[..] "Il governo ha preso una posizione finale sull’ampliamento della base americana a Vicenza e su questo non c’è nessuna osservazione da fare". Questa la replica di Romano Prodi dopo una giornata di polemiche e attacchi tutti interni alla maggioranza.
Il governo, se agisce così - aggiunge il premier - lo deve anche all’esecutivo Berlusconi colpevole di un’eccessiva segretezza sulla materia: "Sì - risponde Prodi a chi gli chiede se non ritenesse poco pubblicizzata la scelta - perchè noi non ne sapevamo nulla e credo che queste decisioni vadano prese con maggiore conoscenza da parte dell’opinione pubblica" [...]
Il premier sul raddoppio: "Non si torna indietro". Bertinotti "No a nuove organizzazioni militari". Prc, Pdci, Verdi e sinistra Ds protestano
Base Usa, Prodi: "Posizione finale" Pecoraro: "Così salta l’Afghanistan"
C’è chi rilancia l’idea del referendum: "Scelgano i cittadini". I deputati veneti dell’Unione: "Non c’è nessun impegno, il governo ci ha presi in giro" *
ROMA - Il raddoppio della base Usa di Vicenza rischia di innescare una reazione a catena nella maggioranza. Con Prodi che punta i piedi sulla decisione del governo che ha detto sì agli americani, la sinistra radicale fortemente critica e pronta a scendere in piazza e il ministro verde Alfonso Pecoraro Scanio che taglia corto: "Così non voteremo il rifinanziamento della missione in Afghanistan".
"Il governo ha preso una posizione finale sull’ampliamento della base americana a Vicenza e su questo non c’è nessuna osservazione da fare". Questa la replica di Romano Prodi dopo una giornata di polemiche e attacchi tutti interni alla maggioranza.
Il governo, se agisce così - aggiunge il premier - lo deve anche all’esecutivo Berlusconi colpevole di un’eccessiva segretezza sulla materia: "Sì - risponde Prodi a chi gli chiede se non ritenesse poco pubblicizzata la scelta - perchè noi non ne sapevamo nulla e credo che queste decisioni vadano prese con maggiore conoscenza da parte dell’opinione pubblica".
Ma le parole di Prodi non sembrano bastare per contenere il dissenso intenro. Tanto da rischiare di coinvolgere anche la missione in Afghanistan. Secondo il ministro Alfonso Pecoraro Scanio "se i capigruppo dell’Ulivo avessero detto stop" al raddoppiamento della base Usa a Vicenza "avremmo avuto un grande aiuto. Si ricordino che il loro simbolo è un simbolo di pace, non di sottomissione". E, dunque, dice il ministro ora "spetta all’Ulivo fare una proposta. Il rifinanziamento alla missione semplicemente così com’è non lo votiamo".
Intanto Rifondazione comunista (il senatore Giovanni Russo Spena: "Non finisce qui") e il suo esponente di maggior prestigio, il presidente della Camera Fausto Bertinotti, sparano a zero. Ma anche il Pdci, la sinistra Ds e i deputati veneti dell’Ulivo. Questi ultimi scateti in una critica a tutto campo alimentata dalla sensazione, spiegano, di essere stati "buggerati" dalle promesse non mantenute dell’esecutivo. Tanto che raccontano dell’incontro con Enrico Letta in cui quest’ultimo avrebbe ammesso: "Siamo stati costretti a dire sì".
"Il governo ci ha detto solo bugie - spiegano in una conferenza stampa sette parlamentari (Laura Fincato della Margherita, Elettra Deiana, Gino Sperandio, Tiziana Valpiana del Prc, Luana Zanella dei Verdi, Lalla Trupia dei Ds e Severino Galante del Pdci) -. Prodi, Parisi e D’Alema ci avevano spiegato che non c’era nessun impegno preso da parte del governo italiano, noi ci opporremo in tutti i modi a questo insediamento militare".
Per manifestare la propria opinione hanno voluto incontrare il sottosegretario alla presidenza, Enrico Letta: "Ci ha detto testualmente - riferisce Severino Galante del Pdci - che il governo è stato ’costretto’ a prendere questa decisione. Noi non abbiamo indagato sulla natura di queste costrizioni, però...". "E’ pronto - afferma Elettra Deiana (Prc) - un appello firmato già da 35 senatori e da tantissimi deputati. Saremmo - continua - più di 120 in tutto". Una bella patata bollente per il governo.
Il primo a intervenire in mattinata è proprio Fausto Bertinotti: "Ogni atto che va nella direzione della pace, compreso l’impedire nuove forme di organizzazione militare, è una buona cosa". Parole dure alle quali Bertinotti aggiunge una nota polemica: "I termini filoamericano e antiamericano sono termini che si possono usare solo in modo caricaturale e fuorviante, e chi ne resta imprigionato manifesta subalternità".
Ancora più esplicita la condanna di Gennaro Migliore: "Non c’era nessun accordo formale precedente. Non condividiamo le parole di prodi, le quali contraddicono quanto è scritto nel programma. Il governo deve riferire immediatamente in aula".
E che la questione non sia chiusa lo sottolinea anche Russo Spena: "La vicenda del raddoppio della base di Vicenza non è finita e non finirà neppure se domani il governo commetterà il grave errore annunciato ieri".
Ma a dissentire non è solo il Prc. Anche il Pdci e la sinistra Ds si schierano contro. Pino Sgobio, capogruppo alla Camera dei comunisti, nel rilanciare l’idea del referendum, spiega che "con questa scelta si tradisce la volontà della maggioranza della popolazione vicentina". Gloria Buffo, diessina, invece si aspetta "che il mio partito dica qualcosa".
* la Repubblica, 17 gennaio 2007
Il conto? 366 milioni di dollari ma è l’Italia che li dà agli Usa
di Marco Mostallino (EPolis, 17 gennaio 2007)
Una leggenda circola da anni negli ambienti politici e economici: gli americani saranno anche ingombranti, però pagano l’affitto delle basi allo Stato italiano. Falso. Completamente. La verità è contenuta nel "2004 Statistical Compendium on Allied Contributions to the Common Defense", ultimo rapporto ufficiale reso noto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Alla pagina "B-10" c’è la scheda che ci riguarda: vi si legge che il contributo annuale alla "difesa comune" versato dall’Italia agli Usa per le "spese di stazionamento" delle forze armate americane è pari a 366 milioni di dollari. Tre milioni, spiega il documento ufficiale, sono versati cash, mentre gli altri 363 milioni arrivano da una serie di facilitazioni che l’Italia concede all’alleato: si tratta (pagina II-5) di «affitti gratuiti, riduzioni fiscali varie e costi dei servizi ridotti». Ciò che le imprese del Nord-Est e del Meridione domandano da anni a Roma senza ottenerlo, gli Usa lo incassano in silenzio già da molti anni. È come se il padrone di casa, oltre a dare alloggio all’inquilino, gli girasse anche dei soldi. Nel caso delle basi americane, il 41 per cento dei costi totali di stazionamento sono a carico del governo italiano: il dato è riportato alla pagina B-10. Alla tabella di pagina E-4 sono invece messi a confronto gli alleati: più dell’Italia pagano solo Giappone e Germania, mentre persino la fidata Gran Bretagna è dopo di noi, si è limitata - nel 2004 - a contribuire con 238 milioni di dollari.
Una sorpresa la si ha mettendo a confronto i dati del 1999 e del 2004: si scopre che il Governo Berlusconi ha incrementato i pagamenti agli Usa, passando dal 37 per cento al 41 per cento dei costi totali sostenuti dalle forze armate ospiti.
Ma non basta. In base agli accordi bilaterali firmati da Italia e Usa nel 1995, se una base americana chiude, il nostro governo deve indennizzare gli alleati per le «migliorie» apportate al territorio. Gli Usa, per esempio, hanno deciso di lasciare la base per sommergibili nucleari di La Maddalena, in Sardegna: una commissione mista dovrà stabilire quanto valgono le «migliorie» e Roma provvederà a pagare. Con un ulteriore vincolo: se l’Italia intende usare in qualche modo il sito entro i primi tre anni dalla partenza degli americani, Washington riceverà un ulteriore rimborso.
PER LA SOVRANITA’ DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE - PER LA NOSTRA COSTITUZIONE!!!:
LUNGA VITA ALL’ITALIA. Contro ogni confusione, RIPARTIRE DAL NOME: ITALIA!!!
DEMOCRAZIA, MONARCHIA "EDIPICA", E RISPETTO PER LA REPUBBLICA!!!
PER TUTTA L’UMANITA’ E L’INTERO PIANETA, ALL’ORDINE DEL GIORNO, L’ASSOLUTA NECESSITA’ DI RIPENSARE L’ "AMERICA" - non il raddoppio delle sue basi militari nel mondo!!!:
Dispute casalinghe sugli Usa
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 21/1/2007)
La discussione su antiamericanismo e filoamericanismo sta assumendo, in Italia, caratteristiche molto stravaganti e assai poco pratiche. È una disputa completamente astratta, che si sostituisce all’analisi dei fatti e che ignora non solo la storia passata ma anche la storia che con le nostre azioni o omissioni stiamo facendo. Chi entra nella disputa deve rinunciare a quello che sa, che vede e prevede razionalmente, che ha appreso da errori constatati. Deve accettare di discutere religiosamente della politica statunitense, e per essere ascoltato deve prima professare una fede: crede o non crede nell’America, a prescindere da quello che essa fa? Essere antiamericani o filoamericani non implica un giudizio sui modi d’agire di una superpotenza trasformatasi in unico egemone mondiale: è divenuto il metro con cui definiamo quel che siamo e chi siamo, senza più rapporto alcuno con la realtà. Per molti musulmani l’accusa di antiamericanismo o filoamericanismo ha questa funzione integralista-identitaria, ma in Italia le cose non stanno diversamente.
La discussione sulle basi di Vicenza non è condotta con l’intento di capire l’uso che oggi, nel 2006-2007, Washington fa delle basi costruite in Europa durante la guerra fredda, ma diventa subito un affare ideologico interno - un’occasione per verificare se la sinistra è restata comunista o no, se la nostra diplomazia è ricaduta nelle tradizioni filoarabe o se ne è liberata - come se niente fosse successo dai tempi della diplomazia andreottiana. La decisione di proseguire l’operazione in Afghanistan oppure di rimetterla in questione è vissuta come se non avesse nulla a che vedere con quel che accade in quel paese, e con una guerra antiterrorismo che pretende di andare avanti con occhi chiusi e opinioni granitiche, senza apprendere alcunché dagli errori dei cinque anni scorsi. Simili sviste avvengono in Iraq, Somalia, Palestina, Israele.
La Scomparsa dei fatti cui Marco Travaglio allude nel suo ultimo libro vale anche per i rapporti che tanti politici italiani hanno con l’America, e con una lotta mondiale al terrore che manifestamente non funziona e che necessita una revisione urgente. Alla luce dei risultati ottenuti, infatti, non regge più l’assunto secondo il quale bisogna tutti far quadrato attorno alla strategia imboccata nel 2001 da Bush e Blair.
È come se dicessimo: per fronteggiare il disastro del clima e dell’energia inquinante sosteniamo tutti la perniciosa noncuranza americana. L’evaporare dei fatti è una malattia grave, e non si limita a ignorare quel che succede. Cancella anche il mondo che ci circonda, sottraendolo alla vista e trasformandolo in un’arena dove vengono inscenati i nostri ripetitivi, immodificabili tornei ideologici domestici. La mente si fa casalinga e tutto, fuori casa, si tramuta in simbolo o terra ignota.
La disputa sull’antiamericanismo fa di noi dei provinciali del pensiero, che corrono con occhi bendati in direzioni di cui non si vuol conoscere il senso. Gli eventi in cui ci imbattiamo son senza geografia, e la storia stessa assieme alla memoria si converte in trappola: non è qualcosa che scorre, che cambia, che obbliga a ripensare azioni e concetti. È fatta di alcune idee astratte, che vengono strappate al fluire fenomenico come accade per le immobili costruzioni mentali che sono le ipostasi.
Le storie degli altri paesi e l’influenza che esse hanno sul loro modo di giudicarci non le vogliamo conoscere, quindi non le sappiamo capire né contrastare. Tutto ciò ha avuto effetti nefasti: il disastro in Iraq, l’impossibile pace mediorientale, l’incancrenirsi della missione afghana, il caos somalo sono il risultato di questa cecità e di questa monotona fissità delle menti e dei dibattiti.
Analogamente si può dire della base di Vicenza: la sola discriminante che conta sembra essere la fedeltà intima agli Stati Uniti, anche se un contratto perenne con gli Usa non esiste e se la storia è cambiata rispetto all’era della guerra fredda. La scomparsa dei fatti rende vani, quasi inaudibili, gli argomenti di chi prova a ragionare e osservare con freddezza.
L’analisi di Sergio Romano ad esempio è come cadesse nel vuoto, anche se è difficilmente confutabile: «Oggi, dopo il crollo dell’Urss e dell’impero sovietico in Europa centro-orientale, le basi sono al servizio di una strategia politico-militare che l’Italia potrebbe non condividere. So che rappresentano per la gente del posto una fonte di reddito (...). Ma non credo che uno Stato sovrano abbia interesse a cedere una parte del proprio territorio per attività su cui, in ultima analisi, non può esercitare alcun controllo» (Corriere della Sera, 16 ottobre 2006).
Discutere sulle basi potrebbe esser l’occasione per ridiscutere queste attività, e per meditare sulla dismisura di un’ambizione egemonica americana che i neoconservatori per primi hanno chiamato a suo tempo imperiale. Al momento attuale sono attività che stanno fallendo, in maniera gravissima perché Washington presenta le proprie guerre come globali, non locali e circoscritte nel tempo. In queste condizioni non è astruso interrogarsi sull’utilità delle basi, in Europa e in Italia. Naturalmente il ministro della Difesa Parisi ha motivi validi di preoccuparsi.
C’è, in molte critiche italiane ed europee dell’America, un’abitudine alla passività e alla dipendenza strategica che rende irrealistica, perché poco praticabile, la difesa della sovranità cui si vorrebbe tendere: manca «un’adeguata cultura della difesa e della sicurezza», dice il ministro, senza la quale la sovranità è vuota parola. Quando ad esempio il presidente della Camera Bertinotti parla dell’Europa, invoca una cosa giusta: «L’Europa deve farsi più autonoma». Ma deve anche darsi una cultura della difesa, se si vuol ritrovare nell’Unione le sovranità nazionali perdute. L’autonomia come valore a sé stante è falsa libertà, nella vita come in politica. Lo stesso vale per l’Afghanistan: sono mesi che esperti e osservatori raccontano come la missione stia impantanandosi, se non naufragando. I talebani son tornati a esser padroni della metà sud-orientale del paese, hanno programmato per la primavera nuove offensive, e le truppe occidentali si sono dedicate molto più alla distruzione che alla ricostruzione, illudendosi di controllare l’Afghanistan come si illudevano i sovietici.
La campagna di sradicamento dell’oppio non ha seminato che estrema povertà e ha spinto le popolazioni ad aggrapparsi ancor più ai talebani, come spiega l’ultimo rapporto del Senlis Council di dicembre. Ogni proposta di legalizzare la produzione dell’oppio (come accadde in passato in Turchia, quando si cominciò a produrre legalmente narcotici a fini medici) cade nel vuoto perché politicamente scorretta. Tenere lì i soldati è forse opportuno, ma egualmente opportuno è ridefinire la missione: sia dandole finalmente una durata precisa, sia riscrivendo i suoi compiti a cominciare dalla questione dell’oppio. Visto come sono andate le cose occorrerà negoziare un ordine nuovo anche con i talebani e le tribù Pashtun, e poco importa che sia Russo Spena di Rifondazione a dirlo. Non è il dito di Russo Spena che dovrebbe interessarci, ma le realtà afghane su cui il dito è puntato.
La disputa religiosa sull’antiamericanismo non è pratica, perché in situazioni di pericolo si rivela del tutto inutilizzabile. Bisogna che gli esperti, emarginati sistematicamente dopo l’11 settembre, tornino a svolgere il proprio ruolo e a parlare. Lo storico Rashid Khalidi, della Columbia University, racconta in un suo libro come orientalisti e arabisti sono stati estromessi e sprezzati, nel farsi della politica americana in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente (Resurrecting Empire, Beacon Press 2005).
Allo stesso modo non sono oggi ascoltati gli esperti di Somalia, dell’Iran, con effetti deleteri sulle politiche statunitensi e occidentali. Se ascoltassero un po’ più orientalisti e africanisti, i politici avrebbero idee più chiare su quel che accade. In Somalia vedrebbero i risultati di un disastro annunciato: lo schieramento americano a fianco degli stessi signori della guerra da cui furono cacciati nel ’93, e lo scombussolamento di un fragilissimo ordine che le corti islamiche avevano a loro modo restaurato a Mogadiscio, non democraticamente ma mettendo fine al caos sanguinario degli anni passati. Perfino i talebani stanno mutando, secondo il Senlis Council. Non mancano i terroristi, in Somalia come in Afghanistan, ma il caos creato dalle guerre americane li resuscita e li nutre. Gli orientalisti hanno sbagliato enormemente nel Novecento, ma non tanto quanto stanno sbagliando oggi politici e commentatori. Il fallimento delle strutture statuali, il failed state generatore di terrorismo, non è un danno collaterale delle guerre antiterroriste. Sta diventando il loro fulcro, la loro ragion d’essere. Le rovinose peripezie coloniali di Francia e Inghilterra sembrano ripetersi (fa impressione l’insistenza di Londra nell’errore) ma senza più disporre - come l’impero britannico nei primi del ’900 - di un Arab Bureau e di un Lawrence d’Arabia.
Amiamo l’America (ma non vogliamo servirla)
di Piero Sansonetti *
In Italia è molto diffuso l’antiamericanismo, come scrivono quasi tutti i giornali? Credo che sia un sentimento, un atteggiamento culturale, largamente presente in settori larghi dell’opinione pubblica di destra, in alcune parti del mondo cattolico, in fasce consistenti della borghesia moderata. L’America - in quegli ambienti un po’ chiusi, un po’ bigotti - è vista come la quintessenza di una modernità e di una trasgressione che rovescia le sicurezze della tradizione, delle gerarchie consolidate, della conservazione. Perciò è temuta, disprezzata, odiata. L’antiamericanismo è molto più raro a sinistra. Specie negli ambienti dell’intellettualità di sinistra, anche della sinistra radicale (e anche tra i cosiddetti no-global), il rapporto con la cultura degli Stati Uniti è molto forte, c’è un legame di pensiero, e persino emotivo, con la letteratura americana, con la musica, con tutte le varie forme artistiche, con la filosofia, con la politologia e anche con la politica, soprattutto con le forme più radicali della politica che coinvolgono le minoranze liberal, i movimenti dei neri, i cosiddetti radical. (Vedete, persino nel linguaggio della sinistra ci sono degli americanismi: il termine, recente, di “sinistra radicale” per definire una sinistra vicina al pensiero comunista, è un termine importato dagli Stati Uniti).
Capisco che queste cose che scrivo possano sembrare paradossali, ma sono la semplice verità. L’antiamericanismo della sinistra è una pura invenzione. Scriveva ieri sul "Corriere della Sera“ Pierluigi Battista (riassumo): le basi americane sono americane e basta, non sono del governo di Bush; e quindi non ha senso dire: non le concedo perché sono contro la politica di Bush. Se dico che non vanno concesse all’America, è perché sono contro il popolo americano. Punto. E poi Battista aggiungeva (riassumo ancora): non esiste nessun altro caso (a parte Israele) nel quale l’ostilità di una certa parte politica (per esempio la sinistra) verso un determinato governo nazionale, diventi ostilità verso tutta la nazione. Per questo l’acredine della sinistra verso il governo Bush non è distinguibile dall’acredine verso tutta la nazione, verso l’America, e per questo si può parlare di antiamericanismo, e per questo l’antiamericanismo è un tarlo velenoso. Mi scuso per la sintesi, ma credo di avere interpretato bene Battista.
Però penso che le cose non stiano così come dice lui. Certamente i gruppi pacifisti, e la sinistra, che non vogliono regalare un pezzo della città di Vicenza all’esercito americano perché lo trasformi in un arsenale, non ce l’hanno solo con Bush. Criticano e si oppongono alla politica estera e militare americana. Perché si oppongono? Perché è una politica estera basata sulla guerra, sulla schiacciante superiorità militare degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo, e sull’idea che il dominio politico, economico e militare sia un diritto degli Stati Uniti e vada esercitato con ogni mezzo e al di fuori da ogni regola, di ogni subordinazione al diritto internazionale e alle idee del multilateralismo.
Questa pretesa, che è l’ossatura della reale politica estera degli Stati Uniti - in forma molto aggressiva e spesso sanguinosa sotto il governo di Bush, in forma più moderata quando l’amministrazione è democratica - condiziona l’assetto del mondo, i rapporti tra i popoli, la distribuzione ingiusta delle ricchezze, le politiche estere di tutti gli altri paesi. Opporsi a questa idea imperiale del ruolo dell’America nel mondo è una delle due scelte possibili. L’altra scelta è quella di accettare la propria subalternità e la signorìa degli Stati Uniti e rassegnartsi a un ruolo servile nei loro confronti.
Cosa giustifica la seconda scelta? Il calcolo che un ruolo subalterno agli Stati Uniti garantisca comunque una posizione privilegiata nei confronti del resto del mondo, e una partecipazione soddisfacente alla spartizione di una porzione rilevante delle ricchezze. Io non dico che questa scelta - che la sinistra non condivide, e contro la quale si batte - sia una scelta infame. Penso che sia una scelta prudente e tuttavia sbagliata e che produrrà dei danni.
Escludo però che la scelta di opporsi alla supremazia e al “totalitarismo internazionale” sia viziata da pregiudizio antiamericano. Io, per esempio, amo l’America: ma non voglio servirla.
19 gennaio 2007
Antiamericano chi?
di Furio Colombo *
Senti lo spiffero di un vento freddo di solitudine quando vedi Prodi che tiene stretta la pergamena della sua laurea ad honorem, mentre un gruppo di persone, appositamente organizzato, lo fischia e fa il saluto fascista.
Ma senti lo stesso freddo di solitudine quando entri in Senato, dopo l’interruzione di Natale, e apprendi che tutti i leader del tuo gruppo - l’Unione - hanno firmato e presentato una proposta di «Legge contro i fannulloni dell’ Amministrazione pubblica». Si applicherà tramite l’istituzione di una apposita Autorità (composta da un bel po’ di funzionari pubblici, immagino) strana invenzione suggerita, forse per scherzo, da un estroso articolo di giornale.
Che splendida materia per un racconto alla Gogol. Immaginate una seduta di questa nuova «Autorità dei fannulloni». Sarà, contro gli impiegati statali di scarsa efficienza, altrettanto tempestiva e implacabile come l’Antitrust verso i leader politici portatori di conflitti di interessi, o la Consob contro le avventurose e misteriose scalate di imprese?
Certo, farà il suo affetto a «Porta a Porta». Ma temo che la distanza dalle ansie degli italiani che ci hanno eletto e ci guardano senza capire resterà intatta. Anche perché coloro che ci hanno eletto avranno pensato che ci avevano mandato qui a lavorare duro non solo per mantenere ogni mattina e ogni sera il numero legale in aula ma, prima di tutto, per cancellare le leggi vergogna, per cambiare la «porcata» (loro definizione) della legge elettorale, per mettere subito mano alla legge sul conflitto di interessi. Però non è a causa del conflitto di interessi che di solito non stringo la mano a Dell’Utri.
No, non sono di quelli che considerano l’avversario politico un nemico. La ragione è che, una volta all’anno, i Padri Redentoristi mi invitano a Palermo a discutere con i ragazzi di quella città sulla loro appassionata lotta alla mafia. L’ultimo volta gli ho parlato dei miei incontri a New York con Giovanni Falcone. Mi imbarazzerebbe cambiare discorso.
E penso - per forza - alla solitudine della gente di Vicenza che si domanda: «Perché nessuno ha parlato con me, che vivo qui?» Che cosa c’entra la politica internazionale, il rapporto fra grandi potenze, il legame fra leali alleati, con il traffico, i blocchi, le misure di sicurezza intorno alla casa in cui abito, al percorso tra casa e lavoro? Che cosa c’è di sovversivo nel dire ansia, perplessità, incertezza, desiderio di contare nella decisione, il timore legittimo di veder scardinata la propria vita, la propria routine quotidiana?
O anche: in quale città americana, oggi, si insedierebbero vasti impianti di un altro Paese, per quanto amico, senza coinvolgere cittadini, esperti, autorità locali?
Quando, dove un evento importante, certamente di grande rilievo nel rapporto tra i due Paesi, ma che cambia radicalmente la vita di una città, potrebbe diventare all’istante un «prendere o lasciare», un ultimatum perentorio, «o fate tutto quello che diciamo noi o ce ne andiamo via tutti», invece che l’inizio di un amichevole dialogo?
E’ antiamericanismo preoccuparsi delle strade, dei viali, del verde, del traffico, dell’ambiente in una città in cui adesso gli abitanti si sentono stupiti e soli?
Da quando è «sinistra radicale» domandarsi quanto tempo ci vorrà, dopo, per portare i bambini a scuola?
E poi è proprio il modello americano che guida molti cittadini. Ricordate «Erin Brockovich», l’indimenticabile personaggio vero interpretato al cinema da Julia Roberts, che mette a soqquadro la piccola comunità in cui vive perché imprenditori senza scrupoli negano l’inquinamento da mercurio che sta creando pericolo per la vita dei bambini? Erin Brockovich, quella vera, è una eroina della cultura contemporanea americana, non una sovversiva.
È la cultura dell’America libera e democratica che sta scuotendo, molto più della politica e della ideologia di alcuni, tanti abitanti di Vicenza. Vorrebbero un sindaco che dica la verità, un primo ministro che parla con loro, magari anche una Commissione Esteri del Senato italiano che parla di loro alla Commissione Esteri del Senato americano. Quella Commissione adesso è presieduta da un liberal democratico.
Quel presidente di Commissione - Joe Biden - ha visto il nuovo film «Bobby» di Emilio Estevez, sul giorno in cui Robert Kennedy è stato assassinato, il giorno in cui è cambiata la vita in America. Alcuni dicono: nel mondo.
Biden ha detto: «Sono orgoglioso di essere americano, di essere senatore, di essere nel partito di Robert Kennedy, di essere candidato alla presidenza degli Stati Uniti».
E Robert Kennedy dice, nel film, ha detto nella vita (e ha detto a me, quando viaggiavamo insieme durante la sua ultima campagna elettorale, nelle conversazioni con lui che allora andavano in onda tutti i giorni nei Tg della Rai): «Un paese come l’America non deve imporre la sua volontà agli altri popoli solo perché siamo potenti. Sono convinto che possiamo lavorare insieme. Siamo un grande Paese, un Paese altruista e compassionevole. E io intendo fondare su quanto ho detto la mia candidatura».
«Bobby» - un film a cui hanno partecipato volontariamente un bel po’ di «grandi» di Hollywood (da Martin Sheen a Demi Moore, da Sharon Stone a Harry Belafonte, da Antony Hopkins a William Macy) avrà forse un posto nella storia del cinema. Ma gioca certo un ruolo molto grande nella vita pubblica americana. Ha scritto il New Yorker Magazine: «Ci ha liberati da un incubo: siamo quelli della guerra che durerà trent’anni di cui ci parla sempre Dick Cheney o siamo quelli della pace che non dobbiamo mai smettere di cercare di cui parlava Bob Kennedy?». E ricordano che quando «Bobby» è stato ucciso stava vincendo tutte le elezioni primarie sul tema «pace in Vietnam subito», contro coloro che dicevano: «Non possiamo ritirarci dal Vietnam per non negare il sacrificio dei soldati già morti».
Adesso, proprio mentre sembra che l’Italia sia contro l’America solo perché vuole discutere la costruzione di una immensa base in una piccola città, e vorrebbe parlarne in amicizia e con amicizia, arriva «Bobby». E’ il ricordo ma anche il preannuncio di un’altra America.
E infatti, mentre scrivo, ho sul tavolo la prima proposta di legge in discussione nella nuova Commissione di Politica Estera del Senato. Porta la firma di Ted Kennedy, Joseph Biden e diciotto altri senatori. La legge, se approvata, chiede al Presidente di non espandere il numero delle truppe americane, gli insediamenti, le basi, e gli stanziamenti federali per le spese militari, fino a quando non si troverà una via d’uscita dalla tragedia in Iraq (che viene descritta come «disastro» e «guerra civile in atto» nella premessa della proposta di legge).
E il New York Times del 18 gennaio annuncia una risoluzione proposta da tutta la nuova maggioranza democratica al Congresso degli Stati Uniti. Dice: «Non è nell’interesse nazionale americano estendere i nostri insediamenti militari». E’ un messaggio che guarda a tutta la presenza americana nel mondo, tanto che aggiunge: «In particolare non è nell’interesse americano aumentare le truppe in Iraq». La risoluzione, nel testo originale, usa deliberatamente la parola «escalation» (termine sempre accuratamente evitato dal presidente Bush) proprio per evocare l’errore già commesso in passato, proprio per dire: «Da adesso si volta pagina».
Allora, perché non organizzare al più presto un incontro fra la Commissione Esteri del Senato italiano e la Commissione Esteri del Senato Americano, per parlare di Vicenza fra Paesi amici, Paesi che hanno sempre creduto, o tornano a credere, in ciò che ha detto Bob Kennedy: «Siamo un grande Paese, altruista e compassionevole. Possiamo lavorare insieme»? Perché non interrompere la solitudine dei nostri elettori che vedono accadere le cose senza sapere dove cominciano?
* * *
Torniamo insieme alla realtà, fuori dalla televisione, dove ci aspettano i cittadini che hanno ancora fiducia, che pensano a un nuovo partito - se ci sarà - come a una festa non come a una selezione dei tipi più adatti; dove ci aspettano persone che contano, comunque, sul partito che c’è, al quale milioni hanno dato il voto e tanti hanno investito attesa, speranza, identità, vita.
Torniamo per le strade, dove c’è la gente che il più delle volte cerca una spiegazione e un punto di riferimento per capire, più che la voglia di inscenare una protesta.
Andiamo da coloro che protestano per delusione, non per dissenso, non perché stanno andando a destra. Semplicemente non ci riconoscono nella pioggia di nuove proposte quotidiane di cui non avevamo mai parlato, e vorrebbero ritrovare le cose serie, necessarie e immediate su cui c’eravamo impegnati in campagna elettorale.
Perché non tornare al civile e fraterno punto di partenza dell’Unione? La nostra strada comincia dove finisce il mondo di abuso, di illegalità, di «leggi porcata», di protesi alla giustizia, di cifre false e di conti truccati che, per cinque anni, hanno deformato l’immagine dell’Italia. Non c’è niente di bipartisan nel nostro lavoro, non adesso, non fino al ripristino della normalità umana, politica, giuridica che abbiamo promesso.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.01.07, Modificato il: 21.01.07 alle ore 11.29
Mario Rigoni Stern: «Ci sono passati sopra la testa, ricordiamoci del Cermis»
di Toni Fontana *
«Sono indignato, ora la protesta non si deve fermare, sono in gioco i diritti dei cittadini. Non dobbiamo dimenticare quanto è accaduto al Cermis». Parla lo scrittore Mario Rigoni Stern, in questi mesi solidale con i comitati di Vicenza che si sono battuti contro la realizzazione della base Usa.
Come si sente all’indomani della decisione annunciata dal governo?
«Indignato, oggi non so se meritano di stare al governo le persone che abbiamo eletto. Diamo gli Usa una parte del nostro territorio, dov’è finita la nostra sovranità nazionale? Abbiamo forse dimenticato che cosa è accaduto al Cermis? Mi meraviglio che il consiglio comunale di una città si sia arrogato il diritto di concedere un territorio. Si tratta di una questione che travalica i confini del comune. È una questione seria, sono in gioco i nostri interessi di cittadini».
Lei ha sempre difeso la necessità di tutelare l’ambiente naturale..
«A Vicenza e in Italia non stiamo discutendo solo una questione ambientale. Qui è in gioco un diritto nazionale. Ci rendiamo conto che le base straniere godono di extraterritorialità? Se succede un incidente i responsabili vengono giudicati da un tribunale di una potenza straniera. Ciò è inaccettabile. Del resto anche un personaggio con una grande esperienza internazionale come Sergio Romano ha dichiarato che è anacronistico concedere l’uso del territorio nazionale per realizzare altre basi militari straniere. Se si trattasse solo di una questione ambientale allora dovremmo chiudere anche Porto Marghera, sigillare i quartieri soffocati dall’inquinamento. Qui invece stiamo discutendo anche di altro. Ricordate il sequestro avvenuto a Milano di un cittadino arabo?».
La protesta ha coinvolto anche molti cittadini dei quartieri di Vicenza che sono andati in piazza con i loro bambini...
«I veneti sono molto gelosi della loro terra, il governo non può nascondere la gravità dei problemi e deve trovare il coraggio di dire le cose come effettivamente stanno».
Alla fiaccolata alcuni giovani gridavano contro i partiti ed incitavano a non andare alla urne...
«Non condivido atteggiamenti estremisti. Io andrò a votare se necessario con quattro mani nel voto possiamo proseguire la nostra lotta, sostenere le nostre ragioni, questo è l’unico modo che abbiamo per poter pesare e per dimostrare la nostra indignazione. Non si tratta di difendere solo la città di Vicenza, ma tutto il paese, dobbiamo agire per tutelare i diritti dei cittadini di Milano, di Napoli, di Roma, di tutta l’Italia. Non stiamo affatto giocando. La questione è seria».
* l’Unità, Pubblicato il: 18.01.07 Modificato il: 18.01.07 alle ore 11.14
Su Vicenza, un arcobaleno di no
di Gianfranco Bettin (il manifesto, 19.01.2007) *
Le ragioni per opporsi all’ampliamento della base americana di Vicenza sono parecchie e di diversa natura. Ci sono quelle ricordate da Fausto Bertinotti, sulla necessità di limitare il più possibile la presenza di «organizzazioni militari». Ci sono quelle ricordate da Alfonso Pecoraro Scanio ieri, connesse al rapporto con la strategia militare complessiva del nostro paese (che avrà nel prossimo voto parlamentare sulla missione afghana uno snodo cruciale), ci sono quelle riassunte qui da Marco Revelli e, ieri, da Gabriele Polo, relative a come questo governo concepisce l’autonomia dell’Italia, condivise da molti esponenti della sinistra , da Oliviero Diliberto a Cesare Salvi a Fabio Mussi, eccetera. E ci sono quelle della gente di Vicenza, che uniscono quanto sopra ai precisi, concreti motivi di ordine ambientale, urbanistico, economico e sociale. Li ha riassunti bene ieri Ilvo Diamanti su Repubblica.
Eppure, tutte queste ragioni insieme non sono riuscite a convincere Romano Prodi. Si può fare della dietrologia su questa scelta. Forse anche si deve, dopo che il sottosegretario Letta ha dichiarato ai parlamentari veneti che il governo «è stato costretto» a decidere per il sì. Costretto da chi? Fatecelo sapere. Ma più di questo, e in parallelo al rilancio di una vasta e prolungata campagna locale e nazionale contro la decisione assunta, forse conta trarre qualche lezione politica dalla vicenda.
La prima lezione riguarda l’asse sul quale si colloca lo sviluppo dell’azione di governo. E’ evidente che, al di là di qualche singola scelta - che sempre più spesso assomiglia a una «concessione» - questo asse tende a collocarsi sul versante più moderato della coalizione. C’è chi, al governo, sembra spesso voler dimostrare alla destra che sa fare la destra meglio della destra stessa. Per certi versi, si può dire del nascente Partito Democratico, come taluni - influenti - sembrano concepirlo, l’opposto di quanto si diceva un tempo della Dc, che sarebbe stata cioè un partito di centro che guarda a sinistra.
Il Partito Democratico che si intravede a volte sembra invece più un partito di centro che guarda a destra. Anche per questo - altra lezione della vicenda Dal Molin - urge riequilibrare l’asse dell’azione di governo e della stessa coalizione. Un asse squilibrato da scelte politiche sbagliate, come questa su Vicenza, ma anche dalla scelta strategica, compiuta prima delle elezioni, dalla cosiddetta «sinistra radicale» (definizione imprecisa, ma ci capiamo) di presentarsi a quell’appuntamento in ordine sparso. La nascita di una sorta di «Coalizione Arcobaleno» alleata dell’Ulivo su un programma fatto di punti qualificanti e irrinunciabili, del tutto maturo nell’esperienza e nella visione di un grande numero di elettori ed elettrici, avrebbe consentito che l’Unione nascesse su basi più avanzate.
Le elezioni ora sono alle spalle, ma l’azione di governo, così ondivaga, così sconcertante, a volte così criticabile, è di fronte a noi. Perché non crearla oggi, nella pratica parlamentare e di governo e nell’azione esterna, una «Coalizione Arcobaleno» che, dentro l’Unione, rappresenti una così grande parte dell’alleanza e, pur in necessario dialogo e comune lavoro con le altre componenti, tracci delle linee nette all’azione di governo ispirata oggi così genericamente dal programma elettorale? E’ del tutto possibile, perfino necessario, se non vogliamo che nell’Unione - e nel suo governo, una delle residue chance che ha l’Italia di oggi per uscire da una fase torbida e triste - prevalgano quelli che si sentano «costretti» a fare cose sbagliate o, peggio, quelli che le fanno volentieri.
* Vicepresidente dei Verdi