di Vincenzo Vasile *
Non una parola. L’ira fredda del presidente scende come una coltre sull’ultimo delirio di onnipotenza di Silvio Berlusconi. Schiocca come uno schiaffo il rigoroso «no comment» di Giorgio Napolitano all’assalto del leader del Pdl di fine campagna elettorale. Ma non è solo per evitare interventi in questa fase di incandescente calore politico che Napolitano stavolta ha scelto di tacere. Si può intuire che con il silenzio più gelido si voglia anche in qualche modo sottolineare l’insussistenza e la povertà delle argomentazioni addotte: «... avendo loro il Quirinale... », è già questa premessa di Berlusconi - prima ancora dell’ipotesi che Napolitano si dimetta - che ha fatto saltare la mosca al naso del presidente, inducendolo a rispondere con un altero silenzio.
Un cambio di passo considerevole, rispetto al precedente rapporto tra Colle e Berlusconi, che sinora era apparso generalmente improntato - per volontà di Napolitano - a scongiurare pericoli di rotture e a ricondurre eventuali polemiche nell’alveo delle sottigliezze diplomatiche e dei distinguo. Il senso è che il presidente della Repubblica non degna, insomma, di una sillaba l’ex premier che pretenderebbe di farlo sloggiare dal palazzo più alto della Repubblica in nome di una concezione proprietaria e privatistica delle istituzioni. Quel che doveva essere detto è stato, infatti, già detto, e messo nero su bianco. Anche recentemente. Quando in un forum con la redazione del Tempo Berlusconi si era già lasciato andare a questa tiritera della presidenza appannaggio «dell’altra parte» e al pronostico della condanna conseguente del suo eventuale prossimo governo alle «forche caudine», c’erano state - era il primo aprile - tre-righe-tre di algida e sferzante replica quirinalizia: «La Presidenza della Repubblica - chiunque ne fosse il titolare - ha sempre esercitato una funzione di garanzia nell’ambito delle competenze attribuitele dalla Costituzione senza mai sottoporre a interferenze improprie le decisioni di alcun governo, e considera grave che le si possano attribuire pregiudizi ostili nei confronti di qualsiasi parte politica».
Detto per il passato (in difesa di Ciampi, su cui la solita precisazione di Berlusconi aveva addensato il grosso delle critiche), per il presente, e preventivamente per il futuro. Per chi voglia ripassare il pensiero di Napolitano sulle istituzioni, c’è un testo, anch’esso recente, di riferimento: la nuova prefazione alla sua autobiografia politica ripubblicata da Laterza. Con una certa amarezza, ma prospettando la possibilità di una ritrovata convergenza, Giorgio Napolitano qui rivendica l’iniziale confluenza bipartisan sulla sua candidatura al Quirinale, e rivive il voltafaccia finale del centrodestra: c’era stato - rievoca - un «affidamento» quasi corale sul suo nome, che non si concretizzò nel voto unitario dei due schieramenti, ma che conferma come la sua elezione al Quirinale non sia stata politicamente e istituzionalmente uno strappo. Il 10 maggio 2006 al quarto scrutinio le Camere lo elessero, infatti, presidente della Repubblica, un voto che divise il Parlamento in due parti. Napolitano fu il primo ex pci ad assumere questa carica, ma non ebbe un’investitura unanime. Al primo scrutinio aveva avuto un classico risultato da outsider: 8 voti su 984, al secondo 15 su 973, al terzo 16 su 976, al quarto prevalse con 543 su 990. Eppure il cruccio di una mancata indicazione bipartisan rimane. Anche perché - nel retroscena - la candidatura aveva trovato un appoggio impegnativo dal centrodestra, in particolare con pubbliche dichiarazioni di Fini e di Casini. Eppure all’ultimo momento Berlusconi tolse il timbro della Cdl.
La nuova introduzione del libro riconferma, dunque, la vocazione super partes del capo dello Stato: infatti, Napolitano vi sostiene che sarebbe ben grave l’assenza di un «supremo moderatore e garante di una corretta dialettica istituzionale», eletto dal Parlamento. E l’assimilazione del Capo dello Stato al leader di una maggioranza politica, «investito col voto popolare da una parte del paese in contrapposizione all’altra», finirebbe per «alimentare tensioni incontrollabili nel tessuto istituzionale e nella compagine nazionale». No, non si può, non si deve sostenere che il presidente - anzi la presidenza come la intende napolitano - stia «dall’altra parte». In quel testo il capo dello Stato si diffonde «sull’ardua difficoltà nel perseguire il superamento del clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, instauratosi nei due schieramenti in gara per la guida del paese». E riconferma di avere «la serena coscienza di aver agito secondo lo spirito e la lettera della Costituzione, senza pregiudizi di favore o di sfavore verso chicchessia, senza ombre o tentazioni di faziosità». Per Napolitano «la collocazione del Presidente della Repubblica al di sopra delle parti, al di fuori della contesa politica e delle competenze di governo, comporta naturalmente una sostanziale limitazione dei poteri del Capo dello Stato». Anzi: «È peraltro importante - scrive - che il richiamo all’interesse generale e al comune quadro di riferimento costituzionale si cali nel vivo di quel rapporto con la società che il Capo dello Stato deve saper coltivare: un rapporto di ascolto e di dialogo con la società intesa non solo nelle sue espressioni politiche, ma anche nella così variegata molteplicità delle sue componenti, delle sue forze, delle sue dimensioni. È così che ogni azione di persuasione può aver ragione di molte sordità e risultare efficace».
* l’Unità, Pubblicato il: 10.04.08, Modificato il: 10.04.08 alle ore 8.24
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PECCATO ORIGINALE
di GIORGIO BOCCA (la Repubblica, 11-04-2008)
Il diavolo non c’è. Il Maligno con le corna, la coda e il piede biforcuto non c’è, ma il male, la perfidia, il peccato originale degli uomini, quelli sì che ci sono eterni e incurabili. La prova? La ennesima prova? Il finale di questa campagna elettorale, ciò che si è detto di orrendo e di umiliante per conquistare qualche pugno di voti. La lode di un mafioso, di un assassino da ergastolo, il "soprastante" alle scuderie di Berlusconi Vittorio Mangano. Un eroe, perché, venuto a Milano per conto dei mafiosi, si è rifiutato di collaborare con la legge, con i giudici, ha organizzato persino un attentato dinamitardo nella villa padronale di Arcore.Cinque volte arrestato per assegni a vuoto, truffa, traffico di droga, «testa di ponte della mafia al Nord» come lo definì il giudice Borsellino ucciso dalla mafia. E questo era un eroe?
Sì, per un pugno di voti lo si proclama eroe. L’avidità di potere può far dire a degli uomini che fanno politica, che vogliono rappresentare il bene pubblico, che ogni giorno si presentano come amici e protettori della "gente", che questo sanguinario mafioso è un eroe. Il satana infuocato dalle fiamme infernali che impugna il tridente per infilzare i dannati non c’è, ma la voglia eterna di mentire, sedurre, diffamare, confondere, fa prevalere la menzogna sulla verità, quella sì che c’è, eccome, più forte di ogni pentimento, di ogni riscatto.
Per un pugno di voti il cavaliere di Arcore e i suoi fidati vogliono anche far rinascere il peggio del fascismo, la collaborazione con i nazisti, e nascondere il meglio della nuova democrazia, la guerra di liberazione, i volontari senza cartolina precetto, senza privilegi squadristici. Se vincono, hanno promesso, porteranno a termine il revisionismo della storia, cioè la diffamazione totale, sistematica della guerra popolare. L’Inghilterra celebra la rivoluzione borghese di Cromwell che ha messo fine alla dittatura aristocratica. La Francia unanime festeggia il 14 luglio della rivoluzione, il fondamento della nazione che ha dato al mondo le grandi libertà.
Da noi il leader dell’alleanza moderata non ha mai partecipato a una celebrazione partigiana e ora i suoi fidi promettono il revisionismo totale nei libri di scuola. Chi ha messo a rischio la vita per la libertà è un corrotto, uno che nasconde i suoi delitti. Chi è rimasto dalla parte della "soluzione finale" è una vittima che va risarcita. Anche il capo dello Stato, anche il presidente della Repubblica deve farsi da parte, piegarsi al ricatto dei nuovi moderati, il regalo di una presidenza del Senato alla sinistra. Il demonio di Paolo VI non c’è, e neppure l’inferno dantesco. Ma l’inferno degli uomini c’è e ci segue dalla nascita alla morte.
In serata file davanti ai seggi ma affluenza sempre in calo
Decisivo il risultato in quattro Regioni
Peggio nelle grandi città, meglio nei piccoli comuni. E come sempre la regione in cui si è votato di più e per primi è l’Emilia Romagna dove alle 12 di domenica, secondo i dati del Viminale, ha votato il 22,46% degli aventi diritto. Mentre, come al solito, le regioni dove l’affluenza è stata più bassa sono invece la Calabria con il 10,26% e la Sicilia dove i votanti a mezzogiorno sono stati ancora meno: solo il 10,16%.
L’Election day di questa domenica d’aprile col sole quasi ovunque non ha comunque visto una corsa alle urne in mattinata. Le file ai seggi si sono viste soprattutto dopo le 12, dall’ora di pranzo in poi. Alle 19 l’affluenza per le elezioni politiche è stata del 47,377%, sempre più bassa rispetto alle Politiche del 2006, quando alla stessa ora aveva votato il 51,657% degli aventi diritto. Più bassa per le provinciali è stata del 38,291%, dove però si registra in crescita rispetto a quella registrata nella passata tornata elettorale, che era stata del 30,037%.
Le file sono dovute anche alla lunghezza delle operazioni di voto su cinque e più schede. Si vota infatti, oltre che per il rinnovo di Camera e Senato, in due Regioni - in Sicilia e in Friuli-Venezia Giulia- in 8 province, tra cui quella di Roma, e di 423 comuni, compreso il Campidoglio e nei grandi comuni anche per le circoscrizioni. I seggi del resto sono aperti fino alle 22 e riapriranno lunedì alle 7 per chiudere alle 15.
Alle ore 12 l’affluenza alle urne, per le elezioni riguardanti il rinnovo della Camera dei Deputati, era del 16,35 per cento degli aventi diritto. Nelle precedenti elezioni, alla stessa ora aveva votato il 17,64 per cento degli elettori. Diverso invece il dato dell’ affluenza alle provinciali, dove l’affluenza è stata alle 12 del 14,28 per cento, in aumento rispetto all’11,30 per cento delle precedenti elezioni. Per la Camera - dove votano anche i diciottenni - gli elettori sono 47.126.326 mentre per il Senato (per votare bisogna avere 25 anni) sono 43.133.946, in 61.212 sezioni.
Questi i dati dell’affluenza alle ore 12 regione per regione: Piemonte 16,99%, Valle d’Aosta 18,24%, Lombardia 19,18%, Trentino Alto Adige 18,34%, Veneto 18,68%, Friuli Venezia Giulia 17,97%, Liguria 19,27%, Emilia Romagna 22,46%, Toscana 18,03%, Umbria 16,85%, Marche 16,53%, Lazio 15,77%, Abruzzo 13,13%, Molise 13,63%, Campania 13,68%, Puglia 13,15%, Basilicata 11,52%, Calabria 10,26%, Sicilia 11,38%, Sardegna 13,99%.
Le elezioni voto elezioni elettorali
Secondo i dati ufficiali del Viminale, gli elettori sono per la Camera dei deputati 47.295.978 (di cui 22.688.262 maschi e 24.607.716 femmine), per il Senato della Repubblica 43.257.208 (di cui 20.620.021 maschi e 22.637.187 femmine), che eleggeranno 618 deputati e 309 senatori.
Gli scrutini inizieranno lunedì alla chiusura delle urne per Camera e Senato. Martedì invece si aprono le urne per le amministrative. E tutti i canali televisivi e i siti web si preparano a seguire lo spoglio e gli exit poll con lunghe maratone postelettorali.
* l’Unità, Pubblicato il: 13.04.08, Modificato il: 13.04.08 alle ore 19.53
In corso lo spoglio, affluenza in calo
Proiezioni: Pdl avanti, Senato in bilico
16:52 Senato: risultati con 1.458 sezioni scrutinate
Pdl-Lega-Mpa al 43,054%, Pd-Idv al 42,690%. Sono i risultati delle due coalizioni maggiori al Senato dopo lo scrutinio di 1.458 sezioni su 60.048. L’Udc è al 4,994%, la Sinistra Arcobaleno al 3,513%, La Destra al 2,076%, il Partito Socialista allo 0,767%.
16:44 Prima proiezione della Rai al Senato
Prima proiezione della Rai al Senato sul 32% del campione di Consortium: Pdl 34,9%, Lega 5,8%, Mpa 1%; totale coalizione 43,7%. Pd 33,8%, Idv 5,3%: totale coalizione 39,1%. Tra i partiti indipendenti Udc 5,8%, Sinistra Arcobaleno 4,9%, La Destra 2,4%, Sinistra Critica 1,2%, Partito Socialista 0.8%. Rispetto agli exit poll si registra una crescita del Pdl.
* la Repubblica, 14.04.2008 (parziale - per aggiornamenti cliccare sulla zona rossa).
E’ già domani
di Rossana Rossanda (Il manifesto, 14 aprile 2008)
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Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un’altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell’Europa occidentale s’è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d’una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l’Italia si attesta sugli spalti d’una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l’americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all’interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L’arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d’Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l’astensionismo che oggi significa non l’ennesima protesta ma la prova d’una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.
Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E’ un’urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l’ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s’è sostituito in gran parte dell’elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.
Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E’ fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E’ fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l’altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l’inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell’ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell’umano che è la guerra.
Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall’ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l’altra dal proprio giardino.
Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell’ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l’ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c’è formula in grado di avere un reale impatto.
So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall’interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall’89). Non nell’averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.
Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.
So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c’è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l’amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell’urgenza che ci sta davanti?
Quel che ci ha fatto mettere nell’urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.
Veltroni: «Ora riforme insieme». Telefona a Berlusconi e gli dà atto della vittoria *
Siamo pronti ad affrontare insieme le riforme costituzionali. La chiave per aprire tutte le porte, però, è in mano alla Lega. Walter Veltroni ha telefonato al leader del Pdl Silvio Berlusconi per dargli atto della vittoria. Un risultato chiaro, per il leader del Pd, nel quale il Pdl ha visto calare i propri consensi «rispetto alle forze che lo compongono», mentre c’è «un rafforzamento della Lega». Per Veltroni ora «il Pdl dovrà presto sciogliere il nodo se essere un partito o rimanere un semplice cartello elettorale».
Accolto da un lungo applauso Veltroni è arrivato in sala stampa attorniato dai dirigenti del Pd. Con lui Bettini, Franceschini, Finocchiaro, Fioroni, Fassino. «Come é buona prassi in tutte le democrazie occidentali- dice- ho telefonato al leader del Pdl per dargli atto della vittoria ed esprimere gli auguri di buon lavoro come credo in questo momento ogni italiano debba fare». Commentando la vittoria del Pd Veltroni ha detto che ora «spetta a loro governare e noi ci auguriamo che lo facciano nel rispetto dei valori fondamentali della lettera che ho inviato al leader del Pdl».
* Il Sole-24 ore, 14 aprile 2008
Berlusconi torna a reti unificate: «Anche nel 2006 avevo vinto io...» *
Berlusconi è già a reti unificate. Prima a "Porta a Porta" da un Bruno Vespa raggiante che spinge perché il Cavaliere rimbarchi anche l’Udc di Casini. Poi da Mentana a "Matrix" dopo lo show sulla scheda di venerdì.
I complimenti di sprecano ma Berlusconi preferisce (almeno all’inizio) leggere un messaggio agli italiani. «Sento una grande responsabilità perchè quelli che abbiamo davanti saranno mesi e anni difficili che richiederanno una prova di governo di straordinaria forza e capacità riformatrice. Lavorerò con grande impegno mettendo a frutto la mia esperienza per i prossimi 5 anni, che saranno decisivi per l’ammodernamento del paese».
Ma poi velocemente il messaggio lascia spazio alla demagogia più populista e tornano d’attualità pure i brogli del 2006. «Non posso negare ciò che penso e cioè che le elezioni del 2006 non sono state regolari. Lo prova anche il risultato che abbiamo ottenuto oggi».
Anche la telefonata che il segretario del Pd, Walter Veltroni, sconfitto nelle elezioni, gli ha fatto viene derubricata e da novità politica e formale. «È stata breve e si è conclusa con auguri di buon lavoro nei miei confronti».
Con Casini i segnali sono chiari. «Collaborerò con chiunque vorrà bene del Paese».
Arriva poi l’altra stoccata sul "Porcellum": «La legge elettorale - ha sottolineato - non era così cattiva e in Parlamento avremo pochissimi partiti il chè renderà più veloce l’approvazione di tutte le leggi e questo è un grande risultato per il nostro Paese».
Torna da "unto del Signore": «È accaduto ciò che io da sempre avevo annunciato, tutto ciò che io sono venuto dicendo da oppositore in campagna elettorale si è verificato come sempre...».
E si ritrova, forse inaspettatamente, di nuovo statista a 71 anni. «Ho ricevuto telefonate da capi di Stato e di governo che mi hanno fatto le congratulazioni e abbiamo già fissato appuntamenti per vederci presto e per riprendere quei contatti interrotti con la sinistra al governo», ha concluso.
Berlusconi però lascia aperta la porta alle riforme. «Siamo e restiamo aperti verso l’opposizione - ha detto in diretta telefonica - e ad accettare il loro voto laddove ci sia un provvedimento per l’interesse del Paese. Noi non cambieremo questo atteggiamento che resta aperto, dialogante e assolutamente poco dialettico».
La prima visita da premier per Silvio Berlusconi sarà in Israele. «Olmert mi ha invitato, sarò lietissimo di andare in Israele e dare il mio supporto all’unica democrazia mediorientale», ha spiegato il Cavaliere a "Matrix".
* l’Unità, Pubblicato il: 14.04.08, Modificato il: 14.04.08 alle ore 22.19
Batosta
Per la razza e il portafoglio
di Ida Dominijanni (Il manifesto, 15 aprile 2008)
Non è il ’94, è peggio. Allora, l’illusionista venuto da Arcore aveva dalla sua una mossa e tre trucchi. La mossa era il bipolarismo, creatura partorita in quattro e quattr’otto in un improvvisato menage a tre con Gianfranco Fini e Umberto Bossi. I tre trucchi erano la sua figura da alieno che conquistava il Palazzo con le armate della società antipolitica, il suo contrabbando di sogni e miracoli, la sua bandiera di un nuovo senza passato e senza radici.
Quasi nessuno di quelli che pensavano di intendersene di politica avrebbe puntato una fiche su di lui, ma lui puntò su se stesso e sbancò il tavolo. Stavolta no. L’illusionista aveva perso lo smalto sotto il cerone, l’unica mossa - la proclamazione del Pdl il pomeriggio di una domenica qualunque - l’aveva copiata dal Pd, di alieno non aveva più nulla, invece di sogni e miracoli ha contrabbandato difficoltà e sacrifici con lo sconto del del bollo sul motorino. La novità incarnata tredici anni fa era ampiamente ammuffita, e lui neanche aveva l’aria di puntare tutto su se stesso. Eppure Silvio Berlusconi sbanca di nuovo il tavolo. Al di là di ogni ragionevole previsione e di ogni ponderato sondaggio. E quel ch’è peggio, con uno dei due antichi alleati, Fini, ingoiato nel Pdl, e l’altro, Bossi, redivivo e rinvigorito fuori. Non sarà solo il Popolo delle libertà a governare; sarà il popolo dei fucili e delle ampolle a conferire il colore giusto a quelle libertà. Non è vero che il colore verde della Padania fa a pugni col tricolore dell’Italia. L’una e l’altra possono sventolare assieme - il caso Alitalia l’ha dimostrato - su un localismo separatista dei ricchi che invoca protezionismo statale - altro che liberismo!- a difesa del portafogli e della razza, Berlusconi e Bossi officianti e Tremonti benedicente. E’ l’Italia bellezza, anno di grazia 2008.
L’anomalia del Belpaese persiste in questa forma mostruosa. Non basta l’alternanza dei paesi «normali» a spiegare questo ritorno rinforzato al centrodestra dopo le batoste fiscali del governo di centrosinistra. Nemmeno serve la favola bella del bipartitismo, la nuova creatura partorita da Veltroni e Berlusconi, a leggere la tabella dei risultati, se non parzialmente: non esiste al mondo sistema bipartitico corredato e condizionato da un partito territoriale dell’entità della Lega. Siamo in Italia, i figurini stranieri ci vengono sempre storpiati. Sicché sarà il caso di lasciarli perdere, e decidersi a formulare la domanda decisiva, questa. Che cosa vuole la società italiana dalla politica, da una maggioranza e da un governo? Che idea ha di sé nel presente, e che cosa sogna per sé per il futuro? Che idea ne ha, e che idea le dà, quell’arco di forze che fino a poco fa chiamavamo sinistra e centrosinistra, e che oggi come oggi non ha nome o s’è dato il nome di centro? Se la parte vincente di questa società predica e razzola ricchezza, xenofobia, sicurezza, privilegio, e su questi valori attrae perfino strati consistenti di quella che un tempo si chiamava classe operaia, che cosa le si offre in alternativa oltre che Calearo in lista? E se il rappresentante sommo di questa parte vincente della società santifica come proprio eroe lo stalliere Mangano, che cosa gli contrapponiamo oltre ai puntuali libri di Saviano e ai sacrosanti «vade retro» di Veltroni? E infine, questa società vincente andrà sempre blandita e rincorsa con la ricerca del consenso, o arriverà il momento di metterla alla prova della ruvidezza del conflitto?
Non è il ’94 ma è peggio, perché quello che allora era nuovo e insorgente e naive oggi è solidificato e attrezzato e scaltrito. E quello che allora era un voto in cerca di miracoli, oggi è un voto in cerca di stabilizzazione. E rischia di trovarla, perché anche nell’altra metà del campo ciò che allora era in forse, il destino della sinistra dopo l’89, adesso si va stabilizzando con la sua cancellazione.
Manca solo un tassello, l’archiviazione della Costituzione, il collante della destra tripartita del ’94, senza il quale il suo progetto non può dirsi compiuto, e che già una volta è stato tentato in parlamento e respinto da un referendum. Non chiamiamole, urbanamente, «riforme funzionali», e nessuno persista nel sogno di farle con un accordo civile e a costo zero. La posta in gioco non è un parlamento più snello e un governo più efficiente. E’ il disegno di un’altra Italia, con un’anomalia rovesciata rispetto a quella del secolo scorso,. e confinata in una trappola impermeabile a tutto il buono che c’è nella trasformazione globale di questo. Liberata - se così si può dire - dai vincoli istituzionali e dalle sigle improbabili, la sinistra che c’è, se ancora c’è, metta in moto l’intelligenza e l’inventiva. Sotto le macerie c’è un mondo da scoprire.