VATICANO NON RECEPIRA’ PIU’ LEGGI ITALIA: TROPPE E AMORALI *
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano non recepirà più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane; innanzitutto per il "loro numero esorbitante", in secondo luogo per "la loro instabilità" e , infine, per il contrasto "con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunciabili da parte della Chiesa". Lo spiega l’Osservatore Romano, presentando la nuova legge della Santa Sede sulle fonti del Diritto, già firmata da Benedetto XVI, e che entrerà in vigore il primo gennaio 2009.
I pontefici - ricorda il giornale vaticano - hanno riconosciuto la maggioranza o quasi totalità dei sudditi vaticani come cittadini italiani. Mentre nella precedente legge sulle fonti del diritto "operava una sorta di recezione automatica" della legislazione italiana, nella "nuova disciplina si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana".
"Più di un motivo sembra giustificare quest’ulteriore cautela nella recezione della legislazione italiana, rispettata nella sua propria sovranità, ma chiamata nello stesso tempo a rispettare e a confrontarsi con quella vaticana", spiega nell’articolo il prof. José Maria Serrano Ruiz, presidente della Commissione per la Revisione della Legge sulle fonti del Diritto vaticano.
"Ne indichiamo - scrive - solo tre: in primo luogo il numero davvero esorbitante di norme nell’Ordinamento italiano, non tutte certamente da applicare in ambito vaticano; anche l’instabilità della legislazione civile per lo più molto mutevole e come tale poco compatibile con l’auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come tutte le operazioni dell’intelletto, cerca di per sé l’immutabilità dei concetti e dei valori; e infine - sottolinea - un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il parlamento clandestino dichiara illegale la clandestinità (degli immigrati)
Genova 2 luglio 2009. - Oggi è giorno di lutto per l’Italia fondata sul diritto e sulla Carta Costituzionale. Dopo i giorni della presidenza del consiglio trasformata in lupanare all’aperto, ecco i giorni della demenza giuridica e della vergogna di un governo che legifera solo per soddisfare i propri istinti e ignoranza. Due settimane fa il governo doveva varare la legge sulla prostituzione, penalizzando i clienti, su proposta della Mara Carfagna, non sappiamo (o forse sì?) per quali meriti divenuta ministra della moralità e approvata dal presidente del consiglio, «utilizzatore finale» di escort o prostitute a tre zeri. Qualcuno ha avuto la decenza di rimettere il disegno di legge nel cassetto, in attesa di tempi meno travagliati dalle parti governative. Occorreva qualcosa per distrarre dal porcilaio in cui l’Italia intera è stata annegata dal capo del governo e dei suoi manutengoli. La distrazione nazionale si chiama «il reato di clandestinità» da dare in pasto alle paure indotte dagli stessi che legiferano.
E’ legge, dunque, la norma che prevede il reato di clandestinità che per forza d’inerzia farà aumentare i clandestini come funghi dopo la pioggia; i centri di identificazione da luoghi di verifica civile diventano lager consentiti, passando da 60 a 540 giorni (il 900%). Oggi muore la decenza, muore il Diritto, mentre la stampa pubblica una lettera di un giudice costituzionale, «famiglio intimo» del plurinquisito» capo del governo con cui sfida e sotterra la dignità dell’Alta Corte.
Nella legge che dichiara la clandestinità reato, c’è una norma che inasprisce il reato di mafia (il 41bis). E’ una trappola. Vedremo che tutti i governativi e la maggioranza al guinzaglio si farà scudi di questo articolo per screditarsi tutori di legalità integerrima: essi inaspriscono le pene alla mafia, ma fanno eleggere al parlamento e nelle regioni mafiosi condannati o in via di processo.
Se Cristo fosse fisicamente presente in Italia (cosa impossibile perché starebbe a 12.000 km di distanza dal vaticano!), sarebbe clandestino e verrebbe rinchiuso in un lager di «verifica» (?). Per sfuggire alla polizia di Stato, fuggì in Egitto e tornò solo dopo la morte dei suoi persecutori. Ai clandestini colpevoli di essere uomini e donne in cerca di dignità e agli Italiani e Italiane che hanno ancora il senso del diritto, diciamo due cose: noi speriamo che muoiano presto coloro che li perseguitano e da parte nostra combatteremo questa ignominia di cui proviamo vergogna e che disprezziamo come disprezziamo coloro che l’hanno votata.
Il presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, monsignor Antonio Maria Veglio, ha scritto: «I migranti hanno il diritto di bussare alle nostre porte. Basta demonizzare e criminalizzare il forestiero. L’arrivo dei migranti non è certo un pericolo. Sbagliato trincerarsi dentro le proprie mura». Gli fa eco il segretario del pontificio Consiglio, monsignor Agostino Marchetto: La nuova legge porterà «molti dolori e difficoltà agli immigrati» e noi aggiungiamo anche all’Italia perché farà aumentare in modo esponenziale la clandestinità.
Il catto-fascista Gasparri, insieme con gli altri governativi cattolici «similpelle» dichiara di «essere orgoglioso». Di fronte all’Italia che di degrado in degrado corre verso il buco nero dell’indecenza generalizzata, non riusciamo ancora ad udire un belato, un vagito, un gridolino della gerarchia cattolica che pare abbia assunto come nuovo stemma le tre scimmie storiche: non vede, non sente e non parla. La luce che doveva stare sul monte per illuminare le coscienze, è stata spenta e messa in sicurezza sotto il moggio, chiusa a chiave e la chiave buttata a mare. Il silenzio dei vescovi è un peccato contro lo Spirito che non sarà perdonato né in cielo né in terra.
* Il Dialogo, Giovedì 02 Luglio,2009 Ore: 17:36
Il Vaticano, le leggi italiane e l’autonomia dello Stato
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 5.1.2009)
Lo Stato della Città del Vaticano ha voluto ridefinire le proprie regole sulle fonti del diritto, dunque sulle norme che costituiscono il suo ordinamento giuridico, e la relativa legge è entrata in vigore all’inizio di quest’anno. L’operazione è di grande importanza, come sempre accade quando uno Stato sovrano stabilisce il perimetro della legalità, e anche perché si tratta di una materia particolarmente rilevante dal punto di vista politico e culturale (al tema delle fonti ha recentemente dedicato una riunione l’Associazione italiana dei costituzionalisti). Ma la mossa vaticana ha suscitato attenzione e polemiche perché contiene una rilevantissima novità nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra la legislazione della Repubblica Italiana e quella della Città del Vaticano.
Fino a ieri questi rapporti erano fondati sul principio della recezione automatica, che portava con sé l’applicabilità delle norme italiane nell’ordinamento vaticano, recezione «solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale incompatibilità con leggi fondamentali dell’ordinamento canonico», com’è accaduto per leggi come quelle sul divorzio e l’aborto.
Ora, invece, «si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana», come sottolinea esplicitamente sull’Osservatore Romano il presidente della Commissione che ha preparato la nuova legge, José Maria Serrano Ruiz. Non più automatismi, dunque, ma un filtro, una valutazione preliminare della compatibilità con l’ordinamento canonico di ogni singola legge italiana.
Questa è una innovazione che non può essere adeguatamente valutata ricorrendo al tradizionale criterio dell’"indebita ingerenza vaticana" o guardando solo alla spicciola attualità politica, e quindi interpretandola solo come una reazione a qualche specifica vicenda italiana, come un avviso a questo o a quel partito. Siamo di fronte ad una strategia impegnativa, che si proietta al di là di questa o quella occasione, e che va compresa e valutata proprio in questo suo orizzonte più largo.
Non risultano convincenti, quindi, i tentativi di ridurre la portata della nuova legge che qualcuno, anche da parte vaticana, ha voluto fare, dicendo che la novità è di poco conto, visto che già prima il filtro vaticano aveva operato nei casi di evidente incompatibilità tra principi della Chiesa e norme italiane. Si passa, infatti, da un regime eccezionale ad uno ordinario, da una valutazione selettiva ad una generalizzata. Prima poteva valere il silenzio, ora bisogna attendere la parola. Peraltro, questi tentativi riduzionisti sono contraddetti da quanto scrive lo stesso Serrano Ruiz, indicando con chiarezza l’obiettivo della legge: la Chiesa non può «rinunciare al suo ruolo di testimonianza unica nel concerto del diritto comparato e nella riflessione sul fenomeno giuridico universale».
Non solo l’Italia, dunque. L’ambizione è planetaria: fare dei principi della Chiesa l’unico criterio di legittimazione di qualsiasi norma, di qualsiasi forma di regolazione giuridica, in ogni luogo del mondo. Un orientamento, questo, che già era ben visibile nelle ripetute prese di posizione dello stesso Pontefice aspramente critiche nei confronti delle Nazioni Unite e di molti documenti giuridici da queste approvati o promossi.
All’Italia, però, sono riservate una attenzione ed una motivazione particolari, anche perché solo per le sue leggi valeva fino a ieri il criterio della recezione automatica. Tre sono le ragioni esplicitamente indicate per giustificare il rovesciamento di quella impostazione: «il numero davvero esorbitante delle leggi italiane»; «l’instabilità della legislazione civile»; «un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Quest’ultimo è l’argomento che, giustamente, ha più colpito e ha suscitato le maggiori polemiche, ma pure gli altri due meritano qualche riflessione.
Si è detto che il riferimento all’inflazione legislativa è pretestuoso, visto che questa esiste ed è ben nota da molti anni. Perché accorgersene oggi, ha protestato il ministro Calderoli, proprio nel momento in cui è stata imboccata la via della semplificazione cancellando 36.100 leggi? Si potrebbe osservare che all’eccesso di legislazione non si risponde soltanto con qualche potatura, ricordando ad esempio la ben diversa esperienza francese in materia. E, d’altra parte, la riforma vaticana prende il posto di una legge del 1929, sì che doveva tener conto di quanto è accaduto tra allora e oggi.
Più significativo, e insidioso, è il secondo argomento. L’instabilità della legislazione civile è giudicata «poco compatibile con l’auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come tutte le operazioni dell’intelletto, cerca di per sé l’immutabilità dei concetti e dei valori».
Questa radicale affermazione arriva in un tempo in cui il sistema delle fonti, sotto tutti i cieli, conosce un mutamento profondo, proprio per poter dare risposte adeguate ad una realtà incessantemente mutevole, non solo sotto la spinta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di profonde trasformazioni sociali e culturali. Si scambia per instabilità la necessaria flessibilità delle regole, la capacità di assumere il nuovo e di incorporare il futuro, che implica anche la necessità di sottoporre a critica concetti e categorie del passato, anche per far sì che valori ritenuti fondamentali, affidati soltanto ad una logica conservatrice, non vengano travolti.
L’argomento dell’instabilità si congiunge così con quello del contrasto con «principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Nel modo in cui è formulata quest’ultima critica si coglie una esplicita polemica con la più recente legislazione italiana, visto che si afferma che questo contrasto si sarebbe già verificato «con troppa frequenza». Ma a quale legislazione si allude, poiché proprio le norme più recenti sono piuttosto fitte di compiacenze, per non dire di cedimenti, verso le richieste o le pretese vaticane? Qui siamo in presenza di un ammonimento, e non di una constatazione; di un perentorio invito a non fare più che ad una critica del già fatto.
Un alt così netto alla libertà di determinazione del Parlamento italiano non era stato mai pronunciato, neppure in quegli Anni 70 quando v’erano più fondati motivi di risentimento, non solo per le leggi su divorzio e aborto, ma pure per la riforma del diritto di famiglia, invisa a molti ambienti cattolici perché finalmente realizzava la parità voluta dalla Costituzione tra i coniugi e tra i figli nati dentro o fuori del matrimonio. Si ripeterà, com’è ormai d’uso, che le parole della Chiesa sono legittime. Ma è legittimo, anzi è doveroso, valutarne gli effetti. Si fa così tutte le volte che non si vuole sottostare ad un diktat.
L’annuncio è chiaro. Il mondo è grande, ma l’Italia è vicina. La sua legislazione, da oggi in poi, sarà sottoposta ad un continuo "monitoraggio etico", accompagnato da una sanzione: non entrerà a far parte dell’ordinamento canonico tutte le volte che il legislatore italiano sarà colto in flagrante peccato di violazione dei «principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Formalmente tutto può essere ritenuto in regola: uno Stato sovrano deve poter sottrarsi alle logiche altrui. Ma quali possono essere le conseguenze politiche e culturali di questo atteggiamento?
La politica italiana è debole, stremata. Qui la nuova linea vaticana può entrare in maniera devastante, aprendo conflitti di lealtà per i cattolici, stretti tra il loro dovere di legislatori civili e l’annuncio preventivo che leggi ragionevoli e miti, poniamo quelle sul testamento biologico o sulle unioni di fatto, non supereranno il test di compatibilità introdotto dalla nuova normativa vaticana. Per poter reagire dignitosamente, come si conviene ai parlamentari di un paese non confessionale, servirebbe un senso dello Stato che sembra perduto, qui dovrebbe fare le sue prove una laicità che non può ritenersi consegnata al passato. Servirebbe soprattutto la consapevolezza, smarrita, che l’unico filtro ammissibile è quello della conformità alla Costituzione, vero "principio non rinunciabile" in democrazia.
Ma il conflitto di lealtà può andare oltre le mura del Parlamento, devastare una società già divisa, dove già si manifestano impietose obiezioni di coscienza, dove davvero "pietà l’è morta" pure di fronte a casi, come quello di Eluana Englaro, che esigerebbero rispetto e silenzio. E che esigono rispetto perché espressivi di un quadro di diritti che si vuole radicalmente revocare in dubbio. Di questo dobbiamo discutere. Dell’autonomia e della laicità dello Stato, del destino delle libertà.
Il parlamento prigioniero
di MARCELLO PERA (La Stampa, 30/12/2008)
La dichiarazione del presidente del Consiglio a favore del presidenzialismo è stata forse estemporanea, ma nessuno che avesse seguito con attenzione l’evolversi del nostro sistema politico e costituzionale negli ultimi anni dovrebbe stupirsene. In sostanza Berlusconi ha detto: «Io ho trasformato l’Italia in una repubblica presidenziale».
E poi: «Io ho il consenso del popolo, e perciò io mi candido con elezione diretta alla presidenza della Repubblica. Perché non dovrei dare forma di diritto a ciò che già esiste, in gran parte per merito mio, in punto di fatto?».
Chi si stupisce non è stato attento a ciò che è accaduto. È in corso da tempo una crisi degenerativa che ha cambiato il nostro sistema, ne ha eroso la natura democratica, lo ha lasciato in sospeso, e ora lo espone persino ad avventure. Il federalismo, che darà un colpo d’accetta al bilancio statale e di martello all’unità d’Italia, sarà l’ultimo episodio.
Di questa degenerazione, i protagonisti e i cittadini percepiscono perlopiù i segni esteriori e li fraintendono, alla maniera di coloro che non capiscono che, guardando il dito, non si vede la luna. I parlamentari di maggioranza lamentano la loro riduzione a macchinette schiacciabottoni, il cui unico contributo intellettuale consiste nel ricordarsi che il bottone verde è il secondo da sinistra e quello rosso il primo da destra. I parlamentari di opposizione lamentano la loro trasformazione in spettatori di votazioni dall’esito scontato. Gli uni e gli altri lamentano che non possono emendare neppure una virgola dei decreti del governo, peraltro gli unici provvedimenti che sono portati in Aula, essendo da tempo scomparsa l’iniziativa parlamentare delle leggi. I presidenti delle assemblee lamentano che il governo non dia spazio al dibattito e li costringa, con i decreti, i voti di fiducia, i tempi contingentati, a fare da passacarte della sua volontà. I cittadini lamentano la distanza della politica e se la prendono con la «casta».
Ma tutto questo è colore, e comunque effetto, non causa. Le principali ragioni profonde della degenerazione consistono in due sequestri. Il primo è il sequestro della rappresentanza parlamentare. Esportata dalla Toscana, la legge elettorale su liste bloccate ha avuto due effetti immediati: il parlamentare eletto, dopo una campagna elettorale cui ha assistito da spettatore televisivo senza muovere un dito se non per fare zapping, ha perduto qualunque interesse al suo territorio di riferimento, e il cittadino elettore non ha più avuto suoi rappresentanti. Non solo costui non ha messo il naso nella loro elezione, non li ha mai visti né conosciuti, e non sa dove incontrarli. Così i gruppi parlamentari sono diventati solo la corte del leader del partito, da lui scelta in base all’affidamento personale verso sé medesimo, non a quello politico verso gli elettori. Chi oggi si lamenta della tanta piaggeria e cortigianeria che vede in giro dovrebbe anche riflettere che la legge toscana piace a tutti i capi partito, tanto che cercano di estenderla anche alle elezioni europee.
L’altro sequestro è quello, conseguente, del Parlamento. Quando, col sistema toscano, il capo del partito diventa presidente del Consiglio, il Parlamento, composto di sola gente al seguito, si trasforma in una sua propaggine esterna. E se per caso questa non risulta maneggevole e arrendevole come egli vorrebbe, ecco nascere la richiesta di riforme. Non ci è forse toccato di sentir dire che in Parlamento basterebbero una trentina di persone, oppure che si potrebbe votare solo nelle commissioni, oppure che potrebbero votare solo i capigruppo? Forse sono scherzi, ma hanno l’aria di essere freudiani. Dopotutto, a che serve il Parlamento se fa tutto il governo? E se deve fare tutto il governo, e per esso il suo capo, a che servono tante procedure?
Il sequestro del Parlamento da parte del governo ha anche altre cause. Quando il governo sigla un accordo con i sindacati, il Parlamento è chiamato solo a mettere il timbro. Quando il governo fa un’intesa con le Regioni, il Parlamento può solo ratificare. Quando il governo se la vede direttamente addirittura con alcuni pochi sindaci, il Parlamento appone la firma. E così via, con le associazioni, le categorie, i gruppi organizzati, eccetera. Per non parlare delle nomine negli enti o delle autorità.
Si obietterà che al Parlamento, anche sotto sequestro, resta pur sempre il potere di far cadere il governo. Ma non è vero. Quella minaccia è un’arma senza la punta: perché se cade il governo si rivota e i capibastone (qualifica che i capibastone danno a chi li disturba) eleggono un altro capo che ripeterà le orme del predecessore.
Solo che, di questo passo, sequestro dopo sequestro, il sistema degenera. Se poi si aggiunge la circostanza tragica che oggi in questo sistema non c’è neppure l’opposizione politica, per malattia grave sua propria e perché neanch’essa capisce le cause vere della crisi italiana, anzi le coltiva al pari della maggioranza, allora si deve concludere che, sempre di questo passo, degenera anche la democrazia. Già adesso siamo alle folle - «oceaniche» si sarebbe detto una volta - sotto i gazebo e sotto le tende delle primarie. Approfittando delle lunghe file, anziché spingere il poveretto che sta davanti, sarebbe il caso di soffermarsi a riflettere. Non certo sulla perduta «centralità del Parlamento», per metterci una toppa, come toppe sarebbero il presidenzialismo, il Senato federale, o un nuovo Csm, ma su una questione più importante e di sistema: la nostra Costituzione è ancora un patto che lega gli italiani? È ancora uno strumento efficiente e adeguato?
C’è stato un tempo in cui, soprattutto nel centrodestra, queste domande erano all’ordine del giorno. E ce ne fu un altro in cui un presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, considerato matto perché dava il meglio di sé quando faceva il matto, le pose all’attenzione di tutti. Oggi è scena muta. Ed è un grave errore. C’è solo da sperare che non si trasformi in una tragedia, il giorno in cui la crisi costituzionale e politica si dovesse combinare con una economica e sociale.
Sul tema, si cfr.:
Corriere della Sera 31.2.2008
Le reazioni. Baldassarre: una cautela legittima. Pasquino: no, ingerenza intollerabile
ROMA - Su una delle motivazioni sono d’accordo tutti: in Italia ci sono troppe leggi. Sul resto ci si divide. La decisione del Vaticano di non recepire più automaticamente, o quasi, le norme italiane, trova sostanzialmente concorde un costituzionalista come Antonio Baldassarre, già presidente della Corte costituzionale, nonché docente alla Pontificia Università Lateranense: «Mi pare una decisione legittima. Il Vaticano è uno Stato sovrano». Che sia avvenuto un cambio di passo è indubitabile: «Evidentemente - spiega Baldassarre - si è trattato di una cautela di fronte all’arrivo di tempi giudicati tempestosi. Temono il varo di leggi non corrispondenti ai loro principi, come quella sull’eutanasia». Nessuna pressione indebita, spiega: «È un provvedimento che ha effetti su un ordinamento straniero».
Parere opposto per il politologo Gianfranco Pasquino, già senatore della sinistra: «Mi sembrano preoccupazioni infondate: le leggi italiane le fa il Vaticano, no?». Uscendo dal paradosso, Pasquino spiega: «Questo provvedimento arriva durante il pontificato di uno dei papi più reazionari degli ultimi 50 anni. Trovo che si tratti di una pressione ostile e di un’ingerenza intollerabile per lo Stato italiano».
La Santa Sede e il significato di un avvertimento
L’iniziativa del giornale vaticano sottolinea una tensione fra Chiesa e Stato italiano
Il «fondo di solidarietà» di Tettamanzi è percepito da parte del Pdl come iniziativa antigoverno
di Massimo Franco
L’ idillio fra Silvio Berlusconi e il Vaticano è sempre stato dato per scontato ed a prova di polemiche. Ma un articolo dell’Osservatore Romano adesso illumina i rapporti Italia-Santa Sede con una luce fredda. L’annuncio che le leggi della Repubblica non verranno più accettate automaticamente oltre Tevere è superfluo, e insieme significativo. Superfluo perché un automatismo assoluto non c’è mai stato; significativo perché suona, di fatto, come un larvato avvertimento.
Nella conferenza stampa di fine anno, il premier aveva dichiarato che «i rapporti tra Santa Sede e governo sono i migliori da sempre». E nessuno ne aveva dubitato, nonostante gli attacchi recenti del presidente della Camera, Gianfranco Fini, al ruolo dei pontefici negli anni del fascismo: attacchi commentati dai vertici vaticani con una durezza inusuale, e schivati da Berlusconi. Ma l’articolo di ieri dell’Osservatore sulla «nuova legge sulle fonti del diritto», pianta paletti ingombranti. Il quotidiano fa sapere che le norme promulgate da Benedetto XVI ad ottobre ed in vigore dal 1˚ gennaio 2009, prevedono «un’ulteriore cautela nella recezione della legislazione italiana».
Traduzione: le leggi non saranno accolte in modo automatico. La motivazione è che sarebbero in numero «esorbitante»; cambierebbero in continuazione; ma soprattutto mostrerebbero «un contrasto, con troppa frequenza evidente, con principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Rimane da capire se sia una dichiarazione di sfiducia verso lo Stato italiano; oppure solo una sottolineatura puntigliosa e preventiva, mentre il Parlamento sta per discutere temi di frontiera fra la vita e la morte.
L’articolo compare nelle pagine interne dell’Osservatore. E l’autore, lo spagnolo Josè Maria Serrano Ruiz, è presidente della Corte d’appello della Santa Sede. Ma la sua prosa sembra destinata ad avere comunque un impatto. Lascia intuire insieme una punta di delusione e di diffidenza. Finisce per alimentare in modo inaspettato le tensioni affiorate nei giorni scorsi fra l’episcopato italiano ed esponenti di primo piano del centrodestra. E tende ad incrinare l’immagine di sintonìa tra maggioranza berlusconiana e Vaticano. È la coincidenza con lo scambio di accuse fra alcuni settori del Pdl e le gerarchie cattoliche, in particolare, a sollevare qualche interrogativo.
Il «fondo di solidarietà» per i poveri istituito dall’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, viene percepito da parte del centrodestra come «un’iniziativa antigovernativa ». Non solo. Fra Lega ed episcopato serpeggia una diffidenza cronica per l’approccio agli antipodi sull’immigrazione islamica. E l’Udc soffia sul fuoco, accusando il Pdl di aver fatto prevalere «l’anima laicista e statalista »: una frecciata al ministro Renato Brunetta, che aveva criticato una Chiesa a suo avviso incline ad iniziative «di immagine». Su questo sfondo, l’articolo dell’Osservatore sul contrasto fra leggi italiane e vaticane ingigantisce la questione: forse al di là delle intenzioni di tutti.
Prefigurare una sorta di «vaglio morale» sulle norme dello Stato repubblicano come una novità, introduce un elemento di frizione. Dà l’impressione che sia in atto una deriva mirante a negare i «principi non negoziabili» cari alla Santa Sede, assecondata se non promossa dal centrodestra. E lascia capire che se il Parlamento approverà leggi considerate ostili alla morale cattolica, oltre a criticarle il Vaticano le respingerà. Forse si tratta di una precisazione inutile, perché un automatismo assoluto non esiste: basta pensare ad aborto e divorzio. Ma allora, rivendicare con certi toni il diritto di accettare o rifiutare una norma significa mandare un avvertimento all’Italia; e non dare per acquisiti i buoni rapporti con un governo o una maggioranza.
La guerra e l’etica della morte e della vita
di EUGENIO SCALFARI *
LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l’attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d’allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano. L’incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.
Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei "fratelli" palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all’interno dello schieramento politico italiano.
Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l’isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all’opinione pubblica europea e araba.
Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L’alternativa è quella d’una lotta senza quartiere, l’invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall’Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l’Onu come unico tavolo di confronto mondiale.
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Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare. L’influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla. L’interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo. Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull’atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.
Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l’ha recentemente accentuata. L’indisponibilità della vita è ormai - così sembra - una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d’un problema altri ne scaturiscono.
Così sta accadendo che l’indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell’indisponibilità della morte. Ne deriva un’intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l’etica e la scienza, la politica e la teologia. La discussione su questi temi si svolge in tutto l’Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.
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Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all’ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull’indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull’intera gamma della bioetica, con l’intento di restringere i confini della libertà individuale.
I "media" non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione "Repubblica": in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un’indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l’autonomia della coscienza individuale, l’etica privata e l’etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.
Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d’esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali. Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l’articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.
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Scrive Schiavone che c’è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.
Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt’al più c’è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe "il principale deposito di etica nell’Occidente cristiano".
Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l’ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C’è stata, nei suoi duemila anni di storia, un’ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un’ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).
Quest’ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L’etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva "per la contraddizion che nol consente".
Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe. Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti. Ma muta e assente non direi. I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All’origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant.
Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene. Qui finiscono alcuni miei dissensi con l’amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall’altro.
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La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.
Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività. Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l’umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.
Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell’uomo e quindi protesi della natura. In questo stadio dell’evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l’individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.
Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all’etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.
Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d’un fondamentalismo che l’Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all’indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.
* la Repubblica, 4 gennaio 2009