LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande!
"IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
* Il Dialogo, Mercoledì, 05 aprile 2006
IL CASO
Berlusconi: chi vota Pd non è coglione
Il Cavaliere sulla battuta del 2006: «La gente di sinistra è in buona fede» *
ROMA. Chi vota Partito democratico «non è un coglione» ma «è in buona fede». Silvio Berlusconi, intervistato dall’ Agi, torna a parlare del famoso epiteto nei confronti degli elettori di sinistra di due anni fa. Il leader del Pdl spiega che «allora le mie parole furono travisate, e io fui costretto a correggerle.».
Berlusconi ricorda che «allora mi trovai all’interno della giunta dell’associazione dei commercianti e, dopo aver ricordato che la sinistra stava per portare in auge l’imposta sulle donazioni e quella sulle successioni, io dissi che non avrei creduto che tra noi ci fossero dei personaggi così coglioni da votare contro il proprio interesse. Questa cosa uscì fuori e la battuta venne attribuita nei confronti di tutti gli elettori della sinistra. Una cosa - sottolinea Berlusconi - che io non mi sono mai permesso nè di fare nè di pensare. La gente che vota a sinistra lo fa in buona fede».
Il Cavaliere sostiene però che oggi «molti elettori di sinistra abbiano cambiato opinione. Possono infatti cambiare pagina dando il proprio voto a chi ha governato cinque anni e che anche sul piano internazionale è stato rispettato».
Berlusconi sottolinea che in cinque anni di governo la Cdl «ha dimostrato che i programmi vengono rispettati, mentre per la sinistra il programma non è altro che uno strumento per prendere il consenso durante la campagna elettorale, per poi metterlo nel cassetto» quando prende il potere.
* La Stampa, 4/4/2008 (16:12)
E’ già domani
di Rossana Rossanda *
.
Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un’altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell’Europa occidentale s’è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d’una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l’Italia si attesta sugli spalti d’una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l’americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all’interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L’arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d’Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l’astensionismo che oggi significa non l’ennesima protesta ma la prova d’una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.
Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E’ un’urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l’ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s’è sostituito in gran parte dell’elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.
Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E’ fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E’ fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l’altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l’inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell’ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell’umano che è la guerra.
Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall’ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l’altra dal proprio giardino.
Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell’ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l’ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c’è formula in grado di avere un reale impatto.
So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall’interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall’89). Non nell’averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.
Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.
So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c’è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l’amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell’urgenza che ci sta davanti?
Quel che ci ha fatto mettere nell’urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.
Il Cavaliere delle due Leghe
di Nicola Tranfaglia *
Alle battute di Umberto Bossi gran capo della Lega Nord sui fucili da imbracciare contro le schede elettorali, dimenticando che sono l’espressione letterale della legge-porcata del senatore leghista Calderoli, ora si aggiungono quelle di Lombardo, leader del movimento per le autonomie che vuole conquistare la Sicilia per conto di Berlusconi.
Le une e le altre sono, più che una battuta, il frutto dell’atteggiamento politico delle due Leghe, quella del Nord e quella del Sud, che usano l’arma del federalismo per annunciare la loro battaglia contro "Roma ladrona" e l’unità d’Italia.
E dimenticano una verità storica fondamentale: è stata la Chiesa cattolica e non altri ad opporsi per molti secolo all’unificazione del regno italico. Peccato che ora i leghisti si aggrappino, come del resto tutta la destra, alla persistente influenza del Vaticano per vincere le elezioni che altrimenti sarebbero appalto di altre e opposte forze politiche. È una delle molte contraddizioni che in queste settimane di campagna elettorale emerge con forza.
Mai come questa volta, il destino del cosiddetto Popolo della libertà che raggruppa Forza Italia e Alleanza Nazionale con l’appoggio della fascista Alessandra Mussolini e di altri piccoli partiti dipende chiaramente dai risultati che la Lega Nord conseguirà soprattutto in Veneto e in Lombardia e da quello che il partito di Lombardo riuscirà ad ottenere in Sicilia cercando di ridurre ai minimi termini la forza residua dell’Unione di centro di Pier Ferdinando Cassini.
Questa volta, insomma, il Cavaliere non potrà negare nulla a Bossi come a Lombardo. Avendo già assorbito Alleanza Nazionale di Fini e tutti gli altri della Destra con l’eccezione di Storace, Berlusconi dipenderà in maniera essenziale dai voti leghisti alla Camera e ancor più al Senato. Non a caso, di fronte ai fucili, si è lasciato prima sfuggire qualche frase sullo stato di salute di Bossi, poi ha dovuto rettificare perché non può correre il rischio di aprire un fronte polemico con l’alleato essenziale.
Avremmo insomma, se Berlusconi diventasse di nuovo presidente del Consiglio, una situazione in cui sarebbe Bossi a consigliargli e poi a pretendere l’uscita dal quadro costituzionale invece di un Casini che, nel quinquennio berlusconiano, ha spinto il pedale, sia pure debolmente, sul piano della moderazione e del rispetto delle istituzioni.
Del resto, nelle parole del capo della Lega Nord, come di quelle di Lombardo, c’è evidente lo spirito della secessione antiunitaria che ha percorso tutta la storia della Lega e che esalta i peggiori egoismi localistici delle regioni ricche economicamente ma arretrate sul piano civile che si è espresso ormai da più di quindici anni nelle piazze come nel parlamento nazionale.
Certo, dal punto di vista mediatico, il ricorso ai fucili e alle marce leghiste sulla capitale fa sensazione e riempie le prime pagine dei giornali e delle televisioni ma non può avere effetti concreti: è come se si giocasse una partita di calcio con i regolamenti da tempo concordati e improvvisamente entrasse in campo una squadra di picchiatori armati di bastoni che vuole risolvere la partita attraverso l’aggressione fisica. In un mondo normale sarebbe cacciata dal campo e probabilmente costretta a non entrare più.
Questo con la Lega non succede, sia perché pochi credono a quel che proclama Bossi, sia perché il partito nordista fa parte dello schieramento di destra che fa capo al Cavaliere. Non è la sinistra radicale, già emarginata dai mezzi di comunicazione, e presentata dalla maggior parte delle televisioni e dei giornali come una forza da uccidere a tutti i costi.
Ma io credo che le battute di Bossi dovrebbero preoccupare di più il governo e le istituzioni perché segnalano una volta ancora la minaccia di alcune forze di destra di passare ai fatti se non si accettano i loro diktat.
In un Paese normale l’offesa alla Costituzione, al Governo, al Parlamento dovrebbe essere condannata da tutte le forze in campo e i colpevoli di questi reati dovrebbero essere puniti e isolati non solo da una parte dello schieramento politico ma da tutti gli altri partiti. Invece questo non è mai avvenuto e non avviene neppure adesso.
* l’Unità, Pubblicato il: 09.04.08, Modificato il: 09.04.08 alle ore 12.51
L’affondo dello «Spiegel». «Berlusconi? Fa solo affari suoi»
di Paolo Soldini *
L’Europa si prepari al peggio, scrive lo Spiegel nell’edizione che sarà in edicola oggi. Per la terza volta la Ue trovarsi con un paese alla cui guida c’è un «miliardario che non è mai riuscito a trovare la differenza tra i propri interessi privati e il bene comune». Si tratta, nota il più importante periodico tedesco, di una prospettiva che «fuori dai confini dell’Italia nessuno riesce a comprendere, così come tante altre cose che accadono in questo meraviglioso paese».
Il giudizio è molto duro. Non solo sul «miliardario», che il settimanale definì nel ’98 «Cavaliere e malvivente» (Ritter und Gauner) riassumendo un giudizio larghissimamente diffuso nell’opinione pubblica della Repubblica federale, ma anche sull’Italia, paese che è «una potenza mondiale estetica» ma lascia affogare Napoli nell’immondizia, che esporta manager di successo ma in cui la mafia è al primo posto dei produttori di reddito. Un paese che, con l’evidente amarezza del tedesco innamorato, l’autore del lungo reportage, Alexander Smoltczyk, sembra condensare tutte queste sue propensioni al disastro preparandosi a scivolare per la terza volta tra le braccia del Gauner. E dando nuova sostanza al vecchio cliché secondo il quale, se gli italiani rispettano i tedeschi ma non li amano, i tedeschi amano gli italiani ma non li rispettano. Non Silvio Berlusconi, in ogni caso, protagonista inquietante dello spettacolo che va in onda nel Paese dei commedianti (Land der Komödianten).
Che l’uomo sia impopolare, dalle Alpi al confine danese, non è certo una novità. Persino dalla Csu bavarese, il partito che dovrebbe essere ideologicamente più vicino a Forza Italia, sono venuti, in passato, giudizi pesanti. L’incredibile sceneggiata al parlamento europeo contro il socialdemocratico Martin Schulz, che Berlusconi (mentre al suo fianco Fini diventava bianco come un cencio) apostrofò come «kapò» di Lager non contribuì a renderlo più simpatico. Meno che mai son piaciuti a Berlino e dintorni i suoi giochi spregiudicati in fatto di proprietà televisive insieme con il tycoon Leo Kirch, accusato et pour cause di essere «il Berlusconi tedesco». La Cdu, a cominciare dalla cancelliera Angela Merkel, pare talvolta più imbarazzata che altro dalla convivenza con gli uomini del Cavaliere nel Ppe al parlamento europeo. Dove li volle - va ricordato - un altro (ex) «antipatizzante» del Ritter und Gauner, un uomo importantissimo e potente che rispondeva al nome di Helmut Josef Michael Kohl. Era la primavera del ’98 e l’ancora (per pochi mesi) cancelliere tedesco nel giro di poche ore cambiò radicalmente idea e atteggiamento nei confronti del petulante candidato italiano, alle cui insistenze aveva sempre risposto di non poter accogliere FI in famiglia perché gli ideali e la figura del suo leader non erano conciliabili «con lo spirito e la tradizione dei popolari e democratici-cristiani europei».
Il repentino mutamento d’opinione coincise con l’inizio del famoso scandalo dei «fondi neri». Kohl fu accusato di aver avuto a disposizione una grossa somma che lui ammise provenire da un «donatore». Del quale non ha mai voluto però fare il nome. Inevitabili, sulla concatenazione degli eventi, chiacchiere e congetture che durano ancor oggi. Senza - va detto - che sia mai stato trovato un qualsiasi elemento di riscontro.
Ma torniamo a Smoltczyk. Nelle cinque pagine del reportage qualche filo di speranza, nonostante tutto, si intravede: l’Italia, che è al settimo posto nell’economia mondiale e il cui governo è caduto «sui problemi di una politica provinciale di Ceppaloni»; che, tolto il Vaticano, ha la classe politica più vecchia, non può permettersi di addormentarsi nella stanchezza. Né può affondare nell’ipocrisia di un partito che candida Totò Cuffaro sotto lo slogan dei «valori che non sono in vendita», nell’impudenza di mettere in lista un fascista che rivendica di essere tale come Ciarrapico. Dalle prime righe del lungo servizio emerge un Walter Veltroni consapevole del fatto che l’Italia è «stanca e malata» a causa di «un sistema inadatto a prendere qualsiasi decisione e ad assumersi responsabilità», ma tutt’altro che rassegnato e molto convinto del proprio «si può fare». Il racconto delle manifestazioni elettorali nel profondo nord, dove è forte la Lega (l’altro fenomeno che insieme con Berlusconi è difficile comprendere fuori dei confini d’Italia) e il profilo di Anna Finocchiaro che accompagna il servizio appaiono, forse anche al di là, del radicale pessimismo dell’amante che non rispetta l’amata, note di speranza.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.04.08, Modificato il: 07.04.08 alle ore 8.13
Il Cavaliere fa appello al capo dello Stato: "Rischio contestazioni a valanga"
Il Quirinale chiede al Viminale di rispondere: "Tutto come deciso dal decreto del 2006"
Berlusconi: ’Schede ingannevoli’
Amato: ’Sono come le hai volute tu’
Il leader del Pdl: "Serviva un nuovo provvedimento, bisogna ristamparle"
La replica del ministro dell’Interno: "Troppo tardi, ma non sono il capo dei furfanti" *
ROMA - Niente politica economica, niente politica estera, niente curricula dei candidati. A una settimana dal voto, a tenere banco nella campagna elettorale non sono stati i programmi e le proposte delle forze politiche, ma la durissima polemica lanciata da Silvio Berlusconi contro il Viminale, colpevole secondo il Cavaliere di aver fatto stampare schede elettorali "confuse" e "ingannevoli" per gli elettori.
A non andare giù al leader del Pdl è il fatto che il foglio abbia uno sviluppo orizzontale su due righe, con simboli di partiti concorrenti sistemati lungo la stessa linea, uno a fianco dell’altro. Berlusconi avrebbe voluto invece una riedizione del sistema dei ’capolinea’, cioè una disposizione in file verticali, con le stesse righe orizzontali condivise solo dai simboli coalizzati. Quello della illeggibilità delle schede è un tema che l’ex premier batte con forza già da diversi giorni, ma oggi ha conquistato prepotentemente il centro della scena con un solenne appello al presidente della Repubblica.
"Rivolgo un appello al Capo dello Stato perché intervenga immediatamente a difesa della credibilità delle istituzioni democratiche e del diritto degli italiani a un regolare svolgimento delle elezioni", ha scritto Berlusconi in una nota, chiarendo che "le forze politiche che si presentano alleate, le più rappresentative degli elettori, rischiano di vedere i loro voti resi nulli da una disposizione dei simboli confusa e che confonde, l’esatto opposto di come dovrebbe essere una scheda elettorale. Con la conseguenza di esporre le prossime elezioni al rischio di innumerevoli contestazioni".
Gesto inconsueto, quello del Cavaliere, che ha motivato la sua mossa spiegando che ripetuti tentativi di sensibilizzare il Viminale al problema sono caduti nel vuoto. "Nonostante le numerose sollecitazioni che da ieri sono state rivolte al governo - ha spiegato - nulla ancora è stato fatto". Da qui, dunque, l’appello a Napolitano, che ha risposto invece in maniera immediata sollecitando con una nota ufficiale il ministro dell’Interno a "fornire tutti i chiarimenti opportuni" sulla conformazione delle schede elettorali.
Cosa che Giuliano Amato non ha potuto esimersi dal fare, convocando in serata una conferenza stampa nella quale ha ribadito di non aver agito "di fantasia". "Trovo sorprendente - ha esordito Amato incontrando i giornalisti - che possa essere stato chiamato a occuparsi della regolarità del voto il capo dello Stato Napolitano e che si sia potuto adombrare che il ministero dell’Interno abbia predisposto le schede in conformità alla propria fantasia". Il responsabile del Viminale ha ricordato quindi che la predisposizione della macchina elettorale "è in conformità della disciplina legislativa vigente e in particolare al decreto dell’8 marzo 2006 che ha la firma di Berlusconi e del mio predecessore al ministero dell’Interno".
A questo punto la polemica tra il leader del Pdl e Amato si è fatta tanto serrata quanto rovente. Pronta è arrivata la replica di Berlusconi per spiegare che visto il quadro politico mutato rispetto a quello delle precedenti elezioni, il governo avrebbe potuto riparare "con un ulteriore successivo decreto che privilegi la comprensibilità della scheda, e la certezza del voto che oggi mi pare non ci sia". Il Cavaliere ha quindi aggiunto che è comunque ancora possibile ristampare tutte le schede.
Nuovamente la risposta dal Viminale non si è fatta attendere. "Modificare oggi, e anche già la scorsa settimana, le schede elettorali - ha affermato il ministro dell’Interno - è impossibile, anche da parte del Parlamento, perché i nostri militari all’estero hanno già votato sulla base delle schede esistenti". Poi dal capo del Viminale è partita una stoccata a Berlusconi. "Trovo giusto - ha detto - che Berlusconi abbia invitato i rappresentanti di lista a stare svegli. Possono capitare, a volte, delle cose che non devono capitare, ma guai a dare un’immagine del nostro Paese che oggi non dà nemmeno lo Zimbabwe".
"Non sono a capo di una banda di furfanti - ha poi aggiunto Amato - e non abbiamo bisogno di essere messi sotto tutela, così come l’Italia non ha bisogno di essere dipinta come un Paese di brogli quotidiani". Una presa di posizione dura, davanti alla quale il Cavaliere ha finalmente tentato di raffreddare i toni. Dopo aver visto le schede elettorali, ha chiarito, "non ho pensato ai brogli, ma alla confusione che si crea in chi deve votare".
* la Repubblica, 5 aprile 2008
Quirinale con vista
di Furio Colombo *
Uno strano evento ha attraversato la settimana politica italiana, con la complicità dei giornali e delle Tv che vi hanno dedicato ampio spazio. Sono stati i colpi violenti, le manate maleducate al portone del Quirinale.
Berlusconi dice di essersi espresso male o di essere stato frainteso, e ha anche smentito, secondo il suo rigoroso modo di operare (la sua Repubblica è fondata sulla smentita). Può anche darsi che gli si debba concedere l’attenuante delle condizioni estenuanti e della difficoltà di condurre - come sta dicendo - una campagna elettorale alla cieca in cui dice e ripete un’unica proposta, anzi una perentoria richiesta: «Datemi il potere, e poi so io che cosa farne».
Però una cosa è chiara e neppure Bonaiuti, l’uomo che, secondo Berlusconi, «nei momenti difficili è sempre in bagno», ma che a noi pare molto efficiente, potrebbe smentire.
Questa cosa è l’affannosa ricerca, da parte dell’uomo di Arcore, non della porta di Palazzo Chigi, ma del portone del Quirinale. La cosa fa differenza persino se non ci si abbandona all’incubo di Berlusconi che torna a governare.
Noi (noi, tutti gli italiani) sappiamo che, governando da primo ministro, Berlusconi ha violato tutte le regole possibili, scritte e non scritte, dalle buone maniere alle missioni impossibili. Ha licenziato giornalisti italiani di aziende che non hanno niente a che fare con i poteri del premier. Ha insultato parlamentari di altri Paesi sia da premier che da ministro degli Esteri ad interim.
Ha inventato una guerra in Iraq che per l’Italia non esisteva (su quella guerra il governo italiano non è mai stato consultato e non ha mai preso parte ad alcuna decisione), con regole di ingaggio che sono costate la vita a soldati italiani privi di protezione. E adesso la Corte dei Conti ci fa sapere che una parte dei soldi destinata alla protezione dei soldati e all’assistenza alla popolazione civile è stata stranamente dirottata su altri bilanci su cui ora la corte sta indagando. Inoltre Berlusconi ha annunciato a raffica cose che non ha neppure cominciato a fare, come i 136 cantieri delle opere pubbliche, il ponte di Messina o la riforma «come un calzino» del ministero degli Esteri.
Adesso pensa al Quirinale. Si dirà che il presidente della Repubblica in Italia non ha poteri. Ma è proprio intorno a questa constatazione che l’incubo “ritorno di Berlusconi” diventa una minaccia istituzionale. Stiamo parlando di un personaggio che, persino in buona fede, e anche a causa del vasto potere personale che gli conferisce la ricchezza e il completo dominio sulle comunicazioni italiane, è interessato al fatto, ma non al diritto. Non al senso giuridico, meno che mai istituzionale, di ogni cosa che fa. È interessato soltanto a ciò che - legale o illegale - va bene per lui.
Un politico tradizionale, anche se di destra, anche se privo di scrupoli, avrebbe agito dietro lo schermo dei suoi apparenti limiti decisionali per raggiungere scopi brutali come la cacciata dei «criminosi» Biagi e Santoro e Luttazzi dalla Rai. E avrebbe raggiunto il non nobile fine della vendetta personale che gli stava a cuore, lasciando cadere altrove le responsabilità della decisione, protetta da uno schermo di forme e di apparenti espedienti procedurali.
Ora fate attenzione. Berlusconi non ci pensa due volte a divellere con le sue mani i paraventi di buone maniere che separano - e mantengono un poco al riparo - la presidenza della Repubblica dalla politica quotidiana e dai suoi colpi a volte clamorosi e volgari.
Sappiamo tutti che quei paraventi sono strumenti fragili che, tuttavia, hanno un compito che conta molto per le istituzioni e per i cittadini. Consentono al Capo dello Stato, proprio perché è un alto simbolo senza potere (o con pochi, limitati ma essenziali poteri come quello di designare il primo ministro o di sciogliere le Camere) di essere una garanzia per tutti, accettata e rispettata da tutti. Si tratta di un carattere difficilmente soppesabile, un po’ come le “divisioni del Papa” su cui faceva osservazioni sarcastiche Stalin. Il Papa, infatti, non aveva divisioni, ma è stato il mondo di Stalin - che di divisioni ne aveva moltissime - a scomparire, non il mondo apparentemente indifeso del Papa.
* * *
Dunque i poteri non giuridicamente definibili, fatti di consenso dal basso e di responsabilità morale dall’alto, hanno un peso molto grande nella vita di un Paese. Per esempio sono un impedimento all’uso eccessivo, squilibrato o arbitrario di coloro che hanno effettivamente una certa dotazione di potere - come i primi ministri - e la usano male.
Ma se Berlusconi sceglie proprio adesso il momento di vendicarsi di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo Azeglio Ciampi, e - in uno strano modo preventivo, che sa di finta lode e di vero avvertimento - di Giorgio Napolitano, c’è una ragione piccola e una ragione grande.
La ragione piccola è che, qualunque sia la buona e consigliabile strategia di una campagna elettorale in cui persino per lui sarebbe bene essere più accorti, gli preme scaricare la sua malevolenza contro coloro che, con grande senso dello Stato, hanno contenuto, limitato o impedito i gesti di una quotidiana prepotenza che sono stati i principali snodi del modo di governare di Berlusconi, dalle leggi personali a quelle per le sue aziende.
In particolare: come può, l’uomo di Mediaset che vuole governare ancora una volta le sue aziende e l’Italia, accettare la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la penosa legge sulle Comunicazioni scritta apposta per lui da un «antemarcia» del Popolo della Libertà, certo Gasparri, che si era arruolato nel Pdl di Berlusconi molto prima che il Pdl esistesse?
La ragione grande, quella a cui gli elettori, anche coloro che non si sentono chiamati dalle proposte e dalle idee del Pd dovrebbe prestare attenzione, è che - se diventasse Presidente della Repubblica - Berlusconi si comporterebbe secondo la sua visione dei fatti totalmente separata dal diritto. Sei al Quirinale, il colle più alto e la magistratura suprema del Paese? E allora che cosa ti importa di quali poteri sono prescritti e previsti e di quali non sono contemplati dalla Costituzione? Prima di me - lui dirà - c’erano politici imbelli dediti alle buone maniere. Lui è fattivo e farà.
Contro un presidente che esorbita esiste - anche nella versione italiana - una sorta di «impeachment». Provate a immaginare di farlo con lui. Primo, dirà che in realtà volete espropriare le sue aziende, che intanto faranno capo direttamente al Quirinale. Secondo, avrà pur sempre abbastanza sostegno, acquisito alle urne o acquistato al mercato della debolezza umana, per impedirlo. Terzo, da capo dello Stato ha diritto alle reti unificate, che sono il suo vero progetto fin da quando ha mandato alle varie Tv italiane quella famosa cassetta preregistrata in cui, con le dovute cautele e trucchi visivi, annunciava la sua «discesa in campo». Se riesce, già adesso, con poche telefonate, a controllare interi consigli di amministrazione di cui non fa parte e a intimidire intere testate giornalistiche in cui non ha investimenti diretti (c’è pur sempre il controllo di tutta la pubblicità) con le reti unificate farà miracoli di governo.
* * *
È importante non dimenticare un aspetto singolare, unico, del trascorso e infausto governo Berlusconi. Ad ogni attacco o anche solo cauta critica sul suo operato o sull’operato del suo governo, l’uomo della libertà mandava a dire che ogni giudizio contro di lui era in realtà un giudizio contro l’Italia. Per ogni polemica sul suo modo di governare evocava il tradimento. E subito si associavano i suoi, nelle Camere e fuori. Infatti, come sanno deputati e senatori del Popolo delle Libertà che, non avendo consentito sul cento per cento di tutto non sono stati ricandidati, gli ordini sono ordini, e dunque non sono ammessi «deviazionismi» di nessun tipo.
Una volta Umberto Eco ha notato che il modo di intendere il potere, il rapporto con il partito e gli elettori di Silvio Berlusconi e la sua pronta e irritata condanna per ogni pur vago dissenso, è l’«ultimo comunismo».
La scorsa settimana, in un memorabile editoriale su la Repubblica, Eugenio Scalfari ha invitato i lettori a riflettere sul pericolo dei «dodici anni di governo» di Silvio Berlusconi, cinque come primo ministro in caso di vittoria alle urne, e sette da presidente della Repubblica. Scalfari implicava, e io mi sento di dire: dittatore a vita. Là dove la dittatura non deve intendersi (sempre) come restrizione personale, alla vecchia maniera. Ma certo gli avversari devono aspettarsi un monitoraggio elettorale stretto. Per esempio la pratica di far spiare dai servizi segreti militari giudici e giornalisti, già sperimentata nel suo ultimo governo, non promette bene. Dittatura vuol dire togliere la parola, salvo Blog e foglietti. Ma intervenire su tutto a reti unificate sarà (sarebbe) il suo capolavoro: un mondo finto come i modellini computerizzati del ponte di Messina, mandati in onda a tutte le ore nei telegiornali italiani in modo da convincere che quel ponte già esiste e chi si oppone è un luddista o un pazzo.
Ma la vera controparte, il vero nemico che Berlusconi governante a vita preferisce è il traditore, l’anti-italiano che cerca di levare la voce del dissenso e tenta di dire la vera storia, opponendosi così - lui dice e dirà - non a lui ma all’Italia.
Qui occorre notare che - dal tempo della «discesa in campo» ad oggi - Berlusconi ha certamente cambiato e aggiornato i suoi modelli. Ai tempi dell’arrivo di Berlusconi da Arcore si vedeva ben disegnata sul fondo l’ombra di Juan Peron.
Tuttora provoca una immensa meraviglia (certo nella cultura politica del mondo) ricordare che l’uomo più vecchio e datato del mondo politico europeo negli anni Novanta, un paleo-monopolista che ha fondato il suo impero su favori di governo e altri favori, senza mai alcun vero debutto sul mercato inteso come concorrenza e sfida dei migliori, è stato visto, anche in Italia, e anche a sinistra, come qualcuno che «ha capito la modernità» e che «porta modernità».
Nel frattempo però è avvenuto un drastico aggiornamento. Il modello adesso è Putin. Non bisogna dimenticare che uno dei suoi più attivi strumenti di denigrazione e di governo, la non dimenticabile commissione Mithrokin, il cui scopo era di dimostrare l’affiliazione di Prodi al KGB, ha agito con personale a pagamento della Russia di Putin, ed è incorso nella disavventura di alcuni non dimenticabili delitti (spaventosi persino in un esagerato serial Tv) come la morte pubblica, per avvelenamento di polonio, della spia Litvinenko, alla presenza del consigliere principale della Commissione parlamentare, certo «Prof. Sgaramella» presentato e retribuito come star della intelligence mondiale e finito in prigione per falso. Falso su tutto. In altre parole, il Paese in cui è stata assassinata per eccesso di libertà la giornalista Olga Politoskaia è, attraverso l’amico Putin, il modello di comportamento del governo Berlusconi, del governo dei dodici anni.
Una presidenza della Repubblica priva di poteri formali è l’ideale per ospitare un potere forte la cui forza dipende dalla ricchezza, dalle aziende, dalla sottomissione dei dipendenti e dei tanti che aspirano a diventare dipendenti. Tutto ciò che è stato detto fin qui sembra motivato esclusivamente da antagonismo politico. Vi prego di rileggere. Noterete che, togliendo l’aggettivazione negativa e i giudizi personali, certo di profondo dissenso e di incolmabile distanza, la storia che ho provato a tratteggiare, non cambia.
Nel futuro desiderato da Berlusconi l’Italia si impantana in una semidittatura fondata sul potere a senso unico della televisione, e servito dalla sottomissione di molti giornali. Il pericolo, oggettivamente, è grande.
* * *
A confronto con questo scenario, che mi pare purtroppo fondato, provo disorientamento e stupore ogni volta che si rinnova - sempre e solo da parte del Pd - l’esortazione, la speranza, o addirittura la preghiera, di fare qualcosa di «bipartisan».
A parte la legge elettorale, che è una disperata urgenza del Paese, una specie di pronto soccorso delle condizioni minime della democrazia, con cui è inimmaginabile che persino gli autori del misfatto (la «porcata» di Calderoli) rifiutino di misurarsi, non si trova traccia di una offerta, o anche solo di uno spiraglio d’apertura a destra, sul «fare insieme». Né si capisce perché si dovrebbe desiderare. A me non risulta che Barack Obama, ma anche la più pragmatica Hillary Clinton, abbiano mai pensato di coinvolgere George W. Bush e i suoi deleteri ideologi in qualche tipo di conferenza comune per il futuro degli Stati Uniti.
Il Congresso americano, come si sa, è spesso «bipartisan». Ma è un Congresso (Camera e Senato) che non ubbidisce agli ordini del Presidente e agisce in piena autonomia. Nessuno, tra loro, avrebbe accettato l’ordine di insultare in pieno Senato una persona come Rita Levi Montalcini, anche perché la grande stampa e Tv di quel Paese non avrebbe aspettato la denuncia indignata di un solo piccolo giornale come l’Unità per darne notizia e giudicare ignobile il fatto. Perché allora in questa Italia, dove Berlusconi insulta ogni giorno Veltroni, e tutti gli altri si occupano di farci credere che Prodi è peggio di Attila, si deve fare ala riverente al passaggio della più stupida idea mai affiorata tra le bravate della destra? L’idea è che i problemi della scuola italiana si risolvono se gli studenti si alzano in piedi quando entra un insegnante. Intitola il Corriere della Sera (2 aprile): «In piedi quando entra il prof. Franceschini apre al Cavaliere». E scrive: «La proposta di Berlusconi sembra avere un appeal bipartisan».
Perché? Nella mia scuola fascista i bambini dovevano alzarsi in piedi quando entrava l’ispettore della razza. Che rapporto c’è fra una proposta così modesta e irrilevante e la vera profonda crisi della nostra scuola, vigorosamente aggravata dalla Moratti? Come dice Crozza, Franceschini, buona sera Franceschini. Non potremmo avere un’idea migliore, e per giunta nostra? Perché ci tormenta il bisogno di dare ragione a Berlusconi, visto che il suo torto verso l’Italia è così grave che ce lo ripetono da ogni angolo del mondo?
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 06.04.08, Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.54
Made in Italy
di TEODORO CHIARELLI (La Stampa, 4/4/2008).
Vino e aerei. E, prima, mozzarelle e spazzatura. Binomi impensabili, accostamenti indigesti. Purtroppo, solo a prima vista. Ad accomunare vicende diverse, ma tutte ugualmente emblematiche, è il pesante riflesso che ognuna ha sul «made in Italy», su quel complesso e inimitabile intreccio fra saper fare, stile di vita, intrapresa e gusto che ha sempre caratterizzato nel mondo il nostro Paese.
La vergognosa gestione della monnezza napoletana, oltre a coprirci di ridicolo dall’Europa agli Stati Uniti, ha finito per compromettere, col suo contorno di inquinamento della catena alimentare, un prodotto tipico e apprezzato anche in Giappone e Corea come la mozzarella di bufala.
I nuovi scandali del vino (la presunta truffa del Brunello di Montalcino «impuro» e la ben più grave vicenda dei 70 milioni di litri di intruglio a base di fertilizzanti, acidi e acqua) si abbattono come una clava su un settore simbolo dell’Italia. Un settore che ha impiegato lunghi anni a farsi perdonare e a far dimenticare lo storia del metanolo. Un lavoro lungo e certosino per affermare nel mondo prodotti di qualità, capaci di competere con i vini francesi, soprattutto, ma anche con gli emergenti cileni, spagnoli, americani. Tutto questo rischia ora di essere messo in crisi, spazzato via, da un manipolo di malviventi avvelenatori. Comprensibile lo stupore e la rabbia registrati al Vinitaly di Verona dove il meglio dell’impresa enologica nazionale mette in mostra i suoi gioielli. Facile dire: «Poche mele marce, non bisogna fare di un’erba un fascio», quando i buoi sono già scappati dalla stalla.
Il fatto è che ancora una volta assistiamo a una classe politica e a una classe dirigente che non hanno voluto o non sono state in grado di vedere per tempo il degrado che avanzava, di cogliere i segnali del malaffare che si allargava. Salvo intervenire, poi, in maniera maldestra e inappropriata. O inopportuna. Persino controproducente. Come nel caso dell’Alitalia. La compagnia di bandiera, uno dei simboli dell’«Italian way of life» nel mondo, negli ultimi quindici anni ha subito un progressivo saccheggio da parte di manager incapaci, sindacati incoscienti e politici rapaci, garantendo stipendi e condizioni contrattuali fuori mercato a piloti e assistenti di volo, «tanto l’Alitalia è dello Stato, mica può fallire». Errore. Il film (telenovela?) al quale stiamo assistendo in questi giorni drammatici ha un finale che va proprio in questa direzione.
A forza di tirare, la corda si è spezzata. E anche l’ultima possibilità di salvezza dell’ormai sgangherata compagnia sembra svanire. A meno di un passo indietro della politica pasticciona - che non poco ha contribuito ad affossare la trattativa con Air France - e della giungla sindacale oltranzista e inconcludente. Il presidente dimissionario di Alitalia, Maurizio Prato, ha detto che ci vorrebbe un esorcista. Un ruolo che si addice a Enrico Letta? Chissà. E in fondo Jean-Cyril Spinetta è uno che non molla, uno a cui non piace perdere. Per il volo della salvezza siamo veramente all’ultima chiamata.
NUOVE IPOTESI SULL’ETIMOLOGIA DEL NOME DEL NOSTRO PAESE
Italia Terra dei tori... o dei bestioni?
La tradizione lega il nostro etnonimo all’antica parola per «toro» («Vitulus», «Italòs») usata da Latini, Umbri e Greci. Ma si affacciano alternative: per alcuni, il significato è tutt’altro (Italia sarebbe la terra «fumante», «l’infuocata»); per altri, la parola vorrebbe sì dire «toro», ma nella lingua degli Etruschi. Che ci chiamavano così per dileggio
di Gian Enrico Manzoni (Avvenire, 13.04.2008)
« L’ Italia non è solo un nome», titolava un editoriale giornalistico dei giorni scorsi, relativo alla presenza del nome dell’Italia nei programmi della campagna elettorale. In effetti, se si tratta solo di un nome che viene evocato di necessità, senza una reale convinzione della ricerca del bene comune, è solo un appello a valori ripetuti e sbandierati, ma non condivisi. Però l’Italia è anche un nome, e il glottologo si interroga sulla sua origine e il suo significato. Diciamo subito che l’origine della parola è avvolta da molti dubbi, e le conclusioni cui i linguisti sono giunti non sono univoche.
Esiste un’etimologia tradizionale, da tempo diffusa, ma accanto a quella vengono avanzate spesso nuove, divergenti (e qualche volta bizzarre) ipotesi. La spiegazione tradizionale connette il nome della nostra penisola al latino vitulus e all’umbro vitlu, che significavano ’vitello’, così come il greco italòs, che voleva dire ’toro’. La lettera viniziale è presto caduta, con un fenomeno che è ben noto anche alla lingua greca, per cui alla fine gli Itali e la loro terra, cioè l’Italia, deriverebbero il nome dai vituli, i vitelli.
In base a tale spiegazione l’Italia è la terra dei vitelli o dei tori, perché secondo gli antichi studiosi come Timeo, Varrone, Gellio e Festo nel nostro territorio questi animali venivano allevati in grande abbondanza. Come si diceva, però, sono state avanzate in epoche diverse nuove spiegazioni, anche del tutto alternative a questa: per esempio Domenico Silvestri una decina di anni or sono ha proposto di collegare il nome dell’Italia alla radice aithalche significava ’fumante, infuocata’. Da Aithal-ia si sarebbe passati gradualmente alla forma Italia, e la spiegazione del nome risiederebbe nelle numerose fornaci di metalli un tempo esistenti nella Magna Grecia; oppure, sosteneva lo studioso, il nome deriverebbe dalla pratica della debbiatura, cioè di bruciare il terreno per poi disboscarlo e predisporlo a una nuova semina. Per l’uno o l’altro dei motivi, o per la somma di entrambi, l’Italia sarebbe la terra fumante, dove si brucia.
In data più recente il linguista Massimo Pittau è ritornato sulla questione, smentendo sia l’ipotesi di Silvestri sia altre nel frattempo avanzate e recuperando la tradizionale etimologia. Ma introducendo nella spiegazione anche un elemento linguistico nuovo, cioè la componente etrusca. L’etrusco è per molti di noi ancora una lingua misteriosa, alternativa a quelle indoeuropee del territorio italico; invece le connessioni lessicali sono frequenti, come è logico che sia accaduto tra parlanti vicini, con frequenti scambi commerciali e sociali tra un territorio e l’altro.
Pensiamo per esempio al nome di Roma, la cui etimologia da tempo viene ricostruita, non certo (come voleva la leggenda) sul nome di Romolo, il mitico fondatore, ma su Rumon, il nome etrusco del Tevere. Pittau ha dei dubbi sull’origine dai vitelli ( vitlu) degli Umbri e dai vituli dei Latini, per via della vocale -u- dei loro nomi, mentre gli Itali e l’Italia hanno la - a-.
Egli valorizza invece la testimonianza dello scrittore greco Apollodoro, che attesta che Pitalòs, il toro, non era parola greca, come sempre si è creduto, ma tirrenica, cioè etrusca. Anche i Sardi primitivi, la cui lingua era forse imparentata con l’etrusco, chiamavano prima dell’arrivo dei Romani bittalu il vitello e il toro: era una parola del tutto collegata con l’italòs degli Etruschi e, con qualche modifica fonetica, anche con il vitlu e il vitulus, che contenevano chiaramente la stessa radice.
Da queste forme, in particolare da quelle etrusche e protosarde, deriverebbero dunque sia l’etnico Itali sia il corònimo (cioè il nome del territorio) Italia. In termini culturali, non deve stupire il fatto che siano stati gli Etruschi a dare il nome di Itali agli antichi abitanti della nostra penisola e di Italia alla loro terra: essi erano a stretto contatto con i popoli della Gallia, del Piceno, dell’Umbria, del Lazio, della Campania, e la loro superiorità economica e culturale favorì l’acculturazione degli Italici vicini.
Se è vera questa ipotesi, che appare certamente convincente, l’Italia era la terra degli italòi, cioè dei tori. Ma vale ancora la giustificazione già data prima, ovvero dell’abbondanza degli allevamenti di bovini? Qui le ipotesi divergono, perché Pittau suggerisce che si potrebbe trattare anche di una forma di dileggio: chiamare tori, come sinonimo di bestioni, i popoli vicini nasceva probabilmente da una volontà di offesa, soprattutto perché espressa da chi si sentiva superiore socialmente e culturalmente. Ma forse non è necessario rincorrere la connotazione negativa ed è meglio attenerci a quanto dicevano gli antichi sulla diffusione di tori e vitelli nei territori dell’antica Italia: che immaginiamo perciò verde di pascoli e ricca di mandrie.
L’Italia di Berlusconi
Autore: Cassano, Franco *
Se si dovesse ridurre ad un nucleo essenziale la filosofia politica del governo Berlusconi, potremmo trovare una sintesi accettabile nella formula « dismissione dei beni pubblici». Precisando però subito dopo che tale espressione, che a prima vista sembrerebbe collocare il governo nel quadro del liberismo internazionale, va intesa ed interpretata con una serie di connotazioni molto particolari e molto italiane.
Infatti, più che ad una liberalizzazione selvaggia ci troviamo di fronte ad un più generale processo di riduzione di tutti i controlli pubblici, alla progressiva, ma continua erosione dell’autorità di ogni soggetto capace di rappresentare gli interessi collettivi e quindi di dettare le regole comuni a tutti. L’erosione dei beni pubblici non è solo una dimensione economico-patrimoniale: essa significa il declino della classe dirigente di un paese, la perdita della sua capacità d’immaginazione politica e di pensare una nozione d’interesse generale e di lungo periodo. Un’idea d’interesse generale vuol dire progettare il futuro, spingere la politica verso una dimensione in cui essa non è semplice riflesso e mediazione degli interessi, ma qualcosa di più, costruzione delle condizioni del progresso dell’intera collettività. Un’idea d’interesse generale del paese vuol dire per esempio non svenderne l’autonomia della politica estera, evitare vassallaggi che si rischia di pagare a caro prezzo.
Quando la politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un’idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole, un paese va incontro al suo declino. Il governo Berlusconi, in modo talvolta furbo e talvolta arrogante, non solo rispecchia tutte le debolezze del paese, ma pensa di usarle a proprio favore, offrendo a drammatici problemi strutturali risposte e rimedi parziali e di breve periodo. Da un certo punto di vista la coalizione che lo rappresenta, pur eterogenea e qualitativamente non di alto profilo, rappresenta in qualche modo il paese. Ma questo rispecchiare il paese (cercheremo di portare qualche esempio) è un rappresentarlo in modo perverso e coincide con la rinuncia a qualsiasi capacità di migliorarlo, con una sorta di resa di fronte ai vizi nazionali e l’abbandono di qualsiasi capacità progettuale.
L’effetto di questo tipo di «governo» è quindi tale da spingere il paese verso un declino forte e drammatico, specialmente se si pensa che, a livello internazionale, il vuoto lasciato da tali debolezze viene riempito dall’iniziativa altrui. 1 momenti migliori dell’era democristiana sono stati quelli in cui quel partito riuscì ad esprimere un’idea d’interesse generale, anche entrando in urto con i settori più chiusi ed arretrati delle classi dirigenti. Ovviamente anche allora questa progettualità spesso finiva per esaurirsi, trasformandosi nella semplice mediazione degli interessi. Ma oggi siamo di fronte ad un dato nuovo, perché si tratta di ben di più che di debolezza dell’azione politica rispetto agli interessi particolari: siamo di fronte ad un’inversione della gerarchia tra essi. Al posto di una politica alta, capace di indicare una strada, gli interessi parziali hanno preso il sopravvento, facendo della dimensione pubblica un luogo che ospita e tutela la loro parzialità.
Il conflitto d’interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio non è quindi un incidente, ma una gigantesca metafora della politica del suo governo. Non dallo Stato al mercato, ma dallo Stato al privato, e soprattutto ad un privato ben poco competitivo, molto protetto e spesso clientelare. [...]
* Ecco chi ci governa, più forte di prima, in un lucido ritratto di quattro anni fa. Da Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004 (www.eddyburg.it, 15.04.2008)