[...] in Italia nessuna sconfitta è mai definitiva. Specialmente con questa legge elettorale, che toglie agli elettori ogni potere sugli eletti. Decidono loro, i capibranco, i signori dei partiti; e decidono in base alla ferrea regola della cooptazione. Significa che promuovono se stessi, o al più i loro maggiordomi. Poi capita talvolta che non si mettano d’accordo (gli oligarchi sono molto suscettibili); e allora smembrano le truppe, vanno in sartoria a cucirsi una divisa tutta nuova, la indossano insieme ai propri soldatini. Ma le parole no, quelle sono sempre uguali, come le bocche che gli danno fiato [...]
di MICHELE AINIS La Stampa, 19/8/2010
Un personaggio segnato dalle rughe s’aggira fra i palazzi del potere. Non ha un nome, benché in gioventù ebbe un nome altisonante. Non ha una carica, o almeno non così solenne come quelle che rivestì in passato. Non ha più lustro, né energie per lustrare la sua targa d’ottone. Tuttavia non si contenta affatto dei ricordi. No: traffica, cospira, confabula, almanacca, e in conclusione non esce mai di scena. È l’ex.
La politica italiana trabocca di questi pluridecorati, perennemente a caccia di trofei per rimpolpare il proprio medagliere. E non c’è troppa differenza fra sinistra e destra, fra estremisti e moderati. Pensateci: con chi deve vedersela tutti i santi giorni il segretario del Pd Bersani? Con gli ex segretari D’Alema, Franceschini, Veltroni. Tutti lì, ancora e sempre in prima fila. Ma d’altronde quel partito ha affidato il Dipartimento Riforme all’ex presidente della Camera Violante, nonché ex magistrato, ex docente, ex parlamentare, ex capogruppo, ex presidente dell’Antimafia. Siccome di riforme non ne parla più nessuno, almeno in questo caso la poltrona dell’ex è un’ex poltrona.
E a destra? Solo per citare le figure più eminenti, ci trovi per esempio Fabrizio Cicchitto, già deputato e senatore socialista. O Giulio Tremonti, che fin qui ha girato il Psi, Alleanza democratica, il Patto Segni, la Federazione liberaldemocratica, Forza Italia, il Pdl. Senza dire del centro, dove il riciclo è come l’usato garantito. Tanto per dire, la nuova formazione politica fondata da Rutelli (Alleanza per l’Italia) è la sua quinta creatura.
Infatti, il fondatore è stato via via eletto in Parlamento con i Radicali, i Verdi arcobaleno, la Margherita, il Pd, mentre adesso rappresenta per l’appunto l’Api.
È la tragedia dell’Italia: un Paese immobile, come le sue classi dirigenti. Al più cambiano le sigle, mai le facce. È anche il fallimento della seconda Repubblica, che nei primi Anni Novanta aveva allevato la speranza d’un ricambio generazionale. Ci guadagnò una rispettabile pensione Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 26 volte ministro. Esordirono in politica uomini nuovi, a partire da Silvio Berlusconi. Dopo quasi vent’anni, dopo cinque elezioni vinte o perse, anche lui è diventato un ex. Ma la sua età rimane in media con quella della classe politica italiana: secondo il Rapporto Luiss 2008 il 60% ha più di settant’anni, mentre nella Penisola iberica lo stesso dato s’arresta al 4,3%. D’altronde in Spagna Aznar e Zapatero avevano entrambi quarant’anni, quando ottennero le chiavi del governo. E il primo ha lasciato la politica dopo una sconfitta elettorale, al pari di John Major, Tony Blair, Michail Gorbaciov, Al Gore, Carl Bildt. Tutti cinquantenni, mica vecchi come il cucco.
Ma in Italia nessuna sconfitta è mai definitiva. Specialmente con questa legge elettorale, che toglie agli elettori ogni potere sugli eletti. Decidono loro, i capibranco, i signori dei partiti; e decidono in base alla ferrea regola della cooptazione. Significa che promuovono se stessi, o al più i loro maggiordomi. Poi capita talvolta che non si mettano d’accordo (gli oligarchi sono molto suscettibili); e allora smembrano le truppe, vanno in sartoria a cucirsi una divisa tutta nuova, la indossano insieme ai propri soldatini. Ma le parole no, quelle sono sempre uguali, come le bocche che gli danno fiato.
Sarà probabilmente questo lo scenario che ci consegneranno le prossime elezioni: qualche nuovo partito, nessuna faccia nuova. Eppure c’è una volontà di cambiamento in giro per l’Italia, un senso di stanchezza per le litanie e le risse di palazzo, la voglia di respirare un vento fresco, anche a costo di buscarsi un raffreddore. La politica, invece, spranga le finestre. Tuttavia stavolta non potrà arricciare il naso se gli italiani, chiamati a celebrare il trionfo dell’ex, trasformeranno il loro voto in un ex voto.
Sovranità popolare in salsa di destra
I politici del Pdl guardano alla Costituzione come ad una varia ed eventuale da mettere all’ultimo posto. Al primo, naturalmente, c’è l’elettorato. Sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria è risibile. Semmai a dominare sono lo sfinimento e il disgusto per la politica
di CARLO GALLI *
"Troppe cose mi ricordano il ’93, la stagione dei governi tecnici. Dovremo stare attenti prima di aprire una crisi. Stanno facendo di tutto per rendermi ogni cosa difficile". Allarga le braccia, sbuffa. Silvio Berlusconi si sente accerchiato da un nemico invisibile. Chi lo ha visto o anche chi lo ha ascoltato al telefono, ha colto nel premier lo stato d’animo di chi si sente sotto assedio: pronto alla battaglia ma cosciente dei tanti ostacoli che si frappongono da qui alle elezioni anticipate. Mentre i politici di destra, anzi il popolo della libertà, guardano alla Costituzione come si conviene: come a una varia ed eventuale, da mettere all’ultimo posto nell’ordine del giorno della politica. Al primo, naturalmente, la sovranità del popolo.
Questa è la nuova linea che emerge dai comunicati con cui i capigruppo parlamentari della maggioranza hanno risposto alla durissima e ultimativa nota del Quirinale; una linea che consiste nell’ammettere a denti stretti che il potere di scioglimento delle Camere è del Capo dello Stato e non del Presidente del Consiglio, e al tempo stesso nel ribadire che egli se ne deve servire come vuole la destra, cioè nell’eventualità di una crisi di governo deve ricorrervi in pratica automaticamente. E ciò per non tradire e per non vanificare il nuovo assetto politico generato dalle leggi elettorali susseguitesi dal 1993 a oggi; che avrebbe dato vita a una democrazia presidenziale e non parlamentare, e a una nuova modalità d’espressione della sovranità popolare: non più rappresentata nel Parlamento ma incarnata in un leader e in un Verbo: il programma.
Questa ennesima contrapposizione tra popolo (con la sua voce univoca e tonante) e Palazzo (con i suoi intrighi), tra forma e sostanza - indice di una sbrigativa e qualunquistica idiosincrasia per regole e istituzioni, la stessa che proclama la ‘politica del fare’ (ma, appunto, la proclama soltanto) -, si presenta insomma come un pensiero politico, in quanto tale legittimo, che pretende però di avere efficacia costituzionale fin da subito. Il che legittimo non è, perché fra le procedure di riforma della Costituzione non è prevista la legge elettorale. Che infatti non innova proprio nulla per quanto riguarda la forma della repubblica, che continua a essere - anche se sulla scheda con cui si vota è indicato il nome di un politico - una democrazia parlamentare, e non una democrazia elettorale o plebiscitaria.
Il che significa - occorre ricordarlo perché non si tratta di forma, ma di sostanza - che con le elezioni si eleggono le Camere, non il governo; che questo non è un organo sovrano che tragga legittimazione dal popolo, ma un organo esecutivo legittimato, col voto di fiducia, dal parlamento; che rappresenta, questo sì, la sovranità popolare, e che ne è l’unica espressione legale. E quindi chi ha vinto le elezioni è un partito che ha la maggioranza alla Camera e al Senato, e non un uomo politico nominato premier a furor di popolo; e che se il partito maggioritario perde pezzi - evento anch’esso legittimo, perché i deputati e i senatori sono eletti senza vincolo di mandato, e quindi non sono tenuti, finché sono in carica, ad alcuna ‘fedeltà’ - il Capo dello Stato ha la piena e totale libertà di esplorare se ci sono nelle Camere maggioranze alternative a quella che ha vinto le elezioni, e che non c’è più: la questione non è di legittimità, ma solo di praticabilità politica dell’operazione. Ora, contrapporre a questa che è l’unica interpretazione possibile della Costituzione la volontà del popolo sovrano, che, ove non fosse riconosciuta si dovrebbe manifestare nelle piazze, non è altro che invocare la rivoluzione, cioè evocare la suprema energia politica che un popolo può esprimere, per travolgere l’ordinamento costituito con la forza irresistibile del suo potere costituente - senza ricorrere a esempi lontani e sanguinosi, qualcosa di simile ai movimenti di massa che hanno provocato il crollo del Muro di Berlino -. Ma sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria, al di là della retorica leghista (peraltro subito rientrata), è quanto meno risibile: semmai, a dominare, non a caso, sono l’apatia politica, lo sfinimento, lo sgomento, il disgusto per la politica.
Dunque, se né la Costituzione né la situazione politica reale supportano le posizioni della destra, queste vanno considerate momenti tattici di spregiudicata intimidazione istituzionale - presumibilmente arginata, almeno per ora, - e, ancor più, forme di un discorso politico demagogico, volto a far passare nell’opinione pubblica la tesi che l’Italia è già ora una repubblica presidenziale-plebiscitaria, per poter presentare esplicitamente questo tema nel programma elettorale delle elezioni anticipate (auspicate come prossime). Questa finalità mediatico-manipolatoria - che solletica l’antiparlamentarismo qualunquistico dei cittadini, agitando fantasmi di congiure di Palazzo - la dice lunga su che cosa sia la sovranità popolare in salsa di destra: il popolo che dovrebbe imporre la propria volontà è in verità una sorta di sovrano immaginario, un corpo scosso da manipolazioni mediatiche e da una overdose ideologica di propaganda populistica; o, se si vuole, un fantasma polemico da utilizzare in tempi agitati, destinato a esprimere la propria sovranità non nella dialettica del parlamento ma nella voce e negli atti di un Capo che, solo, la rappresenta.
Sostituire le istituzioni con la propaganda, la democrazia col populismo, il parlamento col governo, è - questo sì - un sommovimento di vertice che avviene nella stagnazione e nella strumentalizzazione dei cittadini. Assomiglia anzi a quella che si definiva, un tempo, ‘rivoluzione passiva’, di cui costituisce la variante post-moderna.
* la Repubblica, 19 agosto 2010