbiano capito e abbiano reagito.
A questo punto è evidente anche la lezione per il futuro. Per completare l’opera, e soprattutto per evitare che il patrimonio di energie morali e civili che queste elezioni hanno messo in moto si disperdano, è necessario rafforzare ulteriormente lo spirito repubblicano e non cedere alla tentazione del moderatismo. La politica dei compromessi e degli accomodamenti è valida con avversari leali, civili e dignitosi. Con chi insidia e corrode le istituzioni repubblicane l’unico modo per vincere è essere intransigenti.
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
La commissione Cultura di Palazzo Vecchio ha approvato una mozione che revoca formalmente il bando che allontanò il poeta dalla città
Firenze riabilita Dante Alighieri L’iniziativa a 700 anni dall’esilio
I consiglieri Bosi e Pieri di Fi: "Chiediamo la riabilitazione del Sommo poeta e invitiamo il sindaco a conferire il Fiorino d’oro ai suoi discendenti"
FIRENZE - Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente / tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui. Se Dante non fosse stato esiliato dalla sua Firenze per motivi politici, forse nel XVII canto del Paradiso della Divina Commedia non troveremmo questi versi. Invece la condanna all’allontanamento dalla città toscana non solo ci fu, ma mai venne ritirata. A settecento anni da quella sentenza, Firenze fa il primo passo. E qualcosa si muove per la riabilitazione del Sommo poeta.
La commissione Cultura di Palazzo Vecchio ha infatti approvato una mozione che intende "revocare formalmente il bando con cui Dante venne cacciato da Firenze nel 1302, condanna emessa in contumacia che, a causa del mancato rientro in città per discolparsi delle accuse, fu commutata in sentenza di condanna all’esecuzione della pena capitale".
La mozione, presentata dai consiglieri di Forza Italia Enrico Bosi e Massimo Pieri, è stata fatta propria dalla commissione, presieduta da Dario Nardella (Pd), che l’ha approvata ieri. "Il bando dell’esilio - spiegano Bosi e Pieri - non è mai stato revocato e questa, fatta eccezione per il ’processo di Dante’ nella basilica di San Francesco ad Arezzo in occasione dell’ottavo centenario della nascita, è la prima iniziativa per la piena riabilitazione del grande poeta, cui tanto deve la città".
Ma non basta. Firenze, come suggeriscono i due consiglieri, "mostrandosi finalmente riconoscente verso il suo illustre concittadino" dovrebbe adoperarsi per la sua completa riabilitazione con "un gesto che gli renda il dovuto onore e gli restituisca la piena dignità ed il rango di fiorentino eccellente". Per questo invitano il sindaco a conferire al conte Pieralvise Serego Alighieri, discendente di Dante Alighieri, il Fiorino d’oro.
Lo strappo tra la patria e la famiglia del poeta non fu mai ricucito e Dante visse gli ultimi anni della sua vita a Ravenna, dove morì nel 1321. "I figli di Dante - precisano Bosi e Pieri - si stabilirono a Verona continuando la sua discendenza fino all’attuale conte Pieralvise Serego Alighieri, figlio del conte Dante e attento custode delle tradizioni dantesche in qualità di presidente ed esponente di varie società dedicate".
Quello che hanno in mente i due consiglieri è un percorso di collaborazione con le amministrazioni di Ravenna e Verona per la promozione di una serie di eventi in onore di Dante. Il primo passo è fatto. Ora, il prossimo sarà la discussione della mozione in consiglio comunale.
* la Repubblica, 30 Maggio 2008
Ansa» 2008-06-02 16:03
NAPOLITANO: CARTA SIMBOLO E FONDAMENTO REPUBBLICA
ROMA - Con gli onori finali al capo dello Stato da parte di uno squadrone di corazzieri e di carabinieri a cavallo, si è conclusa la parata militare per la Festa della Repubblica: il presidente Giorgio Napolitano ha lasciato Via dei Fori Imperiali a bordo della Flaminia presidenziale, accompagnato dal ministro della Difesa Ignazio La Russa e dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini.
La parata, che si è svolta come da programma, ha visto sfilare sotto la pioggia 7.200 persone, tra militari e civili. Una festa, anche di pubblico, rattristata però dalla morte dell’elicotterista Filippo Fornassi, ieri a Bracciano: lo stendardo del primo reggimento Antares dell’Aviazione dell’Esercito è sfilato listato a lutto. Ultimo atto della parata, il passaggio delle Frecce Tricolori.
La pioggia a intermittenza su Roma non ha scoraggiato i tantissimi cittadini, romani e non, e i turisti giunti ai Fori Imperiali e in piazza Venezia per assistere alla parata . Vengono un po’ da tutta Italia, molti si trovano a Roma per trascorre il ponte festivo, altri sono giunti nella Capitale proprio per l’evento. "Veniamo da Benevento - racconta Luigi Piccirillo, pensionato di 65 anni - Siamo partiti ieri sera. Io e mia moglie ci tenevamo ad essere qui perché i militari, le forze dell’ordine, fanno tanto, e lo fanno tutti i giorni dell’anno, per garantire la nostra sicurezza: è giusto ringraziarli".
Il presidente della Repubblica passato a pochi metri, le Frecce Tricolori, i gruppi a cavallo: per molti che sono qui ad assistere è un’emozione forte. "Non lo nego, mi sono commossa - dice Luisa Guiducci, casalinga romana - Non è vero che quella del 2 giugno è una festa poco percepita dai cittadini: oggi sono orgogliosa di esserci ma sono soprattutto fiera di questi ragazzi che si impegnano per noi".
NAPOLITANO, CARTA SIMBOLO E FONDAMENTO REPUBBLICA - "Il 2 giugno 1946, con il referendum istituzionale, prima espressione di voto a suffragio universale nella storia nazionale, gli italiani scelsero la Repubblica ed elessero l’Assemblea costituente, che, l’anno successivo, avrebbe approvato la Carta costituzionale, ispirazione e guida della ricostruzione materiale ed istituzionale dell’Italia e, da allora, simbolo e fondamento della democrazia del nostro paese".
Così il Capo dello Stato Giorgio Napolitano esordisce in un messaggio inviato al Capo di Stato maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini, in occasione della Festa della Repubblica.
"Nel ricordo di quello storico evento di sessantadue anni fa che ha visto nascere la Repubblica Italiana, la nostra Repubblica, rivolgo il mio deferente omaggio, senza distinzione, a tutti gli uomini e le donne che sono caduti perché quel giorno potesse finalmente giungere ed a tutti quelli che, dopo di loro, hanno perso la vita perché i valori che avevano ispirato la conquista della democrazia potessero durare nel tempo e consolidarsi. Quei valori di libertà, giustizia, uguaglianza fra gli uomini, rispetto dei diritti, delle capacità e del merito di ognuno sono ancora oggi il fondamento della coesione della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa. Essi costituiscono l’essenza del forte e convinto contributo- prosegue Napolitano- che il nostro Paese fornisce alla convivenza pacifica tra i popoli ed allo sviluppo della comunità internazionale". "Ed è in questa nuova prospettiva di apertura verso il mondo e di concorso concreto alla risoluzione delle grandi problematiche poste dagli scenari della globalizzazione che le Forze Armate italiane del XXI secolo rinnovano il proprio fondamentale ruolo di custodi e garanti della Costituzione repubblicana, interpretandone il significato universale nelle innumerevoli missioni a sostegno dei diritti umani, della legge e dello sviluppo sociale ed economico in tante aree di crisi. Le Forze Armate sono cresciute ben oltre la loro tradizionale funzione di ultima risorsa, di capacità per l’emergenza. Sono divenute componente produttiva e costruttiva, strutturale e non occasionale, del sistema istituzionale del nostro Paese, sempre più impegnato in Europa e nelle organizzazioni internazionali, per l’attuazione di una strategia di cooperazione volta a garantire sicurezza, stabilità e pace". "Ed il 2 giugno le Forze Armate sono giustamente protagoniste, anche formalmente, di fronte al Paese ed alle sue massime autorità, circondate dalla stima e dall’affetto dei cittadini, dei quali costituiscono espressione diretta, sempre più consapevole e convinta. Ad esse, a nome di tutti gli italiani, esprimo la mia gratitudine e formulo il più fervido augurio. Viva le Forze Armate, viva l’Italia!".
LA RUSSA,TRICOLORE SI SERVE CON CORAGGIO E COSTANZA - "Il Tricolore si serve con coraggio, costanza e determinazione, facendo bene il proprio dovere fino in fondo". E’ quanto si legge nel messaggio del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, inviato alle Forze armate e a tutto il personale civile della Difesa in occasione della Festa della Repubblica. "E’ questo - sottolinea La Russa - che oggi desidero ricordare a me e a tutti voi perché la stagione politica che si é aperta sia feconda per la nostra Repubblica, rafforzando le basi istituzionali e l’efficienza della Difesa. E’ questa la via che tutti dobbiamo seguire, nel solco dei più alti esempi delle nostre tradizioni militari e civiche". Le Forze armate, ricorda il ministro "in ogni occasione della storia repubblicana hanno testimoniato l’unità di spirito e di intenti del nostro popolo, dalla difesa dei confini al soccorso in caso di calamità, fino all’impegno all’estero nelle numerose missioni internazionali". "Siate sempre orgogliosi - è l’invito di La Russa alle Forze armate - di appartenere ad una istituzione impegnata in modo decisivo per il bene e la sicurezza della Patria e per la difesa degli inalienabili valori della sicurezza e della civiltà. Siate sempre all’altezza delle sfide che ci attendono e continuate ad operare con fermezza, intelligenza e fiducia nel sistema di sicurezza e di alleanze delle quali l’Italia fa parte, con la certezza che il paese vi segue e apprezza il vostro impegno e la vostra dedizione".
FEDERALISMO: SCHIFANI, SIA SOLIDALE PER NON DIVIDERE PAESE - L’attuazione, in questa legislatura, di un federalismo fiscale che sia però solidale per non aumentare le fratture tra la parte ricca e la parte povera del Paese, è auspicata dal presidente del Senato, Renato Schifani con un incontro con una rappresentanza di studenti cui dona una copia della Costituzione nella libreria del Senato. "Ci vuole - spiega Schifani - un federalismo che avvicini i cittadini alle istituzioni e alle decisioni su come spendere il denaro pubblico. I cittadini vogliono pagare ma in cambio chiedono servizi efficienti. Si tratta di un processo che responsabilizzi chi gestisce le risorse". "Ma - avverte il presidente del Senato - occorre che ci sia un federalismo fiscale solidale per evitare che il Paese si divida, salvaguardando le fasce più deboli".
FINI, MESSAGGIO NAPOLITANO ALTO E CONDIVISO - "Un messaggio, quello di ieri del capo dello Stato, alto, condiviso, certamente impregnato di quella passione civile che caratterizza il mandato del presidente Napolitano". Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, rispondendo ad una domanda dei giornalisti prima di raggiungere il palco delle Autorità in via dei Fori Imperiali, dove tra poco comincerà la parata militare per la Festa della Repubblica. A chi poi gli chiedeva cosa ne pensasse della scarsa conoscenza che, secondo un sondaggio, gli italiani avrebbero della ricorrenza odierna, Fini ha risposto che "occorre ricordare, soprattutto ai più giovani, che cosa significa; non dare per scontato che sia una festa acquisita dal nostro popolo e ribadirne i valori di fondo, tra l’altro non solo riferiti al passato".
BERLUSCONI: ANDIAMO A PIEDI. PASSEGGIA TRA FOLLA
Come gli altri anni, nonostante la pioggia battente, Silvio Berlusconi non rinuncia alla passeggiata che dal palco delle Autorità della Parata per il 2 giugno lo porta fino a quasi sotto casa, a Palazzo Grazioli. All’inizio, proprio per le condizioni climatiche, il presidente del Consiglio sale nell’auto blindata. Ma la macchina non parte perché bloccata dagli altri cortei che attendono di farsi largo tra la folla per guadagnare piazza Venezia. Qualche attimo di esitazione, poi Berlusconi, incitato dai tanti sostenitori che circondano la vettura fa un cenno al capo scorta e dice: "andiamo a piedi". Inizia una lenta passeggiata fra due ali di folla con il cordone di sicurezza che a stento riesce a trattenere l’entusiasmo dei tanti che vogliono salutarlo o stringergli la mano.
Inizia così una lunga passeggiata fra due ali folla e un nutrito cordone di sicurezza. Per percorrere qualche centinaio di metri, Berlusconi impiega oltre quarantacinque minuti. Ogni passo c’é una foto da fare, una mano da stringere, una foglio su cui mettere un autografo. Moltissimi lo incitano ad andare avanti, a risolvere i problemi del Paese. Ma i più, vogliono soltanto una scatto ricordo. E pur di ottenerlo stanno sotto l’acqua. Berlusconi ha una parola per tutti, ringrazia, stringe centinaia di mani. Alcuni lo ringraziano per "aver mandato Prodi a casa". Altri gli chiedono di "ridurre le tasse". Altri ancora gli urlano "Silvio santo subito". Partono i cori: "Silvio, Silvio". C’é anche chi, una signora di mezza età, arriva a commuoversi per aver sfiorato il Cavaliere e lo dice emozionata all’amica. La pioggia insistente non frena l’entusiasmo dei fans del Cavaliere. Lo circondano, mettendo a dura prova il cordone di sicurezza eretto da uomini in divisa e in borghese che danno manforte alla scorta del premier. La passeggiata si interrompe poche decine di metri prima di piazza Venezia. Il presidente del Consiglio sale sulla blindata e parte. Ma un centinaio di metri dopo, davanti alla sua residenza di via del Plebiscito, scende dalla vettura perché ad aspettarlo ci sono un centinaio di persone. Ancora strette di mano, sorrisi, foto. Non è la prima volta che il Cavaliere si concede il bagno di folla dopo la parata. In qualche occasione aveva incontrato qualche fischio e contestazioni. Non stavolta. La ’luna di miele’ sembra reggere.
I 60 anni della Carta. Che cosa resta della nostra Costituzione
di STEFANO RODOTA’ (la Repubblica, 02 gennaio 2008)
Stanno nascendo "costituzioni parallele" che, direttamente o indirettamente, mirano a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana, quella dei principi, delle liberta’ e dei diritti - varata esattamente 60 anni fa. Il piu’ noto di questi tentativi e’ quello che le gerarchie cattoliche perseguono ormai da tempo, affermando la superiorita’ e la non negoziabilita’ dei propri valori e denunciando il relativismo delle carte dei diritti, a cominciare dalla Dichiarazione universale dell’Onu del 1948, considerate frutto di mediocri aggiustamenti politici. Ma non deve essere sottovalutato un prodotto di quest’ultima stagione, l’annuncio di "manifesti dei valori" ai quali le nuove forze politiche vogliono affidare una loro "ben rotonda identita’". Il mutamento di terminologia e’ rivelatore. Non piu’ "programmi" politici, ma manifesti, un tipo di documento che storicamente ha valore oppositivo, addirittura di denuncia dell’ordine esistente. E oggi proprio l’ordine costituzionale finisce con l’essere messo in discussione.
Viene abbandonata la politica costituzionale, gia’ indebolita, ma che pur nei contrasti aveva accompagnato la vita della Repubblica, contraddistinto battaglie come quella dell’"attuazione costituzionale", segnato stagioni come quella del "disgelo costituzionale". Al suo posto si sta insediando un dissennato Kulturkampf, una battaglia tra valori che sembra muovere dalla impossibilita’ di trovare comuni punti di riferimento. L’identita’ costituzionale repubblicana e’ cancellata, al suo posto scorgiamo la pretesa di imporre una verita’ o la ricerca affannosa di compromessi mediocri.
Nel linguaggio di troppi politici i riferimenti alle encicliche papali hanno sostituito quelli agli articoli della Costituzione. Nelle parole di altri si rispecchiano una regressione culturale, una corsa alle risposte congiunturali, piu’ che una matura riflessione sui principi che devono guidare l’azione politica. Ci si allontana dal passato senza la lungimiranza di chi sa cogliere il futuro. Questo e’ forse l’effetto di un inesorabile invecchiamento della Costituzione della quale, a sessant’anni dalla nascita, saremmo chiamati non a celebrare la vitalita’, ma a registrare la decrepitezza? L’intoccabilita’ della prima parte deve cedere ai colpi inflitti dal mutare dei tempi?
Ribadito che siamo di fronte a un tema distinto dalla buona "manutenzione" della seconda parte, che disciplina i meccanismi istituzionali, proviamo a saggiare la tenuta dei principi costituzionali considerando proprio questioni recenti, per vedere se non sia proprio li’ la bussola democratica, liberamente e concordemente definita, alla quale tutti devono riferirsi. Partiamo dall’attualita’ piu’ dura, dalle morti sul lavoro, delle quali la tragedia della Thyssen Krupp e’ divenuta l’emblema. L’articolo 41 della Costituzione e’ chiarissimo: l’iniziativa economica privata e’ libera, ma "non puo’ svolgersi in contrasto con l’utilita’ sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta’, alla dignita’ umana".
Questa sarebbe una incrostazione da eliminare perche’ in contrasto con la pura logica di mercato? Qualcuno lo ha proposto, ma spero che la violenza della realta’ lo abbia fatto rinsavire. Oggi e’ proprio da li’ che bisogna ripartire, da una sicurezza inscindibile dal rispetto della liberta’ e della dignita’, dalla considerazione del salario non solo come cio’ che consente di acquistare un lavoro sempre piu’ ridotto a merce, ma come il mezzo che deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia "un’esistenza libera e dignitosa" (articolo 36). Questione ineludibile di fronte ad un processo produttivo che, grazie anche alle tecnologie, si impadronisce sempre piu’ profondamente della persona stessa del lavoratore. La trama costituzionale ci parla cosi’ di una "riserva di umanita’" che non puo’ essere scalfita, ci proietta ben al di la’ della condizione del lavoratore, mette in discussione un riduzionismo economicistico che vorrebbe l’intero mondo sempre piu’ simile alla New York descritta da Melville all’inizio di Moby Dick, che "il commercio cinge con la sua risacca".
Altrettanto irrispettosa della vita e’ la decisione del Comune di Milano di non ammettere nelle scuole materne comunali i figli di immigrati senza permesso di soggiorno. E’ davvero violenza estrema quella che esclude, che nega tutto cio’ che e’ stato costruito in tema di eguaglianza e cittadinanza e, in un tempo di ripetute genuflessioni, ignora la stessa carita’ cristiana.
Di nuovo la trama costituzionale puo’ e deve guidarci, non solo con il divieto delle discriminazioni, ma con l’indicazione che vuole la Repubblica e le sue istituzioni obbligate a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la liberta’ e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (cosi’ l’articolo 3). E cittadinanza ormai e’ formula che non rinvia soltanto all’appartenenza ad uno Stato. Individua un nucleo di diritti fondamentali che non puo’ essere limitato, che appartiene a ciascuno in quanto persona, che dev’essere garantito quale che sia il luogo in cui ci si trova a vivere. Hanno mai letto, al Comune di Milano, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? Sanno che in essa vi e’ un esplicito riconoscimento dei diritti dei bambini? Trascrivo i punti essenziali dell’articolo 24: "I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere... In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorita’ pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente". Di tutto questo, e non solo a Milano, non v’e’ consapevolezza, segno d’una sorta di pericolosa "decostituzionalizzazione" che si e’ abbattuta sul nostro sistema politico-istituzionale.
Ma seguire le indicazioni della Costituzione rimane un dovere. Certo, serve una cultura adeguata, perduta in questi anni e che ora sta recuperando una magistratura colta e consapevole, che affronta le questioni difficili del nascere, vivere e morire proprio partendo dai principi costituzionali, ricostruendo rigorosamente il quadro in cui si collocano diritti e liberta’ delle persone, risolvendo casi specifici come quelli riguardanti l’interruzione dei trattamenti per chi si trovi in stato vegetativo permanente, il rifiuto di cure, la diagnosi preimpianto. Ma proprio questo serissimo lavoro di approfondimento sta rivelando la distanza tra cultura costituzionale e cultura politica. Sembra quasi che, prodighi di dichiarazioni, troppi esponenti politici non trovino piu’ il tempo per leggere le sentenze e le ordinanze che commentano, o non abbiano piu’ gli strumenti necessari per analisi adeguate. Fioccano le invettive e le minacce: "invasione delle competenze del legislatore", "ricorreremo alla Corte costituzionale".
Ora, se questi frettolosi commentatori conoscessero davvero la Corte, si renderebbero conto che le deprecate decisioni della magistratura seguono proprio una sua indicazione generale, che vuole l’interpretazione della legge "costituzionalmente orientata": Nel caso della diagnosi preimpianto, anzi, sono stati proprio i giudici a bloccare una pericolosa invasione da parte del Governo delle competenze del legislatore, che non aveva affatto previsto il divieto di quel tipo di diagnosi, poi introdotto illegittimamente da un semplice decreto ministeriale.
La stessa linea interpretativa dovrebbe essere seguita nella controversa materia delle unioni di fatto, al cui riconoscimento non puo’ essere opposta una lettura angusta dell’articolo 29, gia’ superata negli anni ’70 con la riforma del diritto di famiglia. Parlando di "societa’ naturale fondata sul matrimonio", la Costituzione non ha voluto escludere ogni considerazione di altre forme di convivenza, tanto che l’articolo 30 parla esplicitamente di doveri verso i figli nati "fuori del matrimonio"; e l’articolo 2, per iniziativa cattolica, attribuisce particolare rilevanza giuridica alle "formazioni sociali", di cui le unioni di fatto sono sicuramente parte.
Linea interpretativa, peraltro, confermata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali che mette sullo stesso piano famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, per le quali e’ caduto il riferimento alla diversita’ di sesso. Che dire, poi, delle resistenze contro una piu’ netta condanna delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, che costituisce attuazione degli impegni assunti con i trattati europei e la Carta dei diritti? Dopo esserci allontanati dalla nostra Costituzione, fuggiremo anche dall’Europa e ci sottrarremo ai nostri obblighi internazionali?
Nella Costituzione vi sono molte potenzialita’ da sviluppare, come gia’ e’ accaduto con il diritto al paesaggio e la tutela della salute. Quando si dice che la proprieta’ deve essere "accessibile a tutti", si leggono parole che colgono le nuove questioni poste dall’utilizzazione dell’enorme patrimonio di conoscenze esistente in Internet. E la rilettura delle liberta’ di circolazione e comunicazione puo’ dare risposte ai problemi posti dalle tecnologie della sorveglianza e dalle gigantesche raccolte di dati telefonici. Vi e’, dunque, una "riscoperta" obbligata di una Costituzione tutt’altro che invecchiata e imbalsamata, che regge benissimo il confronto con l’Europa, che rimane l’unica base democratica per una discussione sui valori sottratta alle contingenze ed alle ideologie. Questo richiede l’apertura di una nuova fase di "attuazione" costituzionale". Chi sara’ capace di farlo?
Il "Rapporto sui diritti globali 2008" segnala il pericolo di involuzione del Paese
a causa delle sempre maggiori difficoltà economiche e del crescere della paura
Precariato, povertà e insicurezza
Al tramonto la società solidaristica
L’indebitamento totale delle famiglie ammonta a 490 miliardi, in forte difficoltà 1 su 5
Il lavoro è sempre più precario e rischioso: i morti sul lavoro superiori a quelli delle guerre
di ROSARIA AMATO *
ROMA - Un lavoratore sempre più marginale, con un salario sempre più striminzito e lontano dalle medie europee e dai picchi straordinari raggiunti dai compensi dei manager. Un sistema ingiusto, all’interno del quale le famiglie s’impoveriscono, s’indebitano senza che s’intravveda "un vero disegno riformatore" nelle politiche di welfare. E’ l’Italia che emerge dal "Rapporto sui diritti globali 2008", il rapporto annuale sulla globalizzazione e sui diritti nel mondo redatto dall’associazione SocietàINformazione e promosso da Cgil, Arci, ActionAid, Antigone, CNCA, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
"Cresce sempre di più il senso di insicurezza della popolazione, la precarietà del lavoro, la sfiducia nel futuro e la paura di perdere il benessere e la qualità delle proprie condizioni di vita", osserva nel presentare il rapporto il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, denunciando "il rischio di processi involutivi che, oltre a danneggiare il mondo del lavoro in generale, finirebbero per devastare il tessuto connettivo sui cui si è sviluppata la nostra società, impostato su valori solidaristici e universali".
Morti sul lavoro, una guerra a bassa intensità. Quella delle morti sul lavoro, denuncia il curatore del rapporto Sergio Segio, direttore dell’associazione SocietàINformazione ed ex militante di Prima Linea è "una piccola guerra a bassa intensità, nascosta dietro le mura delle fabbriche, tra le impalcature o nei campi". Per quanto riguarda le cifre è però "una grande e infinita guerra, se consideriamo che, nella Seconda guerra mondiale, le perdite militari italiane furono di 135.723 morti e 225.000 feriti, mentre la lunga battaglia nei luoghi di lavoro dal 1951 al 2007 ha prodotto almeno 154.331 morti e ben 66.577.699". Analoghi i risultati di un confronto rispetto alla Guerra in Iraq: dal 2003 al 2007 hanno perso la vita 3.520 militari della coalizione contro 5252 morti sul lavoro in Italia nello stesso periodo.
Le morti sul lavoro non sono un caso, sono piuttosto la conseguenza di "una cultura economica e organizzativa" che non ritiene ragionevole una spesa per la sicurezza volta a evitare anche il minimo rischio di incidenti. Si viaggia, ricorda il rapporto, a un ritmo di ben oltre 1000 morti sul lavoro e più di 900.000 infortuni l’anno. E la nuova legge sulla sicurezza (legge n.123/2007 non pone le condizioni per un vero miglioramento, secondo i curatori dell’analisi, dal momento che, "più che sul sistema sicurezza, è intervenuta suo suoi effetti perversi, non modificandone, quindi, le logiche e le strategie di governo".
La povertà "differita". "La povertà è sostanzialmente stabile, le politiche di welfare sembrano non scalfirla", rileva il rapporto, denunciando però un rischio ancora più grave, quello della "povertà prossima ventura", o della "povertà differita". "Così può infatti essere definito - spiega Segio - il fenomeno massiccio del credito al consumo e dell’indebitamento delle famiglie, spesso premessa di fallimenti individuali, vale a dire l’impossibilità di fare fronte alle rate del mutuo della casa e dei tanti debiti contratti". Dal 2001 al 2006 il credito al consumo in Italia è cresciuto dell’85,6%, arrivando ormai a 94 miliardi di euro, mentre l’indebitamento complessivo delle famiglie ammonta a 490 miliardi. Per precipitare nella povertà, ricorda il rapporto, basta poco: nel 2007 secondo uno studio sarebbero 346.069 le famiglie italiane divenute povere a causa delle spese sanitarie sopportate.
Salari sempre più bassi. La principale causa dell’aumento della povertà in Italia è costituita tuttavia dai salari, sempre più bassi e inadeguati rispetto alla crescita dell’inflazione. Le statistiche Ocse, ricorda il rapporto, ci dicono che tra il 2004 e il 2006 le retribuzioni in Italia sono scivolate dal diciannovesimo al ventitreesimo posto, ma nel frattempo "nel 2007 i primi cinque top manager italiani hanno ricevuto compensi per circa 102 milioni di euro, il salario lordo di 5000 operai, peraltro senza alcun vincolo con i risultati dell’impresa e con l’efficacia e produttività del proprio lavoro". Oltre due milioni e mezzo di famiglie "ufficialmente" povere, sette milioni e mezzo di individui. Mentre con un reddito non superiore al 20% della linea di povertà calcolata dall’Istat cerca di sopravvivere l’8,1% dei nuclei. Vale a dire che le famiglie povere e a rischio povertà sono una su cinque. Anche perché, a fronte di salari praticamente fermi, negli ultimi sei anni ogni famiglia ha perso un potere d’acquisto pari a 7700 euro, secondo alcune associazioni dei consumatori.
La "flexicurity" rimane un miraggio. A contribuire alla povertà c’è anche il lavoro precario. Nel 2006, ricorda il rapporto, le assunzioni a tempo determinato hanno superato per la prima volta quelle a tempo indeterminato. Sommando tutti i lavoratori impegnati con contratti precari, o se si vuole flessibili, si arriva, secondo il centro studi Ires, a una cifra compresa tra 3.200.000 e 3.900.000 persone; poco meno quelle che lavorano nel sommerso. "La flessibilità è corrosiva nei confronti del lavoratore - osservano i curatori del rapporto - perché gli istilla ansie, paure e insicurezza, ma lo è anche nei confronti del lavoro, che finisce per perdere qualità". Anche perché la flessibilità italiana è lontanissima dalla flexsecutiry del modello scandinavo: "Il famoso modello danese, il più studiato e forse il più efficace (anche se poi alla prova dei fatti lascia fuori i più fragili) si basa infatti su una serie di variabili necessarie, oltre la semplice formula: investimenti ingenti di risorse pubbliche, ammortizzatori sociali molto estesi, di tipo universalistico, un sistema efficiente di formazione permanente, un uso del lavoro flessibile non ’al risparmio’ ma mirato a obiettivi di sviluppo".
Una paura che fa paura. In una situazione di sempre maggiore povertà e insicurezza la paura dilaga, ma è "una paura che fa paura", osserva Segio: "I dati ci dicono che le paure legate alla sicurezza sono infondate, il tasso di scippi ma anche di omicidi è il più basso degli ultimi trent’anni, eppure l’88% degli italiani pensa che in Italia vi sia più criminalità rispetto a cinque anni fa". La paura porta alla xenofobia, sentimento che può anche far comodo: "Dietro a ogni campagna securitaria - afferma Segio - ci sono sempre appetiti e progetti immobiliari. Così come la geografia degli sgomberi dei campi rom in molte grandi città, a partire da una incattivita Milano, ricalca esattamente le necessità e le tempistiche dei ’palazzinari’, proprietari di vastissime aree".
* la Repubblica, 9 giugno 2008.