Giusta e forte legge calabrese già nel titolo parla di ’ndrangheta. Ottimo
Il nome delle cose
di Domenico Delle Foglie (Avvenire, 27.01.2011)
Chiamare le cose con il loro vero nome può essere un nuovo inizio. Nei primi giorni del 2011 la giunta regionale della Calabria ha deciso di chiamare l’organizzazione criminale che tormenta quella parte del territorio meridionale con il suo nome: ’ndrangheta. E lo ha fatto mettendolo nero su bianco, con una proposta di legge per "Interventi regionali di sostegno alle imprese vittime di reati di ’ndrangheta e disposizioni in materia di contrasto alle infiltrazioni mafiose nel settore dell’imprenditoria". Una piccola rivoluzione linguistica che la giunta spiega così: «È una precisa presa di coscienza che si esprime nel dare alle cose, appunto il loro nome». E a supporto di questa scelta si sottolinea come il termine ’ndrangheta appaia ormai nei testi giornalistici e sociologici e si ritrovi anche nell’articolo 416 bis del codice penale che lo utilizza «in un contesto squisitamente giuridico».
Per chi ricorda come solo qualche anno fa, in alcune regioni del Sud (basti pensare alla Puglia della nascente Sacra Corona), larghi settori del ceto dirigente rifiutassero con tenacia la dura realtà delle infiltrazioni della malavita organizzata, quello che sta accadendo può apparire non solo come un atto di coraggio intellettuale, ma anche come una piccola ma significativa svolta nei rapporti fra i Palazzi della politica e la società civile. Infatti, per affrontare un nemico insidioso, feroce e potente come la ’ndrangheta, non basta il coraggio. Occorrono una serie di circostanze favorevoli: la maturazione diffusa, nella popolazione, di una profonda consapevolezza del fenomeno nella sua effettiva drammaticità; la formazione del consenso popolare necessario a sostenere scelte così impegnative; la capacità di armonizzare l’attività della macchina amministrativa con le svolte politiche, perché qualcuno non remi contro, inceppando le procedure; la possibilità di indicare alle forze produttive che un’altra strada è possibile per stare sul mercato. Tutto questo è già in atto? Non possiamo esserne certi, ma possiamo augurarcelo. E possiamo volerlo.
Così come possiamo affermare che il tentativo di introdurre una logica premiale che favorisca la fedeltà delle imprese allo Stato rispetto alla concorrenza sleale delle organizzazioni malavitose, rappresenta una forte innovazione. Che da un lato prende atto dell’esistenza di una "mafia imprenditrice" e dall’altro cerca di individuare le strade percorribili per costruire, anche al Sud, un forte tessuto di economia legale. Già qualche settimana fa ne aveva parlato il coraggioso procuratore capo della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone: «Per scardinare il sistema funziona una sola leva: rendere antieconomico il patto con la mafia». E si spingeva a proporre l’istituzione delle «white list delle aziende da premiare per il loro comportamento virtuoso, da privilegiare nell’attribuzione dei lavori pubblici».Sembra che la giunta regionale calabrese lo abbia ascoltato così da proporre, all’articolo 1 della proposta di legge, che alle imprese vittime di ’ndrangheta vengano attribuite «posizioni preferenziali nei bandi per la concessione di finanziamenti pubblici e per l’affidamento di contratti con la Regione e con gli enti, aziende e società regionali». Ma la legge va anche oltre e per contrastare le infiltrazioni configura come «inadempimento contrattuale» da parte delle imprese la mancata denuncia all’autorità giudiziaria degli atti estorsivi subiti. Eccola la rivoluzione copernicana: mettersi a fianco delle aziende che rifiutano il ricatto mafioso e aiutarle perché, dopo le violenze, non debbano subire anche il danno di vedere premiate le imprese concorrenti che hanno scelto la scorciatoia di fare affari con la ’ndrangheta.
Forse non sarà mai possibile imporre a tutti "il dovere del coraggio", ma almeno sarà possibile rendere conveniente, per tanti, la fedeltà allo Stato. E la prima prova di fedeltà è chiamare le cose con il loro vero nome: ’ndrangheta.
Domenico Delle Foglie
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA
Alle radici della Calabria, dove il Paese si gioca il futuro. Indagine su una regione al di sotto di ogni sospetto. Reportage di Cesare Fiumi (Corriere della Sera/Sette, 42 - 19.10.2012).
RIPARTIRE DALLA PAROLA, SENZA INGANNI: CHIAMARSI "ITALIANO", OGGI. UN NOME DA ROSSORE. La necessità di una vera svolta.
«Querelare il “Corsera” non aiuterà la Calabria»
di Emiliano Morrone*
Querelare il “Corriere della Sera” non risolve, a mio parere, il problema dell’immagine della Calabria nel resto dell’Italia e del mondo. Lo dico intanto ai 51 sindaci calabresi che procederanno per un recente articolo dell’inviato Goffredo Buccini in materia di scioglimenti da infiltrazioni (qui l’articolo sull’annuncio dei sindaci).
Nel complesso la regione non è identificabile con la mafia, le faide, le minacce, il sangue e il dolore perpetrati dalle consorterie criminali. Ma è pur vero che la cronaca ne registra la ricorrenza davanti alla distrazione o al silenzio cieco nei partiti, nei quali manca oltremodo l’animo di allontanare personaggi ambigui e sospetti, se non dopo arresti clamorosi, e di manifestare ripugnanza davanti a pratiche e comportamenti illegali.
Va trovato un equilibrio nel giudizio individuale e collettivo, auspicando una narrazione interna della Calabria diversa da quella di vari governi locali, incline a celebrare l’effimero per coprire incapacità e opportunismo di eletti, dirigenti e funzionari. Giova un appello alla politica perché colga e promuova l’utilità del racconto delle potenzialità e delle risorse, soprattutto creative e sociali, dell’intero territorio, ancora periferico e gravato dal pregiudizio della mafiosità genetica, ontologica, del calabrese in quanto tale.
Su “Sette” del “Corriere della Sera”, Cesare Fiumi scrisse nell’ottobre 2012 un bellissimo reportage sulla Calabria, cui collaborai, intitolato «Indagine su una regione al di sotto di ogni sospetto». La celebre firma partì dalla geografia e antropologia del luogo, segnato dall’onnipresenza del cemento, dalle frane e dall’incuria, pervaso dalla fascinazione del brutto e dalla “didattica” dell’arrendevolezza. Intervistò figure di una resistenza civile che non suscita curiosità, scalpore, emozioni: utopisti intramontabili come Nino De Masi o Francesco Minervino, ostinati nel credere, malgrado il sistema, alla vittoria futura delle regole, delle istituzioni, del popolo sano di Calabria.
In ben otto pagine di approfondimento, compendiate dalle fotografie emblematiche - di Enrico De Santis - della doppiezza nella modernità calabrese, Fiumi riportò ombre e luci della regione, superando stereotipi e credenze comuni per cui saremmo marci e spacciati quale gente. Dal suo sguardo di “forestiero” uscì un quadro descrittivo e indirettamente prescrittivo, che varrebbe riprendere per un discorso serio, prospettico, su come la Calabria si possa presentare fuori confine.
Negare la penetrazione della ’ndrangheta sarebbe sciocco, prima che ridicolo. E sarebbe disonesto ignorare l’impegno quotidiano di educatori, imprenditori, operai, religiosi, intellettuali, cronisti, magistrati, tutori dell’ordine, volontari e coscienze libere, volto a costruire una Calabria produttiva e solidale, nemica della violenza e foriera di speranza.
La politica deve e può imboccare la via della saggezza e della lungimiranza, rinunciando alla chiusura che la caratterizza; all’ossessione di marchiare battaglie e iniziative di progresso; al vizio di “oscurare” pensieri, parole e opere di figure non allineate o perfino neutrali; alla vecchia malattia di controllare e blindare gli spazi e il farsi della vita democratica; all’idea che la sede penale determini di per sé il riscatto collettivo dopo decenni di pesante emigrazione dalla Calabria, dopo lustri attraversati dalla nostra inattitudine - di residenti - a cooperare sulle priorità, a divulgare per bene l’importanza storica, il patrimonio disponibile e le eccellenze del luogo.
Tanti amministratori pubblici hanno sollevato nel tempo un problema che merita attenzione, correlato al ragionamento finora sviluppato. Va riformata la disciplina sugli scioglimenti e sulle interdittive. Questo non significa che bisogna rammollirsi nella lotta all’inquinamento mafioso. Occorre invece un confronto politico di profondità per articolare norme in grado di evitare il discredito istintivo e l’impulsiva catalogazione di popolazioni, aziende e origini personali, ma sempre a difesa dell’imparzialità dei settori pubblici e della libertà economica.
Per il resto, prendersela con le testate nazionali non modifica la realtà, che tocca a noi riconoscere e rappresentare. Nel bene e nel male.
*giornalista
«Chi fa antimafia non può delegittimare la Giustizia»
di Emiliano Morrone*
Sino a prova del contrario sono impulsive e gratuite le recenti affermazioni di Adriana Musella e Maria Teresa Russo sull’inchiesta che le tocca da vertici dell’associazione antimafia “Riferimenti-Gerbera Gialla”. Le due, ha ricordato il “Corriere della Calabria”, sono a vario titolo indagate per abuso d’ufficio, appropriazione indebita e malversazione ai danni di ente pubblico.
La prima ha scritto: «Restituiamo allo Stato i beni a noi affidati, nell’impossibilità di poter continuare nel nostro impegno. Hanno voluto così e così sia». E poi, in crescendo: «Questa non è la nostra sconfitta, ma quella dello Stato di diritto. A questo Stato e alla causa, siamo coscienti di avere già dato e tanto, forse troppo. Lo abbiamo fatto perché abbiamo creduto. Oggi non crediamo più».
La seconda ha parlato, nella scuola di cui è preside e davanti agli studenti, di un «tentativo di delegittimazione, operato da apparati dello Stato che hanno redatto informative con falso ideologico artatamente costruito».
La libertà di manifestazione del pensiero è sancita dalla Costituzione repubblicana all’articolo 21. Questo non significa che si possa dire ciò che si vuole, senza tenere conto del peso, degli effetti delle proprie esternazioni.
È banale ripetere quanto invano suggerisce il buon senso: ci si difende sempre nel singolo procedimento, in uno Stato democratico. Soprattutto gli esponenti dell’antimafia civile, dunque, non possono delegittimare la giustizia penale con tesi, come quelle di Musella e Russo, che alludano al complotto. Non è bello, non è giusto, non è coerente con lo specifico di ruoli e attività svolti, nella fattispecie con fondi pubblici.
La logica e la cultura antimafiosa impongono di riferire e circostanziare, nel caso in cui si conoscano o presumano trame a danno della propria storia, della propria immagine e credibilità. Perciò le vie sono due: o Musella e Russo sanno chi, come e perché a loro dire sta provando a screditarle, e quindi spieghino come d’obbligo, oppure non hanno elementi a sostegno delle loro dichiarazioni e pertanto tacciano.
Ora è il momento peggiore per la Calabria: regna una confusione senza precedenti ed è complicato orientarsi, distinguere, vivere in pace e libertà. Una parte della politica è dentro la ’ndrangheta e viceversa, la massoneria deviata gestirebbe l’accademia per candidati dell’antistato, su pezzi dell’antimafia civile gravano sospetti di tradimento della missione statutaria e alla Chiesa tocca combattere contro l’inquinamento di sacrestie, parrocchie e oratori.
Impossibile uscirne se non ci facciamo Stato, se, cioè, non cominciamo ad assumere posizioni culturali, politiche e morali che preservino le istituzioni di governo e controllo dall’illegalità e dalla corruzione dilaganti.
La sfida per la Calabria richiede la volontà di pulizia nelle forze politiche; l’indipendenza e la correttezza dell’informazione; il radicamento della cultura dei diritti e delle regole da parte delle agenzie formative, intanto nell’istruzione pubblica; la pratica del vangelo dei poveri e degli ultimi negli ambiti religiosi; la trasparenza dentro le pubbliche amministrazioni; la (non più rinviabile) discesa in trincea degli intellettuali e attori sociali; la garanzia di un reddito adeguato a singoli e famiglie emarginati.
Nel dominio del capitalismo finanziario e dei consumi, stiamo perdendo di vista l’obiettivo principale, cioè la costruzione di un futuro migliore per i più giovani, oggi senza lavoro e certezza di pensione. In Calabria si sfruttano a oltranza il patrimonio comune e il bisogno delle masse, la responsabilità e le funzioni del potere, le postazioni d’influenza e l’ignoranza generale sulla gestione dei soldi e degli uffici pubblici, compensata da forme di appagamento virtuale ed effimero che non ribaltano lo stato comatoso dei servizi, dell’economia e della tutela dei diritti. Intanto molta politica punta alla propria sopravvivenza, come dimostrano le trattative romane per le imminenti elezioni. E tace, immobile, sui vecchi problemi che producono emigrazione, astensionismo, sfiducia nel palazzo e solidarietà meccanica verso i potentati criminali.
*Giornalista
* CORRIERE DELLA CALABRIA, 19.01.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
“Stige”, Gratteri e il mutismo dei politici
di Emiliano Morrone*
La rete ha condiviso e universalizzato l’intervista che giorni fa il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ha rilasciato su “La7” a Giovanni Minoli, l’inventore di “Mixer”. L’eco delle parole, dei pensieri del magistrato continua ad arrivare nelle case degli italiani, anche di quelli che ritenevano la ’ndrangheta un fenomeno circoscritto, il prodotto invendibile di una Calabria arretrata, avulsa dalla modernità digitale e globalizzante.
Con la sua tragica spettacolarità, la strage di Duisburg, del 15 agosto 2007, fu forse il primo, diffuso segnale dell’efferatezza e internazionalizzazione della criminalità organizzata di matrice calabrese. Nella memoria collettiva rimangono le immagini della quiete dopo la tempesta davanti al ristorante “Da Bruno”; dello stupore incredulo della polizia tedesca, che identificavamo nell’ispettore Stephan Derrick e nel fido assistente Harry Kleyn a bordo di lunghe Bmw con lampeggiante mobile, nella loro Scientifica rapida e infallibile.
Ma ci fu un precedente, forse dimenticato: lo sventramento della blindata di Carmine Arena nella lontana provincia crotonese, provocato da un colpo di bazooka sparato con impareggiabile freddezza. La foto dell’auto squarciata del boss di Isola Capo Rizzuto girò per mezzo mondo, che restò basito e conobbe i metodi, la firma, la comunicativa della ’ndrangheta militare.
Gratteri non guarda soltanto all’onorata società dei riti di affiliazione, dei kalashnikov e delle vendette sanguinarie. “Arresta” politici, racconta delle connivenze e, soprattutto, delle insufficienze, della debolezza nello Stato, delle norme penali e delle istituzioni pubbliche. Salva le divise: i poliziotti difesi da Pier Paolo Pasolini, i carabinieri eredi di Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, i finanzieri alla Fabrizio Ferrara, trafitto da un proiettile alla nuca, gli eroi come Natale De Grazia e il vigile urbano Michele Liguori, che in solitudine lottarono contro l’avvelenamento del Sud da rifiuti.
Elucubrazioni intellettuali a parte, il mancato ministro della Giustizia, escluso dal governo Renzi dal presidente Giorgio Napolitano, dice e divulga la verità: i partiti fingono di ignorare che la ’ndrangheta fa le liste elettorali o le “scala” con i suoi portavoti; a volte simbolici e influenti come il parente del collaboratore Francesco Oliverio, stando a dichiarazioni rese dall’ex capobastone, alle precedenti comunali di San Giovanni in Fiore (Cs).
Gratteri, avversato con l’arbitraria, fantasiosa attribuzione di mire di palazzo, lavora come un matto nella Procura di Catanzaro, aggredisce il sistema delle complicità e obbliga i suoi all’orario continuato. Soprattutto, avverte del pericolo più grave, che è il dominio della ’ndrangheta nei pubblici poteri: politici e di gestione degli uffici. Ma i partiti, che Paolo Borsellino invitava alla pulizia morale, continuano sovente con i loro “giochi”, col solo obiettivo di vincere a tutti i costi. È un circolo vizioso che alimenta quella corruzione virale per cui il compianto avvocato Federico Stella ammoniva, sotto “Tangentopoli”, che «l’Italia è nel baratro».
Allora è successo che, malgrado i 169 arresti dell’operazione “Stige”, i big politici della Calabria si siano chiusi nel mutismo dell’indifferenza, benché l’inchiesta abbia ricostruito un giro di affari e rapporti tra “parrocchie” di ’ndrangheta e amministratori locali, col solito, per ora presunto, business dei rifiuti e i tentacoli, pare, sul patrimonio boschivo della Sila; forse l’area col maggiore tasso europeo di spopolamento, disoccupazione e assistenza pubblica.
Denunciai questa realtà di oppressione permanente nel lontano 2007, insieme allo scrittore Francesco Saverio Alessio nel libro “La società sparente”. Fummo derisi e, sembrerebbe, “risparmiati” per accorta strategia. I fatti contenuti in quel volume stanno venendo a galla, ma l’isolamento degli autori continua. In compenso, sui social campeggiano messaggi di ostentata solidarietà verso alcuni arrestati nell’ambito di “Stige”; nel silenzio imperturbabile dei monti, degli eletti, degli elettori del luogo, in cui il lavoro è più spesso un inganno, o al massimo il prezzo di un ricatto.
*Giornalista
Langer: fare ponti e «viaggiare leggeri»
di Goffredo Fofi (Avvenire, 28 gennaio 2011)
Se si dovesse chiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso «la cosa pubblica», il «bene comune», verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature secondo il progetto o sogno di chi «tutti in sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli ultimi perigli e nelle angosce/ della guerra comun».
Dico carità nel preciso senso evangelico, poiché Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici che era possibile conoscere in quegli anni nel «movimento» (e oggi sono ancora di meno) e non, come tanti di noi che gli fummo contemporanei e amici, di fragilissime convinzioni «marxiste» oppure, al meglio, mossi confusamente da una visione solo etica del cristianesimo.
La «diversità» di Alex, la sua superiorità sui suoi amici e compagni, gli veniva anche da una storia famigliare più ricca, a cavallo tra lingue e culture, tra Germania e Italia e tra ebraismo e cattolicesimo, ma nessuno vide mai in questo il marchio del privilegio, poiché essa era caratterizzata in lui da una convinzione di umiltà reale e non esibita, non appariscente, dalla propensione all’ascolto degli altri, di tutti, dalla libertà dei collegamenti e dalla scelta di «far da ponte».
Quante volte Alex Langer non ha teorizzato nei suoi testi la funzione e l’imprescindibile necessità dei «ponti»? Ricordava tanti anni fa Piero Calamandrei fondando, a guerra appena conclusa, una rivista che si chiamava Il ponte, il significato metaforico ma anche concreto dei ponti, da riedificare dopo le distruzioni della guerra che si era accanita a distruggerli. Ponti veri, che gli uni o gli altri avevano fatto saltare, e che dovevano mettere di nuovo in comunicazione e in «commercio» persone e città, culture e territori.
Ponti ideali, che potessero permettere ai vinti e ai vincitori, tutti infine perdenti, sopravvissuti ai conflitti e alle stragi e cioè al dominio della morte, di ritrovare nell’incontro e nel dialogo la possibilità di un futuro migliore. (L’attaccamento di Alex alle sue radici regionali e la sua ambizione cosmopolita gli hanno permesso una concretezza precisa, mai parolaia, e una visione ampia, internazionale, nel filone di quell’utopia che era stata per un tempo di una parte del movement americano, quella che diceva di doversi preoccupare ostinatamente di due ambiti da tenere strettamente collegati tra loro: «Il mio villaggio e il mondo».)
Il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta, che ad Alex costò infine la vita, è fallito e continua a fallire in un mondo dove le incomprensioni permangono e prosperano gli odi, sollecitati dai diversi poteri e dal peso dei torti ricevuti e fatti, di una memoria di gruppo che, invece di rendere aperti, rende più chiusi alle ragioni degli altri. Poiché troppa memoria può uccidere alla pari della (nostra, italiana) assenza di memoria.
E tuttavia il messaggio di Langer è stato fino all’ultimo chiaro: se anche c’è chi cade, chi non regge più il peso della storia e della solitudine (forse ci si uccide perché ci si sente o si è rimasti soli - ma alcuni, come i vecchi e i malati, perché si è tagliati via dalla vita - più che per l’oggettiva debolezza e insicurezza del genere umano e per la fatica di dover continuamente ricominciare), bisogna imparare dall’esperienza quel che se ne può ricavare, e andare avanti. Non perché «si spera», ma perché «si ama»: e la «carità» è allora il centro di tutto, come voleva san Paolo - più della speranza e più della fede. Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l’incontro, e quella dell’apertura a un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale.
E se nel primo caso, quello più determinato dalle pesanti contingenze della storia (per Alex, la guerra interna alla ex Jugoslavia), si trattava di far da ponte ma anche da intercapedine, da camera d’aria dove potesse esprimersi un dialogo assai difficile, nel secondo si trattava piuttosto di additare nuovi territori all’azione politica responsabile, allargandone il significato da città a contesto, da polis a natura. Se sul fronte della pace e della convivenza tra umani di diversa etnia o religione o parte politica Alex è stato un continuatore, egli è stato su quel secondo fronte un precursore, uno dei più persuasi pionieri dell’indispensabilità di una visione ecologica dell’agire politico.
Ha visto tra i primi l’arrivo della novità, come lo Zaccheo del Vangelo che si portò nel luogo più avanzato del suo villaggio e nel suo punto più alto per poter vedere per primo l’arrivo del Messia, e cioè della Novità, ed è stato confortato in questo dalla sua conoscenza e vicinanza a uno dei pochi veri profeti dello scorso secolo, il prete e filosofo che si faceva chiamare Ivan Illich. Tra l’antico e l’eterno del messaggio cristiano e la verde novità dell’ecologia, tra le esigenze della pace (gli uomini) e quelle dell’armonia (degli uomini con la natura) tra loro fittamente intrecciate, sempre più interdipendenti, Langer si è mosso quotidianamente, attento al presente ma cosciente del passato e straordinariamente aperto al futuro, al possibile e al doveroso dei compiti della politica (della militanza, della persuasione).
Contro il gioco chiuso del potere. E contro i ricatti paralleli di un’impazienza non meditata e di una lentezza non ipocrita: nell’avvicendarsi che appartiene alla storia delle fasi di stasi e di quelle di febbre, occorre prepararsi nella stasi per saper meglio muoversi nella furia che, prima o poi, si scatenerà.
Ruby e l’uso politico dello sdegno
di Angelo Bersani *
Un bravo vescovo, di quelli che non hanno fatto carriera perché conservano uno spirito libero ed evangelico, cercava di rispondere alla delusione suscitata dalle parole caute del presidente della Cei. Vedi, mi diceva, a questo punto non si tratta di usare parole forti che appaiono retoriche. Le invettive possono diventare un alibi per lavarsi la coscienza. Il problema non è tanto il comportamento, assolutamente deplorevole, di una persona; il dramma è l’indifferenza della grande maggioranza.
Certo chi è politicamente contrario al presidente esprime sdegno; chi è favorevole lo giustifica (e magari lo invidia). Ma è un uso politico. I vescovi e le persone di retta coscienza non sono interpellati tanto dal comportamento di qualche peccatore, quanto dalla catastrofe etica che sembra permeare tutta la società. Magari si grida allo scandalo, ma perché si tratta di un avversario politico. Pochi si indignano perché nelle storie che abbiamo ascoltato c’è disprezzo per la persona umana, c’è la prevaricazione del danaro, c’è il ricatto e la violenza, la menzogna elevata a sistema, la corruzione della politica che diventa clientela e mercimonio.
C’è, ancora più grave, la corruzione dei giovani, che partecipano e vedono l’esempio degli uomini “di successo”. Sono i giorni di un’apocalisse (che vuol dire “svelamento”) che ci rivela una società assai peggiore di quel che credevamo. E allora, spiega il vescovo, più che l’invettiva moralistica dobbiamo fare tutti un grande esame di coscienza; e le parole di Bagnasco vanno in questa direzione. Non è suo compito dire quali conseguenze politiche debba avere il comportamento indegno del capo della maggioranza. A ciò dovrebbe bastare il buon senso degli italiani; e se questo non c’è, significa che bisogna impegnarsi anzitutto a ricostruire una coscienza civile, morale e politica. È il tema della testimonianza e della educazione che torna in primo piano. Ma quale educazione? Il vescovo era d’accordo con vari commenti apparsi il 25 gennaio: Valli e Faggioli (Europa), Garelli (La Stampa) e Mancuso (Repubblica).
Certo anche la Chiesa italiana deve fare un esame di coscienza: per troppi anni alcuni prelati hanno voluto fare la politica in prima persona. Come dimenticare le elezioni regionali dell’aprile 2000, quando il vicariato di Roma fece campagna per Storace quando dall’altra parte c’era un cattolico esemplare come Piero Badaloni? Per cambiare strada servirà creare luoghi di dialogo e corresponsabilità nell’ambito ecclesiale e riconoscere ai laici cattolici autonomia e autorevolezza per affrontare la vita politica al servizio del bene comune e della speranza dei giovani.
* “Europa” del 28 gennaio 2011: http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201101/110128bertani.pdf
IL DOCUMENTO
Appello della Cei: "Disastro antropologico
Fermiamoci prima che sia troppo tardi"
Il segretario Crociata commenta il comunicato finale sui lavori del Consiglio Episcopale. "Nel Paese questione morale che riguarda tutti". Invito a evitare continue risse. Sul caso Ruby: "Non c’è contrapposizione fra indignazione e pacatezza". Chi ha maggiori responsabilità "sia di esempio" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Siamo di fronte a un disastro antropologico: fermiamoci in tempo prima che degeneri ancora di più". Sono forti i toni dell’appello lanciato dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, che presentando il comunicato finale dei lavori della Conferenza espiscopale invita "a superare le risse, le guerre di tutti contro tutti", senza cadere in "partigianerie". E, in riferimento all’inchiesta giudiziaria che coinvolge il premier, dice: "Non c’è contrapposizione tra l’indignazione e la pacatezza. La pacatezza riguarda il modo in cui affrontare i problemi che indignano". E rileva come tale situazione di "disastro antropologico" abbia "effetti e ricadute diverse a seconda delle responsabilità che ciascuno ricopre".
Crociata rileva un problema di ampio respiro: nel Paese c’è una questione morale, ma riguarda tutti. "Questi fatti ci coinvolgono, non ci vedono solo spettatori. Ci interpellano tutti: è troppo facile indignarsi senza sentirsi coinvolti". Ma chi ha maggiori responsabilità, dice ancora il prelato, "deve esprimere maggiore impegno per risultare esemplare nella sua vita anche quale modello per le giovani generazioni".
Dalla Cei arriva un invito alla ’’pacatezza’’, all’’’equilibrio’’, per mettere fine al ’’clima di rissa continua, di tensione costante e di conflittualità permanente’’ che si registra nella vita pubblica del Paese. Serve invece "uno sforzo a superare" questa atmosfera di scontro "e faziosità per affrontare i problemi che riguardano tutti". "Come ha detto il cardinal Bagnasco, invitare alla pacatezza non è lasciare marcire i problemi, ma guardare le cose con sforzo di oggettività, volontà di risolvere, ciascuno secondo le responsabilità che ricopre". Da questa situazione, ha rilevato ancora Crociata, "nessuno esce bene. Mi pare un tipo di considerazione che invita a un senso di responsabilità, a farsi carico di impegni che il momento richiede".
Il segretario della Cei parla anche del federalismo: nella sua attuazione banco di prova è ’’l’ambito fiscale’’ che rischia di produrre "effetti di divaricazione", ammonisce. "Auspichiamo che la trattativa politica in corso abbia l’esito di non lasciare nessuna parte del Paese abbandonata a se stessa’’. Sulla possibilità del voto anticipato la decisione spetta ai politici, ma "tutti siamo chiamati a seguire con senso civico l’evolversi della situazione per superare questo momento di difficoltà".
La Conferenza episcopale esprime infine solidarietà al cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, coinvolto nelle indagini giudiziarie relative ai grandi eventi 1, così come esprime fiducia nella magistratura, dice ancora Crociata, aggiungendo: "Auspico che le cose siano chiarite nella modalità giusta".
* la Repubblica, 28 gennaio 2011