Il perdente radicale
di Barbara SPINELLI (La Stampa, 25/2/2007)
Per capire la natura dell’ultima crisi di governo bisogna probabilmente smettere di usare questa parola: crisi. Crisi ha qualcosa di subitaneo e circoscritto: l’atto d’irresponsabilità di due senatori della sinistra radicale avrebbe precipitato un governo già di per sé litigioso, ma il caso di coscienza non si estenderebbe oltre il perimetro della maggioranza. Il dizionario Devoto descrive la crisi come «esacerbazione o insorgenza improvvisa di fenomeni morbosi violenti, per lo più di breve durata». Crisi è anche un eufemismo: tutto il tessuto intorno è sano, solo quel punto lì è strappo da rammendare.
Meglio dunque parlare di malattia, o di male italiano. È un male non legato a una sola forza l’ideologismo di un’estrema sinistra che ha avuto la sciagurata leggerezza di candidare irresponsabili al Parlamento ma è una patologia che affligge la maggior parte dei politici e quasi tutta la classe dirigente (cioè chiunque eserciti indirettamente responsabilità nella pòlis: attori economici, intellettuali, giornalisti). I sintomi sono chiari: una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre quando s’occulta il passato, una mancanza continuativa di coscienza etica. Quel che si è dimenticato è l’epoca che segna il nostro tempo: dieci anni dominati da Berlusconi, caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato. La minaccia che si sottovaluta è il ritorno di quell’esperienza. La coscienza etica mancante è quel che impedisce di riconoscere in se stessi la soggezione, radicata e quindi malata, alla forza di Berlusconi. Quest’ultimo continua a determinare il nostro modo di giudicare la politica, di semplificarla, di sprezzarla. In realtà sono nove mesi che gran parte della classe dirigente guarda al governo Prodi attraverso le lenti falsificatrici di Silvio Berlusconi.
Se la crisi sembra al momento superata, se i partiti dell’Unione hanno deciso di non farsi più la guerra e di provare un’intesa rispettosa della guida di Prodi, è perché tali mali sono stati intuiti. Come spesso accade, la paura può esser consigliera cattiva ma anche ottima, e la paura di riconsegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi ha dato forza e nuovo senso della realtà alla coalizione. La paura può servire anche ad aprire salutari casi di coscienza, nella sinistra radicale ma non solo: nella maggioranza, nell’opposizione, e in chiunque osservi e commenti la politica nazionale. È come se per tutti un gioco finisse, distruttivo-autodistruttivo, e il caso di coscienza consiste nel guardare in faccia quella soggezione verso Berlusconi. Sono mesi che quest’ultimo proclama illegittimo il governo ed è un giudizio che inconsapevolmente è interiorizzato da molti. L’intimidazione è enorme e produce malattie che scombinano le menti: le più svariate menzogne vengono prese per vere, i riconteggi dei voti d’aprile vengono accettati creando precedenti gravi, il tentativo di conciliare la sinistra radicale con la responsabilità è giudicato in anticipo inane e in genere passa l’idea che un governo vada giudicato sull’istante, all’ombra del prossimo voto locale, non sull’arco di qualche anno almeno di legislatura.
È una strana sindrome, che fa pensare al perdente radicale descritto da Enzensberger. Nel perdente radicale, osserva lo scrittore citando il filosofo Odo Marquard, «la delusione aumenta con ogni progresso, perché dove i progressi civili sono effettivamente vincenti ed eliminano effettivamente i mali, raramente suscitano entusiasmo: diventano ovvii, e l’attenzione allora si concentra sui mali che restano. Vige insomma la legge della crescente incidenza del rimanente. Quanto più negativo scompare dalla realtà, tanto più irritante diventa il negativo residuale, proprio perché diminuisce» (Enzensberger, Il perdente radicale, Einaudi). Il terroristico perdente radicale è scontento di qualsiasi presente. L’antipolitico spregio della politica, ereditato dal decennio berlusconiano, ha radici che sopravvivono. Sono tante le menzogne di Berlusconi, e tutte mirano a far apparire Prodi illegittimo. Ha cominciato fin dall’inizio della legislatura e in questi giorni ha moltiplicato gli attacchi di questo genere senza che nessuno l’obbligasse a tener conto della legalità oltre che della sua idea di legittimità extralegale. Poi con Alleanza Nazionale e altri partiti ha ripetuto che i senatori a vita non possono sostenere la maggioranza senza perdere dignità morale e anche in tal caso pochi hanno obiettato. Anche questa è soggezione e sta a indicare come l’Italia, contro le speranze di Montanelli, non sia ancora vaccinata.
Perché l’intimidazione funziona in pieno, come se Berlusconi fosse ancora al potere pur non essendo più al governo. Come agli inizi della sua carriera politica, è il controllo sociale che continua a latitare, e questo gli permette di mentire impunemente. Chi urla contro i senatori a vita mentre vanno a votare usa una violenza spaurente non molto diversa dai manganelli. Chi li denuncia farebbe bene a ricordare la lettera che Cossiga, irritato per le accuse d’immoralità rivolte ai senatori a vita nel maggio 2006, quando Prodi ebbe la fiducia, scrisse a Berlusconi. Puntigliosamente, Cossiga ricorda il giorno in cui quest’ultimo ottenne la fiducia dei senatori, il 18 maggio ’94: «Fui autorevolmente incaricato (...) di “organizzargliene” una (di fiducia)! I senatori erano trecentoventisei, di cui undici erano senatori a vita, presenti in Aula furono trecentoquindici e trecentoquattordici i votanti; centocinquantotto voti era la maggioranza richiesta. Votarono sì centocinquantanove senatori, centocinquantatré furono i contrari e due gli astenuti, che al Senato valgono per voto contrario. Il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Nessuna accusa di immoralità ci fu rivolta allora né dalla sinistra né da te!». Ma non solo chi denuncia dovrebbe ricordare. È responsabile anche chi lascia dire stupidaggini (telegiornali, quotidiani, politici) senza subito ricordare agli italiani i fatti del passato.
Adesso che si tenta una ripresa del governo Prodi sarà utile riconoscere il persistere di questa sindrome, di intimidazione e soggezione: consegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi è un’opzione che deve sparire. Questo vuol dire far politiche riformiste e una politica estera coerente con gli impegni internazionali ma anche eliminare il triplice male dell’amnesia, della sottovalutazione dei pericoli, della menomata coscienza etica.
Significa smettere di fare favori personali a Berlusconi e dunque approvare al più presto una legge sul conflitto d’interessi, senza ripetere il gravissimo peccato d’omissione della sinistra nel 1996-2001. Rinviarla per l’ennesima volta sarebbe non un errore, ma un crimine. Significa non lasciar passare le menzogne sui senatori a vita. Significa, per personalità che tengono all’etica come Pier Ferdinando Casini, sottoporre a esame i propri comportamenti durante il governo Berlusconi e ammettere, come fa oggi Follini, che governare con Calderoli non è meno peggio che governare con Diliberto. Significa votare con questo governo, se la politica estera di D’Alema rompe con le scelte berlusconiane in nome d’una continuità con De Gasperi-Andreotti. Votando contro, Andreotti ha non solo votato contro se stesso. Ha fatto politichetta anziché politica.
Ha scritto Eugenio Scalfari nei mesi scorsi che l’Italia è come uno specchio rotto: ognuno crede di scorgere nel frammento il tutto, e non vede in realtà che se stesso. Non sarà male che questa tentazione finisca, e ben venga l’autorevolezza rivendicata da Prodi. Forse i punti 11 e 12 del suo piano sono i più essenziali, riguardando proprio questo: il suo portavoce sarà portavoce non solo del premier ma del governo, e in caso di contrasto nella maggioranza sarà Prodi a decidere. Lo stesso Scalfari aveva consigliato quest’autorevolezza, quando chiese al premier di esercitare una dittatura di salute pubblica. Questo gli darà forza nell’Unione, verso gli oppositori, e non per ultimo nei rapporti con chi nella Chiesa vorrebbe far politica al posto dei governi sui «temi sensibili».
Il nome scabroso di dittatura è stato dato perché s’adatta allo speciale dramma di Prodi. La sua è una sorta di Grande Coalizione escogitata per uscire dal berlusconismo, che non è stato una dittatura ma un’anomala monocrazia. È una coalizione che s’apparenta al Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale formato tra le forze più diverse per ricostruire una legalità dopo il ’43. Se oggi Berlusconi è ancora così potente (influenzando telegiornali, giornali, politici) vuol dire che non ne siamo usciti. Che da questa malattia urge guarire, ciascuno facendo un esame di coscienza. Cercando di capire cosa stiamo dimenticando, quale pericolo stiamo sottovalutando, quel che dobbiamo fare per rimettere un po’ di morale e verità nella politica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
1. «Rispetto degli impegni internazionali e di pace. Sostegno costante alle iniziative di politica estera e di difesa stabilite in ambito Onu ed ai nostri impegni internazionali, derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, con riferimento anche al nostro attuale impegno nella missione in Afghanistan. Una incisiva azione per il sostegno e la valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle comunità italiane all’estero».
2. «Impegno forte per la cultura, scuola, università, ricerca e innovazione».
3. «Rapida attuazione del piano infrastrutturale e in particolare ai corridoi europei (compresa la Torino-Lione). Impegno sulla mobilità sostenibile».
4. «Programma per l’efficienza e la diversificazione delle fonti energetiche: fonti rinnovabili e localizzazione e realizzazione rigassificatori».
5. «Prosecuzione dell’azione di liberalizzazioni e di tutela del cittadino consumatore nell’ambito dei servizi e delle professioni».
6. «Attenzione permanente e impegno concreto a favore del Mezzogiorno, a partire dalla sicurezza».
7. «Azione concreta e immediata di riduzione significativa della spesa pubblica e della spesa legata alle attività politiche e istituzionali (costi della politica)».
8. «Riordino del sistema previdenziale con grande attenzione alle compatibilità finanziarie e privilegiando le pensioni basse e i giovani. Con l’impegno a reperire una quota delle risorse necessarie attraverso una razionalizzazione della spesa che passa attraverso anche l’unificazione degli enti previdenziali».
9. «Rilancio delle politiche a sostegno della famiglia attraverso l’estensione universale di assegni familiari più corposi e un piano concreto di aumento significativo degli asili nido».
10. «Rapida soluzione della incompatibilità tra incarichi, di governo e parlamentari, secondo le modalità già concordate».
11. «Il portavoce del presidente, al fine di dare maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce dell’esecutivo».
12. «In coerenza con tale principio, per assicurare piena efficacia all’azione di governo, al presidente del Consiglio è riconosciuta l’autorità di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo stesso in caso di contrasto».
Panorama, 23.02.2007.
Proteggiamo i partiti da se stessi
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,7/10/2007)
Mancano pochi giorni all’elezione della persona che guiderà il nuovo Partito democratico, e molte parole son state spese dai candidati per dire le proprie preferenze programmatiche, il desiderio di suscitare nei cittadini più partecipazione democratica, l’aspirazione a superare la crisi della politica con nuovi modi di pensarla, farla, comunicarla. Si è parlato anche di cose futili, come l’età dei candidati e la loro appartenenza a un sesso o a un altro. È una futilità dimostrata dalla storia: il socialista Jospin sfidò Chirac insultando la sua tarda età, alle presidenziali francesi del 2002, e sparì addirittura dal secondo turno. Ségolène Royal puntò sul proprio esser donna: il successo non le arrise.
Di una cosa tuttavia si è parlato poco nella campagna delle primarie, o comunque non sono state approfondite due domande cruciali: a cosa serva avere un partito organizzato piuttosto che un movimento o una rete fluida di simpatizzanti, e quale debba essere il rapporto che il partito ha con il governo, quando quest’ultimo è del proprio campo.
Eppure è questo il tema essenziale, su cui i candidati sicuramente hanno meditato ma che non hanno spiegato bene ai propri elettori. Si accenna spesso al danno che un partito invasivo arrecherebbe al governo Prodi - o viceversa degli effetti nocivi che l’impopolarità di Prodi avrebbe sul partito - ma così si elude la questione che non è contingente bensì permanente: è la questione se il governo debba tener conto del partito o dei partiti fino a esserne sommerso, oppure se debba avere una sua autonomia e preminenza.
Se debbano esserci regole che assicurino una separazione di poteri, competenze, autonomie. Anche in questo caso la storia serve, essendo la partitocrazia un male non solo italiano. Anche la Germania, per esempio, lo conosce. Helmut Schmidt cancelliere fu ridotto all’impotenza dal proprio partito, su missili Nato e riforme economiche, e prima vide restringersi i margini per manovrare, poi perse l’alleato liberale, infine fu soppiantato nell’82 da un’alleanza fra Kohl e liberali. Eppure i socialdemocratici avevano vinto le elezioni del 1980, dando una possente maggioranza a Schmidt. Il partito ebbe quasi vergogna di quella vittoria e preferì perdere. Lo stesso minaccia di ripetersi oggi: per conquistare le sinistre estreme il leader Spd, Kurt Beck, vorrebbe congedarsi dal riformismo di Schröder (pensioni a 67 anni, durata più breve dell’indennità di disoccupazione per chi ha più di 50 anni e rischia il prepensionamento) e in tal modo non solo sovverte il lavoro dei ministri socialdemocratici - tra cui il vicecancelliere Müntefering - ma distrugge un riformismo che ha dato risultati eccellenti, come riconosciuto dagli stessi democristiani.
In Italia il rischio è assai simile: che il futuro leader del Partito democratico non abbia chiaro in mente quale sia il preciso compito della sua formazione, e quali ne siano i limiti. L’attenzione dei principali candidati sembra concentrarsi più sulla governabilità (con chi governare? con chi mantenere il potere?) che sul programma e sulla difesa di alcuni punti salienti nel caso il governo non riesca ad attuarli tutti. Ad esempio: come difendere i Dico, o l’opportunità di una legge sul conflitto d’interessi, o l’abolizione delle leggi ad personam? Il partito può insistere su questi punti anche se il governo pare rassegnato e l’unanimità dei consensi impossibile.
Il candidato che fin qui ha posto la questione con maggiore scrupolosità è Rosy Bindi. Volutamente, ha sottolineato la propria lealtà al governo Prodi: senza dargli lezioni, senza confondere la corsa alla leadership partitica con la corsa a Palazzo Chigi. La sua formazione cattolica è inoltre all’origine di una sua vigile cura della laicità: e non solo quella che distingue tra politica e religione, ma anche quella che traversa la politica e implica separazione nitida fra programma di partito e azione di governo, funzione profetica del primo e funzione operativa del secondo, tempi dell’uno e dell’altro, cultura e azione. Tale separazione sembra in lei istintiva. I suoi simpatizzanti forse la voteranno anche per questo.
Questo tipo di laicità è fondamentale, nelle democrazie dove l’esecutivo fatica a farsi valere. Attuarla restituendo all’esecutivo la preminenza non diminuisce la forza del partito, né la sua capacità d’interferenza. Non è infatti dall’interferenza in sé che occorre guardarsi, ma dall’interferenza arbitraria che diventa dominio e predominio. Sono questi ultimi che sfibrano non solo i governi amici ma deturpano i partiti stessi, visto che essi non si esauriscono nel governare ma debbono durare oltre i governi, e vivere se necessario periodi di opposizione senza disperdersi in campagne elettorali permanenti che tengono tutti a galla allo stesso modo. Quest’arte di durare e non solo galleggiare, se sarà trovata, servirà non solo alla sinistra: nessuno a destra - neppure Casini - pare possederla.
I partiti sono oggi contestati in Italia, non senza motivi. Essi producono oligarchie interessate alla conservazione del potere più che aristocrazie profetiche, come spiegava negli Anni 10 e 20 del secolo scorso lo studioso tedesco Robert Michels, molto scettico su democrazia e organizzazione partitica: ogni organizzazione produce ineluttabilmente oligarchie conservatrici, diceva. Per questo era preferibile il leader carismatico a quello burocratico, figlio dell’organizzazione. Il disprezzo per i partiti democratici condusse Michels ad ammirare dittatori che vollero abolire i partiti. Da socialdemocratico che era, divenne fascista. Il leader carismatico o demagogico rappresenta la risposta alla «legge ferrea dell’oligarchia», che Michels considerava una spregevole fatalità. Queste oligarchie interessate a mantenere potere e consensi sono più forti e deleterie se il partito soverchia e insidia il governo amico.
La governabilità lo interesserà più del governare, i consensi immediati più delle idee. Ogni convinzione minoritaria gli apparirà sconveniente, fastidiosa. Si affermerà l’idea, non necessariamente giusta, che un partito che si rispetti debba avere, su tutto, idee che piacciano ai più. Così non dovrebbe essere: un partito può avere idee minoritarie anche per un periodo lungo, senza perdere nobiltà. Non metterà in cima alle proprie preferenze, su praticamente qualsiasi tema, quelle che si chiamano oggi «larghe intese» o «idee condivise». Anche questo è rispettare la frontiera laica fra partito e governo, fra interferenza e dominio. I partiti devono avere un ruolo profetico, più penoso per i governi. Devono tenere la rotta se vogliono traversare epoche prospere e carestie, di governo e di opposizione. Trascurare tale compito sfocia facilmente in un pericolo grande: la cooptazione, cui si ricorre per proteggere oligarchie e primati sui governi.
La cooptazione è descritta con tinte nere da Michels, e stupisce l’attualità delle sue parole. Si coopta chi raccoglie consenso nel campo avversario e può prendere il nostro potere, e si agisce così: «I leader dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta». È una denuncia antipolitica su cui vale la pena meditare, vista la frequenza con cui il fenomeno ricorre nella storia. L’apertura di Sarkozy a uomini di sinistra è di questo tipo. Dello stesso tipo sono le aperture di alcuni candidati del Pd a oppositori come Gianni Letta o Tremonti.
I partiti restano utili, nonostante siano ancora una volta, oggi, percepiti come casta. Ci vuol coraggio a difendere chi vi milita continuativamente, e perfino a chiamarli partiti. È utile anche l’organizzazione che essi tendono a darsi: che non produce fatalmente oligarchie con vocazione prevaricatrice ma permette di fissare limiti, di evitare dismisure, esorbitanze. Veltroni dice con acume che urge «uscire dai recinti»: ma i partiti hanno una loro geografia, e geografia è recinzione di territori. Solo così si smentisce quel che in Michels è tentazione totalitaria, oltre che acido fatalismo. I partiti proteggono la politica non dalla rabbia di Grillo (non è lì il pericolo) ma dalle lobby, dagli interessi particolari, dai demagoghi. Sono preziosi a condizione che diventino una forza grande, e però conscia dei propri limiti: è la sfida delle elezioni del 14 ottobre.
Nel giorno del Pd
di Furio Colombo *
Tutto o niente. È in questo paesaggio aspro e quasi privo di vie d’uscita che nasce il Partito Democratico sabato 27 ottobre a Milano, nel padiglione 16 della Fiera, Prodi sul palco che parla del presente, Veltroni del futuro. Due discorsi esemplari. Ma adesso viene il fare.
Tutto o niente. Qui nessuno può restare a mezz’aria e farsi giudicare «così così» o «non male». Questa è la scommessa finale per quella parte democratica e antifascista di italiani che hanno accettato di arrivare fin qui. Tutto vuol dire fare differenza nella vita e nella politica. Tutto vuol dire che niente può restare come adesso, un tempo fermo e pericoloso. Alla fine della giornata di nascita del Partito democratico vi sono state amarezze, dissensi, contraddizioni. Almeno così ha fatto sapere Rosy Bindi, con alcune ragioni politiche (le sue), con alcune ragioni che suonano vere.
Eppure non ci sarà un secondo appello e neppure una uscita di sicurezza. Questo non potrà essere un percorso esitante. Anche per chi si dichiara per prima cosa moderato, non c’è niente di moderato nel senso di cauto, di limitato, nel senso di «un po’ più, un po’ meno». Questa volta è tutto o niente, perché la politica rischia di finire qui, l’antipolitica è brutale, la scena è ingombra di macerie del berlusconismo che non finisce e delle macerie di un’altra Repubblica, che nessuno ha ancora spazzato. Anzi è in corso un recupero celebrativo di salme, di nomi, di riti, fascismo incluso.
Il cumulo delle delusioni è grandissimo, il compito è quasi impossibile. Cancellare tutto come su una lavagna, per cominciare da capo. Si può fare?
Io qui racconto un primo giorno di vita, un po’ l’ho vissuto e un po’ me lo invento. Lo faccio come si fa, decenni dopo, con certi eventi della storia. Lo faccio per mettere insieme fatti veri e speranza, attesa e promessa, ciò che è accaduto e ciò che vogliamo che accada.
* * *
È una sala vasta quella in cui è nato, sabato 27 ottobre a Milano il Partito Democratico che ha proclamato segretario Walter Veltroni, dopo il discorso di Prodi. È una folla molto grande questa assemblea di migliaia di persone, che certificano, confermano, annunciano. Non è una festa. È un incontro di emergenza. Infatti non c’è nessuno, qui dentro, che non si renda conto che stiamo ancora camminando al buio lungo un percorso incerto di cui non siamo in grado di inventariare e misurare i formidabili ostacoli.
Ciò che hanno detto Prodi e Veltroni i lettori lo sanno o lo leggono in questo stesso giornale: sopratutto hanno detto di sapere bene da che punto stiamo partendo. È un punto di pericolo. Hanno detto con chiarezza dove tentiamo di andare. C’è fervore, passione, c’è la piena persuasione di fare la cosa giusta un momento prima che sia troppo tardi. Il dove andare è semplice e immensamente difficile: una normale repubblica democratica libera dalle lobby degli affari e dei gruppi di interessi, libera dal governatore miliardario che, con la forte persuasione della sua ricchezza, è impegnato in una frenetica campagna acquisti di pezzi della Repubblica, dovunque l’acquisto possa produrre squilibrio e danno. Questo lo aggiungo io. Sto dicendo ai lettori lo spirito, l’impegno, la motivazione con cui ho partecipato alla giornata di Milano, che è la stessa con cui, nelle primarie, mi sono unito alla «sinistra per Veltroni». C’è un’Italia pulita che ha eletto Prodi, poi ha scelto Veltroni, e che vuole continuare a tenere indietro l’Italia illegale, anzi a permettere che si espanda l’Italia legale, rimuovendo il blocco elettorale, il blocco mediatico, il blocco del continuo flusso del voto di scambio, il blocco dell’ uso ridicolo o sprezzante delle istituzioni, il blocco degli interessi di alcuni.
Questo non vuol dire che l’Italia dei cittadini sia spaccata alla maniera desiderata da Berlusconi e - in una certa misura - imposta dai suoi sottopadroni, dai suoi giornalisti, dai suoi giornali (anche qui non c’è una demarcazione precisa, i giornalisti di stretta osservanza berlusconiana sono più dei giornali che fanno capo ad Arcore). Il compito immane è liberare il paese dal sortilegio mediatico che, con grande bravura, Berlusconi e i suoi hanno imposto al Paese. Il sortilegio è questo: ogni corteo che si mette in strada per qualsiasi ragione o motivazione viene dirottato fra i nemici di Prodi e persuaso che Prodi è il nemico. O almeno che non c’è differenza fra Prodi e Berlusconi.
Persino la questione della «casta», che è supremamente rappresentata dalla vasta legione straniera di ex, dentro le mura della Casa delle libertà, è stata afferrata e trasformata con bravura in insulto continuo contro la coalizione dell’Ulivo. Il vorace populismo berlusconiano riesce infatti a impossessarsi di ogni accusa che lo riguarda per poi usarla con efficacia contro l’avversario, come in un horror di fantascienza.
Aiuta, spesso, il silenzio del governo dell’Unione, e la loquacità incontenibile - e ben sostenuta dai media- di Berlusconi e dai suoi cloni. Aiuta la continua pioggia acida di annunci, premonizioni e celebrazioni di crolli che finora non sono avvenuti. Aiuta un senso di solitudine che è palpabile dove prima c’erano i militanti Ds.
* * *
Qualcosa è iniziato e farà differenza. Cercherò di raccontarlo così: una voce chiara, che è libera dagli assillanti, continui gravami di governo, parlerà per la parte del Paese che si è messa in cammino verso la ricerca necessaria, però un po’ folle, di una nuova politica. Quella voce si impegna a non essere mai ambigua, mai ambivalente, mai schermata, mai politichese.
Certamente non tutti, nella vivace e piena vita democratica a cui ci aspettiamo di partecipare, saranno sempre d’accordo su tutto. Non comincia una stagione di unanimismo, ma di partecipazione. Il requisito è che il filo della comunicazione non si aggrovigli e non si spezzi mai. Nelle vicende della politica è importante sapere tutto in tempo, avere spazio per contribuire, tempo per dissentire. . È molto più importante che non sapere, sapere dopo, avere solo la possibilità di adeguarsi o staccarsi. In altre parole, non è della voce unica che va in cerca il Pd ma della voce chiara che mantenga sempre vivo il progetto e il disegno a cui si lavora, così che la partecipazione, in tutte le sue forme, sia possibile e sia cercata sempre. Così che le proposte si conoscano, superando la barriera del blocco mediatico e del costante gioco al massacro.
Quel blocco e quel gioco si fondano sulla maledizione dei talk show, quasi tutti una anomalia e una eccezione italiana rispetto a tutto il mondo democratico. Infatti, solo in Italia i protagonisti eletti della politica vengono esibiti come materiale di spettacolo, a volte con regole truccate e con esiti pre-concordati, come hanno dimostrato le trascrizioni di telefonate fra un noto giornalista tv e un noto leader politico di destra.
Finisce da questo momento l’esclusiva di cui ha goduto fino ad ora Berlusconi: decidere a quale gioco si gioca oggi, quale evento domina la giornata, quale denuncia diventerà titolo nei due terzi dei giornali e nei «lanci» di apertura dei Tg.
D’ora in poi - senza mai adottare lo stesso linguaggio che incoraggia disprezzo - per ogni notizia falsa ci sarà una risposta precisa.
Finisce anche l’altra esclusiva: inventare, se occorre anche dal niente (giornali e giornalisti complici non mancano) una «emergenza» che costringe a tenere a bada per tutto il tempo i pitt-bull dalla Casa delle libertà, con il loro carico di finte denunce, di numeri falsi, di allarme fra i cittadini. In questi casi (che sono quasi quotidiani) montagne di energie si sprecano, disperdendo intanto la guida e la credibilità.
Tutto ciò non può accadere se una grande forza politica propone e conduce il suo disegno in modo che si rovesci la sequenza che ha segnato per anni la politica italiana: dove si va, che cosa si fa, di che cosa si discute, lo decide alla giornata, e secondo i propri interessi, Silvio Berlusconi, da solo. O almeno, così è stato fino ad oggi.
Ma la affollata assemblea di Milano, che annuncia la nascita del Pd, disegna anche lo spazio e il profilo di un nuovo territorio politico, o meglio inizia a tracciare quel disegno. Si può essere in ansia: sarà abbastanza grande questo territorio? Sarà abbastanza grande da accogliere quei milioni di cittadini che hanno detto in tutti i modi la loro speranza, hanno portato nella nuova casa un carico di storia e un carico anche più grande di motivazioni e di attesa? La domanda riguarda il lavoro in corso, il lavoro che comincia adesso, dopo la posa della prima pietra, dopo l’evento di sabato mattina. Ha una grande importanza per svelare il volto del nuovo partito. È importante affinché finisca il tipo di dichiarazione politica che fa oscillare la nuova immagine tra centro (vecchio o nuovo) e sinistra, non tanto nel senso ideologico del passato, quanto con riferimento agli impegni fondamentali del neonato Pd: lavoro, scuola, protezione della salute, precariato, pensioni, pace, Europa, difesa dello stato laico, decisioni su Stato e mercato.
È importante perché consente alle forze politiche impegnate nelle stesse battaglie e animate dalle stesse attese e tensioni, di sapere bene, con evidenza e chiarezza, con chi si misurano, si confrontano, si alleano. Più netto sarà il nuovo profilo, più facile e naturale, ritrovarsi e capirsi, scoraggiando o rendendo inutile la manovra e l’espediente come politica.
* * *
Il nostro Paese finora è stato sfortunato, e la sua sfortuna continua persino quando è al lavoro un governo onesto che sta alacremente riparando i danni peggiori. È il danno di una politica che, quando non è avvelenata e non è teatro, è troppo piccola. Qui sta la vera sfida accettata sabato mattina dalla assemblea del Pd e dal suo segretario che ha assunto ieri il suo impegno: allargare il cerchio, aprire i percorsi, sfondare l’assedio di un nanismo claustrofobico, disegnare uno spazio politico molto più ambizioso e più grande. Così grande da restituire le giuste dimensioni ai personaggi della destra italiana, protezionista, corporativa o non del tutto (non tutti) separata da un brutto passato. Sono dimensioni piccole, sono figure bonsai che non compaiono neppure sul fondale europeo, che non dovrebbero più essere in grado di tenere in ostaggio il Paese Italia.
Tutto ciò potrà iniziare adesso, subito, un’ora dopo l’investitura di Milano. Stando attenti a lasciar crescere la nuova vita politica dalla parte giusta, dalla parte di chi finora ha dato impegno, presenza, voto, stando attenti a non esibire di nuovo nomenklature, come in un museo che non chiude mai. Questo è un inizio, ed è bene che sia vissuto come un inizio da chi finora ha lavorato alla costruzione nuova.
colombo_f@posta.senato.it
* l’Unità, Pubblicato il: 28.10.07, Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.21
Il premier consegna a Veltroni il "suo" partito: "Abbiamo fatto una rivoluzione democratica"
Più di tremila persone nel padiglione 16 della Fiera di Milano.
Romano e Walter: "Mi fido di te"
Parte il Pd tra promesse e scadenze
Veltroni: "Avanti con le riforme, poi la legge elettorale. Il sostegno convinto e deciso del Pd al governo"
di CLAUDIA FUSANI *
Tocca al premier, che è il presidente del Pd, salutare i costituenti "l’assemblea più bella che si potesse immaginare, la vera risposta all’antipolitica". Il suo discorso non può prescindere dall’analisi dello stato di salute del governo. Bene, il governo è, secondo Prodi, "molto meno a rischio di quanto si pensi. Stiamo pagando in termini di popolarità perché vogliamo fare le riforme. Ma le faremo, perché questo ci chiedono gli italiani e di questo ha bisogno il paese". Anzi, il Pd "con la sua unità e il motore riformista rende ancora più forte il governo".
E’ un Prodi combattivo e guerriero quello che parla in mezzo a tappeti di prato verde. Qualche delegato è stupito: "Ehi, ma che ha fatto, ha preso qualcosa?" scherzano alcuni costituenti toscani. E’ un premier che conia acronimi inattesi, come TEP, "tutto eccetto Prodi", cioè "un imminente e indefinito accadimento" che dovrebbe togliere di mezzo lui e il suo governo.
"Invece - insiste il premier - mi spiace deludere questi serpenti di mare che si agitano da mesi, io sono qui e resto qui. Il mio orizzonte è la fine della legislatura, per me una responsabilità etica e politica". Quindi avanti con le riforme e con la nuova legge elettorale. La sua ricetta prevede "un bipolarismo moderno, dove l’alternanza non sia occasione di scontro e questo vuol dire ispirazione maggioritaria".
* La Repubblica, 27.010.2007 - ripresa parziale.
Conflitto d’interessi, il 14 maggio in aula la nuova legge
Da Bertinotti un calendario rigido e Forza Italia protesta: "Tempi ridicoli" *
ROMA - Il ministro Di Pietro fa una battuta ecclesiale: «Berlusconi», spiega, «deve decidere se essere prete oppure sacrestano, se fare il politico o l’imprenditore». Non sono parole causali. La questione del conflitto di interessi torna ai primi posti dell’agenda politica.
Dopo mesi di estenuante confronto nelle commissioni parlamentari, le nuove regole proposte dall’Unione arriveranno il 14 maggio all’esame dell’aula. Dario Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, lascia capire che la vicenda Telecom, con il possibile ingresso di Fininvest in una cordata di compratori italiani, non permette altri rinvii. Franceschini vuole anche rassicurare forze minori dell’Unione come il Pdci preoccupate che Berlusconi accetti una riforma elettorale a patto di una ritirata del centrosinistra su conflitto d’interessi e legge tv. In questo scenario, Fausto Bertinotti, presidente della Camera, stringe i bulloni e fissa tempi certi per l’approvazione del testo sul conflitto: 10 ore potranno essere spese nella discussione generale ed altre 16 ore nell’esame dei singoli articoli. E’ un tempo abbastanza ampio, visto che le misure sulle intercettazioni hanno ricevuto solo 14 ore. Ma Elio Vito, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, lo considera davvero troppo breve, anzi: «Ridicolo».
Bertinotti non gradisce, chiede a Vito di ritirare l’aggettivo e osserva che i tempi «sono ormai maturi per l’approdo in aula». Ma Forza Italia non arretra e avverte che alzerà alte barricate prima alla Camera e poi al Senato. Dice l’ex ministro La Loggia che l’Unione ha costruito un «testo illiberale, inquisitorio, lesivo degli interessi dei singoli e dei loro familiari, soprattutto concepito per colpire un solo uomo, Silvio Berlusconi». Larga parte dell’Udc è con Forza Italia. Spiega Maurizio Ronconi: «Il provvedimento non lascia scampo al Cavaliere, che dovrebbe cedere le sue aziende nel giro di poche settimane oppure affidarle ad un soggetto indipendente, a un "blind trust" che avrebbe pieni poteri, compreso quello della vendita».
* la Repubblica, 25 APRILE 2007
Nel faccia a faccia al Quirinale Napolitano gli ha chiesto che cessino i litigi nella maggioranza per dare stabilità all’azione di governo
Il Professore si scopre rugbista. "Sono pronto al gioco duro"
"Ci impegniamo a trovare uno spirito nuovo", ha risposto il premier. "Romano, guarda che è l’ultima chance", ha detto il capo dello Stato
di MARCO MAROZZI *
ROMA - "E se l’aria fosse davvero cambiata?". Romano Prodi in maniche di camicia ride davanti al televisore. Ad Edimburgo è appena finita una partita di rugby che i giorni a venire diranno se è la metafora del centrosinistra. "Come è quella frase? Quando il gioco si fa duro, i duri entrano in campo?": nell’ufficio del presidente del Consiglio riecheggiano pure i mitici Blues Brothers.
Eccolo il Prodi che spera di tornare di governo e di lotta. Prepara il suo discorso della prossima settimana alle Camere, quello che dovrebbe sancire la sua nuova partenza. Sfida a grande rischio. Il premier in bilico ha appena visto Padoa-Schioppa e Visco. Si è discusso di economia e di famiglie, della possibilità di allargare la platea di chi ha diritto agli assegni familiari.
E il Professore si ferma qualche minuto al primo piano di Palazzo Chigi, solo per guardare il finale della partita Scozia-Italia. "In casa degli avversari. Sì, perché almeno nel rugby i nemici non esistono" sospira.
L’Italia del rugby vince la sua prima partita nel Torneo delle Sei Nazioni. Fatto storico per l’ultima della classe. Si aprono orizzonti, in quello che, nonostante le botte, continua ad essere lo sport buono. Senza nemici né in campo né fuori.
"Ci riuscissimo anche noi..." dice il presidente del Consiglio che si prepara ad un’altra, la più rischiosa, gara sul filo.
"Quel che è successo al Senato può essere una colossale lezione. Di umiltà e serietà. Noi non ripartiamo, continuiamo sulla stessa strada, con la stessa maggioranza. Ma con uno spirito diverso. Uno spirito di unità, di concretezza, di rispetto per la gente che ci ha votato" predica Prodi. "Questo dobbiamo al presidente della Repubblica. E dobbiamo essere capaci di mostrare che lavoriamo per tutti gli italiani". Il richiamo è alle divisioni nella maggioranza, al "ognuno gioca per sé", all’attenzione al "particulare". Il calvario di argomenti su cui ha bacchettato, e molto, Giorgio Napolitano, anche nel colloquio di ieri.
"Romano, lo devi sapere: dopo le due sconfitte del Senato e questo passaggio il governo si gioca l’ultima chance con il voto di fiducia", gli ha detto il Capo dello Stato. Attento non solo a ridare fiducia, per l’ultima volta, a un centrosinistra che per nove mesi ha litigato, ma anche a spiegargli che deve rappresentare tutti gli italiani. Quelli che non l’hanno votato ma governano compresi. Su questi punti il presidente della Repubblica è stato chiaro, esplicito.
Prodi si è impegnato. Su questo sa che dovrà fare i conti con l’estrema sinistra che mai ha governato e si è fatta liste di personaggi come formazione e storia lontanissimi da qualsiasi rappresentanza nazionale. "Bisogna davvero trovare un nuovo clima, un nuovo passo" insiste il Professore che per un week end non è tornato nella sua Bologna.
Il discorso alle Camere punta a dipingere un percorso che continua. E insieme mostrare che molte cose sono cambiate e cambieranno. Prodi è convinto - o almeno mostra di esserlo - che la crisi e la fifa generale hanno fatto scattare un meccanismo di unità inedito nella storia della più eterogenea coalizione mai vista. E nello stesso tempo hanno rafforzato la leadership di colui che sin dal primo momento era stato esposto anche dai suoi al tira-a-segno della politica. "Quanto dura? E dopo?". "Possibile che ci siamo fatti irretire dal centrodestra ? Loro hanno fatto e fanno il proprio mestiere. Ma noi a seguirli nelle loro elucubrazioni..." brontolano nel clan prodiano.
Una fase nuova si apre, nelle intenzioni degli inquilini di Palazzo Chigi. Sancita l’indispensabilità di Prodi, sancita la sua leadership con tanto di 12 punti "non negoziabili". Un incasso tutto da verificare, in cui il premier e il centrosinistra si giocano la testa. "Mi presenterò alle Camere per il voto di fiducia nei tempi più rapidi possibili con lo slancio rinnovato di una coalizione coesa e decisa ad aiutare il paese in questo difficile passaggio e spingere verso la ripresa economica che è in atto" è stata la dichiarazione di Prodi uscendo dal Quirinale. Con i ringraziamenti al presidente della Repubblica "per la fiducia manifestata nei mie confronti e nei confronti della maggioranza che mi sostiene".
Prodi ha accettato fino in fondo la "lezione" impartitagli da Napolitano. Come succedeva a Bruxelles quando l’eurodeputato Ds dava i suoi consigli allora presidente della Commissione Ue. Poi i toni nel corso delle ore si sono rilassati. "Oggi sono più sollevato" commentava il premier uscendo da Montecitorio, dagli uffici di Bertinotti che lo accompagnava fin sulle scale per due volte lo baciava sulle guance. Qui non ci sono problemi, ma al Senato, dove ha appena visto Marini, avete la maggioranza? "Penso di sì. La democrazia si esprime nelle sedi appropriate e lì vedremo. Questa settimana inizierà un dibattito e lo vedremo. Alla Camera e al Senato".
Si torna a Palazzo Chigi. A lavorare. Un saluto alla piccola folla di curiosi. "Vai avanti" urla qualcuno. "Vattene" qualcun altro. Italia divisa. Come quando il premier a sera esce con la moglie. Va messa, poi a passeggio per Roma. relax, voglia di normalità. "C’è da lavorare, tanto. Per non perdere ma anche per portare un clima diverso".
"Non sarà un discorso troppo lungo. - racconta Giulio Santagata, il ministro del Programma, l’amico che condivide con lui questo sabato romano - Si partirà dai dodici punti decisi nel vertice dell’altra sera. Questo non è nuovo governo. Non dobbiamo presentare il programma ex novo, ci sarà l’indicazione delle priorità ma non una riproposizione di tutto il programma".
Prodi è deciso a far notare che anche dopo l’eventuale fiducia, non accetterà nessun nuovo balletto su punti fondamentali come il rifinanziamento della missione in Afghanistan, la Tav Torino-Lione, i degasificatori. La sinistra estrema che ha portato alla crisi è avvisata. Anche se il clima pare svelenirsi. Prodi ieri ha telefonato a Fernando Rossi l’ex-Pdci che ha fatto cadere il governo al Senato e mercoledì in treno, fra molti furori, è stato aggredito. "E’ stata una telefonata doverosa, di solidarietà - racconta Santagata - Fatta a rinvio alle Camere avvenuto, perché non si pensasse che Prodi volesse fare una captatio benevolentiae".
* la Repubblica, 25 febbraio 2007
David Lane: «5 anni di Berlusconi non vi sono bastati...»
di Umberto De Giovannangeli *
«Forse gli estremisti di sinistra in Italia non sono contenti di aver avuto Berlusconi per cinque anni e lo vogliono per altri tredici, così riusciranno a eguagliare i 18 anni dei conservatori al potere in Gran Bretagna. Davvero complimenti, un bel record...». La crisi di governo vista da David Lane, giornalista, scrittore, inviato dell’autorevole settimanale inglese Economist in Italia, autore di libri di successo, tra i quali ricordiamo «Berlusconi’s Shadow» (L’ombra di Berlusconi». «
La crisi del Governo Prodi vista da Londra.
«Era una crisi annunciata, perché il Governo di centrosinistra è molto fragile ed eterogeneo. È una fragilità politica prim’ancora che numerica ed è sul piano politico che va affrontata e, se si è in grado, risolta. Mantenere unita una coalizione così eterogenea sarebbe stata una prova improba, quasi una “mission impossible”, anche per il più abile e navigato politico. C’era da aspettarselo, perché già nella metà degli anni Novanta si era verificata un’azione simile da parte dell’estrema sinistra. Ed è stata la sinistra radicale a consegnare l’Italia a Silvio Berlusconi per cinque anni. E ora sembra intenzionata a provarci di nuovo. Tutto ciò mi porta a fare un parallelismo con la Gran Bretagna...».
Qual è questo accostamento?
«Alla fine degli anni Settanta e durante gli anni Ottanta il Partito laburista fu condizionato pesantemente dalla componente trozkista. Il risultato fu che una politica massimista e iperideologica consegnò la Gran Bretagna in mano ai conservatori. Il radicalismo ideologico e il massimalismo politico si sono dimostrati i migliori alleati della signora Tatcher. Questa è gente che non ha capito come è fatto il mondo. Forse gli estremisti di sinistra in Italia non sono contenti di aver avuto Berlusconi al Governo per cinque anni e lo vogliono per altri tredici anni, così riusciranno a eguagliare i 18 anni di conservatori al potere in Gran Bretagna. E tutto questo nel nome di una presunta “purezza ideologica” sull’altare della quale tutto può essere sacrificato...».
Il Governo è stato messo in minoranza al Senato sulla politica estera...
«È la prova provata di quanto detto sopra. Se c’è un ambito nel quale l’Italia è tornata a far parlare di sé in Europa non per le leggi ad personam, per il conflitto d’interessi e cosacce del genere, quell’ambito è proprio la politica estera. Ma forse è proprio questo che non andava giù ai puri e duri dell’estrema sinistra. Perché nel mondo si conta se ci si espone, se c’è una effettiva assunzione di responsabilità, e questo vuole dire anche, quando si fa parte di un sistema di alleanze, raggiungere dei compromessi. L’Italia non ha più soldati in Iraq mentre li mantiene in Afghanistan, e li mantiene all’interno di una missione che è stata approvata dalle Nazioni Unite. L’Italia ha detto di sì all’Onu e non all’amministrazione Bush. Forse l’estrema sinistra è anche contro l’Onu? È davvero paradossale che questa crisi sia maturata nel momento in cui l’Italia ha alzato il profilo della sua politica estera, non a parole ma assumendosi responsabilità sul campo, in Libano come in Afghanistan, e in Afghanistan l’Italia sta dando un contributo alla costruzione di uno Stato di ritto e al miglioramento delle disastrate condizioni di vita della popolazione civile. Forse per l’estrema sinistra “purista” è poca cosa, ma lo chiedessero alla povera gente afghana se è così..».
Lei ha scritto un libro di grande successo, le chiedo: e il Cavaliere in questa crisi?
«Il Cavaliere gongola. A Berlusconi va dato atto di avere sempre perseguito con ostinata determinazione, sin dalla sua scesa nel campo della politica, gli interessi personali. E tornare al Governo indubbiamente favorisce questi interessi. Ma anche la crisi è capitalizzata, su questo piano, da Berlusconi: dopo il voto al Senato, le azioni Mediaset sono salite. E tutto questo grazie al contributo fattivo dei “puri e duri” dell’estrema sinistra. Chissà come se la ride il Cavaliere...».
* l’Unità, Pubblicato il: 24.02.07, Modificato il: 24.02.07 alle ore 10.10
Una veduta dal ponte
di Furio Colombo *
Il senatore Kennedy telefona la mattina di giovedì 22 febbraio alle 8.30 ora di Washington, le 14.30 italiane. Ha appena visto nei telegiornali del mattino l’esplosione di furore tribale di una parte del Senato italiano, la manifestazione di incontenibile festa, persone adulte e anche anziane che saltano e urlano e tirano carta straccia di giornali nell’aria. Kennedy, che è attivo nella vita politica dal 1960, non ha mai visto una scena simile, non in Occidente, ed è molto curioso di sapere che cosa può essere accaduto per determinare una tale reazione. Non lo dice ma deve aver pensato: «Neanche nelle peggiori strade di Baghdad quando hanno impiccato Saddam Hussein». Invece dice, dopo aver ascoltato le spiegazioni: «Se noi dovessimo fare dimostrazioni del genere ogni volta che i repubblicani vincono con voti democratici o noi democratici vinciamo con voti repubblicani (e per fortuna accade sempre più spesso) qui in Campidoglio ci sarebbero urla e grida ogni giorno. Come sai noi lavoriamo ogni giorno con un voto di differenza. Non ci sarà un’altra spiegazione?». Non posso dargli la spiegazione, anche perché Kennedy deve correre in aula a votare (quel giorno i democratici avranno tre voti repubblicani in più; e batteranno di nuovo senza urla, il partito e le richieste del presidente). Mi limito a ricordargli che, a causa di una strana e assurda legge elettorale, detta «la porcata», noi italiani siamo obbligati ad avere due Camere con uguali prerogative e doveri ma elette con un sistema diverso, in modo che non si possa governare.
Dice l’anziano senatore del Massachusetts: «Ah, sì, la antica strategia: prima di andarsene hanno avvelenato i pozzi. Bene, è chiaro che dovete subito cambiare la legge elettorale». E corre a votare in un Senato dove la differenza di un voto non è una vergogna e non ferisce l’istituzione.
Mi ricorda che in politica estera, i governi democratici si sostengono quasi sempre con voti di entrambi le parti. Per esempio nei due ultimi voti di pace o guerra americani. E adesso, nella larga opposizione parlamentare alla continuazione della guerra in Iraq, in cui sempre più repubblicani votano con i democratici contro le proposte di Bush e di Cheney, benché il voto di maggioranza dei democratici rispetto ai repubblicani sia uno solo.
La sera dello stesso giorno c’è un incontro alla Ambasciata americana, fra parlamentari italiani e parlamentari americani delle rispettive Commissioni esteri (il tema è in particolare l’Alleanza atlantica e dunque anche l’Afghanistan). Per caso i parlamentari Usa sono quasi tutti democratici e non hanno alcuna difficoltà a dire, almeno nelle conversazioni personali, il loro dissenso su molti aspetti cruciali dal loro presidente.
Ma hanno visto lo Herald Tribune della mattina di giovedì e anch’essi sono incuriositi e perplessi. «Ricapitoliamo - mi dice uno di loro al centro di un gruppo. Il vostro ministro degli Esteri dice che la nostra alleanza continua, che l’impegno italiano in Afghanistan continua, ha due soli oppositori nella sinistra estrema, due soli che gli votano contro. Però tutta la destra celebra quei due voti come la loro più grande vittoria. Ma quella non è destra di Berlusconi»? Per fortuna è un incontro amichevole e alcune cose si possono lasciare in sospeso. Infatti restano in sospeso anche in Italia.
Resta in sospeso, per esempio, ciò che il senatore a vita Giulio Andreotti ha dichiarato a Jan Fisher del New York Times, che ne scrive, citandolo fra virgolette, il successivo venerdì 23 aprile: «Ma io non credevo affatto che il mio voto avrebbe fatto mancare la maggioranza e portato alle dimissioni del governo. Se lo avessi saputo, non avrei votato no».
Certo il senatore Andreotti può dire che non si aspettava la inspiegabile e inspiegata defezione di Rossi e Turigliatto. Fin qui ha ragione. Ma il suo voto su una materia così importante è stata una persuasione o una dimostrazione?
Resta in sospeso la questione «voto dei senatori a vita». Questi voti non devono contare, ha detto, scandendo le parole, Gianfranco Fini al Quirinale, con l’aria di introdurre un forte elemento moralizzatore nella vita pubblica, e senza rendersi conto di contraddire la Costituzione. Ma allora perché, nel minimo scarto che ha diviso la maggioranza dalla opposizione nel voto sulla politica estera italiana, i tre voti dei senatori a vita Andreotti, Pininfarina e Cossiga sono stati salutati come la presa della Bastiglia?
Con che faccia Fini ha fatto la sua dichiarazione, pur sapendo che la sua parte non avrebbe vinto senza quei voti salutati con una dimostrazione da curva di stadio?
Il caso di Pininfarina resterà tra gli aneddoti del Parlamento anche fra molti anni, quando una nuova legge elettorale avrà fatto dimenticare la «porcata» di Calderoli, e si potrà partecipare senza imbarazzo alla vita parlamentare. Il senatore a vita Pininfarina è entrato disorientato e incerto sul dove sedersi, poiché veniva in Senato solo per la seconda o la terza volta dopo la sua nomina. Non credo che sia andato sui banchi della destra per disattenzione. Probabilmente ha visto qualcuno che conosceva.
Ma quel qualcuno, a lui che deve avere onestamente detto «non so proprio come votare» perché arrivava in quel momento, gli ha perfidamente consigliato: «allora astieniti». Perché perfidamente? Perché è un consiglio disonesto. «Astensione», in Senato, significa «voto negativo» tale e quale come il no. Stranezze del regolamento, ma è così e a Pininfarina non è stato detto. O meglio ha cercato di dirglielo il suo vecchio e rispettato amico Valerio Zanone, che si è accostato per spiegarglielo.
Chi ripetesse in un film la scena di insulti, di rabbia, di furore, di intimidazione, di urla che si è scatenata contro il senatore Zanone, che avrebbe voluto spiegare a Pininfarina il senso della astensione in questo ramo del Parlamento, sarebbe accusato di farsa, o di esagerazione e anche di malevola presa in giro della vita parlamentare italiana.
Ma questa malevola presa in giro è ciò che si ripete nell’aula del Senato, avvelenata dalla legge Calderoli, ogni giorno. Per questo stupisce, ma un poco anche indigna, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 24 febbraio. Scrive: «Per durare Prodi dovrebbe stabilire rapporti meno conflittuali con il centrodestra. In un modo o nell’altro, l’epoca delle sberle quotidiane all’opposizione è finita». Eppure è impossibile che il politologo Panebianco non abbia, in casa o in studio o in ufficio, nel normale «pacchetto Sky», anche il canale che gli consente di assistere in tempo reale a ciò che avviene in Senato.
Gli basterebbe un giorno, un giorno qualunque, per vedere che cosa accade, con quali espressioni, e gesti e parole (che sono epiteti, insulti, vere e proprie maledizioni, come fra i protagonisti di una faida) si svolgono le normali sedute al Senato. Gli basterebbe sintonizzarsi a caso, anche in momenti che allo spettatore distratto possono apparire noiosi, per constatare con quale puntiglio ostruzionistico viene rallentato il passaggio di ogni atto legislativo. Esempio. Nella mattina di giovedì 22 febbraio, mentre era in discussione ed è stata votata e approvata la conversione in legge di un decreto che stava per scadere (dunque il tipico atto dovuto di un Parlamento), il senatore Carrara ha chiesto cinquantasei volte di seguito la verifica del numero legale (che è sempre risultato esserci). Lo scopo? Rallentare il più possibile o rinviare una votazione che non poteva impedire.
Tutto ciò avviene in uno spirito di guerra continua che certamente gli elettori del centrodestra approvano. Eppure ha scritto Panebianco, che «è ora di finirla con le sberle all’opposizione». Non resta che pregarlo di smettere di guardare Porta a Porta e di sintonizzarsi sul canale di Sky, dal quale può vedere chi dà le sberle a chi, per capire se, quando, come si può smettere di dare sberle. E spiegare come e con chi è possibile creare un passaggio di normale e reciproco rispetto. Tanto più che questo rispetto esiste nel lavoro delle Commissioni. Segno che in aula prevale, invece, (imposta dai capigruppo che hanno ordini diretti) il comando di Berlusconi. Quale comando? Tutto ciò per fortuna si è visto subito nelle truculente dichiarazioni che Berlusconi ha prontamente rilasciato nel corso delle consultazioni del Presidente Napolitano. Intendo dire: è una fortuna per la democrazia che Berlusconi non riesca a contenersi e a fingere compostezza e spirito costituzionale quando dichiara. Alla democrazia e alla scelta, sia pure da lui sabotata, degli elettori lui torna, prontamente, a dichiarare guerra. Come ai tempi in cui governava.
Tutto ciò spiega la strategia intimidatoria che ha imposto ai suoi: inferocirsi, anche nel modo più teppistico, con i senatori a vita, in modo da scoraggiarli dall’usare il loro diritto di voto garantito dalla Costituzione. Salvo accogliere quei voti, con grandi festeggiamenti, se sono a loro favore. E troncare in aula ogni rapporto di rispetto per l’istituzione, il suo presidente o gli altri senatori della maggioranza in modo da impedire ogni possibilità di lavoro in quel ramo del Parlamento.
Nonostante la legge elettorale che ha reso così difficile la vita del Senato, non è l’esiguità dei numeri la novità italiana che sorprende il mondo. E’ la violenza costante e l’esercizio teppistico di rapporti anche fisici di forza (se Zanone non si fosse allontanato subito dal banco in cui sedeva Pininfarina sarebbe certamente seguita l’aggressione fisica) che segnano ogni giornata parlamentare.
È andata bene, nonostante tutto? Diciamo che abbiamo costruito un ponte di barche su cui speriamo di attraversare un tratto di questo brutto momento italiano nel quale si vuol rendere impossibile la normale funzione istituzionale del governo. Da quel ponte pare di capire che ognuno di questa maggioranza farà, cominciando dalla disciplina , tutto il suo meglio.
Diciamo che a quel meglio e a quella disciplina sarà necessario aggiungere altri due punti al memorandum prodiano.
Uno è il cambiamento della legge elettorale, in modo che, se sarà necessario, potremo andare a votare con dignità e lontano dalla «porcata» di Calderoli. L’altro è la legge sul conflitto di interessi. Controprova: subito dopo il voto negativo di Rossi e Turigliatto contro la relazione di D’Alema sulla politica estera italiana, Mediaset, proprietà Berlusconi, ha avuto una impennata in Borsa per un totale di cinquanta milioni di euro. L’uomo simbolo del più grande conflitto di interessi fra politica e affari in corso in Occidente, ha guadagnato pronto cassa una cifra notevole che, immaginiamo, vorrà spartire con i suoi procacciatori di affari (le briciole, s’intende), soprattutto per ringraziarli dell’enfasi - che certo ha incoraggiato la Borsa - con cui hanno proceduto alla dovuta celebrazione.
Se avremo votato queste due leggi, potremo andare a casa con orgoglio in qualunque momento, certi di avere liberato questo Paese dal peggio. Per ora ci conforta - in questa brutta giornata - la condanna di Cesare Previti, e dunque del sistema e del mondo berlusconiano, nella sentenza d’appello sul "Lodo Mondatori" (corruzione e acquisto di giudice corrotto). Ma dobbiamo convenire che non si può lasciare alla magistratura tutto il compito della disinfezione del Paese.
La fine dell’emergenza spetta alla politica, dunque Camera, Senato e partiti che devono fare la loro parte. Dovremo fare in fretta, appena avremo cominciato a passare sul ponte di barche che il presidente della Repubblica ha accettato di lasciarci provare a costruire.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.02.07, Modificato il: 25.02.07 alle ore 15.29
LA CRISI DEL GOVERNO E IL DIKTAT DEL VATICANO
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 24.02.2007
Come tutti sanno, l’attuale crisi del governo Prodi era stata preceduta da una grave crisi fra stato e chiesa: da tempo le due sponde del Tevere non erano apparse tanto lontane l’una dall’altra. Non a caso, perciò, ci chiediamo se è esistito un rapporto fra le due crisi. Se, in altri termini, la vicenda dei Pacs e la soluzione dei Dico non abbiano influito sulla crisi di governo. Se, ancora una volta, non si sia confermato il rapporto fra i palazzi Vaticani e palazzo Chigi. Un rapporto che da tempo sembra far parte integrante della politica italiana. Nel bene e nel male.
È difficile rispondere. Le carte sono coperte. Quanto e a chi rispondono i votanti di palazzo Madama? Comunque fa una certa impressione osservare che fra i dodici punti che Prodi durante le consultazioni ha dichiarato irrinunciabili i famosi Dico sono scomparsi. Li ha sostituiti una generica raccomandazione sulla famiglia e le sue necessità. Eppure i Dico avevano dominato la discussione politica delle ultime settimane, facendo allargare notevolmente il Tevere e le sue sponde. Sopravvalutati fino a ieri o non piuttosto sottovalutati oggi, all’improvviso?
Si ha l’impressione che ancora una volta alla voce dei palazzi vaticani sia stata attribuito un valore eccessivo, seguendo, d’altronde, una tradizione che ha radici antiche, ma che oggi appare sovrastimata.
Come al solito nel nostro paese le voci laiche o dissenzienti passano facilmente in secondo piano. Eppure questa volta non erano mancate. Sia quelle esplicite, come il testo firmato da Alberigo e da moltissimi altri cattolici e comunità. Sia quelle implicite, ma molto autorevoli, anche di qualche vescovo.
Si è chiesto al governo di decidere sui matrimoni di fatto tenendo presente più il desiderio dei tanti cittadini interessati che le norme del diritto canonico. Voci autorevoli di un cattolicesimo che vuole accettare e difendere i valori della laicità, prendendo le distanze da posizioni di tipo ambiguo e spesso anche interessate al mantenimento di fette di potere più che alla sincera laicità.
Eppure sembra che i palazzi del potere siano stati sordi a queste voci e le abbiano preferite a quelle degli italiani - si parla di due milioni - che speravano in una sistemazione giuridica regolare.
Vedremo quale posizione prenderà il nuovo governo. Comunque speriamo che non si dimentichi il valore del dibattito sui Pacs e sui Dico: la dimostrazione che il cattolicesimo italiano è più ricco e articolato di quanto non si pensi al di là del Tevere e anche al di qua, nelle case dei neocons.
IL SACRIFICIO DEI DICO
di Gianni Rossi Barilli (il manifesto, 24.02.2007)
Qui lo Dico o qui lo nego? Il dubbio attanaglia il risveglio dal coma del Prodi 1/bis e suscita baruffe interpretative che nulla di buono lasciano presagire, in caso di fiducia parlamentare, sul cemento programmatico della (forse) rediviva maggioranza.
La sola certezza è che tra i 12 punti blindati che il professor Romano ha posto come condizione per prolungare ancora un po’ la sua permanenza a palazzo Chigi non compare l’impegno di governo sui diritti delle coppie di fatto. Neppure in quel tono minore che la logica della mediazione politica aveva imposto al disegno di legge sui Dico partorito appena due settimane fa. Il valoroso Mastella, con gli amici teodem, brinda all’ultima vittoria del cardinale Ruini. Mentre la testarda Rosi Bindi, con l’appoggio esterno della Rosa nel pugno, obietta che le coppie di fatto non fanno parte degli impegni futuri perché sono uno scoglio già superato dal Prodi 1 e stanno ora nella capaci mani del parlamento. Chi avrà ragione? Entrambe le interpretazioni sembrano formalmente legittime, così come il proverbiale bicchiere d’acqua può essere definito mezzo pieno o mezzo vuoto secondo il tono dell’umore di chi lo osserva.
Analizzando però la questione in termini di prospettiva, bisogna essere ciechi per non vedere che l’omissione programmatica dà più ragione a Ruini. Basta pensare che il cammino parlamentare della tormentosa riforma parte dal senato, dove i pronostici sul tema delle coppie di fatto sono ancora più sfavorevoli che sulla politica estera. Constatando poi anche che la ricerca di allargamenti della pericolante maggioranza cade su estremisti di centro ansiosi di ottenere la testa dei Dico.
Altra spia del disagio che attraversa l’Unione sull’argomento è l’assordante silenzio della gran parte della sinistra, riformista e non, ipnotizzata dallo spettro del ritorno del cavalier Silvio e disposta proprio a tutto pur di evitarlo. Così va il mondo e tanto di cappello al cardinale Ruini, che si prepara alla pensione carico di allori. Non si disperino le coppie more uxorio etero e omo, perché la storia non finisce domani e un civile conflitto sui loro diritti farà certo maturare il paese più della brutta legge che rischia di morire sul nascere.
Il dramma vero riguarda tutti gli elettori laici, che a questo punto non sanno più a che santo votarsi. E si chiedono se Romano val bene una messa.