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Dialogo di un comunista con un anticomunista - di Antonio Bitonti

In questo dialogo, non troppo di fantasia, il giurista e politologo Antonio Bitonti mette sapientemente a fuoco alcuni aspetti del comunismo come pratica politica dentro la questione meridionale del lavoro e dell’emigrazione
giovedì 7 giugno 2007.
 

A: Che cosa significa essere comunisti in Italia?

C: La cosa più comica che mi capita di sentir dire è che i comunisti non tengono ai soldi: quasi che il comunismo fosse una scelta francescana. Sicuramente piacerebbe ai padroni avere operai tendenti all’ascetismo.

A: Ciò che non capisco di voi comunisti è come potete predicare l’amore libero, le donne in comune.

C: Ma quali donne in comune? Le donne non sono un piano di scale, un lastrico solare, un oggetto a cui dire: tu sei mia... ma anche sua, di questi, quello, nostra. Una cosa che si presta magari, e che poi si restituisce o la si tiene, democraticamente, in comune appunto. Penso che questo al massimo sia il sogno d’un maniaco o di qualche fascista.

A: Potrebbe spiegarci perché i comunisti ce l’hanno tanto con la proprietà privata?

C: Alcuni dicono, e sono centinaia di anni, basta leggere il Manifesto, che i comunisti vogliono abolire la proprietà privata perché è un furto. Ora, non pretendo che chi lo dice sappia che a dire che la proprietà è un furto fu uno che Marx criticava a morte. Voglio ricordare invece una cosa molto semplice. Quando si dice abolire la “proprietà privata” la gente pensa alla macchina, alla casa, alle salsicce, al computer, al prosciutto. Il comunista invece, anziché questa proprietà privata, vuole colpire quella che conta nel sistema economico, la proprietà d’una cava di marmo o rame o oro, o un pozzo di petrolio o lo stabilimento dove si fonde l’acciaio o si lavora sui microcip o si crea una automobile, un aereo, armi, munizioni, ecc. ecc. Insomma non la proprietà delle proprie scarpe o del proprio naso, intendono abolire i comunisti, il che sarebbe folle.

A: Si tratta di abolire la proprietà dei mezzi di produzione in sostanza, ma il punto è: per sostituirla con che cosa?

C: Con il diritto all’uso da parte degli operai. Con una sorta di autogoverno operaio della fabbrica...

A: Ho capito, ho capito, se n’è parlato già abbastanza negli anni Settanta. Piuttosto cosa ne pensa dei comunisti che mangiavano i bambini?

C: Nulla.

A: Come sarebbe a dire.

C: Sarebbe a dire niente. Lei cosa ne pensa delle streghe del medioevo che sconvolgevano le messe ai contadini dopo aver fatto un patto con il diavolo?

A: Forse erano solo delle povere matte che nessuno capiva e sicuramente non avevano commesso le atrocità di cui i tribunali ecclesiastici le accusavano.

C: Così va bene.

A: Veniamo alle industrie, che, come tutti sanno, non nascono spontaneamente come i funghi in Sila. Quando questo Stato-nazione è nato, l’industria doveva ancora mettere salde radici. Le classi politiche al governo hanno dovuto fare delle scelte. Anche i comunisti e prima i loro padri socialisti, le hanno dovute fare. Lei crede che i comunisti italiani abbiano fatto una buona politica industriale in questo Paese?

C: Non capisco cosa voglia dire.

A: Allora. Secondo me, per capire cosa significa essere comunisti oggi in Italia, bisognerebbe analizzare una a una tutte le scelte di politica economica e industriale, o le più importanti, che sono state prese o comunque appoggiate dai comunisti in Italia. È apprezzato canone gnoseologico in storiografia, che, per “conoscere” un fatto, bisogna indagarne l’origine. Qualcosa è com’è, perché è nato in un certo modo, a certe condizioni, in un dato tempo. Siamo d’accordo su questo?

C: Sì, ma c’entra con le industrie? Mi sta forse chiedendo di rifare qui la storia d’Italia?, perché di questo si tratta. Ed evidentemente ciò non è possibile.

A: Mi scusi se insisto. Voglio dire, in sintesi, che lo stato delle cose è chiaro a tutti: l’Italia è solcata in due, una parte sfiora la piena occupazione, l’altra ha una disoccupazione altissima, e, da quando esistono statistiche (circa dal 1880), tranne che durante il Ventennio, quando emigrare era più o meno un reato, soffre d’una emigrazione ininterrotta che lo dissangua. Vorrei da lei una risposta su questo. Il punto di fondo della mia domanda è: i comunisti sono contro il lavoro? Cioè stati contro la diffusione del lavoro su tutto il territorio nazionale?.

C: Ah, ora capisco. Ma mi consenta una premessa. Innanzitutto lei deve distinguere il popolo dei comunisti, da quelli che erano in posizioni tali da poter prendere o appoggiare scelte di politica economica e industriale.

A: Va bene, ammetto l’utilità di questa distinzione. C: Secondo. Quando dice “contro il lavoro”, credo intenda il lavoro in tutte le forme e in specie il salariato, quello alle dipendenze d’un padrone. Salariato industriale per essere precisi.

A: Esatto.

C: Ammettiamo per un momento, al solo scopo di svolgere l’argomentazione che segue, la risposta positiva, cioè che i comunisti sono stati contro la diffusione del lavoro salariato su tutto il territorio nazionale. A rigor di logica dovremmo dire, che, siccome dove c’è il salariato industriale, ivi c’è l’industria, i comunisti, in Italia sono stati contro la diffusione dell’industria su tutto il territorio nazionale. Ora questa è una conclusione assurda, e non solo perché tale è la premessa.

A: Mi scusi ma non c’è nulla di assurdo in questa conclusione.

C: Dunque lei è tra quelli che credono che i comunisti sono contro il lavoro?

A: Beh, se vogliamo dirla in questi termini... ma il succo mi sembra proprio questo.

C: Siamo al paradosso. Il partito dei lavoratori che è contro il lavoro, magari anche contro i lavoratori...? A: Non tocca a me fare l’apologia dell’operato dei comunisti in Italia.

C: Ecco, appunto.

A: Volevo farle notare, senza spirito rissoso, che, in sintesi, la politica del lavoro dei comunisti in Italia, fino a tutt’oggi beninteso, a mio avviso è definibile politica del lavoro e non per il lavoro, politica a difesa del lavoro e non per la diffusione del lavoro, politica a tutela, sacrosanta s’intende, del lavoro acquisito e non politica per sradicare la disoccupazione, l’inoccupazione, l’emigrazione.

C: Sarei quasi tentato di dirle che questo è solo un gioco di parole.

A: La disoccupazione e l’emigrazione per lei è un gioco di parole?. Bene, ne prendo atto.

C: D’accordo, ne prenda atto.

A: Quando alcuni, in termini ideologici e per fini di propaganda, non lo nego, dicono che anche i comunisti hanno fatto politica a difesa del triangolo industriale, a difesa del Nord industriale e capitalista, e una politica contro o cinicamente indifferente nei confronti del Sud, agricolo, sottosviluppato, inoccupato, emigrante, cosa pensa lei? Che magari esagerano o che sono proprio dei matti?

C: È una vecchia storia, che risale all’epoca anteriore a Salvemini...

A: Il vecchio molfettese, Salvemini, se non sbaglio quello che fondò l’Unità.

C: No, l’Unità la fondò Gramsci.

A: Non era Salvemini...

C: No. Per tornare alla domanda... lei sa che proprio Salvemini venne isolato e poi allontanato, dirò così, dal partito socialista, per aver posto in termini più o meno simili la questione meridionale...

A: Perché diceva che ai socialisti che non si opponevano, anzi appoggiavano apertamente l’industrializzazione del Nord a tutto danno del Sud?

C: Sì, ma si tratta di questioni superate dalla storia.

A: Superate?

C: In questi termini, sì.

A: Ah, anche la questione meridionale è roba superata. Bene a sapersi, così aggiorneremo l’elenco delle nostre priorità.

C: Salvemini appoggiò la guerra dell’Italia in Africa.

A: E questo che c’entra con il sottosviluppo del Mezzogiorno?

C: Niente, glielo detto per farle capire che uomo politico era.

A: Era un grandissimo intellettuale, che quando andò in america, nonostante avesse un passato da marxista, lo chiamarono a insegnare alla Harward, mentre in Italia, oggi...

C: Non mi sembra che l’argomento abbia a che fare con l’attuale politica dei comunisti in Italia.

A: Ha ragione.

C: Bene.

A: Conosce Paolo Cinanni?

C: Paolo chi?

A: Cinanni?

C: No, purtroppo no.

A: Cinanni fu un comunista, un comunista vecchio stampo, magari ce ne fossero, che, anche se voi comunisti non lo ammetterete mai, venne prima isolato e poi di fatto allontanato dal PCI per aver posto in termini chiari, precisi, scientifici, la questione meridionale.

C: Un altro caso Salvemini?

A: Ebbene sì, è proprio così.

C: Il PCI non ha mai allontanato qualcuno perché poneva seriamente questioni gravi...

A: Molti sanno che Ferrando vuole scindersi da Rifondazione.

C: Sì, lo sanno tutti.

A: Ho letto il programma del costituendo PCL e ho constatato che la priorità si chiama lotta all’imperialismo, alla guerra americana, lotta al precariato, difesa del TFR e altre nobili priorità, mancano però progetti per i sogni di un meridionalista. Cosa ha da dire al riguardo?

C: Il compagno Ferrando è coerente con se stesso...

A: Voglio dire, già il nome Partito dei Lavoratori, così si chiamerà, se nascerà, non è una conferma che si tratta del partito di chi il lavoro già ce l’ha, e non di chi emigra in Germania da Roccella Ionica?

C: Vedo che lei ha una certa confidenza con i giochi di parole. Un comunista difende il lavoro in tutte le sue forme.

A: Ma è esattamente quello che sto dicendo: un comunista difende il lavoro ma non lotta anche per diffonderlo, per portarlo dove non c’è?

C: E che cosa crede che abbia fatto il PCI nei suoi 70 anni di vita?

A: Beh, su questo abbiamo idee diverse.

C: Mi permetta di dire: meno male.

A: Prendiamo un argomento capitale per un comunista: costruire l’egemonia nelle rivolte popolari.

C: Di che cosa vuole parlare ora, dei Fasci siciliani?

A: Lasciamo stare i Fasci siciliani, che pure furono, senza ombra di dubbio, l’unico vero movimento rivoluzionario che vi fu in Italia, e lasciamo stare pure il fatto che, incredibilmente, i socialisti d’allora ci vedevano la “maffia” in tutto questo.

C: A quel tempo non era semplice per un partito appena nato e con i mezzi di comunicazione esistenti, essere esattamente informati dello stato delle cose.

A: Anche Antonio Labriola dapprincipio cadde in questo errore, però, poi comprese il reale valore dell’evento, e non lo fece cinquant’anni dopo.

C: Labriola era un teorico, non un uomo d’azione. A: D’accordo. Verrò a un’epoca più recente. Lascio da parte sia le lotte per la terra dell’immediato dopoguerra, sia della prima che della seconda, e salto al 1970. Reggio Calabria.

C: Benissimo, parliamone.

A: Quale fu l’atteggiamento del PCI rispetto ai moti di Reggio? Le chiedo insomma cosa ha fatto il PCI, o meglio, forse dovrei dire che cosa non ha fatto?

C: Lei è prevenuto, amico mio. Prevenuto contro i comunisti, e non è l’unico...

A: Perché il PCI non seguì o appoggiò in alcun modo Adriano Sofri, che pure andò a Reggio Calabria per egemonizzare la lotta e non vi riuscì?

C: Tutti sanno e sono convinti che dietro quella rivolta c’era la mafia, come nel 1892-1893 dietro ai Fasci. A Reggio c’erano i fascisti di Ciccio Franco.

A: Ciccio Franco arrivò dopo. Le masse erano senza una guida politica.

C: Ma lei davvero crede che con quella rivolta si sarebbe potuta accendere la miccia della rivoluzione?

A: Non lo so. Nessuno può prevedere il futuro e nemmeno dire come il passato sarebbe andato se ci fosse stato questo o quello.

C: E qui si sbaglia. Proprio così bisogna ragionare, quando si cerca di intendere, comprendere la storia. Bisogna chiedersi che cosa sarebbe successo se si fosse verificato questo o quest’altro evento. Se le cose sarebbero potute andare diversamente.

A: Lei crede nella validità di questi ragionamenti? C: Certo. C’è l’ha insegnato Max Weber, che di metodologia delle scienze sociali se ne intendeva.

A: Ah, Max Weber il più grande critico di Marx, quello che ha dimostrato come lo spirito protestante abbia dato impulso allo sviluppo del capitalismo. C: Non è così semplice come crede.

A: Mi corregga se sbaglio. Marx diceva, fra l’altro, che non è la coscienza che determina lo stato delle cose, l’essere sociale, ma viceversa. Che le idee non incidono affatto nella realtà, ma che è la condizione materiale che in realtà si vive, da cui nascono le nostre idee. Giusto?

C: Lei tende a estremizzare ogni cosa. Comunque sì, per confutare l’allora imperante idealismo hegeliano, Marx ha detto una cosa che può sembrare simile ma non è affatto quello che ha detto lei. Questa è una scemenza.

A: Torniamo a Reggio nel 1970. Lei crede, come quasi tutti, che la rivolta scoppiò per lo spostamento del capoluogo, da Reggio a Catanzaro?

C: E perché se no?

A: Nessun ruolo ha giocato secondo lei la cronicità della disoccupazione, l’emigrazione dilagante e galoppante, la miseria diffusa?

C: Sono cose, queste, di cui nessuno ancora ha dato prova di quanto abbiano effettivamente inciso nella rivolta di Reggio. Come dire: sono solo ipotesi.

A: Bene, prendo atto che per lei la mancanza cronica e devastante del lavoro in Calabria e connessa emigrazione, sono ipotesi?

C: Non ho detto questo. Sarei folle se lo dicessi. Ho detto solo che ancora non è chiaro se e quanto, tali fatti, che nessuno può negare, tanto meno un comunista come il sottoscritto, abbiano concorso a determinare quello che poi è successo.

A: Perché ancora oggi le priorità dei comunisti in Italia sono la lotta contro l’imperialismo americano e la precarietà del lavoro?

C: Non credo che questa domanda abbia un senso.

A: Mi spiego. Perché ancora oggi i comunisti non scendono nel Mezzogiorno a organizzare ed egemonizzare le lotte dei contadini e dei disoccupati meridionali?.

C: Si possono avanzare diverse ipotesi esplicative...

A: Mi permetta di suggerirne una, forse la più fondata e anche la più feroce verso i comunisti. I meridionali sono stati, cioè dovevano essere, e ancora devono essere, la manodopera, l’esercito di riserva del capitalismo tosco-padano.

C: La trovo un’ipotesi poco plausibile...

A: Come si spiega allora che lo Stato, lo stesso Stato fondato sul diritto al lavoro, finanzia, ancora oggi, con piani di mobilità e altre mille misure, l’emigrazione dei meridionali?.

C: È un fenomeno che andrà scomparendo.

A: Certo ora ci sono i lavoratori extracomunitari, i nuovi terroni...

C: Non sia cinico

A: Cinico?

C: Sì, cinico.

A: Resta comunque vergognoso a mio avviso il fatto che l’Italia firmò trattati internazionali con i quali s’impegnava a cedere manodopera, cioè uomini, al Belgio, e il Belgio in cambio ci dava carbone?.

C: Crede che una Nazione dopo una guerra disastrosa e una sanguinosa lotta di liberazione, non debba fare sacrifici per rimettersi in piedi?

A: Lo credo e come. Dico solo che gli uomini, i moderni servi della gleba, che andavano in Belgio, e invero non solo lì, venivano quasi tutti dal Sud, mentre, il carbone andava alle industrie, cioè al Nord.

C: Amico mio, non è mica colpa dei comunisti se il sole nasce a oriente e tramonta a occidente.

A: Ancora oggi, giugno 2007, nessun comunista si vede a difesa, ad esempio, dei pescatori di Reggio Calabria, degli operai della fabbrica di Vibo che produce tappezzeria per automobili, e che vuole dislocare in Romania, dei coltivatori crotonesi di finocchi, di barbabietole, dei viticultori ecc. ecc.

C: La politica di uno Stato non è solo politica dello Stato centrale, esistono anche enti locali, come la Regione, dotati di larghe autonomie amministrative e potestà legislative.

A: Voglio esprimere un’idea che, credo, è molto diffusa nel Sud d’Italia. I figli prediletti dei comunisti non sono questi, questi uomini che lavorano e lavorano davvero, ma quelli che non lavorano, e che non vogliono in fondo lavorare, ai quali è possibile promettere due soldi in cambio di voti. Il sistema politico qui si regge e autolegittima così. In fondo i disoccupati sono, anche sotto questo aspetto, un esercito, un esercito questa volta non di manodopera ma di votanti.

C: Queste insinuazioni sono inaccettabili.

A: Saranno inaccettabili ma è un sentire diffuso. Parli con qualcuno e ne avrà la conferma.

C: Non ho bisogno di bagni di folla, io.

A: Neanche io.

Antonio Bitonti


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