INEDITI
Due ebrei reduci dai lager uniti nel ricordo di Paolo VI
«Ad Auschwitz è morto il Padre eterno, sì. Ma quale? Il nonno con la lunga barba bianca, il contabile delle buone azioni...» Lo psichiatra Viktor Frankl e il rabbino Pinchas Lapide faccia a faccia sui grandi temi della religione
di Marco Roncalli (Avvenire, 29.12.2006)
Vienna, agosto 1984. Lo psichiatra e neurologo Victor Frankl - proprio lui: il fondatore della logoterapia e dell’analisi esistenziale - e Pinchas Lapide, teologo dell’ebraismo nonché studioso delle religioni, avviano un dialogo sul senso della vita e all’esperienza religiosa. I due sanno aprirsi reciprocamente, considerando l’uno le prospettive dell’altro. Senza rinunciare all’autocritica, nella vera tolleranza (quella che «proviene dalla comprensione dei limiti del proprio sapere e dal rispetto per improvvise ispirazioni»), Frankl e Lapide affrontano i grandi temi: il dolore e l’amore, la sofferenza e la colpa, il senso della vita e la salvezza. Domande e risposte sull’esistenza che tuttavia non possono ignorare i loro percorsi e l’esperienza che li lega.
Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti ai lager: e l’Olocausto sempre lì, con i suoi interrogativi. Così, tra psicoterapia e teologia, scienza e fede, il colloquio si dilata e viene fissato su un registratore, forte di pensieri anche diversi o contrastanti, ma uniti dallo stesso desiderio di verità.
Nastri registrati e sbobinature resteranno per vent’anni nell’archivio di casa Frankl, fra il materiale non ordinato, sino alla loro scoperta fortuita da parte di Elly Frankl e Alexander Batthyany, curatori insieme a Karlheinz Biller e a Eugenio Fizzotti dell’«opera omnia» del padre della logoterapia.
Ancor più sorprendente il rinvenimento di una prefazione dei due protagonisti al dialogo ritrovato già in bozze di stampa. Pubblicato nell’originale tedesco e in traduzione spagnola alla vigilia del congresso internazionale svoltosi l’anno scorso a Vienna per il centenario della nascita di Frankl, il libro esce in questi giorni anche in Italia con il titolo «Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo» (a cura di Eugenio Fizzotti, Claudiana, pp. 108 , euro 10).
Sono pagine dense e sorprendenti per approfondire la religiosità, che secondo Frankl è espressione della ricerca di senso e, come tale, non è indagabile, o l’atteggiamento della logoterapia nei confronti della religione, o la neutralità di Frankl nel riconoscimento di ciò che motiva l’uomo religioso, senza valutarne psicologicamente le convinzioni o formulare giudizi sulle espressioni della sua ricerca. E non solo per la memoria di fatti e protagonisti del Novecento conosciuti dai due (spicca ad esempio un bellissimo ricordo a due voci di Paolo VI).
Nel colloquio intimo con Lapide infatti Frankl espone - come raramente ha fatto - le sue personali opinioni sulla fede. Quelle di un credente, che di fronte alle disgrazie subite (tre anni nei campi di concentramento di Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering e Türkheim) non è disposto a rinunciare alla propria fede. Non parla più solo da psichiatra e da neurologo, e nemmeno a nome della logoterapia: ma come singolo individuo.
Ponendosi con Lapide, come documentano gli stralci presentati in questa pagina, dinanzi alla domanda religiosa sul senso della totalità del mondo. Sino a ripetere con lui: «Non è forse un pezzo di fede in Dio, quella che anche dopo Auschwitz, anzi, soprattutto dopo Auschwitz, non ha perso affatto validità?».
LA STORIA IN QUESTIONE
L’Olocausto che bruciò gli dei
«Lungi dal mettere in crisi la fede, credo che la Shoah abbia contribuito alla sana sfoltita delle nostre rappresentazioni infantili di Dio»
di Viktor Frankl e Pinchas Lapide
LAPIDE: «Vede: il Dio in cui credo è il Dio della libertà, nel doppio senso della parola: egli stesso è libero, vale a dire che non si attiene alle nostre regole e ci ha dato il terribile dono della libertà di rispondergli con un sì o con un no; può essere, come lei scrive, il Dio inconscio in noi, e se urliamo e facciamo rumore non percepiamo la sua voce che parla in sordina dentro di noi. Egli ci ha dato questa libertà. Di conseguenza, frasi come: "Perché Dio permette che accada questo o quello?" non sono meno degli antropomorfismi dell’intera teodicea. Allora Dio, in fondo, è il capo supremo della polizia che sta in cielo, che può acconsentire o vietare, permettere o garantire. Credo che queste immagini di Dio, appartenenti piuttosto all’infanzia dell’umanità, siano morte ad Auschwitz, e non credo sia il caso di rimpiangerle. Dio, il nonnetto con la lunga barba bianca, è sicuramente morto ad Auschwitz. Dio, il vecchio contabile che, giorno per giorno, registra le buone e le cattive azioni degli esseri umani, lo hanno bruciato lì. Il dio delle battaglie, che marcia sempre insieme al battaglione più forte, è sepolto nello stesso mausoleo in cui giace il dio di quelli che vogliono sempre avere ragione e sanno sempre tutto. Credo che Auschwitz abbia contribuito a una sana sfoltita delle nostre rappresentazioni di Dio. "Dio è morto", così ha detto Nietzsche prima di scivolare nell’oblio della mente. Se con questo intendeva quelle rappresentazioni di Dio in parte provenienti dall’infanzia, in parte semplicemente infantili, del Dio che riempie lo spazio vuoto del cielo, esaudendo le preghiere e dispensando successi, allora aveva proprio ragione. Anzi, di più! Dobbiamo ringraziare quelli che criticano la religione, perché ci hanno liberato da parecchie forme di malcelata idolatria, costringendoci ad aprire il varco verso un’immagine superiore, più matura di Dio».
FRANKL: «È un’autoriflessione critica, nel vero senso della parola...».
LAPIDE: «Potremmo chiamarla così, forse. In tal caso, Auschwitz per me sarebbe un interrogativo ancor sempre valido dell’antropodicea: dov’era l’essere umano, quando ne bruciavano milioni? Dov’era il ritratto vivente di Dio che aveva dato le Tavole dei Comandamenti? L’Europa battezzata, educata per ben 60 generazioni all’amore verso il prossimo e verso il nemico secondo l’insegnamento del rabbino di Nazareth, dov’era quando i suoi fratelli di carne furono uccisi con il gas come parassiti? È una domanda che attende ancora una risposta. Ma profanare Dio, costringendolo a fare il tappabuchi per colpa della disumanità dei bipedi verso gli esemplari della loro stessa specie, è pura blasfemia. Nel suo libro Il messaggio di Gesù (Berna, 1959), il teologo evangelico Stauffer, che era stato molto vicino al partito nazista, individua solo 4 esempi storici di amore veramente praticato verso il nemico: Gesù, suo fratello Giacomo, Stefano martire e un altro, del quale racconta: il 20 ottobre 1958 la Magistratura di Wojewod apre il processo contro Erich Koch, il famigerato sterminatore degli ebrei polacchi. Il gerarca imputato viene condotto dalla prigione di Varsavia in tribunale. Il primo giorno del processo, Koch dichiara: "Se sono ancora vivo lo devo soltanto a una grande donna, il medico del carcere, dottoressa Kaminska: la dottoressa è ebrea". Tutto questo mi ricorda con intensità il discorso che lei, per incarico dell’associazione medica viennese, tenne il 25 marzo 1949 in onore dei soci morti tra il 1938 e il 1945 - parole che riportavano i ricordi, a quel tempo ancora freschi, dell’inferno di Auschwitz - un discorso completamente affrancato da impulsi di ritorsione, di vendetta, persino di risentimento».
FRANKL: «In quell’occasione dissi che il mio compito era quello di testimoniare davanti a loro in che modo dei medici viennesi patirono e morirono nei campi di concentramento e di offrire una testimonianza di medici autentici - che hanno vissuto e sono morti da medici, incapaci di starsene impassibili a guardare chi soffre, ma che sapevano di persona come si soffre, sapevano professare la vera sofferenza, sapevano soffrire in tutta onestà. Tra le ultime cose che avevano detto non c’era una parola d’odio - dalle loro labbra uscirono solo parole di struggimento e di perdono - perché ciò che essi odiavano, e anche noi odiamo, non sono certo gli esseri umani. Gli uomini vanno perdonati, mentre va odiato il sistema - che condusse gli uni alla colpa e gli altri alla morte. Non è forse meglio non far troppo causa agli altri? Fintanto che giudichiamo e accusiamo, non arriveremo mai alla fine. Allora non ricordiamoci solo dei morti, ma perdoniamo anche i vivi. Così come una stretta di mano simbolica ci unisce ai morti al di là delle fosse e dell’odio e pronunciamo la frase "onore ai morti", aggiungiamo pure "e pace a tutti i vivi di buona volontà"».
LAPIDE: «Chi legge queste righe, da essere umano qual è, non può fare a meno di restarne colpito e commosso. Sono sicuro che tutti i lettori concorderanno. Eppure mi chiedo che cosa ci sia in me che vibra quando ascolto queste frasi e leggo il libro, nel quale lei con obiettiva lucidità riesce a descrivere le proprie sofferenze, le bestialità del campo di concentramento, senza neanche una punta d’odio. Ho il sospetto che a commuoversi sia la scintilla divina che c’è in me, il soffio di Dio che mi nobilita e mi conferisce umanità. È il Dio che c’è in me e vuole fare di me un essere umano completo, quello che io non sono ancora per nulla. Per quale motivo noi cerchiamo Dio lassù tra le stelle, in tutti i possibili "ismi", in ogni parte del mondo esterno, dove sta sicuramente, ma non lo cerchiamo nel più profondo del nostro intimo, là dove ha una voce che lei chiama coscienza, e che risveglia la preghiera in me, mi fa pregare, ne suscita l’impulso, là dove mi richiama all’amore, perché possa diventare Io? Perché divagare, quando questo Dio brucia lentamente dentro di me come una scintilla, aspettando solo che io lo faccia ardere? Non è forse un pezzo di fede in Dio, quella che anche dopo Auschwitz, anzi, soprattutto dopo Auschwitz, non ha perso affatto validità?».
FRANKL: «Sì, che dire... Posso solo darle pienamente ragione. Non conosco altre persone capaci di esprimerlo così meravigliosamente con parole come fa lei».
"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
Viktor Frankl, L’amore per la vita, nonostante tutto
di Daniele Bruzzone (Alfabeta2, 27.01.2017)
Quello sui campi di concentramento è il secondo libro pubblicato da Viktor Frankl, una volta rientrato a Vienna nell’aprile del 1945, dopo due anni e mezzo di prigionia. Era stato deportato nel settembre del 1942 a Theresienstadt, in Boemia. Sarebbero seguiti Auschwitz, in Polonia, poi Kaufe- ring III e Türkheim (due filiali di Dachau), in Baviera 1.
Già nei mesi precedenti la deportazione Frankl aveva apprestato il manoscritto del suo lavoro più rappresentativo, Ärztliche Seelsorge (Cura medica dell’anima), che secondo un illustre psichiatra dell’epoca, Oswald Schwarz, avrebbe offerto alla storia della psicoterapia un contributo paragonabile a quello rappresentato dalla Critica della ragion pura di Kant per la storia della filosofia. Frankl conservò, finché gli fu possibile, questa prima stesura del suo lavoro e, quando fu trasferito ad Auschwitz, la nascose nella fodera del cappotto nella segreta speranza di poterla un giorno dare alle stampe. Naturalmente quel manoscritto andò perduto, e lo stesso Frankl rammenta che, nelle gelide notti trascorse nei Lager, in preda alla febbre, una delle cose che lo tennero in vita fu proprio la volontà di ricostruire il manoscritto perduto, stenografandone i contenuti su piccoli foglietti di carta sottratti di nascosto alle SS 2. Dopo essere rientrato a Vienna, su suggerimento del nuovo Ordinario di Psichiatria dell’Università, il prof. Otto Kauders, Frankl riscrisse il libro e lo pubblicò presso la casa editrice Deuticke nel marzo del 1946 3.
Subito dopo iniziò a comporre le sue memorie, che comparvero ancora in quella primavera del ’46, con il titolo Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager («Uno psicologo nei campi di concentramento»), per i tipi di Jugend und Volk. Tra i due lavori pubblicati in quell’anno corre un intimo legame: se da un lato le intuizioni di Frankl sulla psicoterapia, così come sono state sviluppate nel primo libro, erano precedenti alla deportazione, dall’altro l’esperienza dei Lager ne costituiva, paradossalmente, la riprova empirica più inconfutabile. Auschwitz, in un certo senso, era stato il vero experimentum crucis delle sue teorie.
Qui le capacità propriamente umane dell’autotrascendenza e dell’autodistanziamento, sulle quali ho richiamato l’attenzione più volte negli ultimi anni, furono verificate e convalidate in termini esistenziali. Quest’empiria, nel significato più ampio del termine, confermò il survival value, per parlare con la terminologia psicologica americana, che spetta a ciò che io chiamo “volontà di senso” o autotrascendenza, ossia l’orientamento dell’esistenza umana al di là di sé, verso qualcosa che non è se stessa 4.
La prima edizione uscì anonima. In soli nove giorni e nove notti, un misterioso medico viennese deportato dai nazisti aveva sottoposto i lunghi anni di inaudite sofferenze al vaglio saggio e paziente della scrittura, costringendo la congerie di ricordi e il carico emotivo di cui erano intrisi a incanalarsi in una rigorosa operazione di analisi e riflessione. Ciò che ne scaturì non era un trattato, beninteso, ma non si poteva neppure considerare un semplice memoriale della deportazione: si trattava di un documento umano di straordinario valore, il cui successo, evidentemente, non è dovuto tanto all’oggetto del discorso, quanto alla particolarissima prospettiva con cui viene affrontato. Da questo punto di vista, il titolo della prima edizione è significativo: rappresentava il tentativo, da parte di uno psichiatra, di sezionare con metodo scientifico la propria esperienza, per restituirne una comprensione più profonda.
Tuttavia, in quella fase di faticosa ripresa postbellica, nessuno voleva (ancora) ricordare il passato, bensì trovare prospettive di fiducia e di speranza per il futuro. Non a caso, quando il libro, alcuni anni dopo, venne ribattezzato ... trotzdem Ja zum Leben sagen (Nonostante tutto dire sì alla vita) 5, conobbe quel successo di pubblico che immediatamente non aveva raccolto 6 . In effetti, il nuovo titolo riusciva, più del precedente, a comunicare l’essenza del messaggio frankliano: che, cioè, la vita vale la pena di essere vissuta in qualunque situazione, o meglio, che l’essere umano è capace, anche nelle peggiori condizioni della vita, di “mutare una tragedia personale in un trionfo” 7. Proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi dell’inossidabile attualità dello scritto di Frankl: esso, infatti, pur narrando i tragici eventi a cui si riferisce, li trascende per incentrarsi sull’esplorazione della natura umana e delle sue potenzialità. E, in questo senso, ciò che dice vale non solo per l’esperienza della detenzione, ma anche e a maggior ragione per tutte le altre “situazioni-limite” (la sofferenza, la malattia, la disabilità, il lutto, ecc.) che, in certo qual modo, sfidano la capacità umana di resistere e di sopravvivere.
Ogni singolo lettore, pertanto, può trovare in questo libro un riflesso di sé: non necessariamente di ciò che è stato, ma magari di ciò che può diventare. Leggere Frankl, infatti, è un’esperienza di rivelazione: ci induce a scoprire i lati migliori di noi stessi 8.
Del resto, il libro di Frankl non è solo un’incursione in una delle pagine più dolorose della nostra storia, ma un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’essenza dell’umanità. Questa è forse la ragione principale per cui il suo contributo si distingue dalle altre - ancorché inestimabili - memorie della Shoah. Egli non si limita (pur facendolo) a raccontarci le efferatezze compiute nei Lager, né è interessato (benché li descriva in modo accurato) a restituire oggettivamente i fatti più salienti.
Il suo intento è tutto orientato a comprendere dall’interno l’esperienza del deportato, sviluppando una fenomenologia dell’internamento che, per molti versi, converge con altre analisi psicologiche effettuate sui detenuti di diversi regimi. Soprattutto, però, Frankl non si accontenta di descrivere e spiegare i modi in cui progressivamente le persone, in quelle condizioni estreme, si adattavano al contesto, perdevano gradualmente la loro umanità e, infine, soccombevano al destino; egli infatti è assai più incuriosito dai motivi per cui alcune di esse (non necessariamente quelle fisicamente più robuste) resistessero più a lungo e, soprattutto, si opponessero al quel processo di disumanizzazione che in tali situazioni apparirebbe, se non proprio inevitabile, quanto meno prevedibile e ampiamente giustificato. La domanda sorgeva spontanea: che cosa consentiva a queste persone di resistere e di non smarrire la dignità e la speranza?
La risposta a questo interrogativo ci conduce a una revisione delle più consuete teorie motivazionali con cui tendiamo a interpretare - o addirittura a prevedere - il comporta- mento umano. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, infatti, gli interessi spirituali delle persone che si trovano in situazioni di deprivazione radicale sul piano psico-fisico non regrediscono fino a scomparire, ma possono acuirsi e perfino manifestarsi laddove sembravano sopiti. Come dire: proprio laddove la natura umana è ricondotta e ancorata implacabilmente alla sua “bassezza”, il suo spirito è capace di elevarsi a un’“altezza” (intellettuale, morale, religiosa) altrimenti forse insospettata.
Ciò che Frankl mette a fuoco nel suo scritto è l’incredibile “forza di resistenza dello spirito” (una sorta di resilienza ante litteram) che, proprio nei momenti più difficili, permette alle persone di opporsi al proprio destino e - pur non potendolo mutare esteriormente - le rende capaci di dominarlo dall’interno. In tal modo, con l’autorevolezza dello scienziato e la credibilità del testimone, lo psichiatra sopravvissuto ai Lager sostiene che le persone sono capaci non solo di resistere, ma perfino di crescere, nonostante gli “urti” della vita e talvolta grazie ad essi 9. Questo aspetto costituisce altresì il principale motivo di distinzione dell’interpretazione frankliana rispetto alle altre descrizioni psicologiche dei campi di concentramento. Ad esempio quella di Bruno Bettelheim, che fu deportato nel 1938, venne rilasciato nel 1939, si rifugiò negli Stati Uniti dove insegnò psicologia per trent’anni e poi morì suicida: laddove Bettelheim vede il trionfo dell’istinto di morte sulla pulsione di vita, Frankl scorge invece la possibilità di “dire sì alla vita” nonostante tutto10.
Dagli abissi della sofferenza emerge l’intuizione che la libertà interiore e la responsabilità (la capacità, cioè, di rispondere al proprio destino) sono l’intimo baluardo della dignità umana contro la spersonalizzazione e il fatalismo:
Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve “essere”; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza.
Che cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che sempre decide ciò che è. Un essere che porta in sé contemporaneamente la possibilità di abbassarsi al livello degli animali o di innalzarsi al livello di una vita santa. L’uomo è l’essere che ha inventato le camere a gas, ma è anche l’essere che è entrato in esse a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro o la preghiera ebraica per la morte 11.
Forse il pessimismo e la disperazione che hanno insidiato l’esistenza di tanti superstiti (incluso, forse, il nostro amato Primo Levi) fino a spegnere in loro il desiderio di vivere, sono dovuti a una domanda che li ha assillati ogni giorno, rodendone l’anima dall’interno come un tarlo: Perché ha potuto accadere tutto questo? Perché abbiamo dovuto soffrire? Perché così tanti sono morti nell’indifferenza del mondo?
Anche Frankl esce dai campi di concentramento chiedendosi perché, ma la sua è una domanda molto diversa. Egli non si chiede perché abbia dovuto soffrire, né pretende di sapere perché abbia dovuto perdere le persone più care (il padre Gabriel, la madre Elsa, il fratello Walter e la giovanissima moglie Tilly morirono nei campi); si domanda piuttosto: Perché io sono tornato indietro? Perché a me la vita è stata risparmiata? La differenza è evidente: la risposta al perché del male e della morte non è in nostro potere, e la domanda è destinata a infrangersi contro il silenzio (o la morte) di Dio; la risposta alla domanda sul perché della vita, invece, dipende interamente da noi: sta a noi, infatti, decidere per chi o per che cosa siamo disposti a vivere, soffrire e perfino morire.
Questo spiega anche, almeno in parte, il carattere di Viktor Frankl: la sua instancabile dedizione al lavoro, il suo spiccato senso dell’umorismo, la sua irriducibile passione per le sfide che la vita, ad ogni età, poteva presentargli. Non si trattò, probabilmente, di una consapevolezza immediata, ma di una conquista progressiva, l’esito di un lungo lavoro su di sé. Dalle lettere che Frankl inviò agli amici nei mesi immediatamente successivi alla liberazione si evince lo stato di profonda prostrazione in cui era precipitato. Il 14 settembre 1945 scriveva a Wilhelm e Stepha Börner:
Forse il farmaco per questo malessere fu proprio la scrittura. Scrivere, probabilmente, gli consentì di metabolizzare la materia grezza del dolore trasformandola in nutrimento per l’anima. In questo senso, si potrebbe dire che il libro non è solo il ricettacolo di una sofferta saggezza, ma anche lo strumento con cui è stata distillata.
Il risultato sta sotto gli occhi di ogni lettore. L’esperienza della sofferenza poteva spegnere in Viktor Frankl l’amore per la vita oppure farlo divampare come un fuoco inestinguibile. Sono passati 70 anni da quando queste pagine hanno visto la luce per la prima volta. Bruciano ancora.
1 Per un’introduzione alla vita e al pensiero di Frankl, si rimanda a D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci, 2012. Per un avvicinamento al modello clinico della logoterapia e analisi esistenziale, cfr. D. Bellantoni, L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl, 2 voll., LAS, 2011.
2 Alcuni di questi esemplari sono tuttora conservati come reliquie al museo recentemente inaugurato del Viktor Frankl Zentrum di Vienna, al numero 1 di Mariannengasse, proprio nell’appartamento adiacente a quello in cui Frankl ha vissuto ininterrottamente dal suo ritorno a Vienna fino alla sua scomparsa, il 2 settembre del 1997.
3 L’edizione italiana, tradotta da Danilo Cargnello nel 1953 e successivamente rivista da Eugenio Fizzotti, reca il titolo Logoterapia e analisi esistenziale ed è pubblicata dall’editrice Morcelliana di Brescia. Solo alcuni anni dopo la sua morte, nell’archivio di casa Frankl, è stata rinvenuta la prima stesura del ’42 (probabilmente Frankl aveva affidato una copia del manoscritto a un amico, prima dell’arresto) e ciò ha permesso di mettere al confronto le diverse stesure, raccolte nel IV volume delle Gesammelte Werke, a cura di A. Batthyany, K. Biller e E. Fizzotti (Böhlau, Wien, 2011).
4 V. E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, FrancoAngeli, 2012, p. 100.
5 Si trattava del titolo di una delle prime conferenze tenute da Frankl presso l’Università Popolare di Ottakring nel 1946.
6 Quando poi nel 1959, per volere dell’allora Presidente dell’American Psychological Association, Gordon W. Allport, ne venne pubblicata la traduzione in lingua inglese (dapprima con il titolo From Death-Camp to Existentialism e poi con il titolo tuttora in vigore Man’s Search for Meaning), il volume divenne rapidamente un bestseller, tanto che gli studenti universitari americani lo elessero più volte “libro dell’anno” e la Library of Congress di Washington D.C. lo ha decretato “uno dei 10 libri più influenti d’America”. Alla morte di Frankl, l’opera era stata tradotta in 24 lingue e aveva venduto oltre 10 milioni di copie.
7 V. E. Frank l , La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca di senso , a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Erickson, 2005, p. 119.
8 Si veda, a questo proposito , P. Versari, Dalla « bella vita» a una vita bella. Colmare i vuoti di senso alla scuola di Viktor E. Fr ankl , Ares, 2015.
9 Da questo punto di vista l’intuizione frankliana anticipa e ispira le successive ricerche sulla capacità di resilienza e i fattori di protezione e di rischio che la condizionano, ma si lega anche al costrutto, più recentemente definito, della “crescita post-traumatica”, secondo cui una persona può esibire un grado di consapevolezza, di maturità e di integrazione personale, non solo pari a quello che possedeva prima del trauma, ma addirittura superiore.
10 Per approfondimenti si rinvia a D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, 2007, pp. 37-59.
11 V. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, 1998, pp. 97-98.
12 V. E. Frankl, Lettere di un sopravvissuto.Ciò che mi ha salvato dal lager, a cura di E. Fizzotti , Rubbettino, 2008, pp. 137-138.
Anniversari
E Viktor Frankl inventò la logoterapia, scienza dello sguardo interiore
A dieci anni dalla morte,è viva l’opera dello psichiatra che credeva nell’«apertura all’altro» come fonte di felicità
di Eugenio Fizzotti (Avvenire, 02.09.2007)
In tutti i suoi testi, molti dei quali tradotti e pubblicati in lingua italiana, seguendo la linea dei pensatori classici, lo psichiatra viennese Viktor E. Frankl, padre universalmente riconosciuto della terza scuola viennese di psicoterapia, nota come «logoterapia e analisi esistenziale», analizzando con delicatezza e decisione la struttura dell’essere umano, afferma che essa è «disegnata» e concepita, nella sua dimensione fisico-biologica e in quella psico-razionale, per aprirsi al mondo circostante e per mettersi in relazione con gli altri. Un tale atteggiamento di apertura agli altri «tu» umani non ha bisogno di alcuna artificiosità e forzatura, dal momento che risponde alle esigenze peculiari e intime della persona.
Frankl, di cui oggi ricorre il decimo anniversario della morte (Vienna, 2 settembre 1997), era cosciente, inoltre, che nel secolo XX molti pensatori e psicologi avevano sottolineato quest’aspetto essenziale della nostra natura, proiettata al di là di se stessa, «aperta al mondo» e alle cose. Ecco perché nella sua opera principale Logoterapia e analisi esistenziale (Morcelliana, Brescia 2005) affermò con convinzione che «essere uomo significa andare al di là di se stessi. L’essenza dell’esistenza umana si trova nel proprio autotrascendimento. Essere-uomo vuol dire essere sempre rivolto verso qualcosa o verso qualcuno, offrirsi e dedicarsi pienamente a un lavoro, a una persona amata, a un amico cui si vuol bene, a Dio che si vuol servire». In un’epoca come la nostra, che immerge nello stress e nell’iperattività gran parte della società occidentale, sono molte le persone che, gettate nel rovinoso fragore delle loro molteplici attività, cercano la propria felicità e la propria autorealizzazione nella conferma dei successi professionali, nella realizzazione di piaceri sensibili o nell’accettazione sociale di una troppo curata ed edulcorata immagine esterna. Frankl, invertendo quest’ordine di valori, ha sempre sostenuto che l’autorealizzazione che sogniamo e la pienezza esistenziale dell’essere umano, come presupposti della felicità, non si ottengono mettendo uno specchio che faccia da muro di fronte al mondo esterno per restare nella nostra narcisistica immagine, ma si raggiungono nella misura in cui ci occupiamo degli altri con generosità e creatività.
Il principio antropologico fondamentale dell’essere umano è, in tale prospettiva, il naturale porsi oltre se stesso, così come l’apertura proiettiva dei propri sentimenti e dei propri atti volitivi e razionali, quando non si chiudono nell’individualistica soggettività, ma si espandono verso la realtà esterna, contribuiscono, nella misura in cui si trascende se stessi e si compiono i propri doveri, allo sviluppo congiunto e armonico delle potenzialità umane e, in pratica, consentono di diventare più umani. Partendo da tale prospettiva antropologica, Frankl ricerca da diverse angolazioni la tendenza o capacità naturale di andare oltre se stessi, di trascendersi verso coloro che convivono nella diversità ambientale e sociale degli attuali spazi naturali. In tal modo egli attua il vecchio principio secondo cui «l’uomo è per natura un essere sociale», principio che il grande filosofo greco Aristotele poneva a fondamento delle peculiari caratteristiche del linguaggio umano, affermando che è semanticamente costruito per metterci in comunicazione e in relazione con i nostri simili.
Un altro dei punti fermi della visione frankliana è quello di mettere in guardia dinanzi al pericolo di chiuderci esclusivamente nell’autoriflessione dei nostri desideri e delle nostre soddisfazioni materiali, dei nostri successi e dei nostri insuccessi, dei nostri beni presenti e delle nostre sicurezze future, poiché tale volontaria chiusura suppone un atteggiamento e una disposizione che forzano la naturale apertura al mondo esterno e alle persone che ci circondano. Per questo, egli considera che imprigionare l’io nelle strette pareti del nostro mondo interiore, impedendogli di espandersi senza falsi timori «verso l’esterno», è un rischio che facilita la crescita di germi patologici che, avvolgendo ossessivamente le nostre riflessioni, possono portare a disturbi nevrotici ed essere motivo di infelicità. Una personalità sana e ben formata psicologicamente è, piuttosto, quella che sa aprire le porte e le finestre della sua coscienza verso la luce e il chiarore del mondo esterno, dirigendosi verso la gente che la circonda e interessandosi ad essa.