Paradosso istituzionale del mentitore

GOVERNO: PRODI, E ANCORA PRODI !!! RIPARTIRE DAL NOME: "ITALIA"!!! USCIRE DAL BERLUSCONISMO, VELOCEMENTE!!! E PROTEGGERE I PARTITI DA LORO STESSI. L’analisi di Barbara Spinelli - a cura di pfls

Dieci anni caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato.
sabato 27 ottobre 2007.
 
[...] Il nome scabroso di dittatura è stato dato perché s’adatta allo speciale dramma di Prodi. La sua è una sorta di Grande Coalizione escogitata per uscire dal berlusconismo, che non è stato una dittatura ma un’anomala monocrazia. È una coalizione che s’apparenta al Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale formato tra le forze più diverse per ricostruire una legalità dopo il ’43. Se oggi Berlusconi è ancora così potente (influenzando telegiornali, giornali, politici) vuol dire che non ne siamo usciti. Che da questa malattia urge guarire, ciascuno facendo un esame di coscienza. Cercando di capire cosa stiamo dimenticando, quale pericolo stiamo sottovalutando, quel che dobbiamo fare per rimettere un po’ di morale e verità nella politica [...]

Il perdente radicale

di Barbara SPINELLI (La Stampa, 25/2/2007)

Per capire la natura dell’ultima crisi di governo bisogna probabilmente smettere di usare questa parola: crisi. Crisi ha qualcosa di subitaneo e circoscritto: l’atto d’irresponsabilità di due senatori della sinistra radicale avrebbe precipitato un governo già di per sé litigioso, ma il caso di coscienza non si estenderebbe oltre il perimetro della maggioranza. Il dizionario Devoto descrive la crisi come «esacerbazione o insorgenza improvvisa di fenomeni morbosi violenti, per lo più di breve durata». Crisi è anche un eufemismo: tutto il tessuto intorno è sano, solo quel punto lì è strappo da rammendare.

Meglio dunque parlare di malattia, o di male italiano. È un male non legato a una sola forza ­ l’ideologismo di un’estrema sinistra che ha avuto la sciagurata leggerezza di candidare irresponsabili al Parlamento ma è una patologia che affligge la maggior parte dei politici e quasi tutta la classe dirigente (cioè chiunque eserciti indirettamente responsabilità nella pòlis: attori economici, intellettuali, giornalisti). I sintomi sono chiari: una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre quando s’occulta il passato, una mancanza continuativa di coscienza etica. Quel che si è dimenticato è l’epoca che segna il nostro tempo: dieci anni dominati da Berlusconi, caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato. La minaccia che si sottovaluta è il ritorno di quell’esperienza. La coscienza etica mancante è quel che impedisce di riconoscere in se stessi la soggezione, radicata e quindi malata, alla forza di Berlusconi. Quest’ultimo continua a determinare il nostro modo di giudicare la politica, di semplificarla, di sprezzarla. In realtà sono nove mesi che gran parte della classe dirigente guarda al governo Prodi attraverso le lenti falsificatrici di Silvio Berlusconi.

Se la crisi sembra al momento superata, se i partiti dell’Unione hanno deciso di non farsi più la guerra e di provare un’intesa rispettosa della guida di Prodi, è perché tali mali sono stati intuiti. Come spesso accade, la paura può esser consigliera cattiva ma anche ottima, e la paura di riconsegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi ha dato forza e nuovo senso della realtà alla coalizione. La paura può servire anche ad aprire salutari casi di coscienza, nella sinistra radicale ma non solo: nella maggioranza, nell’opposizione, e in chiunque osservi e commenti la politica nazionale. È come se per tutti un gioco finisse, distruttivo-autodistruttivo, e il caso di coscienza consiste nel guardare in faccia quella soggezione verso Berlusconi. Sono mesi che quest’ultimo proclama illegittimo il governo ed è un giudizio che inconsapevolmente è interiorizzato da molti. L’intimidazione è enorme e produce malattie che scombinano le menti: le più svariate menzogne vengono prese per vere, i riconteggi dei voti d’aprile vengono accettati creando precedenti gravi, il tentativo di conciliare la sinistra radicale con la responsabilità è giudicato in anticipo inane e in genere passa l’idea che un governo vada giudicato sull’istante, all’ombra del prossimo voto locale, non sull’arco di qualche anno almeno di legislatura.

È una strana sindrome, che fa pensare al perdente radicale descritto da Enzensberger. Nel perdente radicale, osserva lo scrittore citando il filosofo Odo Marquard, «la delusione aumenta con ogni progresso, perché dove i progressi civili sono effettivamente vincenti ed eliminano effettivamente i mali, raramente suscitano entusiasmo: diventano ovvii, e l’attenzione allora si concentra sui mali che restano. Vige insomma la legge della crescente incidenza del rimanente. Quanto più negativo scompare dalla realtà, tanto più irritante diventa il negativo residuale, proprio perché diminuisce» (Enzensberger, Il perdente radicale, Einaudi). Il terroristico perdente radicale è scontento di qualsiasi presente. L’antipolitico spregio della politica, ereditato dal decennio berlusconiano, ha radici che sopravvivono. Sono tante le menzogne di Berlusconi, e tutte mirano a far apparire Prodi illegittimo. Ha cominciato fin dall’inizio della legislatura e in questi giorni ha moltiplicato gli attacchi di questo genere senza che nessuno l’obbligasse a tener conto della legalità oltre che della sua idea di legittimità extralegale. Poi con Alleanza Nazionale e altri partiti ha ripetuto che i senatori a vita non possono sostenere la maggioranza senza perdere dignità morale e anche in tal caso pochi hanno obiettato. Anche questa è soggezione e sta a indicare come l’Italia, contro le speranze di Montanelli, non sia ancora vaccinata.

Perché l’intimidazione funziona in pieno, come se Berlusconi fosse ancora al potere pur non essendo più al governo. Come agli inizi della sua carriera politica, è il controllo sociale che continua a latitare, e questo gli permette di mentire impunemente. Chi urla contro i senatori a vita mentre vanno a votare usa una violenza spaurente non molto diversa dai manganelli. Chi li denuncia farebbe bene a ricordare la lettera che Cossiga, irritato per le accuse d’immoralità rivolte ai senatori a vita nel maggio 2006, quando Prodi ebbe la fiducia, scrisse a Berlusconi. Puntigliosamente, Cossiga ricorda il giorno in cui quest’ultimo ottenne la fiducia dei senatori, il 18 maggio ’94: «Fui autorevolmente incaricato (...) di “organizzargliene” una (di fiducia)! I senatori erano trecentoventisei, di cui undici erano senatori a vita, presenti in Aula furono trecentoquindici e trecentoquattordici i votanti; centocinquantotto voti era la maggioranza richiesta. Votarono sì centocinquantanove senatori, centocinquantatré furono i contrari e due gli astenuti, che al Senato valgono per voto contrario. Il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Nessuna accusa di immoralità ci fu rivolta allora né dalla sinistra né da te!». Ma non solo chi denuncia dovrebbe ricordare. È responsabile anche chi lascia dire stupidaggini (telegiornali, quotidiani, politici) senza subito ricordare agli italiani i fatti del passato.

Adesso che si tenta una ripresa del governo Prodi sarà utile riconoscere il persistere di questa sindrome, di intimidazione e soggezione: consegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi è un’opzione che deve sparire. Questo vuol dire far politiche riformiste e una politica estera coerente con gli impegni internazionali ma anche eliminare il triplice male dell’amnesia, della sottovalutazione dei pericoli, della menomata coscienza etica.

Significa smettere di fare favori personali a Berlusconi e dunque approvare al più presto una legge sul conflitto d’interessi, senza ripetere il gravissimo peccato d’omissione della sinistra nel 1996-2001. Rinviarla per l’ennesima volta sarebbe non un errore, ma un crimine. Significa non lasciar passare le menzogne sui senatori a vita. Significa, per personalità che tengono all’etica come Pier Ferdinando Casini, sottoporre a esame i propri comportamenti durante il governo Berlusconi e ammettere, come fa oggi Follini, che governare con Calderoli non è meno peggio che governare con Diliberto. Significa votare con questo governo, se la politica estera di D’Alema rompe con le scelte berlusconiane in nome d’una continuità con De Gasperi-Andreotti. Votando contro, Andreotti ha non solo votato contro se stesso. Ha fatto politichetta anziché politica.

Ha scritto Eugenio Scalfari nei mesi scorsi che l’Italia è come uno specchio rotto: ognuno crede di scorgere nel frammento il tutto, e non vede in realtà che se stesso. Non sarà male che questa tentazione finisca, e ben venga l’autorevolezza rivendicata da Prodi. Forse i punti 11 e 12 del suo piano sono i più essenziali, riguardando proprio questo: il suo portavoce sarà portavoce non solo del premier ma del governo, e in caso di contrasto nella maggioranza sarà Prodi a decidere. Lo stesso Scalfari aveva consigliato quest’autorevolezza, quando chiese al premier di esercitare una dittatura di salute pubblica. Questo gli darà forza nell’Unione, verso gli oppositori, e non per ultimo nei rapporti con chi nella Chiesa vorrebbe far politica al posto dei governi sui «temi sensibili».

Il nome scabroso di dittatura è stato dato perché s’adatta allo speciale dramma di Prodi. La sua è una sorta di Grande Coalizione escogitata per uscire dal berlusconismo, che non è stato una dittatura ma un’anomala monocrazia. È una coalizione che s’apparenta al Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale formato tra le forze più diverse per ricostruire una legalità dopo il ’43. Se oggi Berlusconi è ancora così potente (influenzando telegiornali, giornali, politici) vuol dire che non ne siamo usciti. Che da questa malattia urge guarire, ciascuno facendo un esame di coscienza. Cercando di capire cosa stiamo dimenticando, quale pericolo stiamo sottovalutando, quel che dobbiamo fare per rimettere un po’ di morale e verità nella politica.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  "UCCIDETE LA DEMOCRAZIA", ELEZIONI, E "MISTERO" delle SCHEDE BIANCHE?! LA "NOTTE" DEL "BROGLIO DEI BROGLI" E’ "SCESA" QUANDO E’ STATO (ED E’ ANCORA !!!) "PERMESSO" A UNA PERSONA E A UN PARTITO L’AB-USO DELLA “PAROLA”: Che "Forza"!!! "For SHAME"!!! Istituzioni e cittadini, tutte e tutti - sonnambuli e conniventi ?!! LUNGA VITA ALL’ITALIA!!!



I 12 "comandamenti" di Prodi *

-  1. «Rispetto degli impegni internazionali e di pace. Sostegno costante alle iniziative di politica estera e di difesa stabilite in ambito Onu ed ai nostri impegni internazionali, derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, con riferimento anche al nostro attuale impegno nella missione in Afghanistan. Una incisiva azione per il sostegno e la valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle comunità italiane all’estero».

-  2. «Impegno forte per la cultura, scuola, università, ricerca e innovazione».

-  3. «Rapida attuazione del piano infrastrutturale e in particolare ai corridoi europei (compresa la Torino-Lione). Impegno sulla mobilità sostenibile».

-  4. «Programma per l’efficienza e la diversificazione delle fonti energetiche: fonti rinnovabili e localizzazione e realizzazione rigassificatori».

-  5. «Prosecuzione dell’azione di liberalizzazioni e di tutela del cittadino consumatore nell’ambito dei servizi e delle professioni».

-  6. «Attenzione permanente e impegno concreto a favore del Mezzogiorno, a partire dalla sicurezza».

-  7. «Azione concreta e immediata di riduzione significativa della spesa pubblica e della spesa legata alle attività politiche e istituzionali (costi della politica)».

-  8. «Riordino del sistema previdenziale con grande attenzione alle compatibilità finanziarie e privilegiando le pensioni basse e i giovani. Con l’impegno a reperire una quota delle risorse necessarie attraverso una razionalizzazione della spesa che passa attraverso anche l’unificazione degli enti previdenziali».

-  9. «Rilancio delle politiche a sostegno della famiglia attraverso l’estensione universale di assegni familiari più corposi e un piano concreto di aumento significativo degli asili nido».

-  10. «Rapida soluzione della incompatibilità tra incarichi, di governo e parlamentari, secondo le modalità già concordate».

-  11. «Il portavoce del presidente, al fine di dare maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce dell’esecutivo».

-  12. «In coerenza con tale principio, per assicurare piena efficacia all’azione di governo, al presidente del Consiglio è riconosciuta l’autorità di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo stesso in caso di contrasto».

Panorama, 23.02.2007.


Proteggiamo i partiti da se stessi

di BARBARA SPINELLI (La Stampa,7/10/2007)

Mancano pochi giorni all’elezione della persona che guiderà il nuovo Partito democratico, e molte parole son state spese dai candidati per dire le proprie preferenze programmatiche, il desiderio di suscitare nei cittadini più partecipazione democratica, l’aspirazione a superare la crisi della politica con nuovi modi di pensarla, farla, comunicarla. Si è parlato anche di cose futili, come l’età dei candidati e la loro appartenenza a un sesso o a un altro. È una futilità dimostrata dalla storia: il socialista Jospin sfidò Chirac insultando la sua tarda età, alle presidenziali francesi del 2002, e sparì addirittura dal secondo turno. Ségolène Royal puntò sul proprio esser donna: il successo non le arrise.

Di una cosa tuttavia si è parlato poco nella campagna delle primarie, o comunque non sono state approfondite due domande cruciali: a cosa serva avere un partito organizzato piuttosto che un movimento o una rete fluida di simpatizzanti, e quale debba essere il rapporto che il partito ha con il governo, quando quest’ultimo è del proprio campo.

Eppure è questo il tema essenziale, su cui i candidati sicuramente hanno meditato ma che non hanno spiegato bene ai propri elettori. Si accenna spesso al danno che un partito invasivo arrecherebbe al governo Prodi - o viceversa degli effetti nocivi che l’impopolarità di Prodi avrebbe sul partito - ma così si elude la questione che non è contingente bensì permanente: è la questione se il governo debba tener conto del partito o dei partiti fino a esserne sommerso, oppure se debba avere una sua autonomia e preminenza.

Se debbano esserci regole che assicurino una separazione di poteri, competenze, autonomie. Anche in questo caso la storia serve, essendo la partitocrazia un male non solo italiano. Anche la Germania, per esempio, lo conosce. Helmut Schmidt cancelliere fu ridotto all’impotenza dal proprio partito, su missili Nato e riforme economiche, e prima vide restringersi i margini per manovrare, poi perse l’alleato liberale, infine fu soppiantato nell’82 da un’alleanza fra Kohl e liberali. Eppure i socialdemocratici avevano vinto le elezioni del 1980, dando una possente maggioranza a Schmidt. Il partito ebbe quasi vergogna di quella vittoria e preferì perdere. Lo stesso minaccia di ripetersi oggi: per conquistare le sinistre estreme il leader Spd, Kurt Beck, vorrebbe congedarsi dal riformismo di Schröder (pensioni a 67 anni, durata più breve dell’indennità di disoccupazione per chi ha più di 50 anni e rischia il prepensionamento) e in tal modo non solo sovverte il lavoro dei ministri socialdemocratici - tra cui il vicecancelliere Müntefering - ma distrugge un riformismo che ha dato risultati eccellenti, come riconosciuto dagli stessi democristiani.

In Italia il rischio è assai simile: che il futuro leader del Partito democratico non abbia chiaro in mente quale sia il preciso compito della sua formazione, e quali ne siano i limiti. L’attenzione dei principali candidati sembra concentrarsi più sulla governabilità (con chi governare? con chi mantenere il potere?) che sul programma e sulla difesa di alcuni punti salienti nel caso il governo non riesca ad attuarli tutti. Ad esempio: come difendere i Dico, o l’opportunità di una legge sul conflitto d’interessi, o l’abolizione delle leggi ad personam? Il partito può insistere su questi punti anche se il governo pare rassegnato e l’unanimità dei consensi impossibile.

Il candidato che fin qui ha posto la questione con maggiore scrupolosità è Rosy Bindi. Volutamente, ha sottolineato la propria lealtà al governo Prodi: senza dargli lezioni, senza confondere la corsa alla leadership partitica con la corsa a Palazzo Chigi. La sua formazione cattolica è inoltre all’origine di una sua vigile cura della laicità: e non solo quella che distingue tra politica e religione, ma anche quella che traversa la politica e implica separazione nitida fra programma di partito e azione di governo, funzione profetica del primo e funzione operativa del secondo, tempi dell’uno e dell’altro, cultura e azione. Tale separazione sembra in lei istintiva. I suoi simpatizzanti forse la voteranno anche per questo.

Questo tipo di laicità è fondamentale, nelle democrazie dove l’esecutivo fatica a farsi valere. Attuarla restituendo all’esecutivo la preminenza non diminuisce la forza del partito, né la sua capacità d’interferenza. Non è infatti dall’interferenza in sé che occorre guardarsi, ma dall’interferenza arbitraria che diventa dominio e predominio. Sono questi ultimi che sfibrano non solo i governi amici ma deturpano i partiti stessi, visto che essi non si esauriscono nel governare ma debbono durare oltre i governi, e vivere se necessario periodi di opposizione senza disperdersi in campagne elettorali permanenti che tengono tutti a galla allo stesso modo. Quest’arte di durare e non solo galleggiare, se sarà trovata, servirà non solo alla sinistra: nessuno a destra - neppure Casini - pare possederla.

I partiti sono oggi contestati in Italia, non senza motivi. Essi producono oligarchie interessate alla conservazione del potere più che aristocrazie profetiche, come spiegava negli Anni 10 e 20 del secolo scorso lo studioso tedesco Robert Michels, molto scettico su democrazia e organizzazione partitica: ogni organizzazione produce ineluttabilmente oligarchie conservatrici, diceva. Per questo era preferibile il leader carismatico a quello burocratico, figlio dell’organizzazione. Il disprezzo per i partiti democratici condusse Michels ad ammirare dittatori che vollero abolire i partiti. Da socialdemocratico che era, divenne fascista. Il leader carismatico o demagogico rappresenta la risposta alla «legge ferrea dell’oligarchia», che Michels considerava una spregevole fatalità. Queste oligarchie interessate a mantenere potere e consensi sono più forti e deleterie se il partito soverchia e insidia il governo amico.

La governabilità lo interesserà più del governare, i consensi immediati più delle idee. Ogni convinzione minoritaria gli apparirà sconveniente, fastidiosa. Si affermerà l’idea, non necessariamente giusta, che un partito che si rispetti debba avere, su tutto, idee che piacciano ai più. Così non dovrebbe essere: un partito può avere idee minoritarie anche per un periodo lungo, senza perdere nobiltà. Non metterà in cima alle proprie preferenze, su praticamente qualsiasi tema, quelle che si chiamano oggi «larghe intese» o «idee condivise». Anche questo è rispettare la frontiera laica fra partito e governo, fra interferenza e dominio. I partiti devono avere un ruolo profetico, più penoso per i governi. Devono tenere la rotta se vogliono traversare epoche prospere e carestie, di governo e di opposizione. Trascurare tale compito sfocia facilmente in un pericolo grande: la cooptazione, cui si ricorre per proteggere oligarchie e primati sui governi.

La cooptazione è descritta con tinte nere da Michels, e stupisce l’attualità delle sue parole. Si coopta chi raccoglie consenso nel campo avversario e può prendere il nostro potere, e si agisce così: «I leader dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta». È una denuncia antipolitica su cui vale la pena meditare, vista la frequenza con cui il fenomeno ricorre nella storia. L’apertura di Sarkozy a uomini di sinistra è di questo tipo. Dello stesso tipo sono le aperture di alcuni candidati del Pd a oppositori come Gianni Letta o Tremonti.

I partiti restano utili, nonostante siano ancora una volta, oggi, percepiti come casta. Ci vuol coraggio a difendere chi vi milita continuativamente, e perfino a chiamarli partiti. È utile anche l’organizzazione che essi tendono a darsi: che non produce fatalmente oligarchie con vocazione prevaricatrice ma permette di fissare limiti, di evitare dismisure, esorbitanze. Veltroni dice con acume che urge «uscire dai recinti»: ma i partiti hanno una loro geografia, e geografia è recinzione di territori. Solo così si smentisce quel che in Michels è tentazione totalitaria, oltre che acido fatalismo. I partiti proteggono la politica non dalla rabbia di Grillo (non è lì il pericolo) ma dalle lobby, dagli interessi particolari, dai demagoghi. Sono preziosi a condizione che diventino una forza grande, e però conscia dei propri limiti: è la sfida delle elezioni del 14 ottobre.


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