Quando il potere passa di mano
di Barbara Spinelli *
E’ talmente piena di guai e di luride vicende, è talmente tentacolare e opaca, la storia delle spie russe avvelenate e del capitolo italiano su di essa affastellata, che non sembra un romanzo di Le Carré, con i personaggi densi di storia e passioni che ne sono la caratteristica, ma piuttosto la riproduzione veridica di quel magnifico serial televisivo che s’intitola 24, e che ha come protagonisti losche spie serbe, agenti che lavorano per inafferrabili nemici, e sovrastante tutte queste peripezie: la carriera di un senatore afro-americano che aspira alla Presidenza Usa, e che qualcuno vuole uccidere o pesantemente ricattare qualora divenisse Presidente. In Italia la figura del senatore David Palmer è impersonata da Romano Prodi, ma la sua storia è assai somigliante.
Anch’egli è il bersaglio di operazioni che s’incrociano, si confondono, e quando vengono alla luce sempre lo descrivono come uomo da abbattere. Anch’egli è un outcast, da demonizzare in pubblica piazza o da compromettere con segrete manovre e dossieraggi (i famosi Kompromaty maneggiati da Putin).
Il versante italiano dello scandalo del polonio narra la storia del candidato alla successione di Palazzo Chigi e del modo biecamente irato, violento, con cui Silvio Berlusconi ha vissuto quel che sempre gli è apparso un evento intollerabile: la propria possibile sconfitta, la propria uscita da Palazzo Chigi.
Dall’evento ha cercato di proteggersi come ha potuto, con mezzi di cui ancora si sa poco ma di cui si conoscono le spregiudicatezze e le ire: quell’ira che Silvio Pellico descrive così bene, quando dice che «l’ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensi». Ci sono morti fosche, nella vicenda che ha Londra e Mosca e l’Italia come epicentro. C’è sporcizia e calunnia ovunque, e anche il modo in cui veniamo a conoscenza di queste incessanti ramificazioni ricorda il serial televisivo di Robert Cochran e Joel Surnow.
L’affare coinvolge più Paesi, e davanti ai nostri occhi non vediamo svilupparsi un’unica vicenda, su un unico schermo, ma ne vediamo tante in simultanea, che si svolgono in tempi e schermi giustapposti, senza legami reciproci subito limpidi. Invece un legame c’è, come nei gialli politici o nel crimine c’è un intrico, che dà senso ai frammenti. C’è il contesto, ogni ora che passa ce ne accorgiamo.
Prendiamo questa domenica 3 dicembre, e le ventiquattro ore che l’hanno preceduta. A Londra è intossicato dal polonio il gran fabbricatore del dossier contro Prodi, Mario Scaramella, legato all’ex spia russa Alexandr Litvinenko ucciso dallo stesso veleno il 23 novembre.
In Italia tornano in superficie le vicissitudini della commissione Mitrokhin e l’uso deviato che ne è stato fatto Scaramella aiutando per rovinare personalmente Prodi. Nelle ultime ventiquattr’ore si sono infine mobilitate le piazze: non per un programma, non per un’alternativa alla Finanziaria, ma per atterrare ancora una volta lui, Prodi, il malefico raffigurato in tutti i manifesti d’Italia come colui che «se ne deve andare».
Sembrano tutti episodi spezzettati, specie quando si leggono in contemporanea i giornali russi, inglesi, italiani, ma tanto spezzettati non sono. La storia dei veleni è la storia di due guerre di successione delicatissime, colme di rischi, vissute ambedue mettendo in scena quell’ira che produce scelleratezza: guerre di successione che continuano a diffondere fango anche dopo. La guerra italiana pur essendo avvenuta tormenta tuttora il centrodestra; quella russa avverrà nel 2008, quando Putin, ex colonnello Kgb, dovrà costituzionalmente cedere il passo a un successore.
In entrambi i casi sono guerre più che alternanze, con vuoti di potere che scatenano appetiti o vendette. Nel caso russo scatenano anche assassinii. Il 7 ottobre è freddata Anna Politkovskaja, il 23 novembre viene avvelenato in circostanze oscure Litvinenko, l’ex spia rifugiata dal 2000 a Londra. Il giorno dopo cade ammalato Yegor Gaidar, primo ministro riformatore ai tempi di Eltsin, anch’egli forse intossicato. Litvinenko aveva rapporti con Scaramella, che era il consulente scelto da Paolo Guzzanti, presidente della commissione Mitrokhin e senatore di Forza Italia. Nel frattempo anche Scaramella è contaminato e nulla si sa di Berezovskij, l’oligarca esiliato a Londra che a costoro era legato.
È difficile penetrare i segreti russi. Perché Putin è capace di misfatti smisurati lo ha dimostrato in Cecenia, nei rapporti con l’informazione, nel potere dato all’ex Kgb ma ora che sta per cedere il comando potrebbe anche esser vittima dei poteri canaglia da lui stesso insediati. A che gli serve infatti l’uccisione spettacolare di Litvinenko, che accusa il Cremlino d’averlo ammazzato? Che utile trarne, alla vigilia di un difficile negoziato con l’Europa e quando l’Occidente nutre crescenti sospetti su Mosca, soprattutto dopo l’assassinio della Politkovskaja, la giornalista punita per il lavoro svolto in Cecenia?
Più che mai torbido in Russia, il contesto diventa più chiaro quando si passa all’Italia, e più precisamente al modo in cui Berlusconi ha cercato di bloccare la successione demolendo la figura di Prodi e di D’Alema, Pecoraro Scanio, Bassolino con i dossier della commissione Mitrokhin. Una commissione che non nacque con questo scopo, quando fu istituita dopo la vittoria della destra nel 2001, ma che presto di scopo ne ebbe uno solo.
Naturalmente Guzzanti aveva il diritto di indagare in ogni direzione. Ma il fatto è che indagò ossessivamente su Prodi, fidandosi dei dossier che Scaramella gli confezionava con la stessa cinica noncuranza già mostrata da Igor Marini e senza preoccuparsi dei trascorsi dello stesso Scaramella come trafficante d’armi.
Le telefonate intercettate fra Guzzanti e Scaramella risalgono a gennaio e febbraio, e sono impregnate di una fretta insana: la fretta di abbattere Prodi, accusandolo di esser agente Kgb, prima del voto di aprile e per dare una mano al «capo» (così viene chiamato Berlusconi nelle telefonate). Se veramente credesse nella verità che pretende cercare, da tempo Guzzanti si sarebbe dimesso dalla commissione e da senatore, perché si possa far chiarezza sul suo operato.
Chi ha partecipato alla commissione Mitrokhin, come Andreotti, dice di non aver mai sentito di Scaramella e aggiunge: «Tutta l’azione dei rappresentanti del centrodestra in quella commissione mi è sembrata viziata dall’intenzione di dimostrare comunque che il governo di Prodi, nonché quello di Dini, non fecero abbastanza per far luce sulle connessioni italiane e (...) le schede della lista Mitrokhin».
«Calunniate, calunniate, e qualche cosa resterà». Il motto è ricorrente in politica, fin dai tempi di Plutarco, e non cessa d’esser appropriato. La calunnia s’appiccica ai calunniati ma se questi stanno molto immobili e calmi s’appiccica anche e forse ancor più al calunniatore, ineluttabilmente. Soprattutto quando la calunnia diventa, appunto, parte d’un contesto alla Sciascia: il contesto che spiega la trama dei singoli eventi, l’intrico delle complicità, delle responsabilità, degli affari.
Il passaggio di potere, per politici-padroni come Berlusconi e Putin, è non solo torbido ma pieno di trappole micidiali: per gli avversari ma anche per se stessi. Da questo punto di vista, i due personaggi si somigliano: spregiudicati, si comportavano come compari più che come politici alleati, si facevano servizi.
Per esempio quando Berlusconi elogiò i massacri in Cecenia, nel novembre 2003, e denunciò la stampa russa che «fabbricava leggende» ed era faziosa come in Italia. O quando difese i magistrati che avevano condannato alla reclusione in un campo Khodorkovskij, ex capo della Yukos e avversario di Putin.
C’era qualcosa di losco nel loro rapporto, e fa impressione come oggi Forza Italia e Guzzanti si scaglino contro Putin e difendano Politkovskaja. Perché non denunciarono i servigi resi da Berlusconi a chi esecrava i liberi giornalisti? Il contesto, infine, è quello di democrazie malate. Le profonde malattie russe sono evidenti, anche se gli affari spionistici restano più tenebrosi.
I mali italiani ancora sono da esplorare: la vera storia dell’ascesa al potere di Berlusconi e del consenso esistente attorno a lui deve ancora esser scritta, anche da parte di chi fu all’opposizione e oggi non osa togliere il controllo di reti televisive a chi è un politico aspirante a massime cariche.
Se il passaggio di potere è così esplosivo, non solo in Russia ma anche da noi, vuol dire che c’è qualcosa nella democrazia italiana che funziona male. Se si svolge a colpi di dossier e usando mediocri affaristi e contrabbandieri d’armi in particolare armi radioattive vuol dire che il leader è capace di tutto, come un oligarca o un ex colonnello sovietico. È capace di mobilitare le piazze e i milioni, pur di apparire il vero capo carismatico che ha magici legami con le folle. È capace di far confezionare dossier per ricattare o distruggere. Lotta all’ombra di un suo contesto, e finché i più fedeli non prenderanno le distanze si sentirà al sicuro nella propria torre inviolata.
*La Stampa, 03.12.2006
La rivista «Lancet»
“Arafat morto avvelenato. Trovate tracce di Polonio 210” *
LONDRA Si riapre il mistero sulla morte di Yasser Arafat. L’ombra del polonio 210 torna ad allungarsi sul decesso, nel 2004, del leader storico dei palestinesi. Uno dei più prestigiosi giornali di medicina, il britannico «The Lancet», rilancia, secondo indiscrezione raccolte dalla tv araba Al Jazeera, la possibilità che il fondatore dell’Olp non sia deceduto per cause naturali ma in quanto avvelenato con la micidiale sostanza radioattiva. Già nel 2012, una squadra di esperti dell’Università di Losanna, in Svizzera, aveva avanzato l’ipotesi dell’avvelenamento sulla base di analisi e dati raccolti sui vestiti e oggetti di Arafat, costringendo le autorità palestinesi a riesumare la salma alla fine del 2012.
Quel rapporto è stato ora scrutinato dai maggiori luminari internazionali del settore. E la conclusione è identica: «le ricerche avvalorano la possibilità che Arafat sia stato avvelenato con il polonio 210», sentenzia la rivista che nei prossimi giorni fornirà ulteriori dettagli. In sostanza il «Lancet» conferma il lavoro svolto dalla squadra svizzera che trovò «alti livelli di un elemento estremamente radioattivo nelle macchie di sangue, urina e saliva analizzati sui vestiti e sullo spazzolino da denti del leader palestinese».
Arafat è morto il 4 novembre 2004, a 75 anni, per «una malattia non identificata», all’ospedale di Percy, a pochi chilometri da Parigi. «Presentava scrive la rivista una storia medica cominciata il 12 ottobre 2004 a Ramallah, con nausea, vomito, dolori addominali e diarrea». Il trasferimento a Parigi e le cure dei medici francesi non avevano portato miglioramenti. Anzi, Arafat era entrato in un coma neurologico fino a morire in seguito ad un’emorragia celebrale.
Al Jazeera, con il sostegno della vedova Suha Arafat, aveva però cominciato una propria indagine, inviando a un gruppo di medici di Parigi e svizzeri alcuni effetti personali del capo dell’Olp. Ora la conferma del Lancet riapre scenari inquietanti.
* La Stampa 13.10.2013
“Arafat fu avvelenato dal polonio”. Verdetto medico su Lancet
Confermata la tesi dell’avvelenamento. L’Anp: caccia ai killer
di Fabio Scuto (la Repubblica, 13.10.2013)
RAMALLAH - I sostenitori della uccisione di Yasser Arafat hanno trovato un inatteso alleato inThe Lancet, uno dei più autorevoli giornali medici del mondo, che ha avvalorato la possibilità che il presidente palestinese sia stato avvelenato con il polonio 210, una sostanza radioattiva già usata per uccidere ex spie russe in Inghilterra. Le rivelazioni diLancet aggiungono un altro tassello a uno dei grandi misteri del Medio Oriente: chi avvelenò il vecchio e già malato Arafat? Come arrivò il veleno fino al vassoio della sua cena la sera del 12 ottobre 2004? I servizi segreti israeliani - il Mossad, l’Aman e lo Shin Bet - hanno sempre negato ogni coinvolgimento, invocando anche una promessa fatta dall’allora premier Ariel Sharon a Bill Clinton di «non attentare all’incolumità di Arafat». E il fondatore dell’Olp aveva molti nemici,anche fra i “fratelli arabi”.
La ricerca degli esperti di Lancet, otto clinici di fama mondiale, conferma che sono stati trovati alti livelli di polonio nelle macchie di sangue, urina e saliva sui vestiti e sullo spazzolino da denti di Arafat, a livelli tali da poter essere indicato come causa del decesso e i sintomi della “malattia” compatibili con l’avvelenamento radioattivo. Secondo i medici stranieri che accorrevano al suo capezzale dalla Tunisia, dall’Egitto e dalla Giordania l’anziano raìs soffriva invece solo di una forte influenza.
Ma quando le tv inquadrarono quell’uomo dal volto scavato, debole, magrissimo che saliva su un elicottero giordano per andare a farsi curare in Francia, fu chiaro a tutti che non era un malanno di stagione. Morì l’11 novembre 2004 a 75 anni, di una malattia a cui i 50 medici francesi che hanno avuto in cura il paziente Etienne Louvet - con questo nome Arafat entrò nell’ospedale militare di Percy - non hanno saputo dare una rispostachiara. Nelle 100 pagine di relazione medica però fra i molti test a cui fu sottoposto Arafat a Parigi non compare quello per il polonio. Il leader dei palestinesi fu poi seppellito nel Mausoleo di Ramallah senza che venisse eseguita l’autopsia (eventualità rara tra i fedeli islamici).
Poi nel luglio scorso da Al Jazeerale prime rivelazioni sul polonio ritrovato sugli effetti personali di Arafat, dopo delle analisi eseguite da un blasonato Istituto svizzero (la cui veridicità nelle ricerche è oggi confermata da Lancet). E per far luce sulle cause che hanno portato al suo decesso, su richie-sta della moglie Suha, la salma dell’ex presidente palestinese è stata riesumata il 27 novembre dell’anno scorso da parte di esperti forensi svizzeri, francesi e russi. I risultati di questa indagine sui campioni prelevati della salma sono attesi a breve.
Arafat mangiava pochissimo e non consumava il cibo della mensa nella Muqata. Una volta al giorno i suoi bodyguard andavano in un popolare ristorante di Ramallah a prendere il solo pasto che consumava durante la giornata. Molti leader arabi, anche adesso, hanno nella loro cerchia di sicurezza “l’assaggiatore” per cibi e bevande, ma non Arafat. Il polonio-210 era probabilmente contenuto - dice una fonte dell’intelligence palestinese aRepubblica- nel kebab o nella frutta che Arafat mangiò la sera del 12 ottobre 2004.
I servizi segreti palestinesi hanno sempre sposato la tesi dell’avvelenamento attraverso gli alimenti o l’acqua. Il generale Tawfik Tirawi - ex capo dei servizi segreti a capo del team che indaga - ne è «sempre stato certo». Adesso partirà un’inchiesta interna “senza guanti” che è un po’ come il giorno della resa dei conti per Fatah.
«Qui a Ramallah la gente ha sempre pensato che sono stati gli israeliani a uccidere Arafat, e se non con il polonio con qualcos’altro», spiega ancora lo 007 palestinese, «c’è però un problema più profondo racchiuso in questo mistero. Gli israeliani non potevano raggiungere Arafat direttamente dentro la Muqata dove era assediato; qualcuno dall’interno deve averli aiutati, lo abbiamo sempre saputo. Adesso la caccia ai quei traditori è ufficialmente aperta».
Arafat avvelenato col polonio? L’Anp riesuma la salma
di U.D.G. (l’Unità, 05.07.2012)
È il passato che non passa. E che riporta di attualità una vicenda (volutamente) mai chiarita: la morte di un leader scomodo, non solo per il nemico israeliano ma anche per una parte della nomenklatura palestinese. Riemerge dal sepolcro la salma di Yasser Arafat, prossima a essere riesumata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) sull’onda di una nuova raffica di sospetti sulla morte del rais e dell’ipotesi di un presunto avvelenamento radioattivo a base di polonio.
Ad agitare le acque sono stati questa volta i risultati di una ricerca svizzera, diffusi l’altro ieri con enfasi da un documentario della tv panaraba Al Jazira, che accreditano la presenza di tracce anomale di polonio (la micidiale sostanza che avrebbe fra l’altro ucciso nel 2006 l’ex spia russa Aleksandr Litvinenko, transfuga a Londra), sullo spazzolino, fra i vestiti e sulla celeberrima kefiah di «Abu Ammar (il nome di battaglia di Arafat: deceduto nell’ospedale militare francese di Percy (sud di Parigi), nel 2004, dopo una misteriosa infermità sfociata in un repentino (e per molti inspiegabile) deperimento. La «rivelazione è detonata come una bomba a Ramallah e nei Territori palestinesi, dove la morte del «presidente martire Arafat è da sempre denunciata come un omicidio: frutto d’un avvelenamento ordito da Israele (secondo quanto affermato pubblicamente appena pochi mesi fa dal nipote dello scomparso ed ex ambasciatore palestinese all’Onu, Nasser al-Qidwa), magari in combutta con traditori interni all’establishment dell’Anp.
Dalla Muqata sede della presidenza palestinese ai tempi di Arafat e oggi residenza del suo successore, Mahmud Abbas (Abu Mazen), anche lui in passato sfiorato da velenosi sospetti è riecheggiato l’impegno a «fare chiarezza, anche a costo di disseppellire a questo punto il cadavere del defunto per un accurato esame dei resti. «L’Anp, come sempre, è pronta a collaborare con chiunque per indagare le vere cause che condussero al martirio di Yasser Arafat, dichiara il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeinah, annunciando il via libera all’esumazione della salma a patto che i familiari l’autorizzino dopo un incontro con Tafuq Tirawi, responsabile di un organismo d’inchiesta locale. Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, si è spinto a lanciare un appello alla «formazione di una commissione d’indagine internazionale, sul modello di quella creata per far luce sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafik Hariri.
La sollecitazione a riesumare il cadavere custodito solennemente dalla stessa Anp nel mausoleo della Muqata era rimbalzata già martedì, non senza accenti polemici, dalla vedova del rais, Suha Arafat, che vive in una sorta di esilio di fatto a Malta da dove nei mesi scorsi aveva provveduto in prima persona a mettere a disposizione dei laboratori elvetici citati da Al Jazira oggetti personali del marito. Dalla Svizzera, tuttavia, i responsabili della ricerca che ha fatto riesplodere il caso mettono le mani avanti. «Posso confermare solo che abbiamo misurato livelli sorprendentemente e inspiegabilmente elevati di polonio-210 fra gli effetti di Arafat, ha detto Francois Bochud, direttore dell’Istituto di Radiofisica di Losanna, puntualizzando come i sintomi che accompagnarono la fine del leader palestinese non sembrano poter essere messi in diretta relazione con tale sostanza.
La sua conclusione è che le analisi fatte finora non sono in realtà in grado di determinare con certezza se avvelenamento ci sia stato oppure no. Per tagliare la testa al toro occorrerebbe davvero esaminare i resti. Ma bisognerà farlo in fretta ha avvertito Bochud perché il polonio, nel giro di qualche anno, decade senza lasciar traccia.
«Polonio sullo spazzolino di Arafat». Si riapre il caso
Rinvenute tracce di veleno su vestiti e oggetti personali consegnati alla vedova Suha *
GERUSALEMME - Lo spazzolino da denti e la keffiah. Il mistero della morte di Yasser Arafat starebbe incastonato negli oggetti intimi usati durante i due mesi di malattia e nel simbolo che ha rappresentato la sua battaglia, quel foulard portato sulla fronte in modo da riprodurre la forma della Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo.
L’emittente araba Al Jazeera riapre il caso e i sospetti, un’inchiesta durata nove mesi a quasi otto anni dal decesso, l’11 novembre del 2004 nell’ospedale militare Percy, periferia di Parigi. È da quelle corsie che è ripartita l’indagine, dai beni personali del leader palestinese consegnati alla vedova Suha e da lei passati ad Al Jazeera.
Le tracce biologiche (sangue, saliva, sudore) rimaste sui tessuti o tra le setole sono state analizzate nei laboratori dell’Istituto di radiofisica alla clinica universitaria di Losanna. «La conclusione è che abbiamo trovato un livello significativo di polonio-210», spiega il direttore François Bochud.
È lo stesso isotopo radioattivo rilevato nel corpo di Alexander Litvinenko, l’ex colonnello dei servizi segreti russi che aveva denunciato le trame cecene ed era morto avvelenato a Londra nel 2006. È un elemento molto raro, che gli scienziati definiscono «esotico»: «Non si può certo preparare in casa». Fino ad adesso gli oltre cinquanta medici che avevano visitato Arafat non sono stati in grado di precisare le cause della malattia fatale i cui sintomi compaiono il 12 ottobre del 2004.
La cartella clinica del raìs - 558 pagine più le radiografie - riporta i risultati dei test tossicologici, che non hanno indicato veleni nel sangue. «O almeno non hanno scovato sostanze note e comuni - ha commentato da subito il nipote Nasser Al Kidwa, diplomatico per le Nazioni Unite, tra i primi a ipotizzare la macchinazione -. Non possiamo escludere che mio zio sia stato ammazzato».
Così la pensa anche Ashraf al-Kurdi, per diciotto anni medico personale di Arafat, che due anni fa ha ricostruito la sua teoria al sito Internet giordano Amman: «Nel suo sangue è stato rilevato l’Hiv, ma non è morto di Aids. Il virus è stato iniettato per coprire l’avvelenamento».
I complottisti accusano il Mossad, anche se non escludono una congiura al palazzo della Muqata, lotte interne di potere tra i palestinesi. Qualcuno ricorda un caso di quasi quarant’anni fa: Wadi Haddad, tra i leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, morto nel marzo del 1978 con i sintomi della leucemia. Per sei mesi i servizi segreti israeliani - racconta Aaron Klein nel libro Stricking Back - avrebbero fatto arrivare al golosissimo Haddad cioccolato belga, un lusso introvabile nell’Iraq di quel tempo. Cioccolato con un ingrediente in più, un veleno così sofisticato e così lento nell’azione da non poter essere individuato.
* Corriere della Sera, 04.07.2012
Berlusconi: «Abbiamo vinto noi: ricontiamo tutte le schede» *
«Abbiamo il convincimento di aver vinto, ora bisogna ricontare tutte le schede». Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi non ci sta. Non vuole saperne di essere ormai ex premier e rilancia con forza, come già aveva fatto il 2 dicembre da San Giovanni, il tema dei "grandi brogli elettorali" visti dal centrodestra. A nulla vale il fatto che la Giunta del Senato abbia già deciso di ricontare le schede bianche, nulle o contestate per tranquillizzare gli animi e «svelenire il clima» (per usare le parole di Anna Finocchiaro). Per Berlusconi le elezioni le ha vinte la Cdl. E poche battute lasciando Palazzo Grazioli per Milano fanno capire che il punto dolente di Berlusconi è ancora il voto degli italiani all’estero.
«A Berlusconi, che continua ad insinuare dubbi sulla regolarità delle elezioni politiche, mi permetto di ricordare che negli Stati Uniti il suo amico Bush ha vinto per appena trecento voti e nessuno, a distanza di tempo, ha più fatto riferimento ai voti della Florida» risponde il segretario dei Popolari-Udeur, Clemente Mastella, che sottolinea: «L’inutilità di una polemica che non aiuta certo la democrazia e non contribuisce a rasserenare gli animi. Si è deciso di ricontare i voti del Senato - aggiunge Mastella - ed allora attendiamo con serenità il risultato ».
«Berlusconi prosegue la sua inaccettabile campagna di delegittimazione e destabilizzazione - incalza con forza il segretario del Pdci Oliviero Diliberto - Ma di cosa parla? le vere irregolarità nel voto delle scorse elezioni sono state quelle relative ai strani e inspiegati ritardi nei flussi di dati a partire da città come Catania».
* www.unita.it, Pubblicato il: 10.12.06, Modificato il: 10.12.06 alle ore 17.20
Legislatura avvelenata
di EDMONDO BERSELLI *
SONO passati otto mesi dalle elezioni politiche, c’è un governo che sta svolgendo la sua azione, il Parlamento si sta misurando sulla legge finanziaria. Che cosa significa allora la decisione della giunta delle elezioni del Senato di procedere per sette regioni al riconteggio delle schede bianche, nulle e contestate, e al controllo a campione delle schede valide? Per ora l’unica paradossale certezza è che sul risultato elettorale del 9-10 aprile si è steso il dubbio. Per la prima volta nell’Italia repubblicana il meccanismo fondamentale della vita pubblica ha visto incrinarsi la sua sacralità civile, quel senso di liturgia laica e condivisa che non era mai stato messo in discussione.
Si poteva sostenere che in Italia non funziona nulla, o funziona tutto male, con l’eccezione del confronto elettorale. Ogni volta si trovano le cabine, le urne, le matite copiative, e si mobilitano scrutatori e rappresentanti di lista, prefetture e ministero. Ci voleva una volontà deliberata per mettere in crisi queste procedure democratiche fondamentali. E su questo tema è opportuno un ripasso: non si può dimenticare infatti che il primo e violento attacco alla legittimità della esigua vittoria dell’Unione è venuto da Silvio Berlusconi, successivamente a una visita al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, quarantotto ore dopo lo spoglio.
Quello del leader della Casa delle libertà era stato un "numero" populista drammatico e irridente. "Il risultato deve cambiare", aveva detto, denunciando un milione e centomila schede sospette e brogli avvenuti in via "unidirezionale", cioè esclusivamente da parte della sinistra. D’accordo che i brogli costituiscono un leitmotiv berlusconiano, un ritornello quarantottesco evocato prima e dopo ogni elezione, anche un modo per rinfocolare nel suo elettorato il risentimento verso gli altri, i nemici, i "comunisti".
Ma dopo un esito così ravvicinato, con la vittoria alla Camera del centrosinistra per ventiquattromila voti, la denuncia di Berlusconi non poteva non risultare esplosiva. Eppure nel frattempo il Quirinale si era compiaciuto per l’ordine e la regolarità delle operazioni elettorali; l’allora ministro degli interni, il forzista ex democristiano Giuseppe Pisanu, aveva espresso soddisfazione per come si era mossa la macchina del voto. L’affondo di Berlusconi proiettava invece sul nostro paese un’ombra sudamericana, trasformandolo in una democrazia cospirativa, in cui l’espressione del consenso è manipolabile.
Non era mai avvenuto: nessuno si era mai arrischiato a dipingere l’esito elettorale come una macchinazione, e far scendere un clima di sospetto sull’esercizio di un diritto costitutivo, fondamento della vita repubblicana. Nello stesso tempo, sarebbe puerile negare che buona parte della classe politica di centrosinistra, scioccata dal testa a testa finale, e dalla prova "cardiaca" della lunghissima notte dello scrutinio (come l’ha definita domenica scorsa Massimo D’Alema) lasciava capire ufficiosamente che il risultato delle urne non appariva convincente.
È stata anche questa percezione che ha indotto Enrico Deaglio, il direttore di Diario, a riaprire di fatto un caso ufficialmente chiuso, con il film Uccidete la democrazia, nel quale una certa ossessione antiberlusconiana, ampiamente condivisa a sinistra, portava a una ricostruzione in chiave complottista, rovesciando l’accusa del broglio contro Berlusconi e innescando di novo la polemica che alla fine ha determinato la decisione sul riconteggio dei voti, a cui il centrosinistra si era sempre opposto.
Era soltanto una ferita psicologica, quella della sinistra? Di certo quell’idea dipendeva largamente dalla delusione per avere rischiato una sconfitta bruciante dopo mesi di sondaggi favorevoli, e dopo che l’appuntamento con il voto era stato affrontato con la tranquilla sicurezza di chi si sentiva la vittoria in tasca. Ma c’era anche, e forse soprattutto, la profonda sfiducia rispetto all’affidabilità istituzionale dell’avversario.
L’Italia allora risultava davvero divisa in due, ma non sul terreno decifrabile delle preferenze politiche, da una parte i moderati e dall’altra i progressisti, destra e sinistra; piuttosto, era lo scontro di due antropologie incompatibili, entrambe convinte della perfetta inaffidabilità altrui, cioè che l’altra parte possa distorcere il confronto democratico.
Gli interessi di questo capolavoro a rovescio li pagheremo a lungo: pagheremo per anni il prezzo costituito da due Italie che si guardano con rancore, che talvolta si esprimono reciprocamente odio politico, e che non si fidano, per nulla, l’una dell’altra. È vero che se si vuole andare alla ricerca della responsabilità primaria di questa mediocre guerra civile, individuando chi l’ha voluta, dovrebbero esserci pochi dubbi: sono quasi tredici anni, dal momento della sua "scesa in campo" che il capo del centrodestra ha investito scientemente nello scontro con le "sinistre", nel conflitto contro "i comunisti" nel nome della libertà, contro i "professionisti dell’odio".
L’animosità antiberlusconiana del centrosinistra è semmai lo specchio di questo risentimento. Ma più ancora che le attribuzioni di responsabilità va valutato il fatto che nella società è stato inoculato un virus insidioso: la conclusione di anni di populismo, e della lunga stagione dell’antipolitica, consiste infatti nel ritratto di due Italie che si sospettano a vicenda, ognuna delle quali non crede all’onestà democratica dell’altra.
Se le cose stanno così, è improbabile che il riconteggio serva a dissipare i dubbi; si può immaginare che ogni conferma o smentita del risultato ufficiale apra invece la strada a polemiche estenuanti. D’altronde, ciascuno invoca le sue ragioni: Berlusconi ha reclamato per mesi contro i brogli degli avversari; questi ultimi hanno cullato simmetricamente l’idea che la rimonta berlusconiana nell’aprile fatale del 2006 fosse stata troppo efficace per essere davvero politicamente e statisticamente credibile.
Da parte dell’Unione c’è verso la Casa delle libertà anche il sospetto aggiuntivo che le stesse istituzioni siano state usate in modo strumentale, ad esempio che le commissioni parlamentari di inchiesta (Telekom Serbia e Mitrokhin) siano potute diventare trappole per incastrare i leader del centrosinistra: un altro frutto velenoso di una guerra politica che non rispetta i limiti di un confronto politico leale.
Adesso, nel sospetto generale, si giunge al riconteggio con la speranza che i numeri confermino i numeri, e che ciò riconduca i due schieramenti entro un terreno di gioco ragionevole. Ma intanto la legislatura è stata avvelenata, e l’avvelenamento era cominciato ancora prima del voto. Se il voto diventa una lotteria, la democrazia si trasforma in un sistema che ridiscute in continuazione se stesso, come se si potesse rigiocare di continuo la stessa partita senza mai accettarne il risultato. Nell’epoca dell’antipolitica c’era un solo antidoto, la certezza e la credibilità delle istituzioni, degli automatismi democratici. Voglia il cielo che non ce lo siamo giocato.
* la Repubblica, 7 dicembre 2006.
Parla il colonnello Gordievskij, la "fonte" del faccendiere. "Aveva una sola ossessione: trovare prove contro uomini della sinistra"
L’ex spia del Kgb su Scaramella. "Un bugiardo, voleva rovinare Prodi"
di CARLO BONINI e GIUSEPPE D’AVANZO *
DUE SQUILLI di telefono. Una voce decisa. "Sono Oleg Gordievskij". Il colonnello Oleg Gordievskij, pochi giorni prima di fuggire dall’Unione Sovietica nel 1985, era stato nominato residente del Kgb a Londra. Aveva cominciato nel 1974 a lavorare per il Sis, il servizio informazioni segreto britannico (chiamato anche Mi6) come agente infiltrato nel Kgb: un agente doppio, dunque, in grado di raccontare di talpe e doppiogiochisti nel "grande gioco" dello spionaggio ai tempi della Guerra Fredda. Per la sua credibilità e per le sue conoscenze, Gordievskij è un nome che ritorna spesso - oggi in Italia - nelle presunte "esplosive rivelazioni" di Paolo Guzzanti e Mario Scaramella. Sarebbe Gordievskij, il desiderato, ambitissimo, attendibile testimone della commissione Mitrokhin capace di "incastrare" Romano Prodi come "uomo del Kgb".
Signor Gordievskij, vorremmo farle alcune domande su Mario Scaramella.
"Possiamo anche chiudere subito la conversazione, visto che immagino le domande. Mario Scaramella è un lurido bugiardo. Quel che ha riferito delle nostre conversazioni e del nostro rapporto è falso dalla prima all’ultima parola. Non ho mai detto che Prodi è stato un agente del Kgb, né ho mai sostenuto che sia stato "coltivato" dall’intelligence sovietica. Fatevelo dire, soltanto in Italia può essere dato credito a un caso psichiatrico come Scaramella. Devo dire altro?".
Se non le dispiace, vorremmo avere da lei qualche dettaglio più preciso. E cominceremmo dall’inizio di questa storia. Quando e come ha conosciuto Mario Scaramella?
"Purtroppo mi sono imbattuto in questo stupido bugiardo circa tre anni fa. Ricevetti una e-mail dal senatore Paolo Guzzanti, che conosco da tempo. Mi chiese di ricevere in Inghilterra questo suo consulente, in cui riponeva massima fiducia, sollecitandomi a collaborare con lui e con le sue indagini sul dossier Mitrokhin. Così iniziò il mio tormento".
Perché "tormento"?
"Scaramella cominciò ad alluvionarmi con e-mail prolisse, logicamente sconnesse, zeppe di richieste incomprensibili, basate su informazioni altrettanto incomprensibili e, soprattutto, di misteriosa provenienza. La conoscenza diretta e personale di questo spostato non migliorò la situazione. Io mi illudevo che l’interesse di Guzzanti e di Scaramella fosse legato ai tentativi di penetrazione del Kgb nella sinistra italiana negli anni ’70-’80. Come del resto era avvenuto in Francia e in Germania. Dunque, pensavo che la vostra commissione Mitrokhin volesse approfondire il lavoro svolto da un centinaio di agenti del servizio segreto sovietico in Italia. Le cose purtroppo non stavano così".
E come stavano?
"Scaramella, sostenuto da Guzzanti, cominciò a ossessionarmi chiedendomi di consegnargli le parti non diffuse dell’archivio Mitrokhin. La richiesta in sé era un non senso. Ma, siccome sono una persona educata, gli spiegai come stavano le cose. Gli dissi che ero un semplice cittadino e non avevo la disponibilità materiale dell’archivio Mitrokhin. Gli dissi che certe domande andavano fatte eventualmente alle autorità inglesi. Una persona normale, se si sente dare una risposta del genere, che fa? La smette. Al contrario, ottenni l’effetto opposto come se la mia indisponibilità eccitasse Scaramella. Mi torturava, lasciandomi capire - tra l’altro - che non gli importava poi molto degli argomenti su cui avrei potuto essergli davvero d’aiuto".
Che cosa voleva allora Scaramella?
"Voleva la testa di Prodi. Ma non fui io a dargliela. Fu Aleksandr Litvinenko. Ricordo ancora perfettamente cosa accadde".
Che cosa ricorda?
"Ricordo il bar di un elegante hotel di Regent Street, un magnifico calice di vino rosso e Aleksandr che, alla mia presenza, racconta a Scaramella una confidenza ricevuta, a suo dire, a Mosca, e prima di fuggire a Londra, da quello che allora era il suo vicedirettore al Fsb, Anatolij Trofimov. Ricordo ancora le parole di Aleksandr. Disse: ’Quando confidai a Trofimov la mia idea di lasciare Mosca e riparare in Italia, il generale mi mise in guardia. Mi disse: stai attento, perché in Italia ci sono molti ex uomini del Kgb. Persino Prodi è un nostro uomo’".
Scaramella sostiene che l’espressione "Prodi è un nostro uomo" sia sua. Di più: Scaramella sostiene che lei si sia spinto ad indicare il dipartimento del Kgb (il V, quello responsabile per le "misure attive") che avrebbe "coltivato" l’attuale premier italiano.
"E’ un’immonda bugia. Quella frase, come stavo dicendo, fu pronunciata da Aleksandr Litvinenko. Io rimasi in silenzio e lo fissai a lungo. Evitai di dire in sua presenza quello che pensavo e che dissi e continuai a ripetere sia a Scaramella che a Guzzanti. Io non solo non avevo alcuna informazione su un qualsivoglia rapporto, di qualsivoglia genere, tra Prodi e il Kgb. Ma ero anche convinto che Aleksandr stesse mentendo due volte. Perché non solo riferiva una circostanza non vera, ma per giunta la attribuiva a una fonte, Trofimov, che non avrebbe potuto smentirla perché era stato ucciso. Insomma, ero convinto ieri e lo sono ancora di più oggi che Aleksandr, per ragioni legate alle continue difficoltà economiche, avesse alla fine deciso di dire a Scaramella quel che Scaramella voleva sentirsi dire. Forse perché da questo immaginava di trarre qualche vantaggio in futuro. Del resto, Aleksandr screditò Prodi non solo con Scaramella, ma anche con alcuni deputati europei inglesi che avevano lo stesso interesse. Questa è una cosa che so per certa, perché quei deputati europei inglesi mi avvicinarono per tentare, inutilmente, di farmi confermare le confidenze di Litvinenko".
Scaramella la sollecitò anche su altri uomini politici della sinistra italiana?
"Sì. Non me ne chiedete però i nomi. Non glieli lasciai neppure pronunciare".
Signor Gordievskij, come è possibile che, con il pessimo giudizio che lei aveva di Scaramella, i vostri rapporti non si siano interrotti subito?
"Io provai quasi subito a troncare, non appena mi fu assolutamente chiaro che prima mi liberavo di questo buffone e meglio sarebbe stato. Lo feci una prima volta rivolgendomi a Guzzanti. Gli mandai una mail dandogli conto delle insopportabili pressioni cui mi sottoponeva il suo consulente. Ricordo perfettamente che gli scrissi: "Scaramella is a mental case", Scaramella è un caso psichiatrico".
E Guzzanti che cosa le rispose?
"Rispose, con quel suo modo bonario, che non dovevo preoccuparmi. Che stavo esagerando, che Scaramella era semplicemente una persona un po’ sopra le righe, ma che questo non doveva preoccuparmi".
Così continuaste a vedervi.
"Cercai di evitarlo. E quando capii che Guzzanti non me lo avrebbe tolto dai piedi e le pressioni su Prodi si fecero ancor più intollerabili, decisi di rivolgermi formalmente al controspionaggio inglese, l’Mi6. Raccontai cosa stava accadendo. Spiegai chi era questo buffone di Scaramella e che cosa pretendeva di farmi dire. L’Mi6 diede immediatamente corso alla mia denuncia, informandone il Foreign Office e il Sismi, cui venne chiesto che le attività di disturbo di Scaramella cessassero immediatamente. Ancora una volta, da persona abituata ad avere a che fare con persone serie, immaginavo di averci messo un punto a questa storia. Mi sbagliavo. Non molto tempo dopo i miei colloqui con l’Mi6, incontrai il mio amico Vladimir Bukovskij. Come sapete anche lui ha rapporti con Guzzanti per la "Mitrokhin" ed è stato contattato nel tempo da Scaramella. Bene, sapete che cosa mi viene a dire Vladimir? ’Ho saputo da Guzzanti e Scaramella che ti sei lamentato con l’Mi6. I due sono molto preoccupati che tu trasformi questa storia in un caso diplomatico’. Andai su tutte le furie. I miei colloqui con l’Mi6 erano avvenuti nella più assoluta discrezione. Guzzanti e Scaramella non solo non avrebbero dovuto esserne a conoscenza, ma, soprattutto, non avrebbero mai dovuto parlarne. Vladimir Bukovskij provò a tranquillizzarmi, ma non ci riuscì. Abbiamo caratteri diversi. Lui ha un temperamento molto tollerante, al contrario del sottoscritto. E non ha mai reagito".
Perché avrebbe dovuto reagire? Anche lui è stato messo sotto pressione da Scaramella?
"Certo che è stato messo sotto pressione. Fu lui stesso a dirmelo. Ma, evidentemente, persino uno come Scaramella dovette presto capire che non avrebbe potuto in nessun modo accreditare le sue fandonie attraverso Vladimir. Anche perché lui, davvero, se non altro per età e per conoscenze, non avrebbe mai potuto verosimilmente essere indicato come riscontro di certe menzogne".
Quando ha incontrato l’ultima volta Scaramella?
"Non voglio essere impreciso. Ma forse non sbaglio se vi dico quasi due anni fa. Era venuto in Inghilterra per una conferenza sull’inquinamento da radioattività del Mediterraneo. Dopo la conferenza, insistette per restare con me a cena e ricordo che lo portai in un piccolo ristorante cinese, molto economico e molto buono. Come al solito mi assillò, ma ebbi gioco facile mettendomi a parlare di cibo cinese. Per fortuna non dovrò più vedere la sua faccia. Soprattutto, spero di non dover più dover dar conto di lui. Un uomo del genere va soltanto dimenticato".
Dimenticato? Lei sa che cosa sta succedendo in Italia?
"Eccome se non lo so. So che è sotto inchiesta e so che rilascia tre interviste al giorno. Bene, io penso che questo spettacolo sia indegno dell’intelligenza umana. Anzi, penso che sia un’offesa all’intelligenza. Ma come si può ancora stare a sentire un megalomane che è stato capace di mentire persino sul suo stato di salute? Che è arrivato a dire che nel suo corpo c’era una dose di polonio cinque volte superiore a quella letale, salvo uscire oggi (ieri, ndr) con le sue gambe dall’ospedale? Lo dico un’ultima volta. Credetemi: Scaramella is a mental case. Non va messo sotto inchiesta, non va buttato in un carcere: va consegnato alle cure di un efficiente staff medico che si prenda cura della sua psiche e, in silenzio e per il suo equilibrio, lo faccia dimenticare".
* la Repubblica, 7 dicembre 2006.
Spy Story
Polonio 210 in vendita su Internet
Un giornalista scopre i siti che promettono di recapitare sostanze radioattive *
LONDRA - «Compra online il Polonio 210». Un giornalista della Fox News, George Kindel, è riuscito a scovare i siti Internet che promettono di recapitare quantità di sostanze radioattive, oltre al Polonio 210 che ha ucciso Alexander Litvinenko, anche uranio e cesium-137. Scorte del micidiale isotopo scoperto da Madame Curie, in particolare, sono state rintracciate su un link della United Nuclear, una compagnia di Sandia Park, branca del Sandia National Laboratorier, sede del laboratorio di ricerca americano sulle armi nucleari.
Sul proprio sito, il fisico Bob Lazar, spiega che modiche quantità di sostanze come il Polonio sono «permesse dalla Nuclear Regolatory Commissione (Nrc), senza alcuna licenza». E spiega che «tutti gli isotopi si possono ordinare alla Rnc di Oak Ridge».
Inoltre, avverte l’illustre fisico statunitense, vi sono sostanze mollto più pericolose del polonio 210, ad esempio l’ amercium-241, che è almeno dieci volte più letale dell’isotopo radioattivo usato per uccidere il dfezionista russo a Londra e che ha contaminato, finora, il consulente della commissione Mitrokhin, Mario?Scaramella e probabilmente anche Andrei Logovoi, ex spia russa e sospettato numero uno da Scotland Yard per l’omicidio. Un altro sito dove si potrebbe rimediare polonio 210 è mailnetwork.com, che assicura tuttavia di vendere dosi non letali.
* La Stampa, 04.12.2006
Times: i sette membri dello staff del Pine Bar contaminati dal polonio 210. Ci cercano i 250 ospiti presenti quel giorno
Londra, Litvinenko avvelenato nel bar dell’Hotel Millennium
L’ex spia del Kgb il primo novembre aveva incontrato due uomini d’affari. Uno dei quali sarebbe in coma *
LONDRA - Alexander Litvinenko, l’ex agente del Kgb morto il 23 novembre scorso, non sarebbe stato avvelenato nel sushi bar Itsu, ma in un altro bar. Precisamente quello del lussuosissimo Hotel Millennium di Grosvenor Square. Lo sostiene il Times che cita alcuni investigatori britannici. L’ipotesi ha preso corpo dopo che tutti i sette membri dello staff del Pine Bar dell’albergo sono risultati positivi alla sostanza radioattiva, con livelli di polonio 210 simili a quelli riscontrati nella moglie di Litvinenko, Marina.
Litvinenko, il primo novembre scorso, aveva incontrato nel bar del Millennium - famoso per essere luogo di ritrovo di business man e ospiti stranieri - due uomini d’affari russi. In quello stesso giorno era stato avvelenato dal polonio 210.
Le autorità sanitarie stanno adesso cercando di contattare i circa 250 clienti che sono stati serviti al bar il primo novembre scorso offrendo loro la possibilità di sottoporsi ad analisi per verificare i livelli di radioattività nell’organismo. Un’offerta del genere è stata fatta anche a coloro che furono nel bar il giorno precedente e in quello successivo all’incontro, durante il quale Litvinenko potrebbe essere stato avvelenato.
Pat Troop, dell’Agenzia per la salute britannica, ha assicurato che nel breve periodo i sette baristi non corrono rischi, ma nel lungo potrebbe esserci un rischio "molto piccolo" di ammalarsi di cancro. Il livello di radioattività riscontrato negli addetti al bar è di molto inferiore a quello che uccise Litvinenko ma - ha detto Pat Troop - è simile a quello registrato in un membro adulto della famiglia dell’ex agente.
Il fulcro dell’indagine è al momento in Russia, dove gli agenti di Scotland Yard dovrebbero interrogare Andrei Lugovoi, una delle persone che Litvinenko vide al Pine Bar, anch’egli ex agente Kgb. Intanto, ci sono notizie contraddittorie sulla salute di Dimitri Kovtun, un altro dei protegonisti del meeting, socio d’affari di Lugovoi: secondo l’agenzia russa Interfax sarebbe in coma, una circostanza però smentita dal suo avvocato.
Secondo Michael Clark, della Divisione protezione dalle radiazioni dell’Agenzia, Litvinenko, seppellito ieri a Londra con un cerimonia islamica, potrebbe essere stato avvelenato con una sigaretta contaminata o con una bevanda. In questa seconda ipotesi, il vapore emanato dal bicchiere potrebbe essere stato inalato da chiunque intorno a lui.
Secondo gli investigatori - riporta sempre Times - il drink avvelenato ingerito da Litvinenko potrebbe essere stato preparato nella camera di un ospite dell’Hotel che si trova a pochi passi dall’ambasciata americana. Significative tracce di polonio sono state individuate in una stanza del quarto piano, occupata da ospiti russi.
* la Repubblica, 8 dicembre 2006.