Politica e cultura

Il suo nome è mai più - di Giovanni Iaquinta

Riflessioni organizzate: solidarietà, integrazione, povertà e azione politica nella sensibilizzazione
martedì 17 gennaio 2006.
 

In un rapporto sulla politica delle destre in materia d’immigrazione, parte centrale del Libro Bianco sulla Bossi-Fini a cura di Guido Calvisi e Aly Baba Faye, Livia Turco prende in considerazione la necessità di “uno sforzo pubblico condiviso, necessario affinchè ciascuno sia messo nelle condizioni di esercitare la sua responsabilità e dare il suo contributo per costruire un nuovo futuro al nostro Paese. Ma è altrettanto fondamentale che la cittadinanza sia effettiva e si traduca in condizioni di vita che davvero garantiscano i diritti fondamentali”. Il pensiero è rivolto, con tutta evidenza, alla questione spinosa dell’immigrazione, ripresa e approfondita nei Nuovi italiani. L’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza (Milano, 2005); non può non essere, d’altro canto, di incidenza sociale universale, riguardare le persone in confidenza con la disperazione. A tre passi dall’abisso, se è vero che la piena applicazione della “religione civile dei diritti umani” di Ulrich Beck, mentre l’America festeggia in questi giorni Martin Luther King, continua a far compagnia ai tessuti astratti di manierati sforzi d’occasione, alle idee nobili affezionate allo stadio embrionale. Diritti umani più grandi e più piccoli. Metropoli e provincia: l’indecenza che svilisce la dignità umana fa sistema al negativo e parla lo stesso linguaggio. Miseria e povertà. Rassegnazione, abbandono, emarginazione. Sconfitta, ma per tutti, senza reticenze postume e concessioni ipocrite alle frasi fatti: “non sapevo”, “se soltanto l’avessi saputo prima”, “io, proprio, non me ne sono mai accorto”. La casa di Amina e Pablo era la stazione Tiburtina di Roma. Freddo o caldo, di notte e di giorno: sempre la stessa dimora. Senza fissa dimora, clochard, barboni, omilesse, nomi dal suono elegante e contenitori di discriminazione altisosante. Conta l’essenza intima. Un’antropologa sudafricana di Johannesburg, la prima; matematico di Coimbra, il compagno di sventura. Una vita davanti e tanta voglia di vivere, hanno abbandonato casa (si fa per dire, il mondo) tra novembre e dicembre, a distanza di pochi giorni l’una dall’altro; con rispetto fino alla fine, un cane fedele rimasto orfano e l’indifferenza collettiva intorno, tra gente che va, gente che viene. Gente che fa finta di non sapere. Zeppelin è l’appellativo di un altro sfortunato. Italiano, di Cremona, amante del calcio e tifoso della Cremonese. Gran lavoratore prima di un brutto incidente invalidante. Un alloggio popolare messo a disposizione dal Comune sembrava aver risolto la sua odissea. Sembrava, appena un po’ prima della beffa. Unica e angosciante, di quelle definitive: morto a letto, di notte. Al gelo. Bollette di luce e gas non pagate in mano. Incrociate quasi a chiedere scusa per non avercela fatta a pedalare un’inadeguata bicicletta avuta ope legis fuori da una stupida, grande domanda: “basta? E se non ce la fa?” Accade anche sui monti della Sila, a Camigliatello. Pieno inverno. La giostra cromatica di Natale (meno male che è santo) cattura gli sguardi infreddoliti. La neve fissa il panorama in una dimensione oleografica. D’altri tempi. Clima idilliaco, silenziosamente colpevole. Scena tragica: per l’ultima volta recita un giovane dell’Europa dell’Est. Trentacinque anni, poliglotta forzatamente itinerante, un peso infinito di stenti. Muore qualche ora dopo l’arrivo dell’anno nuovo. Braccia conserte, immobile, all’addiaccio. “Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?” C’era bisogno d’altro, rimane una risposta sospesa, il corpo di un ragazzo pulito a terra, la stazione di fronte e il fischio malinconico di un treno a vapore che va senza fermarsi neppure. Come gli altri, come noi. Come tutti. E capita pure a San Giovanni in Fiore. Modi e tempi diversi, il pudore che nasconde tutto. La povertà, i bisogni, la miseria. Ogni cosa compressa nello spazio offensivo di mura in bilico come le vite, progressivamente cigolanti. È il caso di Pina e Antonietta, coppia di fatto nell’accezione più bella. Affetto e basta. Vivono insieme, dividendo tutto, cioè niente. Erano nell’elenco del Reddito Minimo d’Inserimento (può darsi che fosse assistenza pura, gestione degenerata senza dubbio, tutto sommato ossigeno. Ora, cosa c’è?), puntualmente alla ricerca dell’illusione quotidiana, dell’attesa del giorno dopo, di una festa che per loro, così, non verrà mai. E intanto di notte continuano a guardare il campanile dell’abbazia e a riscaldarsi con il fuoco di paglia delle cassette della frutta, le vecchie tavole dei solai che si sfaldano all’aria aperta, i cartoni, sperando che il tetto e il pavimento non crollino alla prossima nevicata più seria. Queste povere donne sono il simbolo dell’anello debole della città, che un giorno sta male e l’altro pure. Peggio di prima, più di prima. Un anello che non finisce di crescere immatricolando a distanza regolare nuovi ospiti sulla strada della sofferenza, delle pene più umilianti. Di domande a senso e risposte senza senso. Ma forse esiste una risposta: investire in sforzi condivisi e collegiali, solidarietà attraverso le istituzioni e facendolo con il codice rosso, rinunciando alla scaletta arrugginita delle consuetudini programmatiche, alle rivalse che esplodono a orologeria, al pagamento asfissiante di miopi lettere di cambi. Il discorso è valido per programmazioni centrali e di periferia. Non solo uno stato, una regione, una provincia, anche una città moderna si distingue per l’attenzione riservata alla dignità delle persone relegate per mille problemi ai margini della società, che significa distinguersi in civiltà, e alla fine in risorse strategicamente pianificate. L’unico fatto che conta. Non c’è bisogno che qualcuno alzi il telefono per segnalare qualcun’altro, dentro la spirale dei passaggi burocratici fuori moda; non è necessaria la simpatia al crasso incaricato di turno per accogliere le necessità di chi bussa. Mai deve trattarsi di favori a futura memoria. È un dovere rispondere, un diritto far presente cosa non va, cosa serve, cosa manca. Pure cento volte al giorno. Persino sporchi, trasandati e spesso i ritardi mentali appresso, scambiati per ossessione e paranoia, prima di capirlo quando non c’è più nulla da fare. Di capire altro, di più. Di non aver capito proprio niente. È l’ora di farla girare - ha raccomandato alla Calabria lo sciamano Jovanotti. Farla girare subito. “L’Italia sarà salvata dai suoi cittadini, e da quelle forze politiche e sociali che saranno capaci di rappresentare la responsabilità civica, per tutti. Citando Bob Dylan: toglietevi dalla nuova strada, se non potete dare una mano, perché i tempi stanno cambiando” (Tom Benetollo). Dappertutto.

Giovanni Iaquinta


Rispondere all'articolo

Forum