[...] Luigi Ciotti a Reggio è di casa, festeggiato come un liberatore, ma non è il tipo da far sconti. Alla giornata della memoria di Polistena, il 20 marzo, ha esordito con durezza: "Il problema in Calabria non è la ’ndrangheta, non sono i politici. Il problema siamo noi". Noi società, civile o no, "rassegnata a chiedere per favore quanto ci spetta di diritto". La platea ha applaudito, una folla di migliaia di studenti da ogni parte d’Italia, Firenze e Torino, Palermo e Lecce. Da Reggio, quasi nessuno, Presidi e professori hanno declinato l’invito, qualcuno ha fatto sapere agli studenti che la presenza a Polistena avrebbe costituito "assenza ingiustificata". La ’ndrangheta, che controlla tutto, ora s’è messa in testa di controllare anche l’antimafia. Infiltra affiliati nelle associazioni, costituisce cooperative per farsi riassegnare i beni sequestrati.
"Il futuro di Reggio si gioca in pochi anni, tre o quattro al massimo" racconta il sociologo Tonino Perna. "O lo stato capisce che questa è la peggior emergenza mafiosa di sempre, oppure l’avranno vinta loro e anche gli ultimi calabresi disposti a lottare si rassegneranno o andranno via, com’è da secoli. Già oggi ogni volta che laureo uno studente con 110 e lode mi piange il cuore, perché so che gli sto consegnando un passaporto" [...]
L’INCHIESTA
Chi comanda nelle città. Il potere dei boss, l’antimafia demolita. Tramontato il sogno di Falcomatà, ora regna la pace mafiosa
La pax della ’ndrangheta soffoca Reggio Calabria
dal nostro inviato CURZIO MALTESE *
REGGIO CALABRIA - Il lungomare di Reggio Calabria è per il viaggiatore uno dei luoghi più fiabeschi d’Europa, ma per i calabresi era soprattutto un simbolo, la speranza e oggi la nostalgia di un futuro possibile. L’aveva voluto Italo Falcomatà, l’amatissimo sindaco stroncato dalla leucemia nel 2001, protagonista della "primavera reggina", otto anni in cui il sogno di una Reggio liberata dal malaffare sembrava a portata di mano. Ed era invece un’altra Fata Morgana.
La giunta della restaurazione, guidata dal sindaco di An, Peppe Scopelliti, ha disseminato il "lungomare Falcomatà" di altri simboli. Per primo è sorto il monumento alla massoneria. Nella versione originale c’erano il compasso e il cappuccio, poi spariti "per le solite mene dell’opposizione". Ma così monco e allusivo, il monumento risulta ancor più massone. Cento metri a destra e cento a sinistra, nei punti di maggior passaggio cittadino, si levano due inni di pietra al neofascismo. Il monumento ai "caduti del 1970", i camerati del "boia chi molla" e l’anfiteatro dedicato al capo della rivolta, Ciccio Franco. E chi vuol capire, capisca.
Nella colossale sede della Regione, costata un po’ meno di una piramide, il presidente Agazio Loiero promette: "Con i dodici miliardi di euro in arrivo dall’Europa, nei prossimi cinque anni possiamo cambiare faccia alla Calabria". Qualcuno potrebbe obiettare che, prima, bisognerebbe cambiare qualche faccia in Regione, con trenta consiglieri inquisiti su cinquanta.
Ma in Calabria le facce destinate a cambiare sono piuttosto altre, quelle degli onesti. I commercianti che si ribellano al pizzo e sono costretti alla vera latitanza, i talenti avviati all’emigrazione e i magistrati dotati di un eccesso d’iniziativa. L’ultimo è Luigi De Magistris, della procura di Catanzaro, titolare della mega inchiesta Poseidone sugli intrecci fra politica, massoneria e malavita, con un centinaio di nomi illustri nel registro degli indagati, dal segretario Udc Cesa all’ex presidente della Regione, Giuseppe Chiaravalloti, al senatore Giancarlo Pittelli, entrambi di Forza Italia. Ha appena fatto condannare a sette anni per truffa il capogruppo regionale della Margherita, Enzo Sculco. Per queste ragioni, o se si preferisce crederlo "per vizio di forma", l’inchiesta gli è appena stata tolta. L’avessero fatto con la simpatica Vallettopoli potentina di Woodcock, sarebbe insorta la società tele-civile. Ma la Calabria, nel bene e nel male, non fa notizia. Il bavaglio alla magistratura è la regola.
Sei anni fa, il pool antimafia reggino di Salvatore Boemi, che aveva indagato su 64 cosche e portato a 400 ergastoli, fu smantellato pezzo per pezzo, con i magistrati distaccati sul "fronte della guerra al terrorismo islamico", e non uscì un articolo di giornale.
La minaccia di Al Qaeda, nelle strade di Reggio, non sembra così incombente. In compenso il controllo mafioso è più asfissiante che nella Palermo degli anni Ottanta. Non serve chiedere chi comanda in città. La mafia più ricca del mondo domina senza oppositori la regione più povera d’Europa. Si legge in "Fratelli di sangue", grande inchiesta sulla ’ndrangheta firmata dal magistrato Nicola Gratteri e dallo scrittore Antonio Nicaso: "Nel rapporto tra affiliati ai clan e popolazione, la densità criminale in Calabria è pari al 27 per cento, contro il 12 della Campania, il 10 della Sicilia, il 2 della Puglia". A Reggio Calabria siamo al 50 per cento, significa che una persona su due è coinvolta, a vario titolo, in attività criminali.
La ’ndrangheta era fino a quindici o vent’anni fa ancora una mafia rurale, specialista nei sequestri di persona. Oggi controlla 40 miliardi di euro all’anno, il 3,5 per cento del Pil italiano (Eurispes) e quasi tutta la cocaina d’Europa, possiede quartieri di città a Bruxelles e Toronto, a San Pietroburgo come ad Adelaide, da Reggio ad Aosta; siede nei consigli d’amministrazione d’innumerevoli multinazionali. Secondo la polizia tedesca, è il principale investitore italiano nella Borsa di Francoforte e controlla una quota rilevante del colosso energetico russo Gazprom. In una intercettazione del ’96 uno dei Piromalli, i boss della piana di Gioia Tauro, confidava: "Abbiamo il passato, il presente e il futuro".
Sul futuro, con molto ottimismo, si può coltivare una pallida speranza, ma sul passato e ancora di più sul presente, non vi sono dubbi. Al colosso nero della ’ndrangheta lo Stato spara con fucilini giocattolo. L’antimafia di Reggio è un ufficio semi vuoto. In procura Salvatore Boemi, tornato da poco in fondo a sei anni di esilio, cerca di ricostruire brandelli di pool. In questura non hanno la benzina per le auto. L’assassinio di Francesco Fortugno, il 16 ottobre 2005 davanti al seggio delle primarie di Locri ha per un pò scosso il tradizionale menefreghismo nazionale nei confronti della tragedia calabrese. Ma sotto processo sono finiti solo un pugno di sicari.
Come si campa a ’Ndranghetopoli e dintorni? Bastano tre o quattro tappe di una giornata qualsiasi per afferrare il concetto. Il mafia tour può cominciare la mattina a Gioia Tauro con un piccolo esperimento. Sedetevi al tavolino dell’ottima gelateria in piazza e provate a vedere se in un paio d’ore, in una città col trenta per cento di disoccupati e il salario medio di 600 euro, passa qualcosa di più piccolo di una Mercedes. E’ consigliabile anche un breve giro della "zona industriale" della piana, segnalata dai cartelli. Capannoni industriali a perdita d’occhio, come nel laborioso Nord Est. Questi però sono vuoti, scatoloni d’aria. Le cosche hanno preso i fondi europei e sono sparite nel nulla. Nessuno indaga, nessuno ficca il naso.
A Reggio trascorro un pomeriggio a volantinare per "Libera", l’associazione antimafia di don Ciotti, con Mimmo Nasone, il responsabile locale. Sullo struscio di corso Garibaldi la gente ha di colpo fretta. Un centinaio di persone prendono il foglio senza guardare: "I veri mafiosi sono i politici, lo Stato", spiegano. Quattro o cinque giovani, perlopiù eleganti e quasi cortesi, lo dicono chiaro: "Io sono della ’ndrangheta". Uno prende il volantino ridendo e saluta: "Buon vespero, saggi compagni". La formula d’iniziazione degli affiliati. Una studentessa risponde malinconica: "Non è più un mio problema, io il mese prossimo me ne vado".
Non è giusto dire che i calabresi sono stati lasciati soli a combattere, ma a volte viene da pensare che sarebbe stato meglio. Gli aiuti di Stato hanno aiutato soltanto la ’ndrangheta. I due grandi poli industriali pubblici di Reggio sono serviti a consegnare la città in mano alle cosche, fino ad allora confinate nelle campagne e sull’Aspromonte. La prima fortuna del più potente boss del reggino, Natale Iamonte, si chiama Liquichimica. Il gigantesco impianto per produrre mangimi dai derivati del petrolio avrebbe dovuto creare decine di migliaia di posti lavoro ma ha prodotto soltanto, ricorda Giuseppe Bova, presidente diessino del consiglio regionale, "la più lunga cassa integrazione della Calabria, ventitrè anni". La fabbrica non ha aperto un solo giorno dal 1977 perché era costruita su terreno franoso, come per anni si è ostinato a segnalare il direttore del Genio Civile di Reggio, poi scomparso in uno strano incidente stradale. Di chi fossero i terreni non s’è mai capito ma nel frattempo Iamonte è passato da macellaio a miliardario. Lo stesso Iamonte ha controllato gli appalti delle Grandi Officine Riparazioni delle ferrovie di Stato, l’altra fabbrica di Reggio, al centro di un groviglio d’interessi che portò all’omicidio del parlamentare Ludovico Ligato, davanti alla sua villetta con vista mare.
Il terzo grande affare delle cosche avrebbe dovuto essere il mitico Ponte sullo Stretto, con i piloni ben piantati sulle proprietà della ’ndrangheta. Ma l’affare è saltato soprattutto per la fiera opposizione di un gruppo di reggini onesti, guidati dal professor Alessandro Bianchi, ora impegnato da ministro dei trasporti in altre due scommesse: "Usare i quattro miliardi risparmiati sul ponte per rendere civile i trasporti fra Salerno e Reggio e bonificare dalla criminalità il porto di Gioia Tauro, l’unica speranza della Calabria". Gioia è il secondo porto d’Italia dopo Genova, con la previsione di quadruplicare il traffico nel prossimo decennio. Ma gli investitori stranieri, giapponesi e cinesi in testa, vogliono garanzie nella lotta alla criminalità ed è paradossale che l’antimafia in Calabria riceva più impulsi da Tokyo e Pechino che da Roma.
Eppure perfino a Reggio la vita sa essere dolce. La città non è bella ma piacevole, calda e luminosa, pulita, aperta dal lungomare, con i pub brulicanti di movida notturna e le ragazze libere di girare da sole alle tre di notte. Il sindaco Scopelliti, ammiratore di Briatore, ha profuso risorse in eventi, feste, festival, passerelle di vipperia nazionale. Anche troppe. Come i 120 mila euro pagati a Lele Mora per far passeggiare sul corso della notte bianca Valeria Marini e il Costantino del Grande Fratello. Perfino un rispettabile fascistone come l’ex senatore Msi Renato Meduri, braccio destro di Ciccio Franco, con in casa la sabbia di El Alamein e i busti del Duce, finisce per rimpiangere il comunista Falcomatà "l’ultimo poeta della politica". Ma intanto ai reggini piace e lo sfidante di centrosinistra, il medico Lamberti Castronuovo, arranca nei sondaggi.
A Reggio regna una calma ai confini con la disperazione. In città non si spara un colpo dall’omicidio del magistrato Antonio Scopelliti nel ’91, atto finale di una guerra di mafia con seicento morti, agguati in pieno centro con bazooka e kalashnikov. Nel 2006 non c’è stata una denuncia di "pizzo" e il telefono anti-usura tace da sempre. La pace mafiosa avvolge, rassicura, coccola il consenso. "La ’ndrangheta è la mafia perfetta" ammettono i magistrati a palazzo di giustizia. "Mantiene l’ordine, non fa morti e ha eliminato il concetto stesso di vittima. In nome di chi possiamo agire?".
Già, chi è la vittima. I tossici? Ma di coca non si muore come di eroina. In periferia ne trovi di ottima a dieci euro la bustina, il costo di una pizza e una birra, e i drogati sono clienti soddisfatti. Le vittime dell’usura? "Consideri che i tassi praticati sono inferiori a quelli bancari" mi avverte un maresciallo. Allora i commercianti strangolati dal pizzo? Tutti pagano, nessuno ammette. A notte fonda, nel locale ormai deserto, un ristoratore mi confida: "Sì, pago il pizzo. Pago anche le tasse, più o meno, e che cosa ricevo in cambio? Lo Stato non mi garantisce la sicurezza. I trasporti fanno schifo. Se si ammala mio figlio prendo l’aereo e vado a Bologna, perché all’ospedale l’altra volta mi sono dovuto portare lenzuola e medicinali. Poi pago il pizzo, certo, ma nel mio locale non entra un mendicante, la finanza non fa controlli e se mi rubano l’auto me la fanno ritrovare il giorno sotto casa. Per il servizio che offrono, non sono neppure cari. L’alternativa? La fine di Masciari".
Pino Masciari, imprenditore edile di Vibo, anni fa ha denunciato il pizzo e fatto arrestare decine di malavitosi. Gli hanno fatto saltare la sede. Il resto lo hanno fatto le banche, con la revoca del credito: "cliente a rischio". E’ fallito per ventimila euro, quando aveva cantieri per tre milioni. Ora vive al Nord senza scorta e senza soldi, tolti entrambi dal governo Berlusconi. Nella primavera scorsa è tornato a Vibo, da solo, per votare alle elezioni politiche. Ai cronisti allibiti ha detto: "Non mi possono fare nulla, mi hanno già ammazzato". Soltanto don Ciotti l’ha convinto a non tornare.
Luigi Ciotti a Reggio è di casa, festeggiato come un liberatore, ma non è il tipo da far sconti. Alla giornata della memoria di Polistena, il 20 marzo, ha esordito con durezza: "Il problema in Calabria non è la ’ndrangheta, non sono i politici. Il problema siamo noi". Noi società, civile o no, "rassegnata a chiedere per favore quanto ci spetta di diritto". La platea ha applaudito, una folla di migliaia di studenti da ogni parte d’Italia, Firenze e Torino, Palermo e Lecce. Da Reggio, quasi nessuno, Presidi e professori hanno declinato l’invito, qualcuno ha fatto sapere agli studenti che la presenza a Polistena avrebbe costituito "assenza ingiustificata". La ’ndrangheta, che controlla tutto, ora s’è messa in testa di controllare anche l’antimafia. Infiltra affiliati nelle associazioni, costituisce cooperative per farsi riassegnare i beni sequestrati.
"Il futuro di Reggio si gioca in pochi anni, tre o quattro al massimo" racconta il sociologo Tonino Perna. "O lo stato capisce che questa è la peggior emergenza mafiosa di sempre, oppure l’avranno vinta loro e anche gli ultimi calabresi disposti a lottare si rassegneranno o andranno via, com’è da secoli. Già oggi ogni volta che laureo uno studente con 110 e lode mi piange il cuore, perché so che gli sto consegnando un passaporto".
* la Repubblica, 25.04.2007, pp. 1, 20-21.
’Ndrangheta: parlarne al fronte sttentrionale di Biagio Simonetta
L’uomo che tolse la «roba» ai boss
di Francesco Forgione*
Due giorni fa, nella valle del Marro, nel cuore della piana di Gioia Tauro, una cooperativa di giovani che lavora sui beni confiscati alla potente famiglia mafiosa dei Piromalli, è stata saccheggiata, derubata dei trattori, perfino delle vecchie zappe e, ad opera compiuta, i bravi hanno saldato le due ante della grande saracinesca del magazzino. Quasi a dire, nel macabro simbolismo mafioso: per voi qui la porta è ormai chiusa.
Ma i giovani e i lavoratori al mattino sono rimasti a presidiare la loro nuova terra che, per alcuni di loro, rappresenta anche l’unica opportunità di lavoro. Alla fine, per quei mafiosi sarà un boomerang, nonostante questa intimidazione, quelle terre non torneranno mai più nelle loro mani.
Gli uomini delle cosche tollerano il carcere, subiscono l’ergastolo, convivono con la morte ma le loro ricchezze, i loro patrimoni, le loro terre, i loro soldi non vogliono che vengano toccati. Non possono accettare questo livello della sfida della democrazia e dello stato.
Per questo, più che per ogni altra cosa, 25 anni fa, la mattina del 30 aprile del 1982, Cosa Nostra uccideva il deputato e segretario regionale del Pci siciliano, Pio La Torre ed il suo collaboratore Rosario Di Salvo. Pio la Torre era stato il primo a capire che le mafie andavano colpite al cuore, nella loro capacità di accumulare ricchezza e di tessere relazione col mondo dell’economia e della finanza, in una fitta rete di coperture e collusioni politiche ed istituzionali.
Davvero non c’è niente di rituale in questo anniversario e nei momenti di riflessione che sta stimolando in tutta Italia. Pio La Torre è stato un militante e dirigente sindacale e comunista del suo tempo, protagonista di quella straordinaria e tragica stagione di lotte che, nell’immediato dopoguerra, vide il movimento contadino, il sindacato, i socialisti e i comunisti, impegnati nella costruzione di una democrazia che, in Sicilia, già dallo sbarco degli alleati, doveva scontrarsi con un blocco di potere dominante nel quale l’organicità dei rapporti tra la mafia, gli agrari e una parte delle classi dirigenti democristiane doveva segnare lo sviluppo della regione e il corso politico dei decenni successivi, per incidere anche sugli equilibri politici nazionali.
Già la strage di Portella della Ginestra, il 1 maggio del 1947, dava il segno a questo corso.
Sono gli anni nei quali, dopo l’assassinio di Placido Rizzotto, Pio La Torre va a Corleone a dirigere la Camera del Lavoro e le lotte al feudo. Anni nei quali, fino e dopo la riforma agraria, si consuma una strage continua di contadini, sindacalisti, capi lega, con la polizia di Scelba impegnata a depistare e a mandare in galera i dirigenti socialisti e comunisti di quelle lotte, La Torre tra questi. È la stagione nella quale già si salda l’intreccio tra la lotta alla mafia e le lotte sociali e democratiche. La Torre per tutta la vita - prima quando da deputato comunista fu l’autore della relazione di minoranza nella Commissione Antimafia nel 1976 e poi con il ritorno in Sicilia per dirigere il suo partito - tiene sempre ferma questa idea di lotta di massa, nella tessitura di una trama sociale e democratica che doveva prefigurare un diverso sviluppo del sud e un diverso modello di società. È sua la norma che ci consente di colpire le mafie nel carattere associativo, è soprattutto sua la grande intuizione dell’aggressione ai patrimoni e alle ricchezze dei mafiosi.
Per questo di La Torre continuiamo a parlarne al presente, ora serve una nuova volontà.
Dopo 25 anni, non possiamo rassegnarci al fatto che tra il sequestro di un bene mafioso e la sua consegna ad uso sociale passino tra 10 e 15 anni o che, dopo la confisca, i mafiosi continuino a vivere nei loro palazzi e a lavorare sui loro terreni. Bisogna intervenire e modificare la legge 109 del ’96. Separare le misure di prevenzione patrimoniale da quelle personali, per molti versi superate, è ormai maturo il tempo di normare la «pericolosità sociale dei beni, dei patrimoni e delle ricchezze dei mafiosi» e non solo, com’è oggi, dei soggetti criminali, per uniformare a questo principio l’intera legislazione di contrasto e occorre concentrare ogni sforzo sui flussi finanziari. Se le mafie muovono annualmente un fatturato di 100 mila milioni di euro e larga parte di questi entra nel circuito economico legale il tema della trasparenza dell’economia e del mercato diventa centrale. Dovrebbe esserlo anche per le imprese e la Confindustria ancora troppo mute. Invece, in questo momento i processi per riciclaggio in Italia sono solo 6. Nessuno fa la propria parte nel denunciare le operazioni sospette: banche, finanziarie, notai. Sono questioni che illustreremo al governatore Draghi, tra qualche settimana in Commissione Antimafia. Insomma, nella lotta alle cosche serve nuovo impulso.
La Politica deve riappropriarsi della sua centralità. A partire dalla formazione delle liste, dalla selezione degli eletti, che non possono avere alcun sospetto di collusione e dalla bonifica della pubblica amministrazione, dal più piccolo comune ai vertici della burocrazia, il vero tessuto connettivo di un sistema di potere nel quale si saldano gli interessi delle mafie, delle imprese e della politica. È questa la lezione di Pio La Torre che non potrà vivere senza una dimensione di lotta generale, di partecipazione, di ricostruzione di valori forti come quelli che lo videro protagonista, nei mesi precedenti la sua morte, di quello straordinario movimento per la pace contro i missili a Comiso. La Torre saldava l’impegno pacifista al contrasto alla mafia, pronta a trasformare la base di Comiso e gli appalti per la sua costruzione in un grande affare e denunciava che la Sicilia dei missili, nel Mediterraneo, sarebbe diventata l’incrocio per i traffici più oscuri ed illeciti, da quelli dei servizi segreti di tutto il mondo, a quelli di armi e di droga. Quel disegno andava fermato con un grande movimento di popolo. Proprio lui che si batté per adeguare il codice penale, che scrisse l’art.416 bis, lo strumento del contrasto giudiziario alle mafie, indicava come la lotta a Cosa Nostra potesse essere vinta solo fuori dalla aule dei tribunali, nella dimensione sociale delle lotte per la giustizia e la democrazia. È questa, ancora oggi, l’antimafia che dovremo far vivere quotidianamente con il nostro impegno e la trasparenza della politica e delle istituzioni.
*Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia
* l’Unità, Pubblicato il: 29.04.07, Modificato il: 29.04.07 alle ore 8.16
LETTERA CON MINACCE DI MORTE ALLA VEDOVA FORTUGNO *
LOCRI (REGGIO CALABRIA) - Una lettera contenente minacce di morte e’ stata inviata alla parlamentare dell’ Ulivo Maria Grazia Lagana’, vedova del vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, ucciso il 16 ottobre 2005. La lettera e’ giunta stamani all’ abitazione della parlamentare, a Locri.
Nella lettera, realizzata con ritagli di giornale, c’e’ la scritta: ’’Ti controllo, smettila di agitarti, nessuno di potra’ salvare’’. Sulla busta c’ era l’ affrancatura della posta prioritaria e l’ indirizzo del destinatario. Subito dopo avere ricevuto la lettera, la parlamentare si e’ recata negli uffici del Commissariato di Siderno della Polizia di Stato per denunciare l’ accaduto. La vigilanza che la polizia effettua sulla parlamentare e’ stata subito rafforzata. Secondo i primi accertamenti, la lettera sarebbe stata spedita ieri, ma non e’ stato ancora possibile stabilire dove dal momento che sopra c’ e’ il timbro dell’ ufficio postale di Lamezia Terme dal quale passa tutta la corrispondenza spedita in Calabria.
* ANSA» 2007-04-28 15:21
Devastata la sede della "Valle del Marro", sui terreni confiscati alla ’ndrangheta. Lasciati messaggi di morte.
E’ la seconda intimidazione in pochi mesi. Forgione: "il governo garantisca la sicurezza e faccia ripartire l’attività"
Gioia Tauro, attentato a coop di Libera
Don Ciotti: "Andiamo avanti, non cederemo" *
GIOIA TAURO - La scorsa notte a Gioia Tauro è stata devastata la sede della cooperativa agricola Valle del Marro, realizzata dall’associazione Libera di don Ciotti su terreni confiscati alla ’ndrangheta. Il cancello d’ingresso è stato forzato, un capannone è stato danneggiato e sono stati rubati diversi attrezzi agricoli. Sul terreno sono anche state abbandonate croci e altri messaggi simbolici di morte.
La cooperativa, che si trova in località Ponte Vecchio di Gioia Tauro, è stata creata nel 2005 da Libera su terreni confiscati alle cosche Piromalli e Mammoliti. Gestisce 30 ettari di terreno e svolge attività agricola, con la coltivazione, in particolare, di uliveti ed agrumeti. L’attività, condotta secondo le tecniche dell’agricoltura biologica, consiste nella coltivazione e trasformazione degli ortaggi, nella raccolta delle olive e produzione di olio e nella produzione di miele. A gestire la cooperativa è un gruppo di giovani guidati da don Pino De Masi, referente di Libera in Calabria.
"Andiamo avanti, senza paura e senza alcuna esitazione, forti anche della presenza dello Stato al nostro fianco", ha detto il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, dopo essere stato informato dell’attentato. "Siamo tranquilli - ha aggiunto don Ciotti - anche perché il nostro impegno per la legalità non subirà alcun cedimento".
Non è la prima intimidazione per la cooperativa: a dicembre alcune persone si erano introdotte nella sede, rubando attrezzature. In quell’occasione erano anche state sabotate alcune macchine agricole con l’introduzione di zucchero nei serbatoi del carburante.
"Se questa è la risposta che le cosche pensano di dare alla meravigliosa manifestazione di Polistena del 21 marzo, hanno sbagliato i loro calcoli: quei beni, e tutti gli altri che gli sono stati sequestrati, non li riavranno mai, appartengono ai cittadini della Calabria", ha detto il presidente della Commissione antimafia, Francesco Forgione, commentando l’attentato. Forgione, appena ha saputo dei danneggiamenti subiti dalla cooperativa, è partito per recarsi a Gioia Tauro e portare la sua personale solidarietà. "Ora il governo - ha detto ancora Forgione - deve provvedere per far ripartire al più presto l’attività della cooperativa e garantire la sicurezza. Questo doloroso episodio deve anche spingere il governo ed il Parlamento ad approvare velocemente nuovi strumenti operativi e legislativi per la gestione dei beni confiscati alle mafie ed il sostegno a chi utilizza i beni: questi veri e propri avamposti della democrazia nelle terre più difficili del nostro paese non possono essere lasciati da soli".
"Ormai è chiaro che i mafiosi temono solo due cose: il carcere che li separa dal potere, ed il sequestro dei beni, che attacca il futuro delle loro cosche. Continueremo a colpirli con tutte e due queste risorse", ha detto ancora.
Anche il presidente della regione Calabria, Agazio Loiero, si è detto "assai turbato" per l’episodio. "Quello che è avvenuto - ha commentato ancora - è intollerabile e la risposta migliore è quella di schierarsi subito ed in maniera concreta e fattiva a favore della legalità".
* la Repubblica, 27 aprile 2007
Gioia Tauro, attentato a coop di Libera
Don Ciotti: "Non cederemo" *
GIOIA TAURO - La scorsa notte a Gioia Tauro persone non identificate hanno devastato la sede della cooperativa agricola Valle del Marro, realizzata dall’associazione Libera di don Ciotti su terreni confiscati alla ’ndrangheta. Gli attentatori, dopo essersi introdotti nella sede della cooperativa forzando il cancello d’ingresso, hanno danneggiato un capannone ed hanno rubato numerosi attrezzi agricoli. La cooperativa agricola Valle del Marro, che si trova in località Ponte Vecchio di Gioia Tauro, è stata creata nel 2005 da Libera su terreni confiscati alle cosche Piromalli e Mammoliti. La coop svolge un’intensa attività di produzione agricola, con la coltivazione, in particolare, di uliveti ed agrumeti. A gestire la cooperativa è un gruppo di giovani guidati da don Pino De Masi, referente di Libera in Calabria.
"Andiamo avanti, senza paura e senza alcuna esitazione, forti anche della presenza dello Stato al nostro fianco", ha detto il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, dopo essere stato informato dell’attentato. "Siamo tranquilli - ha aggiunto don Ciotti - anche perché il nostro impegno per la legalità non subirà alcun cedimento".
* la Repubblica, 27-04-2007
Ancora non ho letto tutto ma vorrei chiarire che il monumento per i caduti del 70 non è affatto per i "camerati" perchè tra i caduti del ’70 non c’è stato nessun camerata, prima di scrivere boiate informatevi
i 5 caduti sono stati :
1 rappresentante cisl(notoriamente "fascista") nonchè dipendente della locale agenzia municipale degli autobus, 1 dipendente ferrovie dello stato 1 cameriere 2 poliziotti
vi prego di non scrivere le cose solo per dare un colpo alle vostre tastiere
grazie
«Ammazzàti l’onorevole»: il buio sulla Calabria
di Edoardo Novella *
A che punto è la Calabria? Cosa c’è dietro l’omicidio Fortugno? A un anno e mezzo dall’assassinio dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale davanti al seggio delle primarie dell’Unione solo qualche squarcio di verità e un processo per i due killer e per il mandante. Ma è stato un «delitto di coppole», roba locale, insomma, o invece un omicidio politico-mafioso, il più eclatante in questi ultimi 15 anni italiani? Le inchieste - e i veleni giudiziari e istituzionali - sembrano annodarsi su se stesse.
Fortugno uomo di troppo quando si devono fare le candidature per le Regionali del 2005: «Tutti margheritoni siamo. Minchia muore Fortugno», «Ora ci può venire pure l’infarto...» (telefonata tra un amico e Mimmo Crea, consigliere regionale primo dei non eletti e poi subentrato a Fortugno dopo la sua morte). Fortugno lasciato solo: «Mi meraviglio di Ciccio Fortugno che è un idiota, mannaia. È una brava persona, ma non capisce niente della politica» (Gigi Meduri, deputato della Margherita e viceministro ai Trasporti). Fortugno e quelle denunce inascoltate sugli sprechi nella Asl di Locri: con un bilancio da oltre 170milioni di euro l’anno e la ‘ndrangheta infiltrata in ogni angolo, in ogni appalto, in ogni assunzione. Quella Asl che è anche serbatoio di voti. Quella Asl che lui conosceva come pochi perchè vi aveva lavorato. E come lui vi lavorava sua moglie, l’oggi onorevole Laganà. Fortugno per anni fianco a fianco con i suoi nemici. E quindi osservato, «pesato». Pedinato.
Ed è proprio al cuore del sistema-Calabria che va «Ammazzàti l’onorevole. L’omicidio Fortugno. Una storia di mafia, politica e ragazzi», il libro dell’inviato de l’Unità Enrico Fierro (Baldini Castoldi Dalai, euro 16,50), presentazione su Youtube.com. Un viaggio-inchiesta costruito sulle voci - da quelle della rivolta di Locri e del movimento «Ammazzatecitutti», al «re» del tonno Pippo Callipo - e soprattutto sulle «carte». A partire da quelle della relazione della commissione d’accesso alla Asl del prefetto Basilone - pubblicate per la prima volta. Migliaia di pagine per disegnare un intreccio di rapporti politico-criminosi consolidati da anni: «Un direttore amministrativo, collocato nel delicatissimo ufficio tecnico, è stato imputato e condannato per frode e truffa. Almeno 13 medici hanno reati che vanno dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti fino alla detenzione di armi ed esplosivi. Su 28 operatori pendono denune e condanne per gli stessi reati e molti sono direttamente imparentati con boss della zona. Quattro medici esterni sono considerati collusi» è scritto nella relazione terminata nel marzo 2006. «Cliniche e laboratori di mafiosi in camice bianco - spiega Fierro - , ai quali è una offesa chiedere il certificato antimafia. Altrimenti società sanitarie diretta emanazione di boss come Antonio Nirta o Giuseppe Morabito («’u tiradrittu»), mai avrebbero potuto abbeverarsi al pozzo senza fondo dei soldi pubblici».
E poi le audizioni e le relazioni dell’Antimafia sulla Calabria, dove i sindaci, gli amministratori, i sindacalisti e gli industriali minacciati sono centinaia: 323 atti intimidatori, per l’esattezza, dal 2000 al 2004, 26 omicidi in un solo anno, prima dell’ammazzatina eccellente di Fortugno. Cosa dicono i magistrati? Che i capi delle ‘ndrine sono «gente che parla correntemente quattro lingue, altro che montanari... » (Alberto Cisterna, sostituto alla Procura nazionale antimafia a «L’Avvenire»). Che la giustizia spesso fa strani «scherzi». Come per Roberto Pannunzi, condannato a 22 anni per narcotraffico: a un certo punto deve fare degli esami per dei disturbi anginosi, roba da mezza giornata... «invece il tribunale di sorveglianza di Roma sospende l’esecuzione della pena per sei mesi. Il giorno dopo - spiega il procuratore Enzo Macrì - Pannunzi se ne va e torna a fare la bella vita tra Colombia e Venezuela... ». E che forse la lotta alla mafia certe volte dimostra di essere solo una parola: se è vero che ogni anno - e da decenni - tutte le ‘ndrine tengono una riunione nel Santuario della Madonna dei Polsi, sulle montagne di San Luca, stesso posto praticamente da sempre, magari si sposta il giorno da una volta all’altra. Eppure soltanto due blitz, di cui uno pure fallito.
Calabria perduta? Fortugno pensava di no. Brutta pensata, però. Ed ecco che sulla voglia di svolta e di rinnovamento che aveva portato all’elezione di Loiero alla Regione e alla nomina di Fortugno come vicepresidente del Consiglio regionale la ‘ndrangheta piazza il suo segno di morte, l’«ammazzatina dell’onorevole». Nulla deve cambiare, tutti devono capire e tornare alla «normalità». Allora l’omicidio «deve» essere «di coppole», altro che mandanti del «terzo livello», no, è roba locale, minima. Niente politica, se la politica ha «capito». E arrivano le ombre sulla moglie di Fortugno, l’avviso di garanzia proprio per le forniture alla Asl di cui era vicedirettrice sanitaria. «Sono indagata dagli stessi magistrati che ho criticato per come stanno conducendo le indagini sull’assassinio di mio marito» si difende lei. Le luci sulla Calabria si stanno lentamente abbassando.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 20.34