Altro che la Chiesa di Maria e Gesù... - e Giuseppe!?
Questa è la Chiesa ... del “latinorum”, di "Mammona", di "Mammasantissima" e del Capitalismo!!!
FORZA “Deus caritas est”?! FORZA "DIO CARO-PREZZO"?!
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro (prezzo)’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro (prezzo), così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
Per la novella di Pirandello, cfr.,
Sugli altri temi, cfr.:
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica: il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare «rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come «custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
«Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. «Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II».
Inoltre osserva: «I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare....». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità «non solo ideale di magistero» che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, «entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti») hanno intravisto nel Vaticano II come «il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870».
Di qui la riflessione finale: «In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo».
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TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" ("DEUS CARITAS EST", 2006)!!! UNA VULGATA DEI MERCANTI DEL TERZO MILLENNIO "PRIMA DELA NASCITA DI CRISTO"..... *
Corte Strasburgo: Gesù e Maria possono essere testimonial pubblicità
Bocciato stop giustizia lituana a campagna che ne usava immagini
Roma, 30 gen. (askanews) - Utilizzare i nomi e le immagini di Gesù e Maria in una campagna pubblicitaria è lecito: lo ha stabilito la Corte europea per i diritti umani, definendo “ingiustificabile” il provvedimento con cui la giustizia lituana era intervenuta a bloccare l’iniziativa in quanto contraria alla pubblica morale.
Come riporta il sito di The Baltic Course la campagna (lanciata dal designer di abbigliamento Robert Kalinkin) risale al 2012, e impiegava due modelli, un giovane dai capellim lunghi e una donna con un vestito bianco, e le legende “Gesù, che pantaloni”, “Maria cara, che vestito” e simili.
L’ente statale per la commercializzazione dei prodotti non alimentari aveva imposto una multa agli organizzatori dopo aver ricevuto delle lamentele da parte di alcuni consumatori, prima che la magistratura ordinasse la sospensione della campagna.
Per la Corte tuttavia “la campagna non appariva gratuitamente offensiva o blasfema, né incitava all’odio religioso o attaccava la religione in maniera abusiva o ingiustificata”: non era possibile “dare per certo che qualunque fedele cristiano ritenesse necessariamente offensiva la pubblicità, e il governo lituano non ha presentato alcuna prova in contrario; ma anche se la maggioranza della popolazione lituana fosse stata di questo avviso, l’esercizio dei diritti della Convenzione da parte di una minoranza non può essere condizionato al volere della maggioranza”.
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola (la Repubblica, 30.01.2018)
Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.
Marino Niola è antropologo della contemporaneità. Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
Il dossier.
Palazzi, alberghi e ospedali
2 mila miliardi di patrimonio quanto vale “Vaticano spa”
Un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, e appartamenti di lusso spesso affittati a politici a prezzi di favore
di Corrado Zunino (la Repubblica, 17.05.2016)
ROMA. La chiesa cristiana e cattolica, con i rami diretti e le sue arciconfraternite, gli enti morali, le società di soccorso, gli almi collegii e le ancelle, con le fondazioni, le banche e le immobiliari che rimandano a fondi chiusi, possiede nel mondo - è la stima più credibile, racchiusa tuttavia in nessun documento ufficiale - un milione di immobili per un valore di duemila miliardi. Chiese, naturalmente, e queste non sono alienabili essendo costruite sulla Pietra evangelica. Poi sedi parrocchiali, case generalizie, istituti religiosi, conventi, missioni, case di riposo, seminari, centri di cura e bellezza, ospizi, orfanotrofi, asili, pii alberghi per turisti e pellegrini, terreni e molte abitazioni civili date in locazione. Solo tra ospedali, scuole e università la chiesa cristiana e cattolica può contare sullo stesso numero di edifici presente negli Stati Uniti.
UN QUARTO DI ROMA
Di quel milione di “cose” di proprietà, settecentomila beni materiali sono all’estero, trecentomila in Italia concentrati, questi, in Lombardia e Veneto, naturalmente a Roma. Secondo il Gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze al Vaticano sul tema, il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è tutt’oggi proprietà della chiesa: 115 mila pezzi. Lo calcolò per primo Paolo Ojetti in un’inchiesta per l’Europeo del gennaio 1977 che rivelò come un quarto della capitale fosse nelle mani della Chiesa apostolica. Solo a Roma ogni anno vengono registrati 8-10 mila testamenti a favore del clero.
I due istituti operativi vaticani sul fronte immobiliare, spesso confusi, sono Propaganda Fide e l’Apsa. Gli appartamenti di Propaganda, di lusso, valgono 9 miliardi di euro. Tra le 957 case di proprietà spesso usate come merce di scambio e cedute con larghi sconti (il palazzetto di tre piani e 42 vani di via dei Prefetti, a Roma, venduto a costo calmierato all’ex ministro Pietro Lunardi in cambio della ristrutturazione a spese pubbliche della sede di Propaganda in piazza di Spagna), 725 immobili sono nella capitale. E sono diventati affitti buoni per l’ex vicedirettore generale Rai Antonio Marano, il capo delle missioni sporche della Protezione civile Mauro Della Giovampaola, il direttore dell’Enac aeroportuale Vito Riggio, l’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino, l’ex ragioniere generale Andrea Monorchio. Di Propaganda sono l’attico abbacinante di Bruno Vespa, l’appartamento di Cesara Buonamici, lo show room dell’Oreal, il mega solarium Priscilla che al Vaticano versa solo 3.000 euro il mese. All’epoca di Angelo Balducci gentiluomo del Papa, l’ingegnere pubblico girava in auto con la mappa degli appartamenti della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli pronto a suggerire le case migliori a buoni conoscenti.
LE CASE-REGGIA DEI CARDINALI
Poi c’è l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede cattolica, con i suoi 5.050 appartamenti affittati a prezzo di mercato agli sconosciuti e a canone zero a chi ha servito la chiesa: giuristi, letterati, direttori sanitari. Sono 860 le locazioni gratuite. Innanzitutto, quelle per le case-reggia dei 41 cardinali di prima fila: tutti intorno a San Pietro. Quindici in piazza della Città Leonina dove spiccano i 368 metri quadrati del penitenziere maggiore Mauro Piacenza, otto in piazza di San Callisto con i 472 metri del francese Roger Etchegarray, sei in via Rusticucci con l’appartamento del prefetto della Congregazione per le chiese orientali, Leonardo Sandri: 522 metri di stucchi e biblioteche. Tre sono in via Pfeiffer, dove s’allargano i 525 metri da primato dello statunitense William Joseph Levada.
Nel tentativo di ricostruire e mettere a sistema i possedimenti Apsa, monsignor Lucio Vallejo Balda, a capo della commissione Cosea, ha scatenato l’ultima guerra in Vaticano, che poi è diventata il processo Vatileaks 2. Papa Francesco ha già detto molto sulle “case dei principi” della chiesa.
GLI EX CONVENTI B&B
Il turismo religioso nei più famosi luoghi di pellegrinaggio offre 200 mila posti letto e vale 4,5 miliardi. Il calo delle vocazioni ha svuotato abbazie e monasteri, più di duemila in Italia, e moltiplicato i cantieri per trasformare antichi conventi in bed and breakfast. A Roma un palazzo del Borromini nella titolarità delle suore Oblate di Santa Maria dei Sette dolori è diventato un hotel da 62 camere.
Il richiamo del Papa ai vescovi
“Siate sobri, basta proprietà”
Francesco apre l’assemblea della Cei: “Bruciate le ambizioni di carriera e di potere. Rinunciate ai beni non necessari”
Su “La Croix” parla di dialogo con l’Islam
“Eutanasia e nozze gay? Decida il parlamento”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.05.2016)
CITTÀ DEL VATICANO. Chi aspettava un intervento sulle vicende politiche italiane, dalle unioni civili all’immigrazione, è rimasto deluso. Le parole di ieri pomeriggio di Papa Francesco all’annuale assemblea generale della Cei sono entrate invece con forza nel tema principale della stessa assemblea: il rinnovamento del clero. Un tema caldo, per la Chiesa, perché tracciare l’identikit del sacerdote significa indicare un modello preciso, che per Bergoglio dista anni luce dalle tentazioni del carrierismo e del personalismo: «I preti - ha detto - brucino sul rogo le ambizioni di carriera e di potere».
Per Francesco il sacerdote ideale è colui che «non ha un’agenda da difendere» ma «si fa prossimo di ognuno», ha uno «stile di vita semplice ed essenziale» che lo rende credibile ed è «attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi». E per quanto riguarda la «gestione delle strutture e dei beni economici» Francesco dice ai vescovi riuniti le parole forse più incisive: «In una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio».
Il ritorno all’essenziale è il leitmotiv degli interventi tenuti da Francesco in questi tre anni di pontificato davanti alla Chiesa italiana. Se al convegno ecclesiale di Firenze aveva evocato la figura del don Camillo di Guareschi, ieri ha parlato dei «tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità». La loro vita, come la vita di tutti i preti, è «eloquente » se è «diversa, alternativa ». Il prete «è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto” che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco». E ancora, le parole più immaginifiche: «È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano». Messi al bando sia «il freddo rigorismo» che un «buonismo» fatto di «superficialità e accondiscendenza a buon mercato», il prete «con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza».
Non è stato un monito quello di Francesco. Né un anatema. Non ha sgridato nessuno. Piuttosto si è messo «in ascolto» dei preti, avvicinandosi «quasi in punta di piedi» ai tanti parroci, per capire da loro quale sia l’identikit del sacerdote oggi. Bergoglio, come quando era arcivescovo di Buenos Aires, impara dal clero e dal meglio di esso desume le linee utili per tutti: il sacerdote, ha detto, non è un burocrate, non mira all’efficienza, non si scandalizza per le fragilità. È uomo di pace, sempre disponibile con le persone perché «in questo tempo povero di amicizia sociale il nostro primo compito è quello di costruire comunità».
La giornata di ieri del Papa è stata caratterizzata anche da un’intervista al quotidiano cattolico La Croix. Francesco è tornato a parlare dell’immigrazione causata dalle guerre e dal sottosviluppo, dei trafficanti di armi e dell’integrazione: «La coesistenza tra cristiani e musulmani è possibile - ha detto - In Centrafrica, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e devono reimparare a farlo oggi. Il Libano mostra che ciò è possibile». E ancora: «Non credo che ci sia oggi una paura dell’islam, in quanto tale, ma di Daesh (Is, ndr) e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’Islam ». E a una domanda su eutanasia e unioni civili ha risposto che tocca al parlamento discuterne. Poi, quando una legge è approvata, lo Stato deve rispettare le coscienze, l’obiezione è un diritto umano anche per i funzionari pubblici.
Da suore e prelati bonifici milionari sui conti dello Ior
Nella relazione JP Morgan, i movimenti degli ecclesiastici
Dall’ex vescovo di Urbino che versa ai parenti 1 milione di euro, alla monaca che deposita 150mila dollari
di Marco Lillo (il Fatto, 18.09.2013)
Suore che depositano migliaia di banconote da 100 dollari, arcivescovi che fanno bonifici milionari ai parenti e poi tante altre operazioni sulle quali la Procura non ha ritenuto di aprire indagini ma che aprono uno spaccato interessante sul rapporto tra la Chiesa e la ‘roba’ attraverso la lente dei conti IOR. Le operazioni talvolta sono state considerate ‘sospette’ dalle autorità bancarie o poco trasparenti dagli stessi istituti di credito che gestiscono le finanze dello IOR in Italia.
Ma non sono state contestate dalla Procura di Roma nell’avviso chiusura indagini per i dirigenti della banca vaticana. Le mazzette di dollari e i bonifici emergono dalle carte dell’inchiesta appena chiusa con la contestazione della violazione della normativa anti-riciclaggio (un reato formale punito con una pena minima) nei confronti di Massimo Tulli e Paolo Cipriani, rispettivamente vicedirettore e direttore dello IOR, Istituto per le Opere di Religione.
Agli atti dell’indagine dei pm Nello Rossi e Stefano Fava c’è per esempio la nota del-l’UIF che sviluppa la ‘segnalazione dell’operazione sospetta’, dove l’operazione in questione è quella effettuata da una suora alla Banca Prossima, filiale di via Aurelia in Roma, il 5 ottobre 2010. Quel giorno suor Graziella L. si presenta allo sportello con 15 mazzette con timbro Ior e le versa sul conto dell’Istituto delle Suore Francescane Angeline per il quale suor Graziella è delegata. Nella segnalazione della banca, poi sviluppata dal-l’Ufficio Informazione Finanziaria UIF, l’anti-riciclaggio di Bankitalia, si legge: “Il sospetto nasce dall’entità e dall’origine non adeguatamente giustificata delle somme.
NELLO SPECIFICO, la somma versata è costituita da denaro contante in biglietti da 100 dollari USA con mazzette da 100 pezzi regolarmente fascettate con timbro dello IOR. A tal proposito il soggetto esecutore del-l’operazione, una religiosa dichiarava per iscritto e su carta intestata dell’Istituto di avere prelevato allo IOR in data odierna 150 mila dollari USA e di aver versato la somma sul conto di apertura presso Banca Prossima. Tra l’altro la religiosa preannunciava, per le vie brevi, l’esecuzione di ulteriori future operazioni similari. L’entità de-le somme versate e l’impossibilità di accertare l’effettiva provenienza hanno indotto l’intermediario a inoltrare la segnalazione. L’Istituto delle Suore Francescane Angeline è una scuola e con il medesimo codice fiscale risulta censita in Cerved (banca dati delle camere di commercio, Ndr) anche la Casa Mater Dei che invece è una struttura alberghiera”.
Agli atti c’è poi il carteggio tra la filiale italiana della banca americana JP Morgan e lo IOR. Nel novembre del 2011 l’UIF della Banca d’Italia mette sotto pressione la banca americana. Più di un anno prima, a settembre del 2010, la Procura di Roma aveva sequestrato 23 milioni allo IOR (sui conti accesi presso il Credito Artigiano e la Banca del Fucino) per il mancato rispetto delle normative anti-riciclaggio.
Lo IOR opera in Italia schermando i reali intestatari dei fondi giacenti sui suoi conti calderone che celano sotto-rapporti bancari conosciuti solo da alcuni funzionari di alto grado come il direttore Paolo Cipriani. Quando la Banca d’Italia e la Procura di Roma hanno imposto un cambiamento di regime alle banche italiane, il Vaticano ha spostato gran parte della sua operatività sulla Jp Morgan di Francoforte, usando la sponda della filiale di Milano.
Nel novembre 2011 l’UIF arriva anche lì e chiede informazioni su 150 operazioni effettuate sul conto JP Morgan da molti soggetti che avevano il conto allo IOR. La banca gira le richieste allo IOR che risponde con informazioni considerate insufficienti da Jp Morgan. La banca americana allora scrive ancora al ‘compliance department’ di IOR il 19 gennaio del 2012, “al fine di ottemperare più compiutamente alle Nostre responsabilità in materia di anti-riciclaggio” e chiede “ulteriori informazioni in riferimento ai seguenti pagamenti e incassi”. Segue una lista di 11 operazioni effettuate da soggetti diversi. Il 13 febbraio IOR risponde picche e Jp Morgan il 30 marzo 2012 chiude il conto.
Molte operazioni per le quali lo IOR si è rifiutato di rispondere alla Jp Morgan sono poi confluite nell’accusa contro i vertici dello IOR, Paolo Cipriani e Massimo Tulli, che poi si sono dimessi nel luglio scorso. Altre operazioni, invece, pur essendo oggetto delle richieste di delucidazioni di Jp Morgan e pur essendo rimaste senza spiegazione compiuta da parte dello IOR, non sono finite nei capi di accusa.
Tra queste ce ne è una interessante per la sua dimensione economica e perché coinvolge l’arcivescovo emerito di Urbino. “Marinelli Francesco” (alto prelato) come lo definisce Jp Morgan ha eseguito tra il 27 aprile e il 18 maggio 2010 sei bonifici per complessivi un milione e 100 mila euro a beneficio dei suoi parenti Gianluca, Giuseppe, Dino Gabriele e Francesco Marinelli. Jp Morgan chiede le seguenti informazioni allo IOR sui bonifici di Marinelli dal conto dell’arcivescovo a quelli dei parenti: “Origine dei fondi e congruità con l’attività svolta ed eventuale provenienza da soggetti terzi (in caso positivo a quale titolo) ”.
LO IOR non risponde (per tutte le operazioni) e Jp Morgan chiude il conto. Non c’è’ nulla di male a donare un milione a fratello e nipoti. I prelati hanno diritto ad avere un conto allo IOR. Quindi la Procura ha ritenuto di non contestare alla dirigenza IOR alcun reato per i bonifici di Marinelli. Certo la curiosità della Jp Morgan sull’origine dei fondi e sulla loro congruità con l’attività del prelato, resta inevasa. Monsignor Francesco Marinelli allora era Arcivescovo di Urbino, carica che ha lasciato nel 2011. Al Fatto che gli chiede se ricorda i bonifici, l’arcivescovo emerito risponde: “No, non so nulla di tutto questo”.
Papa Francesco: "Mai visto un camion da trasloco dietro un corteo funebre"
CITTA’ DEL VATICANO - "Non ho mai visto un camion da trasloco dietro un corteo funebre, mai". Papa Francesco continua a ripetere il suo messaggio. E ha usato questa immagine nell’omelia tenuta alla Domus Santa Marta, per esprimere un concetto che aveva già spiegato qualche tempo fa con una frase di sua nonna: "Il sudario non ha tasche".
C’è un tesoro, ha detto, che "possiamo portare con noi", un tesoro che nessuno può rapinare, che non è "quello che hai risparmiato per te", ma "quello che hai dato agli altri". Il problema, ha chiarito, sta nel non confondere le ricchezze.
Chiedere a Dio la grazia di un cuore che sappia amare e non si lasci sviare da tesori inutili. E’ la sostanza dell’omelia durante la Messa concelebrata con il cardinale Francesco Coccopalmerio, il vescovo Juan Ignacio Arrieta e l’ausiliare José Aparecido Gonzalves de Almeida, rispettivamente presidente, segretario e sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, accompagnati da alcuni collaboratori del dicastero.
Per Francesco, "la caccia all’unico tesoro che si può portare con sè nella vita dopo la vita è la ragion d’essere di un cristiano; come Gesù ha spiegato ai suoi discepoli dicendo loro: "Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore". Quindi, ci sono "tesori rischiosi" che seducono "ma che dobbiamo lasciare", quelli accumulati durante la vita e che la morte vanifica. Ma, ha scandito il Papa, "quel tesoro che noi abbiamo dato agli altri, quello lo portiamo. E quello sarà il ’nostro merito’, fra virgolette perché è il merito di Gesù Cristo in noi! E quello dobbiamo portarlo. E’ quello che il Signore ci lascia portare. L’amore, la carità, il servizio, la pazienza, la bontà, la tenerezza sono tesori bellissimi: quelli portiamo. Gli altri no".
Per il Vangelo, ha ricordato Francesco, "il tesoro che vale agli occhi di Dio è quello che già dalla terra si è accumulato in cielo". "Ma Gesù fa un passo oltre: lega il tesoro al ’cuore’, crea un ’rapporto’ fra i due termini" sottolinenando che il nostro cuore è dove teniamo il nostro tesoro. "Questo - ha osservato Bergoglio - perché il nostro ’è un cuore inquieto’, che il Signore ha fatto così per cercare Lui".
"Il Signore ci ha fatto inquieti per cercarlo, per trovarlo, per crescere. Ma se il nostro tesoro è un tesoro che non è vicino al Signore, che non è dal Signore, il nostro cuore diventa inquieto per cose che non vanno, per questi tesori", ha affermato Papa Francesco. Come "tanta gente", infatti, "anche noi siamo inquieti. Per avere questo, per arrivare a questo alla fine il nostro cuore si stanca, mai è pieno: si stanca, diventa pigro, diventa un cuore senza amore".
E’ questa "la stanchezza del cuore". "Pensiamo a questo", ha suggerito il Pontefice ai cardinali, vescovi, sacerdoti e collaboratori laici presenti alla messa di oggi. "Io cosa ho: un cuore stanco, che soltanto vuol sistemarsi, tre-quattro cose, un bel conto in banca, questo, quell’altro? O un cuore inquieto, che sempre cerca di più le cose che non può avere, le cose del Signore? Questa inquietudine del cuore bisogna curarla sempre".
* la Repubblica, 21 giugno 2013
La struttura segreta del Vaticano
Immobili a Londra con i soldi di Mussolini
Una società off-shore custodisce un patrimonio da circa 650 milioni di euro. Per conto della Santa Sede, che ha raggranellato prestigiosi locali ed edifici nella capitale britannica. Grazie ai soldi che Mussolini diede al papato con i Patti Lateranensi
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l’edificio in cui ha sede la Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all’angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini?
La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, perché i due investimenti fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un’anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro. E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929, con i Patti Lateranensi.
A rivelare questo storia è il Guardian, con uno scoop che oggi occupa l’intera terza pagina. Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce di questo tesoro immobiliare del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso della sua inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l’assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare di tale cospicuo investimento internazionale. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.
Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. Il controllo della società inglese è di un’altra società, chiamata Profima, con sede presso la banca JP Morgan a New York e formata in Svizzera.
I documenti d’archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di "attività contrarie agli interessi degli Alleati". In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l’uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) ottenuto dalla Santa Sede in contanti, da parte di Mussolini, come contraccambio per il riconoscimento dello stato fascista, fin dai primi anni Trenta. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all’ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un "no comment" da un portavoce.
* la Repubblica, 22 gennaio 2013
Perché la Chiesa non condanna don Verzè
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 04.12.2011)
Gentile Corrado Augias,
leggo di Don Verzè e della scandalosa gestione del San Raffaele. Oltre al delirio di onnipotenza che lo ha portato a commissionare una cupola in acciaio da milioni di euro, avere yacht, opzionare un’inutile flotta di aeroplani, tutte spese folli passate inosservate, univa questi comportamenti lussuosi ad un fare da vero capobastone mafioso. Un malinteso senso della missione ecumenica? Ne dubito fortemente. Quando si gestiscono conti correnti all’estero, misteriose società, e si riesce a comandare anche sulla finanza, organo statale, dirottandolo a proprio piacimento sui vicini che gli impediscono ulteriori acquisizioni (e sfracelli ?), siamo di fronte ad una vera associazione a delinquere. O no? Cosa attendono allora le alte gerarchie d’Oltretevere a sanzionare il ras del San Raffaele con una santa scomunica? La tristezza nel notare tanto garbato silenzio da parte della Chiesa dilapida ulteriormente quel poco di credibilità che stentatamente il Papa cerca di ritrovare. Come mai certi comportamenti laicamente inaccettabili sono religiosamente consentiti?
Marco Bernardi
Don Luigi Maria Verzè è nato nel 1920 e ha dunque superato i 90 anni di vita dando prova ininterrotta di un’energia e di una capacità di visione straordinarie. A mio parere bisogna partire da questo per tentare di spiegarsi la serie di catastrofici errori, compreso l’ultimo imperdonabile e ridicolo di paragonare le sue disavventure giudiziarie alla passione di Gesù.
Il signor Bernardi si chiede che cosa aspettino le gerarchie vaticane a scomunicarlo. Da osservatore esterno ricordo che il Vaticano, a prescindere da ogni effettiva dimostrazione di colpevolezza, procede sempre con prudenza in casi del genere, sulla base del noto principio "quietare sopire" che si è spesso rivelato il più efficace. I fatti si succedono velocemente, nuovi eventi fanno scomparire nell’oblio i precedenti.
Basta pensare a tutto ciò che non venne fatto quando scoppiò lo scandalo di monsignor Marcinkus nella gestione della banca vaticana (il famigerato Ior) o del tempo che è stato necessario perché il Papa si decidesse a intervenire di fronte all’altro scandalo mondiale dei preti pedofili.
O ancora del silenzio prudente con cui giorni addietro è stata accolta la notizia che il boss mafioso calabrese Giulio Lampada era stato nominato cavaliere dell’Ordine di san Silvestro papa.
Ciò che a noi maggiormente interessa non è però l’eventuale scomunica di don Verzè ma i comportamenti di stampo mafioso di un uomo che aveva dato vita ad un ospedale e ad un’università di ottimo livello, e che si è perso dietro la sua megalomania, causando immenso dolore e la morte di un suo collaboratore. Di questo don Verzè dovrebbe chiedere perdono invece del suo vaniloquio su Gesù.
Il codice di Don Verzè boss con la tonaca
di Francesco Merlo
* la Repubblica, 02 dicembre 2011
ORDINA: «Bruciate!» e il picciotto va e appicca il fuoco. Don Luigi Verzé è il primo prete capomafia della storia d’Italia e il silenzio del Vaticano o è rassegnato o è omertoso, decidete voi. Ma per noi siciliani è un sollievo che almeno sia padano questo ’don’ che è due volte ’don’, per il turibolo e per la coppola storta. Attenzione: non un prete mafioso, non un prete al servizio della mafia, che ce ne sono stati tanti, ma un boss che amministra i sacramenti, un don Calogero Vizzini con il crocifisso portato - fateci caso - all’occhiello, lì dove si mettono gli stemmi dei Lyons e del Rotary, e i massoni vi appuntano il ramo d’acacia e i gagà la mitica pansé. Anche don Calogero non pagava mai con le mazzette tipiche della corruzione diciamo così normale, ma con bigliettoni ’impilati’. «Le buste di don Verzé - raccontano i testimoni oculari - erano alte tre o quattro centimetri con biglietti da 500 euro». Don Calogero Vizzini le chiamava appunto ’pile’. E don Verzé non comunica con i pizzini come i più rozzi tra i corleonesi, ma si attiene ai classici che affidavano le sentenze ’allo sguardo e al silenzio ’.
E SE proprio deve farsi intendere don Verzé «manda l’autista - tutte le citazioni sono prese dai verbali - anche all’estero». Trasmette gli ordini «attraverso messaggeri umani». Il pizzino infatti è mafia stravagante, deviazione sbruffona, «niente di scritto e niente al telefono» raccomanda Marlon Brando Vito Corleone: «La polizia registra, poi taglia e cuce le parole per farvi dire quello che vuole».
Il codice di don Verzé non è quello classico del danaro cattolico, neppure nella variante diabolica della simonia. Don Verzé non è uno di quei generosi mostri italiani che hanno messo insieme mammona e il Padreterno, come direbbero gli evangelisti Matteo e Luca, l’ingordigia e la bontà. È invece un don Luciano Liggio per la gloria di Dio. Anche don Luciano bruciava una campagna e poi si presentava al proprietario: «Non rende, vendetemela». Sono gli stessi metodi criminali di don Verzé che aveva deciso di comprare i terreni confinanti con il suo ospedale, ma il proprietario non voleva vendere perché vi aveva costruito campi da tennis, da calcio e da calcetto, spogliatoi e bar... Ebbene nel 2005 e nel 2006 quegli impianti subirono due incendi dolosi. Poi don Verzé convocò Pollari, capo del Sismi e gli disse: «Mandaci la Finanza».
In quel periodo il prete fondatore dell’ospedale San Raffaele pubblicava con Bompiani "Io e Cristo" per spiegare come «la Fede si fa opera». E infatti la Finanza andò, controllòe multò. Ma il proprietario resisteva. E allora «sabotate» ordinò letteralmente don Verzé prendendosi una pausa dalla pia esegesi neotestamentaria (pag. 123 sgg) del famoso «verbum caro factum est», il verbo si è fatto carne. E specificò: «Sabotate, ma state attenti all’asilo e ai cavalli che sono nostri». Il picciotto, che stavoltaè un ingegnere, lo rassicura: «Sarà sabotato il quadro elettrico, quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli "amici" andranno a fargli la proposta di acquisto, lui sarà in ginocchio...». "Gli amici", "in ginocchio"...: il linguaggio cristologico qui diventa cosco- massonico.
Qualche giorno dopo "l’ingegnere", che sembra il personaggio misterioso dei romanzi di Le Carrè, titolo nobile e funzione ignobile, spiega a un don Verzé in partenza: «Quando lei sarà in Brasile ci sarà del fuoco». Come si vede, è un dialogo in argot, allusivo al crimine e alla mafia. E infatti don Verzé indossa i gessati dei mafiosi di una volta, ha la faccia anonima dei veri malacarne, con il cappello che richiama la coppola ma la nega, e forse perché un prete capomafia poteva nascere solo nel Lombardo Veneto, nella terra dei "buli" e dei "bravi", la terra sì del cardinale Borromeo e di Manzoni ma anche della Colonna Infame, delle opere benedette da don Giussani, dell’investimento economico come pietas, del capitalismo dell’Opus dei.
E infatti il titolo del dialogo tra Carlo Maria Martini e don Verzé è ’Siamo tutti nella stessa barca’ (non banca): «Eminenza, posso chiamarla eminente padre?» . E il cardinale: «Chiamami padre Carlo Maria Martini». Don Verzé recita la parte del piccolo uomo davanti al santo: «Amore, verità, libertà di scelta». È un libro tutto compunzione e incenso. Il cardinale lo lodae lo legittima: «Nessuno meglio di lei...», «capisco la sua posizione, don Luigi», «comprendo i suoi sentimenti», «trovo bella questa sua espressione». A quel tempo don Verzé è già chiacchierato ma molto potente, nessuno immagina che organizza attentati e distribuisce mazzette e che i suoi ospedali sono fondati su una corruzione enorme, ma certo i suoi lussi sono già evidenti, le sue spese folli non passano inosservate, i suoi uomini gestiscono misteriose società in mezzo mondo, dal Sudamerica alla Svizzera, hanno conti correnti i dappertutto, e don Verzé ha comprato un aereo e ne prenota un altro e tratta una intera flotta perché non vuole perdere tempo negli aeroporti, e tutti sanno che l’aereo è l’arma principe dei malavitosi e dei guerrieri.
Inoltre don Verzé non parla come un Marcinkus alle prese con la volatilità della finanza ma come un capobastone, un campiere che controlla il territorio: «La Moratti, l’ho convinta io a fare il sindaco», «il cardinale Tettamanzi l’ho fatto venire io a Milano» e Formigoni, che il faccendiere di don Verzé ospita nel suo yacht, è sotto controllo perché «l’abbiamo salvato noi». E Berlusconi «dono di Dio» è «legatissimo alla famiglia», anche se, «ha fatto qualche giro di valzer». Ecco: Dio non s i cura del sesso quando si fanno affari. Perché appunto il verbo si è fatto carne.
Ma non bisogna credere che don Verzé sia un ateo mascherato e che tutto quei suoi libri di dottrina siano solo copertura. È al contrario un devoto in missione mafiosa per conto di Dio perché le vie della provvidenza sono infinite e se c’è la necessità di un attentato, beh, Dio non è certo un moralista.
Don Verzé è come quei preti medievali che, convinti di essere illuminati dalla grazia, commettevano in nome di Dio ogni nefandezza, vivevano a statuto speciale, in sospensione dei peccati, in deroga. Del resto don Verzé non ha sedotto solo il cardinale Martini e tutta la credula Milano cattolica.
Come ogni rispettabile padrino aveva bisogno della copertura laica e dunque l’ha ingaggiata. Massimo Cacciari ed Ernesto Galli della Loggia sono due intelligenze di prima grandezza nella cultura italiana, di quelli che braccano e scovano e mettono alla gogna i vizi del paese, uno come grande vedetta lombarda e l’altro come doge dei mari del sapere, callido Ulisse di Venezia: «mio carissimo amico dell’anima» dice don Verzé. Eppure anche loro sono stati impaniati, sono caduti nella panie dell’imprenditore in Cristo, del Christusunternehmer, avrebbe detto Cacciari se non fosse stato professore e rettore della sua università. Anche il facondo Vendola, quello che scioglie in bocca le parole come caramelle ideologiche, non ha mai avvertito nel comparaggio per l’ospedale a Taranto il sentore dell’imbroglione in Cristo, e gli ha invece fornito la legittimazione della sua pregiata griffe di sinistra.
Vaticano, cultura laica e sinistra comunista: nessun mafioso siciliano era riuscito a superare tutti questi livelli. Con don Verzé siamo ben oltre i colletti bianchi.
E certo la Chiesa se fosse coerente dovrebbe scomunicarlo come scomunicò quei quattro frati di Mazzarino che, unico caso nella storia della mafia, taglieggiavano i contadini, facevano caporalato, decidevano vita e morte, controllavano il territorio: trasformarono il loro convento in un covo di prepotenza. E quando, era il 1960, furono processati, turbarono gli animi degli italiani al punto che gli stessi giudici ebbero soggezione e si misero a somministrare gli ergastoli come fossero sacramenti. Ma la Chiesa - pensate, la Chiesa complice di allora - non ebbe pietà per quei sai sporcati e per quella mania di fra bruciare i terreni, proprio come ha fatto don Verzé, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
FRANCESCO MERLO
* la Repubblica, 02 dicembre 2011
IL PAESE DELLA CORRUZIONE
di don Aldo Antonelli
"Il tiranno non sarà più, sparirà il beffardo, saranno eliminati quanti tramano iniquità, quanti con la parola rendono colpevoli gli altri, quanti alla porta tendono tranelli al giudice e rovinano il giusto per un nulla". Mentre leggevo queste parole da sogno, il sogno di Dio che dovrebbe essere il nostro sogno, sentivo l’eco di un altro, diverso grido d’allarme che mi ripiombava nel girone infernale di questa Italia schienata. Dal giornale di stamane apprendo che noi italiani siamo al sessantanovesimo posto nella graduatoria di 182 Paesi per corruzzione, quartultimi in Europa, appena prima dei Greci, dei Rumeni e dei Bulgari!
In compenso abbiamo un territorio disseminato di chiese e conventi, santuari e monasteri.
Siamo pieni di preti e di monache. Abbiamo monsignori e cardinali ed anche il Papa.
E la maggior parte dei santi sono tutti italiani. E meniamo il vanto di "radici cristiane"!
Donde quindi tanta feccia?
Premier corrotti e corruttori, parlamentari ladri e profittatori, amministratori collusi quando non mafiosi.
Preti pedofili e monache maniache. Ciellini affaristi e cattolici razzisti.
Qualcosa non quadra.
O Dio è diventato cieco o noi siamo diventati sordi!
Aldo
Scandali, affari e misteri
Tutti i segreti dello IOR
L’Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano. In deposito 5 miliardi di euro. Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli. E segretezza totale.
di Curzio Maltese (la Repubblica, sabato 26 gennaio 2008)
La chiesa cattolica è l’unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, «sterco del diavolo». Vangelo secondo Matteo: «E’ più facile che un cammello passi nella cruna dell’ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Ma è anche l’unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l’Istituto Opere Religiose. La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all’interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l’importanza. All’interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell’ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia «qualcuno ha avuto problemi con la giustizia», rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l’istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d’assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d’oro. Nessuna traccia.
Da vent’anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 250 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l’avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall’America al portone di casa.
Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull’improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l’ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l’uomo che aveva salvato Paolo VI dall’attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l’Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.
Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un’intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell’Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d’arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l’ extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche «una vittima», anzi «un’ingenua vittima».
Dal 1989, con l’arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all’esterno quanto ostacolato all’interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). «Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto». A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l’oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, «più vicino al cielo». I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: «Un’aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest’ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi».
La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l’ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent’anni. Da Tangentopoli alle stragi del ’93 alla scalata dei «furbetti» e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l’ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.
L’autunno de 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: «Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...». Il fatto è che una parte considerevole della «madre di tutte le tangenti», per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell’inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. «Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all’Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d’urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!». La risposta sarà di poche ma definitive righe: «Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale». I magistrati del pool valutano l’ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto «ente fondante della Città del Vaticano», è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola.
In compenso l’effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull’opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: «Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro».
Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell’Utri. In video-conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che «Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano». «Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione». Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche.
Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un’ipotesi. «Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma». Mannoia non è uno qualsiasi. E’ secondo Giovanni Falcone «il più attendibile dei collaboratori di giustizia», per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell’Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell’Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: «Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?».
Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell’anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: «Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro». Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l’elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: «I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M’ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero». Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell’incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della Congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: «Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male».
Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all’ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del «complotto politico» contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l’appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell’ex governatore con Maria Cristina Rosati. Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell’Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E’ difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.
Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell’azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l’ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).
Con l’immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l’ultima puntata dell’inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L’epoca Marcinkus è archiviata ma l’opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la città del Vaticano è di gran lunga lo «stato più ricco del mondo», come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell’unica inchiesta di un’autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più jointventure con partner Usa per 273 milioni.
Nessuna autorità italiana ha mai avviato un’inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la «finanza bianca» ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell’Opus Dei. In un’Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.
(Gli altri articoli dell’inchiesta, che il Card. Bertone, Segretario di Stato del Vaticano, ha invano chiesto di bloccare, si trovano all’indirizzo http://www.repubblica.it/speciale/2007/curzio_maltese/index.html?ref=hppro )