Lingua italiana: un diritto dell’immigrato.
Presentazione della ricerca: "Formare nei paesi d’origine per integrare in Italia. Le nuove sfide della Dante Alighieri". *
Nasce dalla certezza che la vera integrazione cominci nel Paese di origine la ricerca curata da Massimo Arcangeli e Alessandro Masi, "Formare nei Paesi d’origine per integrare in Italia. Le nuove sfide della Dante Alighieri", che sarà presentata martedì 5 dicembre alle ore 9,30 nella sede del CNEL.
Quando si parla di immigrazione, di integrazione e di cittadinanza, si deve necessariamente discutere anche di formazione, di cultura e di lingua. In questo scenario che ormai fa da sfondo all’ordinaria attualità non solo del nostro Paese e del nostro continente ma anche dell’evolversi del mondo in direzione di un’assoluta globalizzazione, la testimonianza della Società Dante Alighieri assume un’importanza determinante per l’attività di formazione culturale, linguistica e, dunque, sociale, degli stranieri che scelgono l’Italia quale meta ideale, a volte obbligata, a volte suggerita da preferenze di carattere professionale.
Tra le iniziative intraprese dalla Società Dante Alighieri in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di rilevanza significativa sono quelle tese a preparare, nei loro Paesi di origine, i futuri cittadini italiani fornendo un’assistenza linguistica prolungata che accompagna i lavoratori immigrati prima, durante e dopo il loro arrivo in Italia.
Oltre ad essere una delle istituzioni che in Italia ha sentito per prima l’urgenza di dover affrontare il fenomeno-immigrazione con l’avvio di corsi per immigrati, la Società Dante Alighieri opera già dal 2000 in applicazione dapprima della Legge Turco-Napolitano e in seguito dell’attuale normativa, fornendo assistenza per la preparazione linguistica degli immigrati provenienti in Italia presso le oltre 400 sedi presenti all’estero, come è accaduto con successo in Tunisia, Sri Lanka, Bulgaria e Moldavia.
Per quanto riguarda la questione della cittadinanza, la "Dante" ribadisce fortemente la necessità da un lato di un’adeguata conoscenza e condivisione della lingua e cultura italiana per i richiedenti, dall’altro di un’unica certificazione che attesti le diverse competenze linguistiche degli apprendenti. Esistono infatti oggi in Italia quattro certificati rilasciati rispettivamente dalla stessa "Dante Alighieri", dall’Università di Roma Tre e da quelle per stranieri di Siena e di Perugia. Per questo motivo la "Dante" ritiene ormai necessario il varo di una legge che disciplini il sistema di apprendimento del nostro idioma.
Scrive il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella prefazione: «Il lavoro della Dante Alighieri, di cui questo libro è testimonianza, va in questa direzione: aiuta cittadini di altri stati a inserirsi nella nostra cultura, attraverso gli atti comunicativi più semplici, quelli che passano attraverso il "buongiorno" e la "buonasera", parole che aprono e chiudono una giornata di fatica quotidiana, accompagnata, forse, anche da qualche "grazie" ricevuto e dato. [...] L’italiano è una lingua di cultura, che può forse diventare una lingua franca, per esempio nel Mediterraneo, da dove vengono tanti dei nostri immigrati. Questo semplice rilievo ci aiuta a capire l’importanza e i meriti del lavoro che la Dante Alighieri già compie. L’auspicio è che, ora, sia capace di affrontare anche la nuova e più ardua sfida».
«A volte non è facile rendersi conto che è l’economia italiana ad aver bisogno, per svilupparsi e far fronte alla crescente concorrenza, di immigrati in grado d’integrarsi utilmente nella nostra società - afferma l’Ambasciatore Bruno Bottai, Presidente della Società Dante Alighieri -. È uno degli effetti della globalizzazione, che sta rendendo tutte le contrade del mondo più vicine tra loro».
«Il Paese deve essere grato alla Società Dante Alighieri per la politica di diffusione della nostra lingua e della nostra cultura, che essa va realizzando - spiega Antonio Marzano, Presidente del CNEL -: un impegno cui non si commisurano, purtroppo, adeguate risorse finanziarie. In un Paese con una demografia come la nostra, c’è bisogno di una crescente immigrazione di lavoratori provenienti da altri Paesi. Se questo afflusso aiuta a risolvere un problema, per altro verso ne crea un altro, quello dell’integrazione: bisogna "capirsi" tra genti dalla diversa storia, di religione diversa, con differenti costumi e, naturalmente, di lingua diversa.
Conoscere la lingua non è di per sé sufficiente ad integrarsi, ma è certamente il primo passo indispensabile nella direzione auspicata. Il passo ulteriore è conoscere la cultura del nostro Paese, che non è soltanto conoscere la nostra Storia, le nostre Arti, la nostra stessa Economia».
Alla presentazione della ricerca parteciperanno il Presidente della Società Dante Alighieri, Ambasciatore Bruno Bottai, il Presidente del CNEL, prof. Antonio Marzano, il Direttore Generale per l’Immigrazione del Ministero del Lavoro, Maurizio Giuseppe Silveri, il Direttore dell’Ufficio Regionale per il Mediterraneo dell’O.I.M. (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), Peter Schatzer e gli autori Massimo Arcangeli, docente di Linguistica Italiana all’Università di Cagliari, Alessandro Masi, Segretario Generale della "Dante Alighieri"e lo scrittore e giornalista algerino Amara Lakhous .
Seguirà una Tavola Rotonda moderata da Alessandro Masi, a cui prenderanno parte il Presidente dell’Organismo Nazionale di Coordinamento per le Politiche di Immigrazione, Giorgio Alessandrini, il Sottosegretario del Ministero della Solidarietà Sociale, Cristina De Luca, il Segretario Generale del Censis, Giuseppe De Rita, il Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione, Maria Letizia De Torre, il Viceministro degli Affari Esteri, Ugo Intini, e il Sottosegretario del Ministro dell’Interno, Marcella Lucidi.
* Data del comunicato: 29/11/2006
"Si parla molto di multiculturalità e di fenomeni interculturali, ma meno in senso stretto della lingua, che è il simbolo e il punto fermo della nostra identità." Con queste parole Giuseppe De Rita, Segretario Generale del Censis, ha concluso la Tavola Rotonda che si è svolta questa mattina al Cnel sul tema "Formare nei Paesi d’origine per integrare in Italia. Le nuove sfide della Dante Alighieri", presieduta dal Presidente del Cnel Antonio Marzano e dal Presidente della Società Dante Alighieri Bruno Bottai.
Avevano preceduto De Rita gli interventi del Sottosegretario del Ministero della Solidarietà Sociale, Cristina De Luca e del Sottosegretario del Ministero dell’Interno Marcella Lucidi, durante i quali si sono evidenziate le problematiche dell’attuale legislazione in materia di immigrazione con particolare riferimento ai processi di integrazione familiare e sociale dei "nuovi italiani": l’attuale esecutivo può fare molto per migliorare una situazione che rischia di parcellizzare un sistema di integrazione non pienamente definita. "Erano soltanto 100.000 agli inizi degli anni ’80 ed oggi sono diventati circa 3 milioni i cittadini stranieri regolarizzati per i quali vi è un diritto-dovere di apprendere la nostra lingua e di condividere i principi di una cultura che si è integrata dapprima nei valori culturali e in seguito per mezzo dei processi politici".
Parte preponderante della ricerca, presentata al Viceministro degli Esteri Ugo Intini, è apparsa quella sezione di studio rivolta agli stranieri che Giorgio Alessandrini, Presidente vicario dell’ONC/Cnel ha ritenuto di voler approfondire in un successivo studio che vedrà impegnate le due Istituzioni: certificare le competenze e riconoscere i diritti sono parsi gli obiettivi di un’immigrazione che va qualificandosi anche nei settori come quello imprenditoriale che ad oggi ha raggiunto il 10%. Interesse ha suscitato l’intervento dell’algerino Amara Lakhous che illustrando la sua esperienza di scrittore "italiano", ha dato esempio di vera e riuscita integrazione.
* Data del comunicato: 05/12/2006
CNEL - CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ECONOMIA E DEL LAVORO
Ad un livello più generale, sulla portata e il valore del lavoro di Dante e sull’importanza culturale della lingua italiana, si cfr.:
Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Per la rinascita dell’Europa, e dell’Italia. La buona-indicazione del Brasile.
UE: SITO 50 ANNI ROMA, COMMISSIONE AGGIUNGE ANCHE L’ITALIANO *
Bruxelles, 19 gen. - (Adnkronos/Aki) - Si e’ risolta la controversia sul sito per i cinquant’anni dei Trattati di Roma allestito dalle direzione generale Relazioni esterne della Commissione Europea. Un sito il cui testo figurava l’inglese, il francese, il tedesco (le lingue di lavoro), piu’ lo spagnolo, ma non l’italiano. La scelta aveva suscitato le forti proteste sia del vicepresidente della stessa Commissione, sia del rappresentante permanente d’Italia presso l’Ue, ambasciatore Rocco Cangelosi. In effetti, la stessa rappresentanza ha informato che ’’il capo di gabinetto del commissario alle relazioni esterne Patrick Child ha comunicato all’ambasciatore Cangelosi che sul sito informativo sul cinquantesimo del Trattato di Roma e’ in via di inserimento la versione in lingua italiana’’.
Geopolitica dell’Italiano
di Aldo Giannuli *
Fra le molte sciocchezze che capita di sentire a proposito dell’Italiano, c’è quella per la quale esso sarebbe quasi una lingua morta, parlata da quattro gatti e, pertanto, destinata a scomparire ineluttabilmente nel mondo globalizzato. Ovviamente, i primi sostenitori di questa fesseria sono gli anglomani, per i quali l’inglese basta e avanza per tutti gli usi e tutte le altre lingue possono sparire.
Qualche dato può servire a formare una visione più realistica della situazione. Secondo Wikipedia l’italiano è diffuso in Argentina, Australia, Belgio, Bosnia ed Erzegovina, Brasile, Canada, Cile, Croazia, Egitto, Eritrea, Francia, Germania, Israele, Libia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Paraguay, Filippine, Porto Rico, Romania, San Marino, Arabia Saudita, Slovenia, Somalia, Sud Africa, Svizzera, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Uruguay, Venezuela, Stato Vaticano. Una irradiazione amplissima, che la colloca ai primi posti nel mondo.
Wikipedia colloca l’Italiano al 21° posto nella graduatoria mondiale dei parlanti, dopo cinese, spagnolo, inglese, hindi, arabo, portoghese, bengalese, russo, giapponese, tedesco, giavanese, punjab, coreano, wu, francese, telugu, turco, marhati, tamil, vietnamita.
Ma lo fa su criteri “ufficiali”, cioè sommando i parlanti di madre lingua a quelli di seconda lingua dei residenti di ciascun paese, per cui l’inglese è al terzo posto ed il francese al 15°, il che non appare molto realistico. La graduatoria di Wiki non tiene conto:
a- dei discendenti di immigrati che hanno conservato l’uso della lingua e che spesso non sono censiti
b- dei flussi di migranti che apprendono la lingua nel paese di immigrazione e che spessissimo non sono censiti
c- dei parlanti di “professione” spesso non considerati: ad esempio, nella finanza quasi tutti gli operatori, in qualsiasi parte del mondo, comunicano in inglese. Molti operatori culturali parlano inglese o francese anche se appartenenti ad altri paesi. La Chiesa Cattolica ha come sua lingua ufficiale l’italiano, conosciuto da molti religiosi e da tutti i vescovi che lo usano nelle loro comunicazioni ecc.
d- quanti apprendono una lingua per motivi di studio e che la classifica di Wiki non prende in considerazione (ovviamente è molto più facile che ci siano studenti arabi, indiani, cinesi ecc. in una università europea o americana, di quanti ce ne siano di europei in università indiane, cinesi o arabe; così come è più facile che ci siano studiosi della letteratura inglese, francese, italiana in Cina o in Bangladesh di quanti studino quelle letterature in Inghilterra, Francia o Italia),
e- di quanti apprendono la lingua come turisti, ed è ovvio che ci siano più turisti asiatici in Europa che europei in Asia
Peraltro, la graduatoria su dati ufficiali può risultare insidiosa anche per altre ragioni: l’indonesiano è la lingua ufficiale dell’Indonesia, con i suoi 300 milioni di abitanti, ma in effetti è la prima lingua solo di un quinto della popolazione, ed è la seconda di una ulteriore parte che non copre più della metà degli abitanti; l’arabo scritto è lo stesso in ogni paese arabo, ma quello parlato cambia da pese a paese e non è affatto sicuro che un parlante marocchino riesca ad intendersi con uno yemenita.
Tenendo conto di queste variabili, la graduatoria cambia sensibilmente. In occasione degli “stati generali della Lingua Italiana” (svoltisi a Firenze nello scorso ottobre), abbiamo saputo che: ci sono 4,5 milioni di italiani all’estero (senza contare i trasferimenti temporanei come gli Erasmus), nella sola città di Barcellona c’è una comunità di italiani di quasi 50.000 persone. Inoltre abbiamo saputo nella stessa occasione che l’italiano è l’ottava lingua usata nel web, che gli italodiscendenti sono circa 80 milioni (per dimensioni è la seconda diaspora al mondo dopo quella cinese) e che il bacino degli italofoni è di 250 milioni di persone, al nono posto nella graduatoria mondiale (dopo inglese, francese, spagnolo, portoghese, hindi, cinese, arabo, russo). Può sorprendere non trovare il tedesco, che, in effetti è di pochissimo meno parlato dell’Italiano -praticamente alla pari-, ma occorre tener presente che, anche se tedeschi, austriaci e svizzeri tedeschi, insieme alla minoranze tedesche disseminate in Europa, ammontano complessivamente al doppio degli abitanti dell’Italia, però i germano discendenti (nipoti di emigrati) sono molto meno degli italo discendenti. Anche il Giapponese parte da una base nazionale più consistente di quella italiana, ma ha una diaspora linguistica molto meno ampia dell’italiano.
Dunque, almeno su una cosa possiamo stare tranquilli: l’italiano non è una lingua morta ed è fra principali dieci lingue parlate nel mondo.
Certo, se continua come sta andando, fra un po’ ci saranno più italo parlanti all’estero che in Italia, dove la lingua più diffusa sarà una sorta di basic english con forti innesti padani, ma, almeno per ora, sembra che questo disastro sia prossimi.
Vice versa, studiando bene questi dati, si capisce che l’italiano è una lingua con un forte potenziale geopolitico sia per l’ampiezza dei paesi in cui è diffuso, sia per il numero di parlanti o di persone che lo usano nel web. Se l’Italia vorrà pesare qualcosa nel mondo globalizzato, non è grazie alla finanza o al suo peso militare che ci riuscirà. Il suo strumento di influenza principale non potrà essere che la sua cultura, che significa arte, musica, letteratura, gastronomia ecce cc. E questo sarà una risorsa fondamentale anche per il rilancio delle esportazioni italiane. Vorrei ricordare che, quando l’ italian style significava qualcosa, l’Olivetti lettera 32 era esposta al museo di arte moderna nella fifth avenue di New York e l’Olivetti rappresentava circa l’8% del mercato mondiale di settore. Un caso?
Ma il bagaglio storico della cultura italiana non è separabile dalla sua lingua (sarebbe l’unico caso al mondo di un patrimonio culturale servito in una lingua diversa dalla propria) e, dunque, un rilancio di questo paese non è separabile dalla difesa della sua lingua.
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Aldo Giannuli (22.05.2015).
L’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo: gli unici a sorprendersi sono gli italiani.
di Aldo Giannuli *
Un paio di settimane fa, la stampa italiana dava, con un certo stupore, la notizia che l’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese, non riuscendo a spiegarsene il perchè.
Le prime tre sono abbastanza logiche: l’inglese è la lingua di un miliardo e mezzo di persone (mettendo nel conto anche gli indiani) ed è la principale (ma non l’unica) lingua franca del Mondo. Lo spagnolo è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa; quanto al cinese, non solo è la prima lingua di un miliardo e mezzo di parlanti, ma è la lingua del principale paese emergente (forse è meglio dire ”Emerso”) e seconda potenza mondiale. Sin qui tutto spiegabile.
Invece, inspiegabile è che sia quarta l’Italiano, lingua di poco più di sessanta milioni di parlanti (forse settanta se ci mettiamo dentro eritrei, albanesi, somali che lo conoscono e un po’ di italiani all’estero), di un paese relativamente piccolo ed in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti.
Precede lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese, come si spiega? Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere.
Allora vediamo qualcosa che può spiegare questo strano fenomeno. Prima di tutto, si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa Cattolica. La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano che è parlato correntemente in Vaticano ed usata prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quaranta anni. Ed anche in ordini religiosi con i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano.
Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che ha avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio e non pochi figli e nipoti si sono mantenuti bilingui. Fra l’altro (la cosa non ci inorgoglisce ma deve essere registrata su un piano avalutativo) l’Italiano è spesso usato fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo ea altre organizzazioni criminali come i colombiani. E anche questo è un fenomeno sociale.
C’è poi l’importanza dell’Italiano sul piano culturale ed anche qui si sono dimenticate troppe cose. In primo luogo si dimentica che l’italiano è la lingua principale del melodramma e nel mondo ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ottanta in poi.
Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale; non mi interessa stabilire se sia la prima in assoluto (anche se non mi stupirebbe affatto constatarlo), mi basta sottolineare come essa abbia uno sviluppo continuo nel tempo da XIII secolo in poi, con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli. Quello che non mi pare si possa dire allo stesso livello delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia che presentano maggiore discontinuità.
Chi voglia avere una idea del “peso” della letteratura italiana, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi, ma ripeto che non ha senso stare a stabilire se si tratti della prima in assoluto, basti considerare che certamente è fra le primissime. E non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia. Ma qui c’è il ruolo della scuola, il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare.
Del peso dell’arte italiana, in particolare del Rinascimento, ma non solo, non è il caso di dire e questo spiega (altra cosa non sufficientemente considerata) che l’Italia sia una delle principali mete turistiche nel Mondo.
E, infine (anche la cultura “materiale”, ha il suo peso) tanto la gastronomia quanto la moda nel Mondo parlano spesso italiano.
Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente che gli italiani del tempo presente sono impari rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato.
Aldo Giannuli (11.02.2015).
Italiano addio?
Solo Internet ci può salvare
La lectio del linguista al Festival della Comunicazione
“Nel dopoguerra abbiamo vissuto una rivoluzione”
di Tullio De Mauro (La Stampa, 10.09.2015)
Nei centocinquant’anni di vita dello Stato unitario la realtà linguistica italiana ha conosciuto un rinnovamento profondo, accentuatosi nei settant’anni di vita democratica e repubblicana. È stato un rinnovamento che a buon diritto può chiamarsi una rivoluzione nel confronto con i mutamenti linguistici d’altre parti del mondo. In effetti, in particolare nell’ultimo mezzo secolo, tutti i paesi hanno conosciuto mutamenti intensi della loro situazione linguistica. In parte i mutamenti sono stati conseguenza di grandi fenomeni non linguistici: alcuni di natura politica, come la decolonizzazione o la crisi dello Stato tradizionale e la nascita di organismi «oltre lo Stato»; altri, del resto intrecciati ai precedenti, di natura economica e tecnologica, che hanno accentuato l’interdipendenza finanziaria e produttiva dei diversi paesi; altri di natura ancor più profonda, come la crescente migrazione dalle aree più povere verso le ricche o il risveglio della coscienza delle identità etniche e dei diritti linguistici d’ogni gruppo umano, anche minore.
L’uso dell’inglese
Nella complessiva realtà linguistica mondiale una delle conseguenze dei mutamenti è stata l’espansione dell’uso dell’inglese nei rapporti internazionali e, per una sessantina di paesi, anche nella vita amministrativa e pubblica. È il fenomeno più vistoso per l’osservatore comune. Negli Anni Settanta qualche sociologo si spinse ad affermare che l’anglizzazione di tutto il genere umano era ormai una realtà e che le migliaia di diverse lingue umane si sarebbero dissolte nel nulla. Così non è avvenuto e non sta avvenendo. Certamente sono in pericolo di estinzione (ma non per colpa dell’uso dell’inglese e non da questo sostituite) quelle lingue la cui base demografica, ristretta talora a poche decine di individui, è in via di dispersione o di assorbimento.
Ma, pur meno vistosi e meno seguiti dall’informazione giornalistica, sono avvenuti fenomeni di segno contrario. Negli Anni Settanta le lingue affidate non solo all’oralità, ma alla scrittura erano poco più di settecento, oggi sono oltre duemilacinquecento. L’adozione nella scrittura accompagnata da un’estesa alfabetizzazione conferisce a una lingua una stabilità nel tempo e nello spazio sociale e culturale che lingue di uso solo orale non conoscono.
L’analfabetismo
Restino ancora gravi problemi di analfabetismo nelle aree povere, ma la scolarizzazione ha fatto passi da gigante tra Anni Cinquanta e Duemila: ha cambiato profondamente la faccia culturale e linguistica di molti paesi, dando nuova solidità e stabilità a lingue e tradizioni diverse.
I mutamenti linguistici che l’Italia unita e, poi, repubblicana hanno vissuto possono definirsi una rivoluzione: una rivoluzione epocale, anche se in parte nascosta e incompleta.
Una rivoluzione epocale. La rivendicazione dell’unità politica dell’Italia in nome dell’unità di lingua ebbe natura largamente mitologica, la competenza in lingua italiana essendo restata per secoli limitata alla parte più alfabetizzata della Toscana e della città di Roma e, fuori di queste due aree, a piccoli sottogruppi dell’esilissimo strato di persone colte, affiorante dal mare dell’analfabetismo e dei dominanti dialetti. Ma l’unificazione innescò poi processi che diffusero l’italofonia. L’accumulo di competenze restò sotto un terzo di popolazione fino al secondo conflitto mondiale.
Dagli Anni Cinquanta e Sessanta del Novecento il conseguimento diffuso della licenza elementare, l’avvio di una meno inconsistente scolarità media e, dagli Anni Novanta, mediosuperiore, l’inurbamento e spostamento della popolazione dalle regioni agricole e meridionali verso le città e il Centro-Nord e la diffusione dell’ascolto televisivo hanno concorso a un decisivo incremento della convergenza degli usi parlati verso il comune patrimonio linguistico italiano specie nella vita di relazione, dove l’adozione dell’italiano coinvolge ormai più del 90% della popolazione.
I dialetti
Nei tremila anni di storia anteriore documentata mai le popolazioni d’Italia conobbero un simile grado di convergenza verso una stessa lingua anche se ancor oggi per metà della popolazione sopravvive la possibilità di usare, accanto all’italiano, uno dei molti idiomi locali (dialetti affini all’italiano e lingue di minoranza). A questo multilinguismo endogeno si è aggiunto negli ultimi anni un gran numero di lingue, circa duecento, importate dall’immigrazione. Ma gli immigrati quasi tutti si assimilano rapidamente a italiano e parlate locali e per ora non paiono incidere sull’uso dell’italiano.
Una rivoluzione nascosta, non governata, poco compresa. La mitologia patriottica, il bellettrismo dominante della cultura «generale», la modestia della componente antropologica e demografica degli studi storici italiani hanno occultato nella coscienza anche dei ceti colti l’enorme rivolgimento linguistico vissuto dal e nel paese. Pasolini avvertì quel che andava accadendo, ma, mescolando a ciò errori (presunta morte dei dialetti, presunta tecnologicità dello stile ecc.) e urtando contro l’opaca disattenzione dei più, restò un caso isolato.
La vittoria del parlato
Una rivoluzione incompleta. L’adozione dell’italiano come lingua comune di riferimento ha vinto nel parlato, ma non si è accompagnata al possesso della lettoscrittura in italiano: e non perché vi siano state altre lingue di riferimento, ma per la povertà della lettura, per il peso dei residui di analfabetismo primario e per la formazione di imponenti sacche di analfabetismo di ritorno. Gli adulti, in una percentuale stimata tra il settanta e l’ottanta per cento, anche dopo aver raggiunto una buona scolarizzazione, dagli stili di vita sono portati a non praticare più la lettura e quindi hanno difficoltà di comprensione di un testo scritto, con conseguenti difficoltà di adoperare in modo appropriato una lingua di grammatica complicata e vocabolario fondamentale d’antica tradizione, che quasi per otto parole su dieci è fatto delle parole usate da Dante nella Commedia. Alcuni sperano che per le future generazioni questa stato di arretratezza alfabetica possa essere corretto dalla diffusione delle tecnologie informatiche. Come è successo altrove nel mondo, per esempio per gli inuit o per gli eroici curdi, la tradizione e Dante potrebbero trovare un alleato in internet.
Tra Etruschi e Celti galeotto fu il vino
Da sabato ad Asti grande mostra sulla prima civiltà d’Italia che fece dialogare Mediterraneo orientale e Nord Europa
di Maurizio Assalto (La Stampa, 14.03.2012)
Nel 1875 le vanghe dei sabbiatori al lavoro nel Tanaro, nei pressi del ponte di corso Savona ad Asti, incocciarono in qualche cosa di inaspettato: un magnifico elmo crestato etrusco in lamina di bronzo, risalente al IX-VIII secolo a. C. Il prezioso reperto è il pezzo simbolo, e insieme la ragion d’essere, della grande mostra «Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente», a cura di Alessandro Mandolesi e Maurizio Sannibale, ospitata al Palazzo Mazzetti di Asti dal prossimo sabato al 15 luglio, e pensata sui fili di un legame tra Italia del NordOvest e Etruria più intrecciati di quanto non si immaginerebbe. Il vino, ma non solo.
Deposto ritualmente entro una buca nell’alveo del fiume, l’elmo era probabilmente il dono di un mercante etrusco di età villanoviana a un capo indigeno del basso Piemonte, che era allora abitato dai Liguri. Un oggetto prestigioso, ostentatorio, che denota un reciproco riconoscimento tra pari. In questa fase gli Etruschi sono in grande espansione, mirano a creare nuovi sbocchi per i lori prodotti e allo stesso tempo cercano di procacciarsi la materia prima di cui sono sprovvisti: quell’oro presente per esempio nelle sabbie aurifere del Biellese. La valle del Tanaro è una direttrice commerciale importante: permette di raggiungere, al di là delle Alpi, la valle del Rodano, e quindi la Cornovaglia da dove proviene lo stagno indispensabile per ottenere il bronzo. Un’altra direttrice, la valle del Ticino, attraverso il Novarese e il Verbano porta invece alla Svizzera e alla valle del Reno, dove sono stati ritrovati in grande quantità vasi etruschi legati alla cerimonia del vino.
All’espansione commerciale si accompagna quella culturale. Nell’area di Golasecca, tra Piemonte e Lombardia, nel VI secolo a. C. si scrive con le lettere dell’alfabeto etrusco, mentre da Busca, in provincia di Cuneo, proviene l’iscrizione funeraria di un personaggio locale trasferitosi in Etruria e tornato a morire nella terra natìa, che nell’epitaffio ha emblematicamente unito il proprio nuovo nome etrusco (Larth) a quello celtico (Motico). Nella cosiddetta «età dei Principi» (VII secolo a. C.) gli Etruschi svolgono un ruolo di cerniera tra il mondo mediterraneo orientale e l’Europa celtica: diffondono la cultura del vino (tracce etrusche sono state rilevate nel Dna dei vini francesi meridionali, come pure, sembra, nel Nebbiolo piemontese), la pratica del simposio, gli usi, i costumi e i miti mediati dai poemi omerici. Non sono inventori, ma grandi rielaboratori che fondono, adattano e semplificano, e mettono in comunicazione: veri e propri veicoli di cultura.
Nelle diverse sezioni della mostra questa funzione cruciale per la storia della civiltà (che farà inorridire certi sedicenti Celti d’oggi, ma era tutt’altro che sgradita ai loro avi) è illustrata attraverso 340 pezzi provenienti in gran parte dai Musei Vaticani e quasi tutti recuperati tra i materiali meno noti dei depositi. Ecco una semplice urna cineraria del IX secolo, da Tarquinia, chiusa da un elmo di terracotta, a ricostituire idealmente una testa umana, ossia parte di ciò che si è perso con la cremazione. Ecco un raffinato «vaso parlante» di bucchero (VII secolo, da Cerveteri) che proclama «Io sono di Ramutha Kansinai», una donna, a testimonianza del rilievo sociale femminile in quell’epoca. E poi i vasi greci e etruschi del VII e VI secolo con le immagini del riscatto del corpo di Ettore, dell’agguato di Achille a Troilo, di Polifemo accecato da Ulisse, che dicono molto sulla rapidità con cui si erano diffusi in Occidente i miti cantati da Omero. La grattugia di bronzo per polverizzare il formaggio caprino da mescolare (vietato inorridire) al vino rimanda alla stessa abitudine greca, così come da quelli greci sono indistinguibili l’elmo, lo scudo e gli schinieri esposti nella sezione dedicata all’oplitismo.
La rassegna propone anche la riproduzione in scala 1 a 1 di un paio di tombe dipinte, quella «delle Bighe» (Tarquinia, VII secolo) e quella «del Triclinio) (stessa zona, V secolo) che illustra splendidamente il momento del banchetto (il banchetto reale, ma anche, allusivamente, quello nell’aldilà) attraverso l’immagine di due sposi attorniati da figli, musici, danzatori, animali domestici e fiere. Mentre è un pezzo originale la Tomba della Scrofa nera, restaurata grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e qui riassemblata per la prima volta. Come pure è a suo modo una primizia il sarcofago di pietra lavica del IV secolo, da Tuscania, che ha sul coperchio un giovane libante e sul bassorilievo della cassa le immagini della strage dei figli di Niobe: scoperto nel 1830 e all’epoca smembrato tra il Museo Archeologico di Firenze e i Musei Vaticani, è ricomposto ad Asti dopo quasi due secoli.
In chiusura si torna al punto di partenza, il filo che unisce Piemonte e Etruria. Nell’ultima sala sono esposti i disegni preparatori di Pelagio Palagi per il gabinetto «all’etrusca» di Carlo Alberto nel diletto castello di Racconigi, insieme con le sedie nello stesso stile realizzate per il sovrano che fu il primo a vagheggiare l’unità d’Italia. E proprio in questa chiave risorgimentale - antistraniera e antiromana, ossia avversa alla Roma papalina - il re sabaudo, come già i Medici, si richiamò agli Etruschi: in un certo senso, i primi unificatori della Penisola.
Ecco perché siamo ancora etruschi
di Giuseppe M. Della Fina (la Repubblica, 13.03.2016)
«Sotto il controllo degli Etruschi era stata quasi tutta l’Italia» prima dell’avvento di Roma nel giudizio di Catone, e proprio ad essi è dedicato il volume Gli Etruschi. Storia e civiltà di Giovannangelo Camporeale, giunto ora alla sua quarta edizione caratterizzata da un aggiornamento profondo.
Leggendolo si apprende come la civiltà etrusca abbia accompagnato un millennio di storia della penisola italiana, da appena dopo il 1000 a.C. sino a poco prima della nascita di Cristo quando, dopo avere perso già l’indipendenza politica, smarrì quella culturale col compimento dei processi di romanizzazione.
Si comprende come sia stata presente, oltre che nella cosiddetta Etruria propria (compresa tradizionalmente tra i fiumi Tevere, a sud, e Arno a nord, coi confini orientali e occidentali rappresentati rispettivamente dai primi contrafforti dell’Appennino e dal Mar Tirreno), nella pianura padana (Bologna è stata un’importante città-stato etrusca) e in alcune zone dell’odierna Campania.
Si capisce come - per alcuni secoli - le poleis etrusche abbiano esercitato un controllo stretto sui traffici commerciali presenti nel Mediterraneo occidentale. Si apprende come la loro influenza culturale si sia fatta sentire sugli Umbri, i Veneti, i Liguri e sulla stessa Roma nascente.
Infine si può entrare nella loro fortuna duratura, amplificata tra Cinquecento e Settecento, che è riuscita a giungere al Novecento: lo scrittore inglese David H. Lawrence in Etruscan Places, racconto di un suo viaggio in Etruria nella primavera del 1927, osservò come «in Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo, i germogli del grano: sarà sempre così». Nella paradossale affermazione c’è qualcosa di vero.
La ricerca
Uno studio della Fondazione Rosselli mette in evidenza le richieste di chi vuole imparare la lingua
Cresce il numero degli eventi organizzati, ma la distribuzione geografica è da rivedere. Gli esempi della Francia e della Spagna
Una passione (mondiale) per l’italiano
Popolarità in aumento: è la quinta lingua più richiesta
Il ruolo e le difficoltà degli 89 Istituti di cultura all’estero
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 09.12.2009)
Uno studio della Fondazione Rosselli, realizzato per il Corriere della Sera , porta con sé buone nuove sull’immagine internazionale dell’Italia. I dati più confortanti riguardano la popolarità e l’interesse della nostra lingua: siamo quinti nella classifica degli idiomi più richiesti dagli studenti. Il che non corrisponde, naturalmente, alla diffusione reale (colossi come il cinese o l’hindi viaggiano nell’ordine inarrivabile delle centinaia di milioni di parlanti).
Ma se consideriamo il numero di coloro che hanno deciso di leggere Dante o Pirandello nell’originale, oppure per passione culturale o interesse economico si sono iscritti ai corsi, ecco che l’onda lunga di cultura, cucina, artigianato, arte di vivere ci porta in alto: seguiamo a distanza, certo, l’inglese (ovvio), lo spagnolo (quasi altrettanto ovvio), e siamo anche alle spalle del tedesco e del francese; però, subito dopo, ci siamo noi. Da qui la necessità di consolidare una rete adeguata di Istituti di cultura all’estero.
Ma la ricerca della Fondazione Rosselli fotografa una situazione ambivalente: da un lato crescenti successi promozionali, oltre all’aumento degli studenti; dall’altro ritardi strutturali e, ancor più, mancate riforme. Lo studio mette in evidenza le crescenti richieste di chi vuole imparare l’italiano: settemila sono i corsi «venduti» dagli Istituti durante il 2007. Risalta l’aumento degli eventi collegati alla promozione annuale della cultura, la «Settimana della lingua italiana nel mondo»: si è passati dai 309 del 2001 ai mille del 2005, sino a sfiorare i 1600 l’anno scorso (quest’anno la tendenza alla crescita appare confermata).
Tuttavia, se si analizza la rete globale degli 89 Istituti, salta agli occhi una distorsione geografica. La maggioranza dei centri culturali (54%) è concentrata in Europa (con una punta di otto nella sola Germania). Un po’ come se la battaglia politico-culturale si continuasse a combattere lungo la Cortina di ferro, e come se non esistessero i programmi Erasmus e uno scambio costante fra i cittadini della Ue, si immagina ancora che gli avamposti dell’Italia debbano trovarsi a Londra, Barcellona o Parigi anziché Rio, Nuova Delhi, Shanghai o Kazan.
E infatti l’Africa subsahariana ottiene in tutto il 4 per cento delle presenze, quella mediterranea e mediorientale si ferma all’11, mentre il blocco Asia-Oceania raccoglie un modesto 10. Bassa in proporzione (21%) la presenza degli Istituti di cultura nell’area culturalmente e linguisticamente più affine all’Italia, quella delle Americhe (in molti Paesi, dal Venezuela in giù, l’italiano potrebbe legittimamente aspirare a vedersi riconoscere il terzo posto come lingua ambientale, dopo lo spagnolo e il portoghese).
Crescono, insomma, le aspettative, ma l’organizzazione non è all’altezza. Un raffronto con i «concorrenti » (soprattutto inglesi, tedeschi e spagnoli) si conferma problematico. Fuori categoria la Francia, con un numero impressionante di sedi ma una politica linguistica del tutto differente, la distribuzione degli enti culturali, su scala globale, ci vede lontani dal British Council e dal Goethe Institut, anche se davanti al Cervantes.
Resta il fatto che la riforma tanto attesa per rilanciare l’azione del nostro Paese continua a languire. La Spagna, ad esempio, ha investito molto nel potenziamento della sua rete, con l’obiettivo di rafforzare la «strategia Paese». L’Italia, invece, non ha ancora messo a punto la sua riforma. Sulla quale Renato Cristin, che ha guidato per anni l’Istituto di Berlino tenendovi a battesimo Palazzo Italia, ha alcune idee precise: «Meglio organizzare meno eventi ma dare maggiore qualità alle manifestazioni; aumentare considerevolmente i direttori di chiara fama, con capacità manageriali e politico-culturali, riducendo il numero dei promossi per anzianità di servizio e in virtù di carriere interne ministeriali; soprattutto è la presidenza del Consiglio che dovrebbe investire, e mettere il ministro degli Esteri in condizione di includere la cultura italiana all’estero nelle priorità strategiche del Paese».
E poi sarebbe necessaria un’azione capace di coinvolgere tutti gli enti che oggi ci rappresentano: i ministeri (Esteri, Beni culturali, Turismo), ed Enit, Ice, Camere di commercio. L’obiettivo: puntare su un’immagine unica e una rete di alleanze con le istituzioni culturali e scientifiche più prestigiose. Su un punto, invece, i progressi appaiono sensibili: nella capacità degli Istituti di conquistarsi finanziamenti e sponsorizzazioni locali.
Pur muovendo da risorse limitate e all’interno di un quadro normativo invecchiato, i direttori degli Istituti sono riusciti complessivamente a svecchiare l’immagine collettiva del Paese. E i dati dimostrano come fra il 2005 e il 2007 sia avvenuta un’inversione di tendenza: la crescita dell’autofinanziamento ha dapprima avvicinato, poi quasi pareggiato, infine (nel 2007) superato la cifra complessiva stanziata dallo Stato.
Un dato di cui gli Istituti possono andare orgogliosi, soprattutto se accompagnato dall’altro che riguarda il numero delle sole manifestazioni culturali, cresciute del 19 per cento dal 2007 al 2008. Si è passati infatti da 6049 a 7203, ma qui non è tutto oro quello che luccica: perché il moltiplicarsi degli eventi potrebbe essere spia di un certo provincialismo. Meglio puntare sull’eccellenza, ricalcando dove possibile il modello vincente «Italia in Giappone», già replicato nel 2006 in Cina, e negli anni successivi in Vietnam e Corea.
Resta invece irrisolto il problema del ritardo nel promuovere la cultura scientifica e tecnologica. Dovrà essere colmato - sottolinea la ricerca- attraverso eventi che mettano a confronto scienziati italiani e stranieri, e favoriscano accordi tra università.
Un ultimo capitolo messo in rilievo dalla Fondazione Rosselli riguarda il dialogo proficuo aperto dagli Istituti con le regioni: nel 2008 sette su dieci hanno realizzato manifestazioni culturali sul tema delle identità locali. Qui è ormai alle porte un nuovo «Brand Italia» variamente articolato: c’è il turismo accompagnato dall’arte enogastronomica, ma anche un nuovo impulso all’esportazione di prodotti locali. L’Emilia-Romagna, attraverso un’esposizione sul Made in Italy, ha promosso la produzione della moto Ducati a Tokio; la Confartigianato veneto ha organizzato all’interno dell’Istituto di Ankara un convegno volto alla promozione del tessuto produttivo locale.
Dove imparare la nostra lingua è una moda
Giappone, scelta per 500 mila
di D. Fert. (Corriere della Sera, 09.12.2009)
Se esiste un libro dei sogni per la cultura italiana all’estero, questo si trova senz’altro in Giappone: è laggiù che si vede come potrebbe essere la nostra immagine nel mondo, se la sfruttassimo in pieno. Così infatti è avvenuto nel 2001, in occasione dell’iniziativa «Italia in Giappone», quando il paese del Sol levante venne inondato da circa ottocento eventi distribuiti su quindici mesi, con più di cento milioni di contatti. O in occasione di grandi mostre: due anni fa, con l’Annunciazione di Leonardo capace di attirare quasi novecentomila visitatori; o anche quest’anno, con l’esposizione sull’impero romano.
Del resto, bastano le cifre attuali degli studenti di italiano - che il direttore dell’Istituto di Tokio, Umberto Donati, fornisce senza enfasi - per rendersi conto della portata indiscutibile del fenomeno. Seimila iscritti ai corsi trimestrali organizzati direttamente dall’Istituto, con un occhio particolare all’eccellenza e alla «fidelizzazione» degli studenti, insistendo sugli approfondimenti e sui corsi di cultura avanzata. Poi, a un livello più popolare, ci sono le lezioni di italiano organizzate dalla televisione e radio pubblica Nhk
(più o meno equivalente alla nostra Rai) rispetto alle quali le vendite abbinate dei testi per la grammatica e gli esercizi fanno ipotizzare (per difetto) l’esistenza di circa duecentomila studenti.
Ancora: ottantamila giovani studiano l’italiano presso scuole e università che ne prevedono l’insegnamento (sono centoventi). Aggiungiamo duecento scuole private in tutto il Paese, dove troviamo altri cinquantamila allievi, e infine coloro che scelgono lo studio solitario della lingua, spesso motivato dalla passione per la musica lirica, la cucina o semplicemente perché lavorano nei numerosi ristoranti italiani (sono tremila nella sola Tokio). Così si arriva a un dato complessivo compreso fra i quattrocentomila e il mezzo milione di giapponesi che, a vario titolo e in forme diverse, hanno un rapporto con la lingua italiana.
Esaurito il boom degli anni Ottanta e Novanta, si può forse parlare - spiega il direttore Donati - di un calo dei principianti, ma di un sensibile rafforzamento del legame con l’Italia da parte dei progrediti. Non più dunque, come in passato, corsi brevi e immersioni nella lingua per qualche mese soltanto, ma partecipazione attiva a corsi sulla civiltà classica, l’arte, l’opera, la gastronomia, la storia, la letteratura. Con alcuni cammei culturali che danno il senso dell’innamoramento giapponese: corsi di ricamo al punto antico per signore, di chitarra per giovani e poi di incisione e gioielleria. E ancora, sessioni di lingua col karaoke o con il metodo sperimentale della «suggestopedia ». Perché quando si ama una cultura - ecco il fulcro dell’insegnamento che viene dal Sol levante - si ammira tutto ciò che vi è mentalmente associato: eleganza, bellezza, raffinatezza, il gusto idealmente «rinascimentale» di vivere. Un sentimento abbastanza diffuso da esprimersi visibilmente nel panorama urbano nipponico: l’italiano è usato assai spesso nelle insegne degli esercizi commerciali (ristoranti, bar, negozi) e per battezzare prodotti industriali (l’auto «Serena» della Nissan, i termini «premio», «porte», «passo» per la Toyota; una moto della Yamaha è diventata addirittura «Dio». E non si contano le riviste dai nomi italiani: «Uomo», «Ciao», «Grazia», «Viaggio»).
Probabilmente è da qui, da questa passione giapponese e dall’uso non solo pratico della nostra lingua, che si deve partire per spiegare - come sottolinea l’ambasciatore Vincenzo Petrone - il fenomeno degli eventi concepiti dall’Italia ma finanziati prevalentemente sul mercato giapponese (soltanto quest’anno per due milioni e mezzo di euro). Succede infatti che i grandi giornali come lo Yomiuri Shimbun o le televisioni pubbliche e private organizzino direttamente grandi eventi, si preoccupino di trovare gli sponsor tra i loro inserzionisti e raggiungano il pareggio economico tramite la vendita di biglietti, cataloghi e merchandising. Significativo qui il ruolo della Fondazione Italia-Giappone, presieduta dall’ambasciatore Umberto Vattani, dove convivono enti e aziende pubblici e privati.
L’italiano e i dialetti /1
I dialetti sono l’espressione di un patrimonio di cultura e tradizioni, di arte Il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano e il 60% conserva il dialetto nella vita privata
Barricarsi dietro una sola lingua? Un’idea nazista
Secondo il linguista le uscite leghiste filodialettali rassomigliano a un sciocco remake della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo. L’idea che in un’area o entro un territorio, debba esserci un’unica lingua è falsificata dagli studi
di Tullio De Mauro (l’Unità, 30.08.2009)
Probabilmente è soprattutto colpa della corporazione cui appartengo, quella dei linguisti, se alle ripetute provocazioni di leghisti in materia di dialetti e di scolarità e lingue di immigrati le risposte sono state ispirate più a giusto sdegno e ad amor di patria che a considerazione dei fatti.
Tre fatti soprattutto meriterebbero di essere tenuti in conto se si guarda all’Italia linguistica di oggi, al volto che essa ha assunto dopo sessant’anni di vita repubblicana e democratica. Rispetto a essi le uscite leghiste, i loro «arrivano i nostri» filodialettali, rassomigliano a uno sciocco remake dell’arrivo della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo quando le cose sono profondamente mutate.
Il primo fatto potrebbe dirsi storico, se questo aggettivo non fosse ormai inflazionato. Conosciamo abbastanza bene le vicende delle popolazioni italiane lungo tre millenni. E si può dire con certezza che mai nella loro lunga storia esse avevano conosciuto un così alto grado di convergenza effettiva e generalizzata verso un’unica lingua come è avvenuto in questi nostri anni. Dopo secoli in cui, Firenze e Toscana a parte, l’uso dell’italiano era restato appannaggio dei soli radi ed esili ceti istruiti quando scrivevano, dopo i decenni posteriori all’Unità politica, in cui l’uso effettivo dell’italiano aveva mosso alcuni passi, restando però sempre nettamente minoritario rispetto all’uso dei molti dialetti, nell’Italia della Repubblica e delle istituzioni democratiche masse crescenti si sono volte all’uso dell’italiano. Oggi ne è capace, come l’Istat permette di affermare con attendibilità statistica, il 95% della popolazione. Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia.
Connesso a questo, un secondo fatto. Non in tutte, ma in molte famiglie italiane (comprese quelle di leghisti) l’italiano è diventato lingua d’uso abituale: si stima (sempre grazie all’Istat) nel 40% dei casi. Non bisogna più nascere in Toscana o in famiglie «di signori», come era ancora cinquanta o sessant’anni fa, per possedere l’italiano come un bene propriamente nativo, che si trova in famiglia e non più soltanto o soprattutto a scuola. Certamente questo è destinato a pesare e già pesa nella nuova familiarità e tranquillità con cui molti usano la nostra lingua.
Con ciò siamo al terzo fatto. Solo i più colti ricordano i nomi di Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto. I due grandi linguisti, il primo nel 1874, il secondo quasi un secolo dopo sostennero che l’italiano andava appreso e usato generalmente, cosa che a lor tempo non avveniva, senza che però si dovessero mettere al bando i dialetti e le parlate minoritarie (di cui Ascoli fu tra i primi indagatori), ma anzi conservandone l’uso come punto di partenza dell’apprendimento scolastico della lingua (diceva Ascoli) e (aggiungeva Devoto) come riserva naturale di energie espressive per un parlare e scrivere meno inamidato e paludato dell’usuale. Usuale allora, ma ancora anni dopo Italo Calvino diagnosticava il «terrore semantico», il terrore delle efficaci e semplici parole dirette che troviamo nel parlato e nei dialetti, come difetto costitutivo dello scrivere di troppi intellettuali italiani. Ascoli e Devoto pochi li hanno letti, qualcuno in più ha letto i saggi di Calvino, ma a buon senso, affidandosi istintivamente al fai da te nazionale, se il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano, il 60% conserva, accanto all’uso della lingua comune, la possibilità e abitudine di usare uno dei dialetti, nella vita privata, tra amici e conoscenti.
Ma i dialetti italiani non sono solo questo. Tutti sono la testimonianza viva di un patrimonio di cultura e di tradizioni e, spesso, sono diventati espressione d’arte. E la cultura italiana migliore, Croce come Gramsci, non ha esitato a considerare e additare come cosa propria, parte di un composito patrimonio unitario, i grandi testimoni delle letterature dialettali, il romanesco Belli come il milanese Porta, e, nel Novecento, Tessa e Noventa, Buttitta e il Pasolini friulano, Pierro e De Filippo, il ligure Firpo e il marchigiano Scataglini. E si potrebbe e dovrebbe continuare. Del resto, anche su più ampia scala di massa, la fortuna delle canzoni dialettali, tradizionali e recenti o recentissime, le napoletane, milanesi, siciliane, è una fortuna significativamente nazionale.
Nessuna grossolanità leghista impedirà di sentire nostre, dalle Alpi e Trieste a Lampedusa, O mia bela Madunina e O suldato innammurato. Paolo Conte ha spiegato bene, una volta, che ritmo e struttura sillabica delle nostre parlate dialettali rispondono meglio dell’italiano alle esigenze non solo della melodia, ma dei ritmi rock. Molti, non solo genialmente Renzo Arbore, hanno sfruttato questa indicazione. E, canzoni a parte, il toscano Benigni, il napoletano Troisi, il romano Sordi, il milanese Iannacci, a tacere di Fo che ha varcato i confini nazionali, circolano liberamente, senza passaporto regionale, nella nostra comune cultura. Nessun passaporto ha chiesto e chiede nemmeno la nostra prosa letteraria per intarsiarsi di dialettalità lombarda o napoletana o romana o siciliana come hanno fatto Gadda e Pasolini, fanno Mazzucco e Pariani e Starnone. Tutto questo sta dentro il nostro dna comune sia più affinato sia più popolare.
Così l’Italia ci si consegna oggi come un paese capace finalmente di possedere e usare la comune lingua nazionale, ma anche capace d’essere un paese fruttuosamente e marcatamente plurilingue. Oggi sappiamo che il plurilinguismo non è un’eccezione. L’idea che in un’area, entro i confini di un territorio, o nel cervello di un singolo, ci sia e debba esserci un’unica lingua è ampiamente falsificata dagli studi. A partire dagli anni cinquanta una valorosa e tenace sociolinguista americana, Barbara Grimes, ha avviato e aggiornato il non facile censimento delle lingue vive nel mondo. Oggi ne contiamo settemila, mediamente circa 35 per ogni stato della terra.
Lasciando per ora da parte le parlate importate dagli immigrati, che richiedono un’attenzione specifica, con le sue trentasei parlate native (italiano, grandi raggruppamenti di dialetti, lingue di minoranza d’antico insediamento) l’Italia è dunque nella media. Se fa eccezione è per la circolazione nazionale dei patrimoni linguistici locali entro la comune italianità linguistica.
In questo consapevole costituirsi in grande comunità plurilingue ha avuto una parte di rilievo la nostra scuola di base. Ho accennato prima ad Ascoli e Devoto. Ho omesso di dire che le indicazioni ascoliane furono raccolte e tradotte in chiave educativa da un grande filologo, Ernesto Monaci, e un non meno grande pedagogista, Giuseppe Lombardo Radice. A partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento i loro suggerimenti e le loro esperienze educative sono stati raccolti prima da singoli gruppi di insegnanti, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa, poi, filtrati e coordinati, sono diventati indicazioni di programma e di curricolo nella scuola di base.
Il rispetto delle differenze linguistiche e dialettali è diventato pratica ovvia e corrente nella scuola elementare ed è stato certamente non ultimo dei fattori che l’hanno portata a diventare una delle migliori, più efficienti e qualificate del mondo. Questa consapevole vocazione plurilingue della nostra scuola di base è stata di recente additata a modello esemplare nel recente DERLE-Document européen de référence pour les langues de l’éducation, elaborato da studiosi di vari paesi (non italiani!) entro il Consiglio d’Europa e ora in traduzione in italiano a cura di una associazione di insegnanti e studiosi.
La mediocrità opinante a ruota libera di troppa parte degli interventi giornalistici in materia di educazione e scuola annebbia tra troppi colti e tra i politici la percezione di tutto ciò. E forse neanche educatori e linguisti hanno fatto tutto il possibile per rendere noto che la pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono tentare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa.
Nel mondo antico di cui restiamo sempre debitori furono primi gli Epicurei e poi i primi cristiani, quelli del miracolo della Pentecoste, a capire e insegnare ciò che gli studi moderni confermano: che il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Soltanto un nazista pazzoide, come fu Hitler, o un decerebrato che si rivolga a decerebrati può rovinosamente fantasticare di altre strade.
Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia. Connesso a questo, un secondo fatto. Non in tutte, ma in molte famiglie italiane (comprese quelle di leghisti) l’italiano è diventato lingua d’uso abituale: si stima (sempre grazie all’Istat) nel 40% dei casi. Non bisogna più nascere in Toscana o in famiglie «di signori», come era ancora cinquanta o sessant’anni fa, per possedere l’italiano come un bene propriamente nativo, che si trova in famiglia e non più soltanto o soprattutto a scuola. Certamente questo è destinato a pesare e già pesa nella nuova familiarità e tranquillità con cui molti usano la nostra lingua.
Con ciò siamo al terzo fatto. Solo i più colti ricordano i nomi di Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto. I due grandi linguisti, il primo nel 1874, il secondo quasi un secolo dopo sostennero che l’italiano andava appreso e usato generalmente, cosa che a lor tempo non avveniva, senza che però si dovessero mettere al bando i dialetti e le parlate minoritarie (di cui Ascoli fu tra i primi indagatori), ma anzi conservandone l’uso come punto di partenza dell’apprendimento scolastico della lingua (diceva Ascoli) e (aggiungeva Devoto) come riserva naturale di energie espressive per un parlare e scrivere meno inamidato e paludato dell’usuale. Usuale allora, ma ancora anni dopo Italo Calvino diagnosticava il «terrore semantico», il terrore delle efficaci e semplici parole dirette che troviamo nel parlato e nei dialetti, come difetto costitutivo dello scrivere di troppi intellettuali italiani.
Ascoli e Devoto pochi li hanno letti, qualcuno in più ha letto i saggi di Calvino, ma a buon senso, affidandosi istintivamente al fai da te nazionale, se il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano, il 60% conserva, accanto all’uso della lingua comune, la possibilità e abitudine di usare uno dei dialetti, nella vita privata, tra amici e conoscenti.
Ma i dialetti italiani non sono solo questo. Tutti sono la testimonianza viva di un patrimonio di cultura e di tradizioni e, spesso, sono diventati espressione d’arte. E la cultura italiana migliore, Croce come Gramsci, non ha esitato a considerare e ad- ditare come cosa propria, parte di un composito patrimonio unitario, i grandi testimoni delle letterature dialettali, il romanesco Belli come il milanese Porta, e, nel Novecento, Tessa e Noventa, Buttitta e il Pasolini friulano, Pierro e De Filippo, il ligure Firpo e il marchigiano Scataglini. E si potrebbe e dovrebbe continuare.
Del resto, anche su più ampia scala di massa, la fortuna delle canzoni dialettali, tradizionali e recenti o recentissime, le napoletane, milanesi, siciliane, è una fortuna significativamente nazionale. Nessuna grossolanità leghista impedirà di sentire nostre, dalle Alpi e Trieste a Lampedusa, O mia bela Madunina e O suldato innammurato. Paolo Conte ha spiegato bene, una volta, che ritmo e struttura sillabica delle nostre parlate dialettali rispondono meglio dell’italiano alle esigenze non solo della melodia, ma dei ritmi rock.
Molti, non solo genialmente Renzo Arbore, hanno sfruttato questa indicazione. E, canzoni a parte, il toscano Benigni, il napoletano Troisi, il romano Sordi, il milanese Iannacci, a tacere di Fo che ha varcato i confini nazionali, circolano liberamente, senza passaporto regionale, nella nostra comune cultura. Nessun passaporto ha chiesto e chiede nemmeno la nostra prosa letteraria per intarsiarsi di dialettalità lombarda o napoletana o romana o siciliana come hanno fatto Gadda e Pasolini, fanno Mazzucco e Pariani e Starnone. Tutto questo sta dentro il nostro dna comune sia più affinato sia più popolare.
Così l’Italia ci si consegna oggi come un paese capace finalmente di possedere e usare la comune lingua nazionale, ma anche capace d’essere un paese fruttuosamente e marcatamente plurilingue. Oggi sappiamo che il plurilinguismo non è un’eccezione. L’idea che in un’area, entro i confini di un territorio, o nel cervello di un singolo, ci sia e debba esserci un’unica lingua è ampiamente falsificata dagli studi.
A partire dagli anni cinquanta una valorosa e tenace sociolinguista americana, Barbara Grimes, ha avviato e aggiornato il non facile censimento delle lingue vive nel mondo. Oggi ne contiamo settemila, mediamente circa 35 per ogni stato della terra. Lasciando per ora da parte le parlate importate dagli immigrati, che richiedono un’attenzione specifica, con le sue trentasei parlate native (italiano, grandi raggruppamenti di dialetti, lingue di minoranza d’antico insediamento) l’Italia è dunque nella media. Se fa eccezione è per la circolazione nazionale dei patrimoni linguistici locali entro la comune italianità linguistica.
In questo consapevole costituirsi in grande comunità plurilingue ha avuto una parte di rilievo la nostra scuola di base. Ho accennato prima ad Ascoli e Devoto. Ho omesso di dire che le indicazioni ascoliane furono raccolte e tradotte in chiave educativa da un grande filologo, Ernesto Monaci, e un non meno grande pedagogista, Giuseppe Lombardo Radice.
A partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento i loro suggerimenti e le loro esperienze educative sono stati raccolti prima da singoli gruppi di insegnanti, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa, poi, filtrati e coordinati, sono diventati indicazioni di programma e di curricolo nella scuola di base. Il rispetto delle differenze linguistiche e dialettali è diventato pratica ovvia e corrente nella scuola elementare ed è stato certamente non ultimo dei fattori che l’hanno portata a diventare una delle migliori, più efficienti e qualificate del mondo.
Questa consapevole vocazione plurilingue della nostra scuola di base è stata di recente additata a modello esemplare nel recente DERLE-Document européen de référence pour les langues de l’éducation, elaborato da studiosi di vari paesi (non italiani!) entro il Consiglio d’Europa e ora in traduzione in italiano a cura di una associazione di insegnanti e studiosi.
La mediocrità opinante a ruota libera di troppa parte degli interventi giornalistici in materia di educazione e scuola annebbia tra troppi colti e tra i politici la percezione di tutto ciò. E forse neanche educatori e linguisti hanno fatto tutto il possibile per rendere noto che la pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono tentare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa.
Nel mondo antico di cui restiamo sempre debitori furono primi gli Epicurei e poi i primi cristiani, quelli del miracolo della Pentecoste, a capire e insegnare ciò che gli studi moderni confermano: che il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Soltanto un nazista pazzoide, come fu Hitler, o un decerebrato che si rivolga a decerebrati può rovinosamente fantasticare di altre strade.
(1/Continua)
L’italiano e i dialetti /2
Alcol, alcova, assassino
Nella lingua le tracce dell’immigrazione passata
Secondo il linguista un idioma è dato dall’amalgama di tante contaminazioni
Il vocabolario non è un sistema statico. È un insieme dinamico sempre ampliabile
La nostra storia è piena di richiami esterni che si sono cementati nel corso degli anni
di Tullio De Mauro (l’Unità, 01.09.2009)
Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi, l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un sol tempo due lingue diverse.
Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono integrati nell’uso di lingue diverse. Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili in cui si trovano in genere i migranti.
Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico. Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese, nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma. Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo resta.
Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo. È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla una lingua provvede con mezzi interni alla lingua stessa.
Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra, con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri».
Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal sici- liano e dall’italiano comune.
Il prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è una lingua di origine germanica, affine a tede- sco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua. Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e spagnolo.
Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.
Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane, quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc.
La gran maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di peso nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia (la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo luogo, non solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per questa via tra noi come abstract, education o sentimentale.
Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha parlato e parla o scrive l’italiano. Ma nella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come abbandonare,ab-
Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo. Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca, dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale. Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale, auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba.
Dell’amalgama (arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano. (2. Fine)
Napolitano in collegamento con l’astronauta italiano Paolo Nespoli
Linea diretta dal Quirinale
alla stazione internazionale
in orbita intorno alla Terra
ROMA. Linea diretta dallo studio del Quirinale alla stazione internazionale in orbita intorno alla terra: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è collegato, in diretta su Rai Uno con l’astronauta italiano Paolo Nespoli, protagonista della missione spaziale, partita giovedì scorso da Cape Canaveral, nell’ambito del progetto Esperia. Un collegamento, durato oltre 20 minuti, che è diventato un vero botta e risposta tra il presidente e l’astronauta. Ma prima di tutto Napolitano ha voluto rivolgere a Nespoli «il cordiale saluto a nome di tutta la comunità nazionale, siamo consapevoli e orgogliosi della missione che sta svolgendo e di come l’Italia partecipi alla ricerca spaziale».
La missione a cui l’Italia partecipa con l’astronauta Paolo Nespoli, ha aggiunto Napolitano, «è importante dal punto di vista tecnologico e scientifico e per il fatto che il nostro Paese dà il suo contributo con la ricerca spaziale». L’Italia è infatti presente «anche con le sue industrie, con aziende d’avanguardia come l’Alenia Spazio e l’impegno delle Agenzie spaziali italiana ed europea». Nespoli, insieme al comandante della navicella Shuttle Discovery Pamela Melroy, ha risposto a tutte le domande e le curiosità di Napolitano spiegando che il Nodo2 della stazione spaziale è stato costruito a Torino ed è «un vero orgoglio portare un pezzo di Italia nello spazio con un prodotto tutto italiano».
«Sono convinto che il seme piantato dai primi astronauti italiani sarà raccolto - ha osservato Napolitano - e potrà aumentare la partecipazione italiana ad attività connesse con l’esplorazione spaziale. Quando ero giovane io non potevo nemmeno sognare ciò che voi state facendo oggi ma questo non vale per i giovani di oggi». Poi il capo dello Stato ha voluto porre l’accento sul fatto che proprio a bordo della missione spaziale c’è una copia della Costituzione italiana: «È il nostro e il vostro breviario comune». Infine, Napolitano ha voluto augurare «good luck» a Nespoli e a tutto l’equipaggio della missione: «Credo che non abbiate bisogno di auguri particolari perchè siete talmente esperti che non può che essere un successo». E quando Nespoli tornerà sulla terra, tra una settimana, avrà un appuntamento al Colle perché Napolitano l’ha invitato ad andarlo a trovare.
Si inaugura domani sul tema del mare la settimana della lingua italiana
(il manifesto, 21.10.2007)
Sarà il mare il tema intorno a cui ruoterà, a partire da domani, la annuale «Settimana della lingua italiana», manifestazione ideata nel 2001 dal ministero degli esteri nel tentativo, lodevole quanto arduo, di promuovere la conoscenza della nostra lingua in un mondo sempre più dominato dall’anglofonia. Rassegna premiata da un crescente successo, almeno a giudicare dal numero di appuntamenti che in Italia e ancor più all’estero si svolgeranno nei prossimi giorni: oltre milletrecento, disseminati in un centinaio di paesi, grazie all’attività degli istituti di cultura, delle università e delle scuole di lingua che approfittano dell’occasione per organizzare incontri, mostre, proiezioni di video.
Lo sterminato programma prevede fra l’altro una esposizione, «La lingua italiana e il mare», organizzata dall’Università per Stranieri di Siena, viaggio linguistico attraverso le opere dei più grandi scrittori italiani, da Dante a Ariosto a Verga, allestito anche in forma virtuale presso il novantunesimo istituto di cultura italiana inaugurato qualche mese fa su «Second Life». Appartiene invece alla sfera della concretezza il viaggio della nave «Giorgio Cini» che, carica di libri di argomento marittimo («LibridAmare» è il titolo dell’iniziativa), approderà a Trieste dopo avere fatto tappa a Durazzo, Cattaro, Dubrovnik, Spalato e Capodistria e che ha a bordo, in veste di narratore itinerante, lo scrittore Mauro Covacich. Di fronte alla profusione di appuntamenti in calendario (da segnalare ancora la tournée dello spettacolo Mareamaré di Peppe Barra, la mostra Il mare di Salgari in programma negli istituti di cultura di Barcellona e Tunisi e il documentario di Francesco Conversano e Nene Grignaffini Fra il Danubio e il mare dedicato a Claudio Magris), resta tuttavia qualche dubbio sugli effetti a lunga scadenza di questa bulimica «vetrina»: nella quotidianità, infatti, le scuole di lingua italiana all’estero, che facciano capo agli istituti di cultura, alla Società «Dante Alighieri» o alle università, devono molto spesso fare i conti con una mancanza di coordinamento e di fondi, che rende difficile il loro compito.
Proprio al recente congresso della «Dante Alighieri», che si è tenuto a Roma a settembre, la relazione finale ha sottolineato come la promozione della lingua italiana all’estero sia «legata alla capacità da parte dei diversi enti che operano in tal senso di raccordarsi e lavorare insieme» e ha messo in evidenza alcuni problemi prosaici ma non per questo meno urgenti: dai costi proibitivi delle spedizioni dei libri all’estero alla difficoltà di proporre agli allievi materiali autentici audio o video per le restrizioni imposte dai diritti d’autore, fino ai materiali didattici giudicati in molti casi inadeguati a riflettere la costante evoluzione della lingua. Se è vero che l’uscita a cadenza ormai annuale dei dizionari di italiano è dovuta alla tirannia del mercato, altrettanto indubbio è il fatto che la maggior parte dei manuali destinati agli studenti stranieri propongono un modello linguistico assai lontano dall’italiano come lo si parla oggi.
SPAZIO, PARLA ITALIANO L’ESPLORAZIONE EUROPEA DI MARTE
dell’inviata Enrica Battifoglia *
ERFOUD - Parla italiano il programma europeo per l’esplorazione di Marte. Uno dei primi passi decisivi è stata la decisione italiana di partecipare in modo rilevante, con un contributo pari al 40%, alla missione ExoMars, la prima del programma Aurora varato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa) per l’esplorazione di Marte in vista di una missione che riporterà a Terra campioni del suolo e del sottosuolo di Marte e una missione con uomini a bordo per il 2030 e, più in generale, alla ricerca della vita al di fuori della Terra. E quanto sia importante il ruolo dell’Italia è chiaro in questi giorni in Marocco, dove Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e la Scuola internazionale per la ricerca nelle scienze planetarie (Irsps) dell’ università "Gabriele D’Annunzio" di Pescara accompagnano i responsabili del programma Aurora a visitare i siti del Sahara che per le loro caratteristiche sono ideali per simulare le prossime missioni europee su Marte, dall’atterraggio di sonde automatiche al movimento dei rover.
"Per la prima volta nella storia dello spazio europeo l’Italia sta effettivamente svolgendo un ruolo di leader", rileva Simona Di Pippo, responsabile dell’unità di Osservazione dell’Universo dell’Asi e presidente del Comitato di programma dell’Esa per Volo umano, microgravità ed esplorazione. Con il direttore dell’Irsps, Gian Gabriele Ori, si trova nel cuore del Sahara marocchino, a Erfoud, dove si preparano a presentare i luoghi scelti per i test, ossia gli "analoghi marziani", al direttore dei programmi dell’Esa per Volo umano, microgravità ed esplorazione. Affermare la guida italiana in questi test preliminari, cruciali per il successo dell’esplorazione europea di Marte, significa aggiungere una nuova tessera al puzzle che già vede l’Italia un partner di primo piano dell’Esa nella missione ExoMars.
Questo programma, rileva Simona Di Pippo, è guidato nella sua realizzazione industriale dalla Thales Alenia Space Italia ed è italiana la responsabilità del modulo di discesa, del sistema di carotaggio, del sistema di distribuzione dei campioni, che per la prima volta nell’esplorazione di Marte saranno prelevati fino a due metri di profondità. Così come sono italiani il sistema innovativo del paracadute di discesa e il centro di controllo delle operazioni dei rover sulla superficie. "Questo - prosegue - è quanto già acquisito per certo dall’Italia, e nei prossimi mesi saranno assegnate le responsabilità rimanenti. Il ruolo della delegazione italiana e dell’Asi è fondamentale per la definizione e il mantenimento di questa leadership e di questo successo". Adesso, secondo l’esperta, "é il momento di consolidare la leadership" con la realizzazione dei test negli analoghi marziani in Marocco.
Il prossimo passo sul quale scommette l’Italia è, prosegue Simona Di Pippo, riuscire a federare tutti gli analoghi marziani, affidando il loro coordinamento ad una struttura istituita presso il centro dell’Esa che si trova in Italia, a Frascati, l’Esrin. Un obiettivo, questo, coerente con i programmi di rilancio dell’Esrin che l’Italia sta discutendo con l’Esa e che sono state recentemente presentare al ministro per l’Università e la Ricerca, Fabio Mussi. Tra le proposte, aggiunge Di Pippo, "c’é quella di considerare l’Esrin, tramite un centro co-gestito da Asi ed Esa, il cuore di un network di eccellenza dedicato agli analoghi marziani, del quale i test in Marocco sono il fiore all’occhiello per l’Asi".
* ANSA» 2007-08-26 17:46
In dieci anni raddoppiati gli iscritti, nuove cattedre perfino in Alaska e Porto Rico
Ottanta atenei americani hanno una sede anche a Firenze. "Merito di moda e cibo"
Usa, la rivincita dell’italiano
è boom di corsi all’università
dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI *
NEW YORK - "Quando il professore fece l’appello, il primo giorno, tutti si voltarono a guardarmi: il mio cognome era l’unico che non finisse con una vocale". Università della Pennsylvania, anno 1956, Daniel Berger, ebreo newyorkese, è l’unico studente del corso di italiano a non essere figlio di emigranti.
Gli americani fanno studiare ai loro figli il francese, la lingua dei viaggi, della gastronomia raffinata e della cultura, l’italiano è identificato con il dialetto che parlano i muratori, i giardinieri e i camerieri dei ristoranti. Mezzo secolo dopo la nostra lingua si è presa la rivincita, in crescita costante da dieci anni, ora è la quarta più studiata nelle università americane e oltre 60mila ragazzi nel 2006 hanno scelto di seguire un corso di lingua e cultura italiana.
"E’ un momento magico, ci sono cattedre ovunque negli Stati Uniti perfino in Alaska e alle Hawaii, ne sono appena state aperte due a Puerto Rico". Massimo Ciavolella, che guida il dipartimento di italiano all’Università della California a Los Angeles, ha studiato l’evoluzione del fenomeno: "Vedo tre ragioni per questo boom: è sparita l’idea dell’italiano come emigrante, oggi la nostra lingua si è liberata da quell’immaginario ed esprime un’idea di cultura e di stile. Il successo dei prodotti italiani è servito da traino, penso alla moda e al cibo. L’Italia ha cambiato il modo di vestire e di mangiare degli americani e questo li ha conquistati. Infine è rinata la moda del Grand Tour: Più di 80 università americane hanno una sede a Firenze. Per un giovane studente oggi il viaggio in Italia rappresenta una tappa fondamentale di formazione".
La summer school di Columbia University a Venezia, in cui si studiano lingua, architettura e storia dell’arte, non ha più posti disponibili, come ci racconta Francesco Benelli, che nell’ateneo di Manhattan tiene il corso di architettura rinascimentale: "È nata da tre anni ma ha un successo clamoroso, i ragazzi vogliono scoprire l’Italia e questo è estremamente positivo, ma contemporaneamente va segnalata una crisi degli studi specialistici: a New York c’era una tradizione incredibile di studi sul barocco e il rinascimento, ora sono in forte declino".
Il suo collega Nelson Moe, che al Barnard College supervisiona i programmi di chi per un periodo viene in Italia, conferma: "Prima l’italianistica era lo studio approfondito della Divina Commedia, naturale che fosse per pochi, oggi c’è un approccio interdisciplinare che ha conquistato molti studenti: arte, letteratura, cinema, musica e anche la cultura del cibo procedono insieme. L’italiano è vissuto come una lingua polisensoriale capace di aprire le porte al "bello"". Moe non si spaventa, è convinto che il successo figlio anche del boom dei ristoranti, degli stilisti, dei libri di cucina e dei viaggi sia un utile primo passo: "La sfida è conquistare questi studenti per poi portarli a corsi più avanzati".
Negli anni ’60, secondo le statistiche della Modern Language Association, 11mila ragazzi studiavano italiano, nel 1970 erano saliti a 34mila, nel 1998 si supera la soglia dei 40mila iscritti, nel 2004 dei 50mila e lo scorso anno dei 60mila. Tra il ’98 e il 2002, c’è un balzo del 30%, straordinario se comparato alle altre lingue europee, che negli ultimi cinque anni si è consolidato. Ancora nel ’70 il francese la fa da padrone, con 360mila iscritti, poi comincia un declino che oggi ne fa ancora la seconda lingua studiata dietro lo spagnolo (746.000 iscritti) ma a quota 200mila. Al terzo posto c’è il tedesco, che a partire dagli anni ’70 venne identificato come la lingua europea degli affari, ma che oggi ha perso questa caratteristica di idioma indispensabile per il business, lasciando il posto al cinese, che cresce insieme all’arabo.
"Storicamente - spiega Ciavolella, citando la ricerca pensata con Dino De Poli e la Fondazione Cassamarca di Treviso - le cattedre di italiano erano stati aperte soltanto in quelle aree degli Stati Uniti e del Canada dove c’erano i figli degli emigranti, come necessità per lo studio degli italo-americani, oggi non è più così, anche se la maggiore concentrazione resta sulla costa Est". In crescita anche il numero degli iscritti ai master e ai dottorati, si è passati da 925 del ’98 a 1100 oggi, ma siamo sotto la soglia dei 1200 iscritti sopra la quale un programma entra nella classifica federale e ha diritto ad avere finanziamenti e borse di studio.
Oggi non siamo più emigranti, Renzo Piano sta per inaugurare il grattacielo progettato come sede del New York Times, Bulgari lancia la sua sfida a Tiffany con un negozio grande uguale che occupa l’angolo opposto della Quinta strada, un italoamericano come Rudolph Giuliani corre per la presidenza e il vino italiano è al primo posto tra quelli importati, davanti ad Australia e Francia. Daniel Berger adesso lavora a Roma, al ministero dei Beni Culturali, è consulente per il recupero delle opere d’arte trafugate all’estero. Se è in Italia il merito è di quel professore che faceva l’appello cinquant’anni fa: "Si chiamava Domenico Vittorini, al pomeriggio insegnava ai cantanti d’opera la pronuncia e la fonetica, creò in me la passione per la lingua e per farmi migliorare la grammatica ogni giorno nelle vacanze estive mi spediva una lettera con un compito da rimandargli il giorno dopo. Allora ero solo, oggi finalmente l’italiano in America è la lingua della cultura".
* la Repubblica, 23 aprile 2007
Inimmaginabile un mondo senza l’italiano
La società Dante Alighieri pubblica l’annuario 2006
Cresce la richiesta di lingua e cultura italiane nell’Europa Centro-Orientale e nei Balcani *
Roma, 20 dic. (Adnkronos Cultura) - Cresce la richiesta di lingua e cultura italiane nel mondo, in particolare nell’Europa Centro-Orientale e nei Balcani: a dimostrarlo l’Annuario della società Dante Alighieri, giunto alla sua seconda edizione. La pubblicazione, dal titolo “La lingua e la cultura italiane nell’Europa Centro-Orientale”, a cura di Paolo Peluffo e Luca Serianni, prosegue, così, l’indagine avviata nel 2005 sullo stato della lingua e della cultura italiane nel mondo che “ha rappresentato una svolta determinante nel rinnovamento della società Dante Alighieri - ha spiegato Paolo Peluffo, vicepresidente della Società Dante Alighieri, nella prefazione al testo - partita dall’esame dello stato di salute dell’italiano a Malta, nel cuore del Mediterraneo, per proseguire quest’anno con un viaggio ideale nell’Est europeo, un’area che forse più delle altre ha fatto registrare uno straordinario aumento della domanda d’insegnamento della lingua italiana nonostante il lungo periodo di isolamento politico”.
L’Annuario 2006 e il suo viaggio nel “mondo in italiano” si compone di tre parti: “Approfondimenti culturali”; “Analisi e tendenze della lingua e della cultura italiane”; “Europa Centro-Orientale e Balcani: schede paese”. La prima parte presenta, come da tradizione, approfondimenti sulla figura e l’opera di due capisaldi della letteratura italiana: Dante Alighieri che, nei saggi “La relatività di Dante” di Piero Boitani dell’Università La Sapienza di Roma e “Dante linguista: la pantera profumata” di Jacqueline Risset dell’Università degli studi Roma Tre, rivela ancora tutta la sua attualità e l’essenza rivoluzionaria del suo scegliere il volgare al posto del latino; e Giosuè Carducci, padre fondatore della società Dante Alighieri, in vista del centenario del 2007 (“Perché Carducci non va buttato nel cestino” di Lorenzo Tomasin della Scuola Normale Superiore di Pisa e “Creare la nazione: il lavoro di un europeo” di Alberto Casadei dell’Università degli Studi di Pisa). La prima sezione si completa con il saggio di Max Pfister dell’Università di Saabrücken che racconta ai lettori “L’avventurosa storia del ‘Lei’” e, infine, quello di Luca Serianni dell’Accademia dei Lincei e Lucilla Pizzoli, responsabile progetto Museo Lingua Italiana, dal titolo “Il ‘Sì’: un Museo dedicato alla lingua italiana”.
Al centro della seconda parte dell’Annuario 2006, le tendenze della lingua e della cultura italiane vengono fotografate attraverso le originali e interessanti indagini GfK Eurisko sulla parola più bella della lingua italiana e sulle istituzioni scolastiche all’estero, con i relativi approfondimenti, e l’indagine Ipsos sugli italiani e la musica; la sezione comprende anche un utile elenco delle scuole italiane all’estero e l’elenco delle sezioni italiane presso scuole straniere all’estero. Dalle indagini svolte tra le aule delle scuole italiane all’estero emerge un dato significativo che caratterizza la contemporaneità della lingua italiana: se tra gli ambiti da potenziare nell’insegnamento della lingua italiana vi è il cinema, la letteratura e la tecnologia, tra i motivi di interesse per lo studio trionfano il turismo, sì, ma anche gli affari, dimostrando tutta la modernità della richiesta d’insegnamento, una modernità che scavalca le tradizionali preferenze rivolte al patrimonio artistico, poetico e letterario che resta, comunque, apprezzato. Insomma, la lingua italiana sembra inesorabilmente proiettata verso il futuro.
Infine, la terza parte, quella che racchiude il cuore dell’argomento scelto dall’indagine dell’Annuario 2006 della società Dante Alighieri, ovvero “La lingua e la cultura italiane nell’Europa Centro-Orientale”. Quest’anno, infatti, la pubblicazione della Dante Alighieri compie un passo in avanti nel suo viaggio nel mondo in italiano e nell’indagine conoscitiva sulle percezioni rispetto alla lingua italiana e al suo posizionamento nel panorama internazionale, concentrando l’attenzione su un’area specifica del continente europeo che ha visto e vede tuttora un notevole incremento di interesse nei confronti della lingua e della cultura italiane. L’Europa Centro-Orientale e i Balcani vengono indagati, sotto questo punto di vista, attraverso diciassette schede-paese (Austria, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Moldova, Montenegro, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) realizzate grazie alla collaborazione dei comitati locali della “Dante”, delle università locali e degli istituti italiani di cultura, studiosi, accademici dall’Italia e dal mondo. La sezione si chiude con le 134 cartelle dell’appendice statistica e l’elenco delle istituzioni italiane all’estero con tanto di indirizzi.
L’Annuario 2006 si presenta, dunque, come “un viaggio ideale alla scoperta di ciò che pensano all’estero della lingua e della cultura italiana”, come lo ha definito l’ambasciatore Bruno Bottai, presidente della società Dante Alighieri, nella sua presentazione al testo, sottolineando come nell’area presa in considerazione siano in continuo aumento gli studenti che si accostano alla lingua di Dante. “Un impegno oneroso che viene ulteriormente alimentato dai dati riportati su questa seconda edizione dell’Annuario - scrive ancora l’ambasciatore Bottai - in grado di descrivere la crescita di una richiesta linguistica, didattica e culturale a cui la ‘Dante’ non può e non vuole rifiutare un’offerta adeguata”.
Insomma, alla domanda posta nel 2005 dalla società Dante Alighieri attraverso una campagna di spot promozionali, mandati in onda sulla Rai, su Rai International, Sat2000, Sky e La7: “Riuscite ad immaginare un mondo senza l’italiano?”, la risposta sembra scontata, è no. “L’italiano è e resterà sempre uno strumento per comunicare con l’arte e la cultura - è l’opinione del vicepresidente Peluffo che conclude così la sua prefazione all’Annuario 2006 - è un modo di vivere e di pensare e sicuramente molto più di una lingua”.
* ADNKRONS, 20.12.2006
LINGUA ITALIANA: LA PAROLA PIU’ BELLA E’ AMORE PER GLI ABITANTI DEL BELPAESE
Roma, 20 dic.- (Adnkronos) - Non c’e’ dubbio: e’ ’amore’ la parola piu’ bella per gli italiani. E’ quanto emerge da una ricerca di Gfk Eurisko riportata nell’ ’Annuario 2006’ della Dante Alighieri, il piu’ completo vademecum della lingua e cultura italiana, curato da Paolo Peluffo e Luca Serianni.
A indicarla il 22% degli intervistati, soprattutto operai (32%). A grande distanza al secondo posto c’e’ naturalmente ’mamma’, citata dall’8%. Al terzo ’pace’ seguita ad un punto di distanza da ’liberta’’. Tra le altre parole piu’ gettonate anche ’famiglia’, ’amicizia’, ’figli’ e ’felicita’. Nella top ten a pari merito: ’ciao’, ’sole’, ’rispetto’, ’vita’, ’democrazia’ e ’Italia’.
* ADNKRONOS, 20.12.2006
ITALIANO LINGUA UFFICIALE DELLA REPUBBLICA, PRC E LEGA DANNO BATTAGLIA *
ROMA - E’ uno scontro linguistico-politico, quello che sta andando in scena alla Camera. Da un parte i fautori dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica, dall’altra un’inedita alleanza di contrari. Rifondazione Comunista e Lega sono sul piede di guerra contro un progetto di legge volto a introdurre nella Costituzione il riconoscimento dell’italiano come lingua nazionale.
Si tratta di un provvedimento bipartisan, già discusso nella scorsa legislatura, frutto della convergenza tra i due poli con la benedizione dei professori dell’accademia della Crusca, ascoltati qualche settimana fa a Montecitorio. Solo due righe, per integrare l’articolo 12 della Costituzione (quello sul tricolore), con un richiamo all’italiano, "lingua ufficiale della Repubblica".
In commissione tutto è filato liscio. Le proposte dei vari gruppi politici (una di An, un’altra della Margherita, firmata anche dal deputato italo-algerino Fuhad Allam, una del Verde Marco Boato) sono state discusse, accorpate e votate. Ma ecco che in aula, dove oggi è cominciata la discussione sul provvedimento, Lega e Prc hanno fatto risuonare il loro "no".
Una battaglia comune condotta però con ragioni poco conciliabili. Rifondazione Comunista, infatti, teme che la nuova norma serva per rendere più difficile la concessione della cittadinanza italiana agli immigrati. "Una volta che l’italiano viene indicato come idioma ufficiale dalla Costituzione - spiega il deputato Franco Russo - ci vorrà poco a rendere obbligatoria la conoscenza della nostra lingua come requisito obbligatorio per avere la cittadinanza".
Insomma, un grimaldello da usare in chiave anti-immigrazione, facendo leva sulla scarsa conoscenza di condizionali e congiuntivi da parte degli extracomunitari. Poco convinto anche il Pdci, che non condivide troppo le preoccupazioni del partito di Bertinotti ma ha deciso ugualmente di astenersi non giudicando il disegno di legge come una priorità. Di segno ben diverso le obiezioni della Lega. Il Carroccio sostiene che la legge costituzionale "non ha senso", perché è troppo centralista.
"E’ una legge che dà un colpo al federalismo e non riconosce gli idiomi locali", si infervora il deputato Roberto Cota. Il timore è che le lingue locali parlate nelle vallate alpine (franco provenzale, piemontese, walser, tedesco, ladino, friulano, ma anche i vari dialetti lombardi) subiscano un duro colpo dall’ingresso dell’italiano nella Carta Costituzionale. La Lega ha perciò presentato alcuni emendamenti, per inserire nella Costituzione la tutela delle "lingue storiche regionali, costituenti patrimonio culturale della Repubblica".
Anche il Verde Marco Boato si è mostrato sensibile all’argomento e ha presentato un emendamento in cui si dice che la Repubblica "valorizza gli idiomi locali". Soluzione che non convince i rappresentanti delle minoranze linguistiche. Il valdostano Rolando Nicco ha evocato con terrore lo sradicamento del francese nella sua regione, utlimato dal regime fascista "che sfidando il senso del ridicolo ribattezzò Courmayeur Cortemaggiore e fece diventare La Thuile Porta Littoria".
Preoccupazioni di segno opposto sono quelle del deputato di An Teodoro Buontempo: a suo giudizio l’italiano dovrebbe essere considerato lingua ufficiale, senza se e senza ma. E il suo compagno di partito Roberto Menia (friulano doc) ha chiesto di "sacralizzare la lingua italiana". E alla fine, per evitare lo stallo, il presidente della commissione Affari Costituzionali Luciano Violante ha proposto di rinviare l’esame della legge a dopo le vacanze di Natale.
ANSA » 2006-12-12 20:04
Ancora polemiche per l’articolo che dovrebbe inserire la nostra lingua accanto al tricolore. La proposta arriva da un testo unificato di Ulivo e An
L’italiano entra nella Costituzione? Rifondazione e Lega dicono no
Si riapre lo scontro alla Camera, e anche il Pdci annuncia che si asterrà
ROMA - Una proposta di legge basata su di un solo articolo è bastata per scatenare le polemiche in Parlamento. E mettere d’accordo per il no sia Rifondazione che la Lega, seppure con motivazioni opposte. L’articolo della discordia, un testo unificato di 4 proposte di legge venute da An e Ulivo, riguarda la lingua italiana, che si vorrebbe inserire nella Costituzione come lingua ufficiale del Paese. La norma, che andrebbe inserita alla fine dell’articolo 12 della Costituzione, quello che stabilisce che il tricolore è la bandiera della Repubblica, recita così: "L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali".
Sul provvedimento, già proposto nelle precedenti legislature, c’è sempre stato scontro. Già negli anni scorsi il "fronte del no" è stato guidato dalla Lega, che chiedeva con forza la salvaguardia dei dialetti e delle minoranze linguistiche e che nuovamente ripete che la norma sarebbe "centralista". Ora invece, spiegano dal Prc, c’è addirittura il sospetto che si provi a mettere in Costituzione una "gabbia" sull’italiano solo per agganciare la concessione della cittadinanza alla conoscenza della lingua nazionale. Un modo, sostiene il partito di Giordano, per ridurre ulteriormente gli spazi di concessione della cittadinanza agli stranieri.
"I veri convitati di pietra in quest’aula - ha sottolineato Franco Russo di Rifondazione - sono infatti tutti quei cittadini extracomunitari" che chiedono di diventare cittadini italiani. Per la Lega arrivano le dichiarazioni di Angelo Alessandri per cui "un paese saggio guarderebbe al suo passato e saprebbe mantenere e alimentare l’orgoglio della tradizione. Un Parlamento responsabile valorizzerebbe le lingue locali, i dialetti, gli idiomi dei nostri padri. Un Parlamento anormale come il nostro - ha concluso l’esponente della Lega - vuole favorire la lingua araba. Una vergogna".
Contrario anche il Pdci che con il Orazio Licandro, capogruppo in commissione Affari Costituzionali, fa sapere che ci sarà l’astensione perché "in Costituzione vanno tutelati solo i diritti delle minoranze e non quella della maggioranza". Con la questione della tutela delle minoranze linguistiche che non è affatto archiviata. Forza Italia ha presentato un emendamento per chiedere che la norma venga inserita non all’articolo 12, ma al 6: quello che stabilisce come le minoranze linguistiche vengano tutelate dalla Repubblica con apposite norme. Mentre il Carroccio, con Roberto Cota, ha continuato a chiedere con forza la tutela delle lingue "che con legge regionale sono riconosciute come lingue storiche regionali".
Luciano Violante, presidente diessino della commissione Affari Costituzionali, ha cercato di spiegare le ragioni dei due schieramenti: "Nella destra la questione della lingua, così come quelle della nazione e del sangue, fanno parte di un patrimonio ideale che risale alla lettura conservatrice del Risorgimento. Per la sinistra basta citare l’esempio di Pasolini, ha proseguito Violante - che sottolineò con forza la funzione di koinè della lingua italiana, lingua che nasce prima della nazione italiana, e prima dello stato".
(la Repubblica, 12 dicembre 2006)
Un test online e gratis per capire il livello di conoscenza del nostro idioma. Uno dei livelli è un prototipo di come sarebbe il test d’ingresso per gli immigrati
L’Europa gioca con la lingua italiana: è boom di contatti per la Dante Alighieri
Dedicato all’apprendimento dell’Italiano anche il corso di "Metropoli" *
ROMA - Boom di contatti per il sito internet della Società Dante Alighieri che si occupa della diffusione della lingua italiana nel mondo. Motivo: un innovativo test messo a punto dalla società in grado di valutare la propria conoscenza della lingua. "Si tratta di un test preparatorio, un’idea per allinearci con i parametri europei", spiega Alessandro Masi, segretario generale della Dante. Si trova nel sito della Dante Alighieri (www.ladante.it) e consiste in una serie di domande a risposta multipla. Oltre al test, sul sito si trovano lezioni di italiano in video e, a breve, anche laboratori di studio.
"La Comunità Europea ha stabilito una serie di parametri per verificare la conoscenza delle lingue da applicare ai flussi migratori in arrivo. Il livello B1 del nostro sito è perfettamente allineato su quello minimo contemplato dall’Europa". In sintesi quindi, se l’ingresso nel nostro paese fosse subordinato ad un esame di lingua, quel test sarebbe un’ottimo banco di prova.
E non è detto che prima o poi la legislazione italiana non lo imporrà: "Secondo il progetto di riforma della legge sull’immigrazione attualmente in fase di studio al ministero degli Interni, sarà prevista la possibilità di accorciare i 10 anni obbligatori di residenza per ottenere la cittadinanza", aggiunge Masi. Possibilità concessa, a quanto pare, solo previo esame di lingua e cultura.
Secondo i dati raccolti dalla Dante è stata l’Europa dell’Est la zona che ha "giocato" di più con la nostra lingua totalizzando l’81% dei contatti. Una risultato emblematico che testimonia la crescita dell’interesse per il nostro paese da parte della parte orientale del nostro continente. Oltre all’Europa, che ha visto un grande coinvolgimento anche delle zone occidentali, seguono il Sudamerica, gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda.
Molto attivi anche lo Sri Lanka, le Filippine e il Nicaragua, protagonisti di un costante aumento della domanda d’italiano soprattutto a scopo professionale e per una più agevole integrazione in Italia. Per quanto riguarda la scelta del livello degli esercizi, il 67% di contatti è stato registrato per i livelli A1 e A2, seguiti da B1 e B2 con il 19%. Come dire: per gli stranieri, ma anche per noi italiani, è preferibile cominciare dai livelli iniziali.
Il corso di Metropoli. Ma quello della conoscenza della nostra lingua da parte degli stranieri, soprattutto dei cittadini che arrivano nel nostro Paese, è un problema sempre più al centro dell’attenzione. Dedicata al mondo dell’immigrazione c’è l’iniziativa di "Metropoli", supplememnoto a la Repubblica, un corso di undici puntate curato dalla Università per gli stranieri di Siena che accompagna alla preparazione dell’esame per la conoscenza della lingua iutaliana. C’è una parte generale e una destinata a chi lavora nell’assistenza familiare. E i test sono, appunto, propedeutici all’esame.
*(la Repubblica, 12 novembre 2006)
Tra coloro che non sanno leggere e scrivere e chi ha solo licenza media o elementare, oltre la metà della popolazione è in condizione di difficoltà
Quasi sei milioni di analfabeti e il 66% degli italiani è a rischio *
ROMA - Quasi sei milioni di cittadini italiani, il 12% della nostra popolazione (5.981.579 persone per la precisione), sono analfabeti e senza alcun titolo di studio. È quanto emerge da un’inchiesta dell’Università di Castel Sant’Angelo dell’Unla (Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo) sull’arretratezza e gli squilibri educativi nell’Italia di oggi.
La ricerca, che si basa sui dati del censimento Istat del 2001, mostra come i cittadini italiani per quanto riguarda il livello d’istruzione raggiunta formino una "piramide appuntita": in alto, il 7,5% pari a circa 4 milioni, figurano i laureati; subito sotto coloro che hanno frequentato la scuola superiore (il 25,85% della popolazione). Segue la scuola media (30,12%), mentre il 36,52% dei cittadini hanno frequentato solo la scuola elementare. In particolare, questi ultimi due dati sono molto importanti, perché, essendo le licenze media e elementare insufficienti per affacciarsi sul mondo del lavoro di oggi, se aggregati insieme a quelli degli analfabeti totali si arriva alla cifra impressionante di quasi 36 milioni (il 66% della popolazione) di "ana-alfabeti", e cioè del tutto analfabeti o appena alfabeti.
A livello territoriale, poi, nove regioni (Basilicata in testa, poi Calabria, Molise, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Campania, Sardegna, Umbria) si attestano oltre la soglia di allarme dell’8%, calcolata dagli studiosi riguardo alla popolazione senza titolo di studio. Stessa situazione per le città con oltre i 250 mila abitanti: la maggio quantità di "ana-alfabeti" è a Catania, con l’8,4%, seguita da Palermo, Bari e Napoli. A livello mondiale, infine, l’Italia, in base ai dati Ocse 2004, si colloca al terz’ultimo posto nella classifica dei primi trenta paesi più istruiti, seguita solo da Portogallo e Messico.
"Tra il 20 e il 25% di ragazzi e ragazze che escono dalla scuola media inferiore non sa leggere o scrivere, segno inequivocabile che la la scuola dell’obbligo non ha fruttato. Aggredire questa massa significa dare un contributo straordinario al lavoro ordinario della scuola" è il grido d’allarme di Tullio De Mauro, docente di Linguistica all’Università "La Sapienza" di Roma. "L’investimento nella scuola ordinaria - continua De Mauro - deve essere al centro dei nostri pensieri, ma rende dopo anni. L’educazione degli adulti, invece, ritorna immediatamente, e da questo punto di vista è grave la negligenza del governo.
D’accordo anche Sergio Zavoli, giornalista e senatore Ds, che avanza una proposta innovativa: "In un tempo in cui la rivoluzione non è più il cambiamento ma è la velocità di questo, ascoltando questi dati abbiamo appreso che siamo tra i Paesi più attardati rispetto a questo fenomeno. Credo che sia il tempo di realizzare una forte sinergia tra scuola e tv: quest’ultima non solo deve informare, ma comunicare, trasmettere valori. Scuola e tv devono ricostruire un rapporto".
* (la Repubblica, 14 novembre 2005)
ROMA, AL VOTO 155MILA STRANIERI
ROMA - Alle 18 sono stati 13.664 gli extracomunitari, pari all’8,79% dei 155.534 aventi diritto che vivono a Roma per motivi di lavoro o di studio, che oggi hanno votato per rinnovare i consiglieri aggiunti, ovvero i rappresentanti degli stranieri nelle istituzioni cittadine della Capitale, consiglio comunale e municipi. Le urne si chiuderanno alle 22. Degli oltre 13 mila, 6.241 sono uomini e 7.423 donne, che dovranno scegliere 23 candidati: 19 rappresentanti nei consigli dei municipi e quattro in consiglio comunale (uno per ogni continente, Asia e Oceania sono accorpate), ma con una novità: diventeranno cinque se i primi quattro eletti saranno tutti dello stesso sesso a tutela delle pari opportunità.
E’ la seconda volta che i "romani di ogni continente" vanno alle urne: le prime elezioni risalgono al marzo del 2004. Questa volta il Comune di Roma ha scelto una data simbolica per le elezioni poiché il 10 dicembre è la giornata mondiale dei diritti umani e, è stato spiegato, "dare voce istituzionale agli stranieri di Roma è prima di tutto un modo concreto per riconoscere e attuare i loro diritti, sanciti dalla comunità internazionale e dalla Costituzione italiana".
Complessivamente si sono presentati 154 candidati (i più numerosi sono gli asiatici): 41 concorrono per il consiglio comunale e 113 per i municipi. I consiglieri aggiunti in base allo statuto del Comune hanno funzioni consultive, ma possono proporre delibere, ordini del giorno e mozioni. I primi trenta non eletti andranno a costituire la Consulta cittadina delle comunità straniere.
"Mi auguro che governo e maggioranza approvino una legge che consenta il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli immigrati", è l’auspicio espresso oggi dal sindaco di Roma Walter Veltroni che in mattinata è andato a visitare un seggio. "C’é anche la disponibilità del presidente di Alleanza Nazionale su questo tipo di legge - ha ricordato Veltroni - e quindi è un provvedimento che si può votare bipartisan aumentando l’integrazione degli immigrati che vivono e lavorano nelle nostre città. Spero che sia l’ultima volta che si vota con questo tipo di elezione".
ANSA » 2006-12-10 13:00
Corsi di italiano in Moschea Roma. Progetto del ministero della Solidarieta’ sociale
(ANSA) - ROMA, 5 dic - Lezioni di italiano, nella Moschea di Roma per le donne e,al di fuori dell’orario scolastico,per gli alunni stranieri. Sono alcuni fronti sui quali e’ impegnato il ministero della Solidarieta’ sociale per aggiungere mattoni alla costruzione dell’integrazione degli immigrati in Italia. Ne ha parlato il sottosegretario Cristina De Luca durante il suo intervento a un convegno organizzato dal Cnel .’Un grande passo verso l’integrazione’ ha dichiarato la De Luca.
* ANSA » 2006-12-05 15:51
Italiano, lingua franca del Mediterraneo
di Davide Rondoni (Avvenire, 05.12.2006)
Di fronte al flusso dell’immigrazione si fanno molti discorsi. Intanto ci sono quelli che navigano in mare aperto per recuperare barche di disperati. Gente che li accudisce per quel che si riesce. Gente che dà lavoro. Ci sono tanti che "fanno" l’integrazione. Tanti altri, è vero, ne approfittano. Da una parte e dall’altra. Dalla parte di coloro che arrivano, e di coloro che li vedono arrivare. Si parla tanto di integrazione. Di come può avvenire. E su molte cose c’è disaccordo. Su quanti anni servono per diventare cittadini. Su cosa occorre, un lavoro oppure no. Sul tetto da fissare oppure no. Su una cosa però tutti sembrano d’accordo. Che occorre la lingua. Vale a dire che la lingua, la conoscenza della nostra fantastica, difficile e vivissima lingua, è una condizione necessaria.
La lingua di un popolo è il deposito e lo strumento con in cui la tradizione vive, e trasmette i propri valori e le proprie crisi. E’ il profilo dell’anima, il veicolo per comprendere dove si è capitati. Conoscere la lingua di un popolo a cui si decide di appartenere è il primo modo per vivere un passaggio difficile. Tutti d’accordo, dunque. Ma vorrei, proprio per questo, fare alcune domande. Che non vengono da un politico. Né da un sociologo. Ma da uno di coloro che, scrivendo poesie, servono in qualche misura alla vita della lingua, cercando anche di preservarla dalla banalizzazione che la uccide.
Oggi il Cnel e la Società Dante Alighieri presenteranno l’esito di una importante ricerca. Vi si mostrano gli esiti di un lungo lavoro di insegnamento della nostra lingua in paesi da cui proviene l’immigrazione. Un percorso rivolto, dunque, a coloro che sarebbero venuti in Italia. Seguiti dapprima nel loro paese d’origine e anche dopo l’immigrazione. Esistono leggi al proposito, e dunque gli strumenti non mancano.
La Dante Alighieri, meritoria società fondata da Carducci proprio per servire la lingua italiana, con le sue 400 delegazioni in ogni parte del mondo, sta svolgendo un lavoro importante. Anche l’«Indire» (Istituto nazionale per la documentazione e la ricerca educativa) sta affrontando il tema dell’insegnamento dell’italiano all’estero. Però ci sono questioni aperte. Innanzitutto sulla certificazione. Se la conoscenza della lingua è strumento di integrazione, come si fa a certificare che uno conosce l’italiano? E chi ha l’autorità per rilasciare tale certificazione? In altri paesi europei esistono strumenti di questo genere. E, ad esempio, l’ingresso alle università o anche in molti luoghi di lavoro è subordinato al raggiungimento di un certo standard certificato di proprietà della lingua. In Italia no. Esistono ben quattro certificati rilasciati rispettivamente dalla stessa «Dante Alighieri», dall’Università di Roma Tre e da quelle per stranieri di Siena e di Perugia. Forse è meglio ridurli a uno. E poi chi si deve far carico di svolgere questo insegnamento? Oggi, gli immigrati trovano diverse offerte: dai sindacati, da chiese di varia confessione, da istituti di vario genere. E la domanda è, in mancanza di parametri precisi, vaga e legata alle pure necessità contingenti.
Nella sua introduzione al volume curato da Massimo Arcangeli e Alessandro Masi, direttore della Dante Alighieri, Il presidente Napoletano azzarda l’ipotesi che l’italiano possa diventare una sorta di "lingua franca" dell’area del Mediterraneo da cui vengono tanti migranti. E’ un’ipotesi non solo suggestiva. Molti dati la confortano. Ma occorre ora uno scatto. Che è uno scatto d’amore per la nostra lingua, e per ciò che in lei si custodisce e si rinnova. Un grande poeta russo diceva che l’italiano è una lingua piena di affetto. Come un saluto e un bacio, tutta pronunciata verso l’altro. Come una ricchezza disponibile. Dobbiamo saperlo prima di tutto noi.
ANTEPRIMA
Esce il nuovo libro di Beppe Severgnini. Un ironico viaggio all’interno del nostro modo di parlare e scrivere
L’italiano, manuale contro i misfatti verbali
Per riabilitare una lingua bistrattata *
Il congiuntivo è morto, dicono. Omicidio, suicidio o evento accidentale? Nessuna di queste cose. Credo si tratti della conseguenza logica di un fenomeno illogico. Sempre meno italiani, quando parlano, esprimono un dubbio; quasi tutti hanno opinioni categoriche su ogni argomento (vino e viaggi, case e calcio, sesso e sentimenti). Pochi dicono: «Credo che col pesce si possa bere anche il vino rosso». I più affermano: «Credo che col pesce si può bere anche il vino rosso» (poi ordinano Tavernello bianco frizzante).
La crisi del congiuntivo non deriva dalla pigrizia, ma dall’eccesso di certezze. L’affermazione Speravo che portavi il gelato non è solo brutta: è arrogante («Come si permette, questo qui, di venire a cena senza portare il gelato?»). La frase «Speravo (che) portassi il gelato» è invece il risultato di una piccola illusione, cui segue una delusione contenuta e filosofica. Accade, nella vita, che la gente dimentichi di portare il gelato.
Il momento difficile del congiuntivo ha anche una concausa: la fretta con cui scriviamo. Solo così si spiega questo lancio dell’Ansa del 14 giugno 2007, dove si attribuisce ad Al Gore un periodo ipotetico quanto meno avventuroso. «Stiamo di fronte a un’emergenza planetaria - ha spiegato. - La calotta polare potrebbe sparire in 35 anni e se consentissimo che avvenissimo, ci sarebbero conseguenze così incredibili da distruggere le nostre categorie di giudizio».
Ma la crisi del congiuntivo - ripeto - ha un’origine chiara: pochi oggi pensano, credono e ritengono; tutti sanno e affermano. L’assenza di dubbio è una caratteristica della nuova società italiana.Afuria di sentirci dire (dalla pubblicità, dalla televisione, dalla politica) che siamo belli, giusti e simpatici, abbiamo finito per crederci.
Chi esprime cautela (e usa il congiuntivo) rischia di passare per insicuro. Non da oggi, a dire il vero. Ricordo l’esame per diventare giornalista professionista, a Roma. Vivevo a Londra, in quel periodo; e durante la prova orale iniziavo ogni risposta con «Credo che sia...», «Misembra si tratti...» L’esaminatore s’è irritato: «Smetta di dire "credo..." e "mi sembra..." Le cose le sa o non le sa!». Gli ho risposto: «Vivo in un Paese dove dicono I believe... (io credo) anche prima di comunicare l’ora esatta: l’orologio potrebbe essere fermo».
Mi rendo conto d’aver sbagliato. Gli orologi degli scongiuntivati vanno sempre. È la testa, ogni tanto, che si ferma. Qualcuno penserà: allora l’affermazione «Penso che Luca è un somaro» è scorretta! No, è corretta. In questo caso, «io penso» equivale a «io so» (cui segue, ovviamente, l’indicativo). «Penso che Luca sia un somaro» lascia aperta la possibilità che Luca non lo sia. «Penso che Luca è un somaro » smette di essere un’ipotesi, e diventa una constatazione: Luca ha dato prova di tutta la sua somaraggine, e non è più lecito dubitarne.
Chi altri è autorizzato a ignorare il congiuntivo? Vediamo: Dante e Cipputi, per esempio. Inferno, X, 54: «Credo che s’era in ginocchie levata»; XIII, 25: «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse». Paradiso, II, 60: «Credo che fanno i corpi rari e densi»; XXVII, 35: «E tale eclissi credo che ’n ciel fue»; XXXIII, 92: «Credo ch’i’ vidi». L’Italia di Cipputi, pagina 212: «Come classe operaia ci snobbano alla grande, Cip»; «Te l’avevo avvertito, Lambrazzi, che se ci facevano entrare al club era per criticarci i calzini».
La scelta dantesca mi è stata spiegata da Francesco Sabatini dopo una visita alla Crusca: «Le mando uno spiedino di indicativi per congiuntivi nei nostri santi padri: non "sviste", ovviamente, ma cedimenti all’uso parlato, tendente alla semplificazione morfosintattica (che avrebbe fatto altri passi già prima di ora, se l’italiano si fosse diffuso ampiamente per tempo)».
L’abitudine di Cipputi è illustrata invece da Edmondo Berselli nell’introduzione dedicata all’eroe di Altan: «... abbiamo tutti alle spalle questa lingua italiana di fabbriche e di classi popolari, che ricorda le case di ringhiera e i casermoni delle periferie, che distorce e sbaglia i congiuntivi canonici, ma segnala una cultura che ha capito i processi di omologazione della modernità e si rifiuta di accettarli nonostante le lezioni televisive ».
Convincenti entrambi, direi.E, in modi diversi, premonitori . Giorgio De Rienzo, autore di Scioglilingua. Guida alla grammatica italiana (2006), ammette: «L’uso la vince sempre nella lingua: congiuntivi e condizionali avranno vita breve». A questa profezia aggiunge però una preghiera: «Sarebbe bello tentare di resistere per restituire al nostro tempo, tutto proiettato (apparentemente) su ciò che è oggettivo e reale, il molto che è invece soggettivo e possibile». Come dire: il congiuntivo è malato, ma per il funerale c’è tempo.
Ho assistito alla Giornata dell’Orientamento all’Istituto Luca Pacioli di Crema, la mia città (...). Ero in un’aula, seduto dietro al solito banco acquamarina, che è il colore dei ricordi per milioni di noi. Stavano parlando tre ex alunne, ora ventenni: Laura, che lavora in un’assicurazione; Simona e Alessandra, impiegate come programmatrici in azienda.Aun certo punto, sono rimasto di stucco. Laura ha detto: «Non pensavo mi assumessero...». Simona ha spiegato: «Se non avessi studiato qui...». Alessandra ha concluso: «Spero che quello che ho appena detto vi abbia interessato». Sbalorditivo: tre italiane su tre che usavano i congiuntivi.
Ora, io non vorrei sembrare snob, né pedante come i vecchi professori di liceo (che nostalgia; non se ne può più di tutta questa gente interessante). Ma vi assicuro che se quello fosse stato un colloquio di lavoro, le avrei assunte tutt’e tre.
Beppe Severgnini
* Corriere della Sera, 28 agosto 2007
LINGUA ITALIANA: LA DANTE ALIGHIERI PER GLI IMMIGRATI
Roma, 12 giu. (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - Il cammino intrapreso dalla Societa’ Dante Alighieri continua verso obiettivi sempre piu’ ambiziosi. Infatti, ora la societa’ ha iniziato a guardare nell’ambito del fenomeno migratorio con lo scopo di rendere piu’ agevole l’inserimento dei nuovi immigrati nel nostro Paese. Un cammino iniziato con l’organizzazione di corsi di italiano nei luoghi di origine degli stranieri in procinto di giungere in Italia e proseguito con una sempre maggiore diffusione della Certificazione Plida, recentemente ufficializzata anche a Manchester e all’Universita’ messicana di Tlaxcala.
Significativo il caso di Louis Dabo, senegalese, e’ detenuto nella Casa Circondariale di Taranto. Da tempo studia la lingua italiana e da oggi e’ in possesso di un diploma ufficialmente riconosciuto dal Ministero degli Esteri che ne certifica la conoscenza al livello B2 (livello progresso), il quarto sui sei stabiliti dal Consiglio d’Europa nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue e assegnati dalla Certificazione della Societa’ Dante Alighieri.
Intanto la Certificazione proposta dalla ’’Dante’’ e’ entrata, grazie all’impegno del Comitato di Cosenza, Centro Certificatore presieduto da Maria Cristina Parise Martirano, anche nel carcere di Paola, dove cinque detenuti hanno espresso il desiderio di sostenere gli esami finalizzati all’ottenimento del diploma Plida.
Il ministro degli Esteri: "Abbiamo il diritto di veto, anche da soli possiamo opporci"
La commissione ha limitato a tre gli idiomi per limitare i costi delle traduzioni
Frattini a difesa dell’italiano
"Diventi lingua di lavoro nella Ue" *
ROMA - "Se verranno pubblicati bandi o brevetti europei in tre lingue, l’Italia potrà dire di no, anche da sola. Abbiamo anche il diritto di veto...". Il ministro degli Esteri Franco Frattini, si schiera con l’italiano. E risponde così a chi gli chiede che atteggiamento avrebbe il governo davanti a una sempre maggiore applicazione della prassi europea delle tre lingue di lavoro: inglese, francese e tedesco. "L’Italia si sta battendo con forza affinché almeno l’italiano e lo spagnolo siano affiancate a inglese, francese e tedesco come lingue di lavoro nell’Unione europea" dice Frattini.
La limitazione linguistica è legata alla crescita esponenziale dei Paesi membri. La Commssione europea ha circoscritto a tre le lingue di lavoro, mentre al Parlamento non ci sono limiti. E i costi di questa babele di idiomi sono sotto gli occhi di tutti. Circa quattromila interpreti, per un costo stimato in quasi un miliardo di euro all’anno e una media di una settimana per tradurre un documento in tutti gli idiomi. Senza contare il rischio che il diluvio di traduzioni porti alla perdita di informazioni e a differenze tra i vari testi.
Già in passato i governi italiani hanno richiamato i ministri e le istituzioni comunitarie a fare attenzione all’uso dell’italiano nelle riunioni europee. In particolare quelle informali dei consigli dei ministri dove le lingue di lavoro sono l’inglese e il francese, con l’aggiunta della lingua della presidenza di turno. Talvolta, però, viene utilizzato anche il tedesco, come avviene negli incontri periodici dei rappresentanti permanenti dei paesi dell’ Ue. Cosa che l’Italia ha sempre contestato.
Recentemente era stato lo stesso Berlusconi a porre la questione, chiedendo una maggiore attenzione sull’uso dell’italiano nelle riunioni europee. Richiesta a cui il portavoce del commissario europeo al multilinguismo aveva replicato dicendo che la decisione è competenza del Consiglio e della presidenza di turno.
* la Repubblica, 22 luglio 2008.