[...] Il fenomeno di questi fondi rapaci è apparso una quindicina di anni fa ma, drogato da un credito a buon mercato e grazie alla creazione di strumenti finanziari sempre più sofisticati, negli ultimi tempi ha preso un’ampiezza preoccupante. Infatti il principio è semplice: un club d’investitori con grandi fortune decidono di acquistare imprese che in seguito gestiscono in modo privato, lontani dalla Borsa e dalle sue regole costrittive e senza dover rendere conto ad azionisti puntigliosi (3). L’idea è quella di aggirare i principi stessi dell’etica del capitalismo puntando soltanto sulle leggi della giungla [...]
Voracità
di Ignacio Ramonet (traduzione dal francese di José F. Padova)*
Mentre contro l’orrore economico il discorso critico - che un tempo veniva chiamato altermondialiste [ndt.: traducibile con: terzomondialista] - s’ingarbuglia e diventa improvvisamente impercettibile, s’impianta un nuovo capitalismo, ancor più brutale e conquistatore. È quello di una nuova categoria di fondi-avvoltoio, i fondi d’investimento con appetiti da orco che dispongono di capitali colossali (1).
I nomi di questi titani - The Carlyle Group, Kohlberg Kravis Roberts & Co (KKR), The Blackstone Group, Colony Capital, Apollo Management, Starwood Capita! Group,Texas Pacific Group,Wendel, Eurazeo, ecc - sono poco conosciuti dal grande pubblico e, al riparo di questo riserbo, stanno impadronendosi dell’economia mondiale.
In quattro anni, dal 2002 al 2006, l’ammontare dei capitali prelevati da questi fondi d’investimento, che raccolgono denaro da banche, assicurazioni, fondi di pensionamento e da ricchissimi privati, è passato da 94 miliardi di euro a 358 miliardi. La loro potenza di fuoco finanziaria è fenomenale, supera i 1100 miliardi di euro! Nulla resiste loro.
L’anno scorso, negli Stati Uniti, i principali private equities hanno investito qualcosa come 290 miliardi di euro nella rilevazione di aziende e più di 220 miliardi nel corso del solo primo semestre del 2007, assumendo così il controllo di ottomila società... già ora un salariato americano su quattro - e quasi un salariato francese su dodici - lavorano per questi mastodonti (2).
D’altra parte la Francia è diventata il loro primo bersaglio, dopo il Regno Unito e gli Stati Uniti. L’anno scorso hanno fatto man bassa su quattrocento imprese (per un importo di 10 miliardi di euro) e ne gestiscono ormai più di milleseicento. Alcuni marchi molto noti - [ndt.: segue elenco di grandi Società francesi] - si ritrovano sotto il controllo di private equities, per lo più anglosassoni, che adesso già mettono gli occhi su dei giganti del CAC 40 [ndt.: l’indice borsistico CAC 40, che prende nome dal primo sistema di automazione della Borsa di Parigi, la Cotation Assistée en Continu].
In concreto, ci spiegano due specialisti, le cose avvengono così: «Per comprare una società che vale 100 il fondo mette 30 di tasca sua (si tratta di una percentuale media) e chiede in prestito 70 alle banche, approfittando dei tassi d’interessi molto bassi del momento. Durante tre o quattro anni riorganizza l’impresa, mettendovi un management di sua fiducia, razionalizzando la produzione, sviluppandone le attività e intercettando tutti o parte dei profitti per pagare gli interessi...del suo debito. In seguito a tutto ciò rivenderà la società a 200, spesso a un altro fondo che farà la medesima cosa. Una volta rimborsati i 70 presi a prestito gliene resteranno 130 in cassa, per una posta iniziale di 30, ovvero più del 300% di ricavo sull’investimento in quattro anni. Chi farebbe meglio (4)?»
Mentre personalmente intascano patrimoni demenziali, i dirigenti di questi fondi praticano ormai, senza patemi d’animo, i quattro grandi principi della «razionalizzazione» delle imprese: ridurre i posti di lavoro, comprimere i salari, aumentare i ritmi della produzione e delocalizzare. Incoraggiati in tutto ciò dalle pubbliche autorità, le quali sognano, come oggi fanno quelle francesi, di «modernizzare» l’apparato produttivo. E a grande scapito dei sindacati, che gridano all’incubo e denunciano la fine del contratto sociale.
Qualcuno pensava che con la globalizzazione il capitalismo fosse infine sazio. Adesso si vede che la sua voracità sembra non avere limiti. Fino a quando?
Ignacio Ramonet
(1) Vedi Frédéric Lordon, « Quand la finance prend le monde en otage », Le Monde diplomatique, settembre 2007.
(2) Vedi Sandrine Trouvelot e Philippe Eliakim, « Les fonds d’investissement, nouveaux maitres du capitalisme mondial », Capital, Paris, luglio 2007.
(3) Vedi Philippe Boulet-Gercourt, « Le retour des rapaces », Le Nouvel Observateur, Paris. 19 luglio 2007.
(4) Cfr. Capital, op. cit.
*
Le Monde Diplomatique, novembre 2007, n° 644, pag. 1
Per materiali sul tema, nel sito, si cfr. nei seguenti "contenitori":
Riassunto della crisi subprime
CRISI FINANZIARIA, ECONOMICA E POLITICA. CHE "PARADISO": UN LUNGO DEFICIT DI LOGICA E DI ETICA!!!
I predatori metropolitani
di Sandro Mezzadra (il manifesto, 10.02.2012)-
Il capitalismo contro il diritto alla città è il titolo scelto dalla casa editrice Ombre corte per il piccolo libro di David Harvey da poco in libreria (pp. 106, 10 euro). È un libro, conviene dirlo subito, tanto piccolo quanto prezioso. Per chi non conosce il lavoro di Harvey, uno dei protagonisti indiscussi dei dibattiti marxisti internazionali, è un’ottima introduzione ai temi al centro della sua ricerca fin dall’inizio degli anni Settanta, qui rivisitati sullo sfondo della crisi contemporanea. Per chi è familiare con l’opera dell’autore inglese, da tempo trasferitosi negli Stati Uniti, la lettura dei tre capitoli che compongono il volume riserva qualche sorpresa - o meglio dischiude prospettive analitiche e politiche rimaste sotto traccia nel lavoro di Harvey degli ultimi anni (da La guerra perpetua a Breve storia del noeliberalismo, entrambi usciti in Italiano per Il Saggiatore, fino a L’enigma del capitale, pubblicato lo scorso anno da Feltrinelli).
Espropriazione urbana
Geografo di formazione, Harvey ha raccontato spesso come il momento decisivo nella sua radicalizzazione politica sia stato l’arrivo a Baltimora, nel 1969: «non avevo mai visto un tale livello di povertà», ha dichiarato ancora di recente in un’intervista con la rivista francese Vacarme. Erano gli anni in cui, negli Stati Uniti, il dibattito pubblico era dominato dal tema della «crisi urbana», sullo sfondo delle grandi rivolte nei ghetti afro-americani. Da quel momento, la questione della città è rimasta al centro del lavoro di Harvey, all’interno di un più generale tentativo di integrare la dimensione dello spazio all’interno di un rinnovato paradigma marxista: ne è derivata la proposta, in particolare in Limits to Capital (1982), di un «materialismo storico-geografico» che, sulla base di una originale rilettura del secondo libro del Capitale, ha influenzato in modo duraturo il lavoro di un paio di generazioni di «geografi radicali».
Come si può in generale definire il ruolo dell’urbanizzazione all’interno del capitalismo? A giudizio di Harvey, le città sorgono storicamente «attraverso la concentrazione geografica e sociale di una eccedenza di prodotto» e sono essenziali al capitalismo per «assorbire i prodotti eccedenti che produce in continuazione». Sono dunque i luoghi per eccellenza di quella «distruzione creatrice» su cui si fonda l’accumulazione del capitale. I quartieri proletari della Parigi del II Impero rasi al suolo per realizzare i piani di riorganizzazione metropolitana di Haussmann, studiati da Harvey in un libro del 2003, diventano così il simbolo di una lunga storia di «espropriazione» e di «pratiche predatorie urbane» che accompagna l’intero arco dello sviluppo capitalistico - fino a oggi. Centrale, d’altro canto, risulta nella prospettiva di Harvey il nesso tra rendita immobiliare e rendita finanziaria, definito dall’interno di una ripresa del concetto marxiano di «capitale fittizio». Si legga la definizione qui offerta della terra come «una forma immaginaria di capitale basata sull’aspettativa di rendite future», si pensi al funzionamento dei mercati finanziari e si capirà facilmente come le «affinità elettive» tra rendita urbana e finanza abbiano solidi fondamenti.
Nella prospettiva analitica di Marx, scrive Harvey, «il capitale fittizio non è il frutto del cervello rovinato dalla cocaina di qualche operatore di Wall Street». Proprio partendo dalla sua analisi del rapporto tra urbanizzazione e capitalismo, vengono qui messi efficacemente in evidenza i limiti delle critiche che si concentrano sul carattere meramente «speculativo» della finanza. Quel che caratterizza il presente sono piuttosto per Harvey da una parte l’eccezionale sviluppo e la complessità dei dispositivi finanziari, dall’altra la «globalizzazione» tanto dei mercati finanziari quanto dell’urbanizzazione. Questi sviluppi hanno certo reso possibile tanto un’estensione spaziale dei circuiti dell’accumulazione capitalistica che ruotano attorno al nesso tra rendita metropolitana e rendita finanziaria quanto una intensificazione di questo nesso: basti pensare, per fare un unico esempio, a come i mutui subprime abbiano consentito di includervi poveri e minoranze.
Al tempo stesso, tuttavia, Harvey dimostra come anche la crisi abbia conosciuto un movimento di estensione e intensificazione, fino a divenire negli ultimi anni il vero e proprio orizzonte dello stesso «sviluppo» anche al di fuori dell’Occidente, nei Paesi cosiddetti emergenti. «Sconcertanti», a suo giudizio, risultano dunque le affermazioni contenute in un rapporto della Banca Mondiale del 2009, che all’indomani del fallimento di Lehmann Brothers riproponeva l’usuale alchimia neoliberale di rule of law, diritti di proprietà e «innovazioni finanziarie» («mercato ipotecario secondario», «cartolarizzazione dei mutui», etc) come chiave di volta per lo sviluppo urbano e regionale.
La politica dello spazio
Si è detto della Parigi del secondo Impero. È noto quanto considerazioni di ordine «militare» abbiano influenzato i progetti di Haussmann. Scrive Walter Benjamin in una pagina famosa che il suo vero obiettivo «era di garantire la città dalla guerra civile. Haussmann voleva rendere impossibile per sempre l’erezione di barricate a Parigi». E tuttavia, di lì a pochi anni, «la barricata risorge nella Comune, più forte e più sicura che mai». È una vicenda ricorrente, anche in questo caso fino a oggi. Le indicazioni offerte da Harvey in questo libro configurano la possibilità di una vera e propria contro-storia del rapporto tra capitalismo e questione urbana: lotte e rivolte non si limitano a rappresentare l’«effetto» dello svolgersi di questo nesso; determinano piuttosto la crisi di specifici «regimi» urbani, affermano nuovi modi di abitare e vivere la città, aprono puntualmente la possibilità di una trasformazione - di tanto in tanto: di una rivoluzione.
Il «diritto alla città» che dà il titolo al libro di Harvey rinvia al lavoro di Henri Lefebvre, un teorico marxista francese autore tra gli anni Sessanta e Settanta di fondamentali studi sulla «politica dello spazio». Il confronto con Lefebvre è uno dei fili rossi di questo libro, che costituisce anche un invito a riscoprire un autore e un’opera sostanzialmente dimenticati in Italia ma al centro di un vivace dibattito soprattutto nel mondo anglosassone. Harvey mostra bene come Lefebvre avesse anticipato alcuni sviluppi contemporanei della questione urbana, a partire dal salto di scala dell’urbanizzazione, dalla sua esplosione a livello globale. E riprende molte sue suggestioni quando indica nella città il terreno fondamentale su cui deve essere ripensata e organizzata la lotta contro il capitalismo. Con più forza e con maggiore originalità rispetto ad altri suoi lavori recenti, in particolare, Harvey mette qui al centro della sua riflessione la «produzione della città», invitando a riconsiderare lo stesso concetto di «proletariato» dal punto di vista della sua composizione metropolitana, includendovi «tutti coloro che favoriscono il riprodursi della vita quotidiana» nella città. Tra lavoratori edili e «badanti», operatori culturali e ospedalieri (per menzionare qualche esempio tratto dalla lunga lista presentata alla fine del libro), il problema fondamentale che Harvey propone al dibattito e all’azione politica è «quello della ricerca di unità all’interno di un’incredibile varietà di spazi sociali frammentati» e attraversati da una strutturale «precarietà» del lavoro e della vita.
I luoghi della cooperazione
Assunta questa centralità delle reti e delle figure soggettive della cooperazione metropolitana, la contrapposizione proposta da Harvey in precedenti lavori tra «accumulazione per espropriazione» (ad esempio di terre) e «accumulazione per sfruttamento» (del lavoro) risulta felicemente problematizzata. Sul terreno della «produzione della città» i confini tra le due forme tendono a sfumare, proponendo l’urgenza di una nuova definizione generale dello sfruttamento, all’altezza della violenza con cui opera oggi la rendita immobiliare e finanziaria. Avanzare dal punto di vista teorico su questo terreno risulta essenziale per riempire di contenuti la rivendicazione del «diritto alla città», che come afferma Harvey è un «significante vuoto»: «rivendicare il diritto alla città è, in realtà, rivendicare il diritto a qualcosa che non esiste più (ammesso che sia mai esistito)». È rivendicare un «diritto mirato», che non può esistere cioè all’infuori dell’individuazione dei suoi soggetti e dalla materiale produzione di una nuova «città», di un nuovo luogo comune di cooperazione, uguaglianza e libertà: «il diritto alla città contro il capitalismo», si potrebbe allora dire rovesciando il titolo di questo libro.