[...] i cattolici italiani devono ripensare radicalmente il rapporto tra politica e società civile, di cui si sentono a ragione parte rilevante. Non possono limitarsi a scaricare la responsabilità sulla cattiva politica del presente. Una schietta autocritica sulla loro esperienza dell’ultimo quindicennio è la premessa per ricominciare con maggiore coerenza e credibilità. La società civile ha bisogno della politica [...]
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 22/8/2010)
Il mondo cattolico è turbato, la Chiesa è perplessa davanti al penoso spettacolo della politica. Ma quale mondo cattolico, quale Chiesa? Quelli che una volta si chiamavano cattolici democratici o «di base», diffamati come catto-comunisti perché avevano sempre sulla bocca «il sociale»?
O l’inossidabile Cl, che ancora oggi all’inizio del suo Meeting annuale, critica con toni perentori e con buoni argomenti la classe politica italiana come se le fosse estranea e non avesse da anni intensi legami con essa? Entrambi i raggruppamenti, anche se in Cl non ho visto sinora alcun cenno di autocritica da parte dei loro uomini che sono (stati) oggettivamente organici al berlusconismo.
Immagino subito l’obiezione: perché parlate di queste volgarità quando il nostro sguardo di fede punta in alto? I politici che interverranno anche quest’anno al Meeting, avranno davanti a sé una platea il cui applauso non esclude affatto il rimprovero per ciò che non è stato fatto o è stato fatto male. Peccato che sono decenni che questo scambio di critiche con simpatia si ripete con modesto risultato. Sono passati da Rimini tutti i politici che contano (nell’anno in corso), senza che la politica italiana sia migliorata. Anzi. Proprio oggi che la sinistra e il suo deprecabile laicismo sono ridotti all’impotenza politica, sembra che si sia toccato il fondo - lo dicono sia su «Famiglia cristiana» che nel Meeting di Cl.
Ma a questi cattolici, giustamente preoccupati per la politica, non viene il dubbio che occorre una diagnosi più esigente magari con un po’ più di autocritica? Che la soluzione vincente non è certo quella di rimpastare i cocci di un vecchio centro? O farsi tentare da una nuova formazione politica che fa della questione bioetica l’asse trasversale tra i due schieramenti? «La società italiana finora è riuscita a rigenerarsi indipendentemente dal potere. Ma quanto può reggere con una politica così distante, livida, ideologica?» - si chiede il responsabile di Cl.
Credo che la diagnosi debba essere più radicale e impietosa: è la società civile italiana che è allo sbaraglio e in pieno disorientamento. Molte patologie sociali (assenza di senso civico e di senso di appartenenza ad una comunità nazionale, complicità di molti gruppi sociali e di aree regionali con la criminalità organizzata, lassismo generalizzato verso le leggi, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono da fuori, dalla politica, ma dal ventre della società civile priva di anticorpi morali. Non si tratta naturalmente di negare l’esistenza di gruppi, settori e strati di «società civile» che reagiscono, che sono attivi per realizzare una democrazia decente. Certamente in prima fila ci sono i gruppi cattolici. Ma è il loro rapporto con la politica che è fallito. Questo è il punto. Altrimenti non sarebbe venuto fuori il berlusconismo che ha sedotto molti cattolici.
La leadership carismatica, che oggi si mette sotto accusa, non è un disvalore in sé (magari ci fossero in giro autentici leader carismatici!). Distruttiva è la sua costruzione fasulla attraverso il sistema mediatico, attraverso la disgregazione della comunità dei cittadini in un «popolo-di-elettori» che agisce in senso plebiscitario. La democrazia si è ridotta alla manifestazione del voto che delega tutto al leader. Più le differenze materiali di classe si confondono nella complessità delle fonti di reddito e delle (spesso precarie) posizioni di lavoro, più le differenze si mimetizzano nella pluralità degli stili di vita e di consumo - più si crea la finzione di un «popolo» unito che fa coincidere i suoi interessi con quelli (privati) del leader. Non c’entra il carisma, ma la complicità degli interessi.
Ancora più drammatica è l’assenza di una classe dirigente, che sia degna di questo nome. Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana, creando un ceto politico chiamato solo a sanzionare (con il voto parlamentare) le decisioni del leader senza essere coinvolto nei processi deliberativi. Un ceto politico siffatto non è «dirigente» ma solo esecutore.
Ma dov’è la restante classe dirigente del Paese? La classe cui appartengono i responsabili dell’economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del sistema mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali). Dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata l’etica pubblica che sembra tuttavia essere in grado di mobilitare le coscienze soltanto quando si tratta delle questioni attinenti «la vita». Tutti i gruppi che costituiscono la classe dirigente sembrano appiattiti, intimiditi talvolta deferenti davanti al potente leader mediatico. Ma sono sottilmente suoi complici quando alla politica chiedono soltanto aiuti particolari, facilitazioni, concessioni, deroghe e sanatorie anziché un grande disegno di carattere generale. È su questo sfondo che i cattolici italiani devono ripensare radicalmente il rapporto tra politica e società civile, di cui si sentono a ragione parte rilevante. Non possono limitarsi a scaricare la responsabilità sulla cattiva politica del presente. Una schietta autocritica sulla loro esperienza dell’ultimo quindicennio è la premessa per ricominciare con maggiore coerenza e credibilità. La società civile ha bisogno della politica.
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
"Giusto accogliere diversità umane"
Il Papa in difesa dell’immigrazione
Salutando i pellegrini alla celebrazione a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha ricordato, in francese, come appartenga al messaggio cristiano l’accoglienza verso genti di tutte le nazioni. La scelta della lingua fa pensare a un riferimento indiretto alle espulsioni dei rom decise dal governo Sarkozy
"Giusto accogliere diversità umane" Il Papa in difesa dell’immigrazione Papa Benedetto XVI
CASTEL GANDOLFO (ROMA) - Un Angelus con un messaggio molto chiaro: è sbagliato emarginare i più deboli, è doveroso accogliere chi ha bisogno di una mano. Perché "Dio abbassa i superbi e i potenti di questo mondo e innalza gli umili".
Benedetto XVI ha commentato l’odierna festa liturgica della Regalità di Maria schierandosi a favore dell’immigrazione, in chiaro riferimento alle polemiche degli ultimi giorni.
Salutando i pellegrini di lingua francese presenti alla celebrazione a Castel Gandolfo, il Papa ha ricordato come appartenga al messaggio cristiano l’accoglienza verso le genti di tutte le nazioni e di tutte le culture, e quindi verso "le legittime diversità umane".
La scelta di pronunciare in francese l’invito al momento dei saluti ha fatto pensare che Benedetto XVI potesse indirettamente riferirsi alle espulsioni dei rom, decise in questi giorni dalle autorità francesi.
"I testi liturgici di oggi - ha scandito il Pontefice in francese - ci ripetono che tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza". "Contengono quindi - ha aggiunto Benedetto XVI - un invito a saper accogliere le legittime diversità umane, seguendo Gesù venuto a riunire gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le lingue. Cari genitori possiate educare i vostri figli alla fraternità universale".
Il papa ha poi invocato l’intercessione mariana affinché prevalga "la pace", specialmente "dove più infierisce l’assurda logica della violenza" e ha auspicato che "tutti gli uomini si persuadano che in questo mondo dobbiamo aiutarci gli uni gli altri come fratelli per costruire la civiltà dell’amore".
Sui rom i vescovi attaccano il governo “Non si cacciano”
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 22 agosto 2010)
«L’Italia non può decidere di espellere in modo indiscriminato i rom né altri cittadini comunitari». Monito della Cei al governo attraverso una dura replica della fondazione «Migrantes» al ministro degli Interni Roberto Maroni che aveva ventilato la possibilità che l’Italia decida di espellere anche immigrati comunitari. «Il governo non può decidere autonomamente in riferimento a una politica Ue che invece stabilisce il diritto di insediamento e di movimento», avverte su Radio Vaticana monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale. Uno stop che si unisce alle forti critiche della Santa Sede a Sarkozy per i rimpatri di rom.
«Secondo la legislazione europea e il principio di proporzionalità, non si possono calpestare i diritti dei singoli e prendere decisioni contro intere comunità in funzione dell’ordine pubblico», ha ammonito giovedì l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti. I rimpatri sono «provvedimenti drastici ed errrati che non posso essere presi in un contesto europeo», denuncia il Vaticano. E la Cei rafforza l’altolà a «atti illegittimi» che «riguardano persone che hanno il diritto di movimento in Europa e d’insediamento». Francia e Italia, dunque, accomunate da una linea che la Chiesa condanna come «ingiusta e sbagliata». A giudizio della Cei «l’azione che avviene contro i rom oggi non è una politica migratoria (in Italia, l’80% dei rom è italiano) ma è una discriminazione nei confronti di una popolazione che non si è riusciti a gestire attraverso canali di tipo sociale-scolastico e di accompagnamento».
La colpa è della mancata «tutela di una popolazione che ha subito fortemente la modifica di una società agricola industriale». Sono altre, raccomandano i vescovi, le strade da seguire, ossia una nuova legge sulla cittadinanza, cioè «un percorso che premi soprattutto i bambini che nascono in Italia, o che sono già nati in Italia in modo che possano diventare cittadini al momento della nascita e che valorizzi la partecipazione al voto in particolare amministrativo».
La Cei chiede una norma che aiuti «da subito l’integrazione, la partecipazione e la responsabilità comune». Immediate le reazioni politiche. Il Pd, attraverso Sandro Gozi, capogruppo nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio, sottoscrive il pronunciamento dei vescovi.
Il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano (Pdl) ribatte che «non si può stare in un paese europeo senza alcun tipo di reddito» e «non si può ammettere la mendicità o atti illeciti o lo sfruttamento dei minori». Sono principi «già contenuti nella norma europea»: ciò che non funziona è «il meccanismo sanzionatorio, troppo blando». Insorge Alexian Santino Spinelli, musicista, intellettuale e professore universitario di etnia rom: «Mancano solo i forni crematori ma siamo al genocidio culturale. Nel silenzio si stanno creando le barriere razziali, mentre siamo presenti sul territorio italiano da sei secoli».
Protesta anche la Comunità di Sant’Egidio: «In una difficile situazione politica i rom sono un facile capro espiatorio è molto semplice, però gli sgomberi collettivi sono vietati dall’Ue in quanto coinvolgono cittadini comunitari. Non si può cacciare la più grande minoranza europea, una minoranza senza Stato, con cui bisogna fare i conti».
Concorda il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, esponente del Pdl: «Il concetto del rimpatrio deve essere strettamente legato all’accertamento di una illegalità. Non si possono fare dei rimpatri semplicemente su base etnica».
“Questa intolleranza può creare in Europa un effetto domino”
intervista a mons. Giancarlo Perego,
a cura di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 22 agosto 2010)
«L’Italia ha dato il cattivo esempio alla Francia e ora va subito fermato l’effetto-domino che rischia di infiammare il resto d’Europa e contagiare soprattutto i paesi orientali». Mette in guardia dal «meccanismo di intolleranza verso i Rom innescato dall’Italia» monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei.
Cosa c’entra il governo di Roma con le espulsioni dei rom in Francia?
«E’ a partire dalle errate politiche dell’immigrazione del governo italiano che in Europa si è messo in moto un "effetto moltiplicatore" che sta producendo gravi danni sociali in Francia. Abbiamo di fronte una situazione potenzialmente esplosiva che può sfuggire di mano alle autorità nazionali e che soprattutto ad Est (Ungheria e Slovacchia) minaccia oggi di assumere forme particolarmente violente di intolleranza contro un popolo già ai margini e sempre più duramente provato dalla situazione di disagio economico generalizzato».
Di chi è la colpa?
«A forza di irresponsabili campagne propagandistiche e di provvedimenti demagogici a livello centrale e locale, è stata addebitata ai rom la colpa delle difficoltà economiche delle famiglie italiane. In pratica, queste popolazioni nomadi sono state trasformate in capri espiatori per spostare strumentalmente l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere cause della crisi».
Nelle discriminazioni esiste un «modello Italia» esportato in Europa?
«Purtroppo sì. E’ un meccanismo pericoloso che, una volta avviato, finisce fuori controllo, in direzione di un’escalation di discriminazioni, violenze e persecuzioni. Con indecente mistificazione in Italia i rom sono stati ritenuti e indicati all’opinione pubblica come i responsabili di mali sociali che invece sono legati ai mondi finanziari e politici. Assistiamo a un’azione demagogica e strumentale per gettare fumo negli occhi alle famiglie italiane pesantemente colpite dalla crisi economica. Si usa spregiudicatamente un popolo inerme per nascondere la reale origine dei problemi, e cioè i tagli al Welfare e gli errori nelle politiche migratorie. Il pessimo esempio italiano sta facendo scuola in Europa.
I rom impoveriscono un paese?
«Assolutamente no. Le famiglie non devono certo il loro disagio a qualche centinaio di rom che ora si vuole allontanare a forza, bensì da bufere finanziarie globali e dai radicali tagli alla spesa sociale che penalizzano la vita quotidiana delle persone. Il contesto italiano ed europeo è segnato da intolleranze che i governi invece di contrastare favoriscono con politiche sbagliate. Come ha ricordato anche il cardinale Bagnasco nella sua ultima prolusione, in Italia esistono situazioni dolenti e discriminazioni allarmanti emerse con i fatti di Rosarno e con l’incendio di un campo rom alla periferia milanese. Manca l’impegno per una fondamentale strategia di integrazione degli immigrati e di ogni altra minoranza, come quella dei rom. Servono il superamento di quartieri o isole etniche nelle città, una nuova politica fiscale, della casa, dell’accompagnamento sociale e della sicurezza sociale. La "città di eguali" va costruita coniugando l’accoglienza con la tutela dei diritti fondamentali delle persone e, tra i valori non negoziabili anche in politica, c’è un’accoglienza rispettosa delle leggi e mirata a favorire l’integrazione».
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 23 agosto 2010)
Quando il Papa è in viaggio all’estero, c’è un momento molto importante della giornata, addirittura centrale da un punto di vista mediatico. Si svolge immancabilmente all’alba, quando nella stanza d’albergo dove alloggia l’assistente del direttore della Sala stampa vaticana, il burbero ed efficientissimo Victor van Brantegem, avviene la distribuzione dei testi che il Santo Padre leggerà quel giorno.
Così fu anche la mattina del 12 settembre 2006, a Ratisbona, primo viaggio di Joseph Ratzinger nella sua Baviera come Benedetto XVI. Ma quella volta accadde qualcosa. Una volta pronunciata la sua lezione all’università, le agenzie di stampa rilanciarono il discorso puntando soprattutto su una citazione di Manuele II Paleologo, dalla quale poteva evincersi il messaggio che per il Papa cattolico l’Islam è una religione violenta, votata alla guerra santa. Una frase che estrapolata dal suo contesto ampio e articolato, 12 pagine fitte, scosse profondamente il mondo islamico che reagì indignato alla vigilia del viaggio seguente di Benedetto nella Turchia di fede musulmana. Eppure, otto ore prima che il testo venisse pronunciato, gli stessi giornalisti leggendolo mentre facevano colazione capirono che quella sola frase poteva dare adito a pericolosi fraintendimenti e risultare potenzialmente esplosiva. Segnalarono subito la cosa all’ufficio stampa papale, insistendo, ma nulla venne cambiato. E puntualmente una bufera internazionale si abbatté violenta e durissima sul Vaticano, con tanto di richieste di scuse al Pontefice da parte di alti esponenti religiosi islamici, sopite infine dalla geniale intuizione della preghiera comune del Papa di Roma con il Mufti di Istanbul nella Moschea Blu. Ma com’è possibile che a Ratisbona nessuno dello staff papale avesse avuto la prontezza di avvisare Benedetto dei rischi?
Un libro illuminante in proposito affronta non solo l’interessante ricostruzione di quell’incidente, ma tutta una serie di infortuni clamorosi e crisi mediatiche in cui il Vaticano si è trovato impigliato, soprattutto in quest’ultimo anno difficile per il Papa tedesco. Lo hanno scritto due fra i più preparati vaticanisti italiani, Paolo Rodari e Andrea Tornielli (Attacco a Ratzinger, editore Piemme). Ratisbona infatti fu solo il primo caso, a cui ne seguirono molti. Quello della nomina del vescovo polacco Wielgus, in odore di spionaggio; della scomunica revocata al prelato negazionista Williamson; delle parole in Africa sui preservativi destinati ad aumentare il problema dell’Aids; della difficile gestione dello scandalo sulla pedofilia nella Chiesa; fino all’inedito scontro fra cardinali, con l’attacco della rampante eminenza austriaca Schoenborn all’ex segretario di Stato vaticano Sodano.
Tutti questi infortuni destinati a intaccare gravemente l’immagine dell’istituzione cattolica e di chi la guida, sostengono i due autori, potrebbero invece essere sapientemente depotenziati da parte della Santa Sede. Basterebbe un accurato controllo preventivo e la possibilità successiva di applicarlo, come l’incidente di Ratisbona ha dimostrato e pure i casi seguenti, che Rodari e Tornielli analizzano uno per uno nelle loro complesse sfaccettature e nei brutali effetti successivi. La loro deflagrazione rivela piuttosto che la Gerarchia difetta - anche se ciò può sembrare strano - di una vera strategia comunicativa. Manca una regìa complessiva. E ci si limita, dopo, a tamponare le falle, a spegnere gli incendi, a disinnescare bombe già esplose. Le mansioni affidate all’attuale direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, uomo di grandissima preparazione e abnegazione, e la sua stessa confidenza e accessibilità al Papa appaiono diverse da quelle del suo predecessore, Joaquim Navarro Valls, che con Karol Wojtyla aveva non solo un rapporto di consigliere, ma agiva come un vero e proprio spin doctor.
Una questione a cui la Santa Sede dovrà prestare molta attenzione. Perché come ha efficacemente spiegato ai due vaticanisti un autorevole porporato interno ai sacri palazzi, gli attacchi a Ratzinger si sono moltiplicati. «Attacchi di ogni tipo. Una volta si dice che il Papa si è espresso male, un’altra volta si parla di errore di comunicazione, un’altra ancora di un problema di coordinamento tra gli uffici curiali, un’altra di inadeguatezza di certi collaboratori. Vuole sapere la mia impressione? Non c’è una squadra che lo sostiene adeguatamente, che previene l’accadere di certi problemi, che riflette su come rispondere in modo efficace. Che cerca di far passare, di espandere l’autentico suo messaggio, spesso distorto. Così la domanda più frequente è diventata questa: a quando la prossima crisi?»
Tra trono e altare alleanza al tramonto
di Carlo Galli (la Repubblica, 25 agosto 2010)
Che "Famiglia Cristiana" attacchi Berlusconi e la sua politica con argomenti - fondatissimi e di per sé evidenti - che mescolano l’indignazione civile e lo sdegno religioso non ha nulla di "disgustoso". È semplicemente la dimostrazione di una verità quasi bimillenaria: che la Chiesa cattolica è capace di stringere compromessi con ogni potere, di allearsi con potenze mondane di ogni risma - da Costantino a Mussolini, solo per dare un’idea.
Ed è capace di agire con la spregiudicatezza che la politica richiede, trovando sempre (del resto non è troppo difficile) il modo di giustificare il proprio operato, davanti a se stessa e davanti al mondo. Ma che da questi abbracci la Chiesa sa anche sciogliersi per tempo, quando le diventano scomodi.
E questo perché la Chiesa non ha mai una politica soltanto, ma ne ha sempre altre di riserva. Ed è "con riserva" che sta nelle cose del mondo, senza sposare mai una causa una volta per tutte: del resto, è la Sposa di Cristo, non di questo o di quel potere.
Questa intrinseca duplicità deriva dal fatto che la radice religiosa del messaggio di cui la Chiesa è portatrice ha almeno due lati: quel messaggio è da una parte una volontà di organizzazione del mondo sul fondamento stabile del dogma e del magistero delle gerarchie. E per questo motivo la Chiesa è organismo politico, che si confronta con altri, secondo logiche di potenza. E’ la Chiesa costantiniana, che cerca il potere per essere in grado di esercitare in sicurezza la propria missione. Ma d’altra parte quel messaggio è anche la potenza profetica del Dio che libera dal peccato e dall’oppressione, del Dio che mobilita gli animi, muove le coscienze, e suscita gli scandali.
E’ anche questa una Chiesa politica, sia chiaro; ma di una politica caritatevole e battagliera, per nulla diplomatica o benpensante, che nel corso della storia si è sempre affiancata criticamente alla Chiesa gerarchica; e questa, per quanto l’abbia temuta e, per quanto possibile, normalizzata, non ne ha mai potuto prescindere. La Chiesa è entrambe le cose, contemporaneamente; fa coesistere in sé gli opposti. Non è un’azienda in cui regni la volontà unica del padrone, ma una realtà per sua natura complessa e plurima. Anche il rigido centralismo vaticano, il primato del Papa, si confronta con questa ricchezza inesauribile, a cui dà sì una direzione ma non un’uniformità totale.
Non c’è da stupirsi, quindi, se dentro la Chiesa cattolica le posizioni su Berlusconi sono differenziate: su queste differenze ha giocato, del resto, lo stesso premier, che, col caso Boffo, ha sfruttato a proprio vantaggio i contrasti fra la Cei e la Segreteria di Stato; mentre su altre differenze, ora, inciampa. "Famiglia Cristiana", da parte sua, non è nuova a questo esercizio di critica: e quindi non ci sarebbe da stupirsi.
Ma forse la destra sta fiutando - nell’asprezza, nella libertà, nella costanza degli attacchi del settimanale - un cambiamento di vento nelle stesse gerarchie, con le quali ha stipulato molti e vantaggiosi (per entrambi) compromessi, scambiando benefici fiscali e acquiescenze verso gli aspetti più chiusi del magistero (sulla bioetica e sulla biopolitica) con un appoggio politico di fatto. Un appoggio per nulla scontato poiché il modello d’uomo e di società proposto dalla destra di Berlusconi e Bossi - per non parlare del troppo laico Fini - non dovrebbe essere gradito alla sensibilità religiosa.
In ogni caso, la settimana scorsa, a un analogo attacco di "Famiglia Cristiana" era stato risposto, da parte della destra, con l’invito agli estensori - evidentemente ritenuti ignari - a ripassare i capisaldi della dottrina sociale della Chiesa, e, con un po’ più di verosimiglianza, a non dimenticare i tanti segni tangibili della vicinanza di questo governo alle richieste delle gerarchie.
Nelle risposte davvero sopra le righe a "Famiglia Cristiana" (rea di darsi alla "pornografia politica"), c’è forse solo l’esasperazione di una maggioranza in crisi per ben altri motivi. Ma potrebbe anche esserci la preoccupazione di Berlusconi di perdere, dopo Casini e Fini, e - chissà - Bossi e Tremonti, anche la benevolenza vaticana. Forse il fido Letta non è riuscito a far digerire Oltretevere le nuove minacciate leggi di ispirazione leghista contro immigrati e rom; o forse le gerarchie si rendono conto che dal Cavaliere hanno spremuto tutto quello che si poteva, e che la sua politica ormai di rottura, di lotta disperata per la sopravvivenza, non è più in grado di garantire quello spazio che la Chiesa chiede per sé e per le proprie istanze in Italia.
Forse la prospettiva di un clima di divisione permanente - che mette a rischio l’unità dello Stato (tema spesso sollevato ad altissimo livello, in queste settimane) e della società, e che spezza l’unità dei cattolici (come "Famiglia Cristiana" denuncia) - comincia a interessare meno i vertici della Chiesa. Che non vogliono e non possono legare il loro destino a quello di un’avventura politica ormai incerta, e mandano messaggi trasversali come sanno fare. Forse, un’alleanza fra trono e altare - un buon affare per entrambi, ma di solito più per il secondo che non per il primo - sta tramontando, e il trono comincia a temere per la propria stabilità.