Studio Gb: esaminate tutte le pubblicazioni scandalistiche inglesi di 300 anni fa.
Il genere aveva un ampio seguito in tutte le classi sociali. E nessuno se ne vergognava
Il porno-gossip? Popolarissimo già nella Londra del Settecento
LONDRA - Tutti i particolari, anche quelli più intimi, di un divorzio celebre. Adulteri, tresche, amanti segreti, figli illegittimi. Perversioni e scandali dei potenti. Il gusto per il gossip, che riempie pagine e pagine dei nostri giornali, era già popolarissimo nel ’700 britannico, quando gli antenati degli odierni tabloid erano molto amati e seguiti da un ampio pubblico.
A dimostrarlo è una ricerca pionieristica, durata tre anni e condotta all’Università di Leeds dalla dottoressa Jenny Skipp, trasformatasi poi in una tesi di dottorato, in cui l’autrice ha studiato e catalogato ogni testo erotico e scandalistico noto pubblicato nel 18esimo secolo in Gran Bretagna.
L’analisi rivela subito che il genere era molto diffuso e fiorente già trecento anni fa. E uno degli esempi più caratteristici erano le trascrizioni dei processi per adulterio che solleticavano fantasie e pettegolezzi nel popolo. Per convincere il tribunale, gli atti dovevano essere particolarmente dettagliati. Da qui la loro immediata popolarità, che suscitava una attenzione morbosa, voyeuristica, da parte del pubblico quasi esclusivamente maschile. Che, come ha scoperto la dottoressa Skipp, aveva a disposizione un’offerta molto ampia, completa di libri, pamphlet e produzioni più effimere, usa e getta.
"Nel 18esimo secolo erano interessati quanto noi alle figure pubbliche, specialmente ai loro scheletri negli armadi", dice la dottoressa Skipp. E contrariamente a quanto si pensava fino ad oggi, il filone porno-scandalistico non era confinato alle quattro mura domestiche per uso esclusivamente privato, ma aveva una dimensione sociale: era oggetto di discussioni anche nei locali pubblici. Al pub o nei caffé si tiravano fuori i testi per dibatterne in gruppo, tanto che le pubblicazioni, come rivela la ricerca, erano corredate da domande e risposte pensate proprio per una sorta di gioco di società collettivo.
Un’altra sorpresa riguarda le dimensioni e caratteristiche del genere: che non era solo destinato alle classi benestanti, ma offriva una abbondante produzione economica e poco sofisticata, "tagliata" apposta per le classi più popolari: e tutti, dai mercanti ai professionisti, ai semplici operai, ne erano avidi lettori. Altro dato questo che - sottolinea l’autrice - getta una nuova luce sul livello di alfabetizzazione dell’epoca. Anche se nelle classi più povere moltissimi erano considerati analfabeti perché non sapevano scrivere, con ogni probabilità erano però in grado di leggere. "Erano molte di più le persone che sapevano leggere e non scrivere" dice Skipp. In quel periodo, "ad esempio a Londra il 70 per cento degli uomini era in grado di leggere" spiega ancora.
Soggetti d’eccellenza del porno-gossip erano donne "perdute", prostitute e cortigiane. Ma ai livelli più alti non mancano le sorprese in queste pubblicazioni, con descrizioni piene di ironia e ricche di riferimenti alla società contemporanea. "Erano molto diversi dalla produzione erotica di oggi - spiega ancora la dottoressa Skipp: ricche di umorismo, più letterarie e più impegnate nei grandi temi della vita e della politica".
* la Repubblica, 24 marzo 2007
"È possibile che l’uomo nell’interezza della sua realtà concreta e quindi nella sua sessualità, nel desiderio, nel godimento, sia immagine di un Dio trascendente?". La domanda è ardita, tanto più se ci si situa nell’ambito della fede cristiana e se si tiene conto del fatto che la Chiesa cattolica è sessuofobica da quasi due millenni.
Dobbiamo infatti soprattutto a S. Agostino d’Ippona (354-430 d.C.) una concezione negativa e peccaminosa della sessualità umana, se è vero come è vero che nei Soliloquia è arrivato a scrivere: "Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca lo spirito dell’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio". Sempre, tuttavia, nella storia della Chiesa, qualcuno ha osato dire e manifestare che attraverso il piacere l’uomo può cogliere qualcosa di Dio, che il godimento sessuale è riflesso e immagine, realizzazione ed esperienza del godimento infinito che è in Dio. Si è trattato di voci isolate o è possibile rifarsi ad una tradizione scritta e orale che, nei secoli, ha diffuso una visione positiva, serena e quasi trascendente della sessualità?
A questo interrogativo intende rispondere il libro di Maria Caterina Jacobelli Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale (Brescia, Queriniana, 2004), pubblicato per la prima volta nel 1990, con prefazione di Alfondo Di Nola, e giunto ormai alla quarta edizione. Attraverso la sua conoscenza ad ampio spettro del tema, l’autrice parte dall’analisi storica di un fenomeno assai diffuso nell’Europa del Nord intorno al ’500, ma testimoniato per più di 1100 anni un po’ ovunque nella Chiesa: il Risus paschalis, da cui l’opera prende il titolo.
Si trattava di una tradizione secondo la quale, la mattina di Pasqua, il celebrante - per rendere più evidente il passaggio dalla tristezza della Quaresima alla gioia del tempo pasquale - cercava di far ridere il popolo radunato in chiesa mediante il turpiloquio e la messa in scena di atti impertinenti o addirittura osceni. Partendo dalla descrizione di questo fenomeno la teologa dimostra, con argomenti irrefutabili, che "sia la liturgia ebraica che quella cristiana hanno usato ed usano il piacere sessuale come linguaggio per cantare la gioia di pasqua". Da qui prende le mosse una valutazione teologica della sessualità e del piacere sessuale come luogo di esperienza del godimento infinito di Dio.
Il punto di partenza è, ovviamente, la Scrittura e in particolar modo la narrazione della creazione dell’uomo e della donna. Si passa poi al Cantico dei Cantici e a tutte le metafore "amorose" usate dai profeti e dagli scrittori sacri per descrivere il rapporto di Dio con l’umanità. Ciò che emerge in modo limpido e senza possibilità di fraintendimenti è che il piacere sessuale ha in sé una scintilla del divino ed è una partecipazione all’essere stesso di Dio.
Ampio spazio è riservato poi a S. Tommaso d’Aquino, illuminato dottore della Chiesa, e alla sua Summa, luogo in cui è disvelata l’intrinseca bontà della creatura umana e della sua ricerca del piacere. Ne sgorga un’etica nuova del piacere, del godimento, del "ridere". La conclusione è un augurio: "possa ogni rapporto sessuale compiuto nel godimento dell’amore, rendere l’uomo - creato maschio e femmina - sempre più profondamente immagine di Dio".
[1] Maria Caterina Jacobelli, Il risus Paschalis. Il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana, 1991 (da Adista notizie, n°49 del 3 luglio 2004, www.adista.it ).
Risus paschalis: le barzellette oscene dei preti
Quante risate alla messa di Pasqua.
di Arnaldo Casali (Festival del Medioevo->https://www.festivaldelmedioevo.it/portal/risus-paschalis-le-barzellette-oscene-dei-preti/])
Barzellette, battute oscene, satira, imitazioni, parodie e travestimenti hanno caratterizzato per secoli il momento più solenne e sacro della vita cristiana: la liturgia delle liturgie, quella che celebra la Resurrezione di Cristo di cui ogni domenica dell’anno fa memoria. E tutto questo accadeva per iniziativa dei preti e con l’autorizzazione ufficiale del Vaticano, nell’epoca più “buia” e seriosa - almeno stando ai luoghi comuni - della storia dell’umanità: il Medioevo. E non solo: perché il risus paschalis, ampiamente attestato in molte chiese cattoliche a partire dal XIII secolo, è durato per secoli, arrivando fino alle soglie del Novecento.
Il fenomeno è stato studiato approfonditamente dalla teologa e antropologa Maria Caterina Jacobelli, che ne ha fatto il punto di partenza per una riflessione sul fondamento teologico del piacere sessuale.
Lo studio della Jacobelli - pubblicato dalla Queriniana - prende le mosse da una testimonianza risalente alla Germania del 1518: si tratta di una lettera di tale Wolfgang Capito diretta a un certo Candido, a cui viene acclusa un’altra lettera di Giovanni Ecolampadio, diretta allo stesso Capito. Ecolampadio viene criticato perché contrario al risus paschalis, che invece Capito difende, adducendo come motivazione il fatto che “altrimenti i predicatori parlerebbero in templi vuoti. Il volgo, infatti, è talmente privo di giudizio, che ascolta soprattutto quel predicatore che eccita la gente con parole sconce o facendo il buffone sfacciato”.
Nelle sue linee essenziali si tratta di questo: la mattina di Pasqua, durante la messa della risurrezione, il predicatore suscitava il riso dei fedeli con ogni mezzo, ma soprattutto con gesti e parole in cui era predominante la componente oscena. Tra i vari sistemi che il predicatore adottava per far ridere l’assemblea, c’erano l’imitazione di animali e di personaggi grotteschi, ma anche quello di far entrare in chiesa laici vestiti da sacerdoti, racconti di barzellette, gesti irriverenti, parole senza senso o sconce, offese al pudore, mimo di atti sessuali, comportamenti onanistici.
Il risus paschalis, spiega la Jacobelli, era fortemente radicato nella cultura cristiana, tanto da essere difeso dai teologi e persino dai vescovi, e da essere utilizzato - dopo la Riforma - sia dai protestanti che dai cattolici, che lo usavano anche per schernirsi a vicenda.
L’uso di far ridere da parte del sacerdote durante la messa è attestato a partire dall’anno 852, quando Incmaro vescovo di Reims mette in guardia i propri sacerdoti proprio da comportamenti scurrili e troppo ilari in chiesa. Anche Dante nella Commedia testimonia questi usi già molto diffusi nella Firenze del Trecento, mentre la prima testimonianza del vero e proprio risus paschalis risale al 1209, quando il Concilio Avernionense stabilisce che nelle vigilie dei santi non si facciano nelle chiese balletti di saltimbanchi, gesti osceni, balli, né si recitino poesie d’amore o canzoni amorose.
La “mappa” del risus paschalis è quindi vastissima, sia a livello geografico che cronologico. Lo troviamo in Germania, Spagna, Sicilia, Firenze, Basilea, Reims, regioni danubiane, praticamente in tutta Europa, a partire dal basso Medioevo fino all’epoca contemporanea. L’ultima attestazione risale al 1917, in Puglia: anche le caratteristiche sono sempre le stesse: rappresentazioni comiche, l’uso di far vestire dei bambini da vescovo, l’apologia del mangiar bene, gesti connessi alla sensualità e al piacere nel luogo e nel momento sacro e da parte del sacerdote o del predicatore con lo scopo di divertire e intrattenere l’assemblea.
Con il passare dei secoli il risus paschalis perde i suoi caratteri più scurrili, restando però sempre tributario della sfera sessuale. Quanto sia radicato e accettato nella Chiesa è testimoniato dal fatto che alcuni di questi racconti scherzosi furono anche stampati in un manuale ad uso dei predicatori che ottenne persino l’imprimatur della Chiesa cattolica. Ci sono, ovviamente, anche teologi e sacerdoti contrari. Erasmo di Rotterdam definisce “la cosa più vergognosa che ci sia” il fatto che nelle feste di Pasqua “alcuni provochino al riso la gente, secondo il desiderio del popolo, con racconti palesemente inventati e il più delle volte osceni, tali che neppure in un convivio un uomo onesto potrebbe ripeterli senza vergognarsi”. Erasmo sottolinea anche che non è “in nessun modo il salmo pasquale a invitare a questo genere di allegria quando dice: “Hic est dies quem fecit dominus, exultemus et laetemur in eo”.
L’Albero della Fecondità, il celebre e particolare affresco medievale che si trova sulla grande parete delle Fonti dell’Abbondanza a Massa Marittima. Si tratta di un affresco del 1265 che raffigura un albero da cui pendono, come enormi frutti, decine di falli. Ai piedi della pianta una folla di donne sta in attesa che cadano, due di loro si accapigliano contendendosene uno
Se Erasmo sente il dovere di fare questa precisazione è perché, evidentemente, questa forma di umorismo era stata legittimata anche da un punto di vista teologico, anche se la motivazione più addotta era che fosse l’unico modo per trattenere la gente in chiesa senza annoiarla.
Nel giorno di Pasqua, infatti, non è considerato opportuno che il predicatore sia troppo serio. È interessante notare come una sorta di risus paschalis sia presente anche nella religione ebraica: nella tradizione rabbinica esistono infatti una serie di scherzi e giochi che il predicatore inserisce nel commento per divertire il pubblico, che altrimenti sarebbe annoiato. Questa parentela con la tradizione rabbinica confermerebbe il fatto che funzione del risus paschalis non sia quella di spiegare misteri, bensì di esilarare l’uditorio.
Secondo la Jacobelli, però, che non fa cenno alla tradizione rabbinica, non si può ridurre questo rituale ad una forma di “intrattenimento” dell’assemblea; non può essere un caso, d’altra parte, il fatto che questo riso sia legato alla gioia della risurrezione e rappresenti quindi anche una valvola di sfogo dopo il lungo e triste periodo quaresimale. Joseph Ratzinger la considera “una forma superficiale e primitiva di gioia cristiana”. “Ma non è forse splendido - spiega il futuro papa - e perfettamente in sintonia che il riso sia diventato simbolo liturgico?”.
Il risus paschalis rappresenterebbe allora un modo - degenerato - di esprimere la gioia per la vittoria di Cristo sul diavolo.
La Jacobelli sottolinea anche il legame del riso con il piacere sessuale, notando come sia collegato alla nascita e propiziatorio della morte. Il riso è simbolo di pienezza di vita, non a caso lo stesso nome di Isacco, il padre di Giacobbe-Israele, è connesso con il riso, e attraverso numerosi miti e fiabe di popoli diversissimi appare un’idea fondamentale: il riso è proprio dell’uomo, di colui che è vivente. Chi ride dimostra di essere vivo: non a caso in polacco esiste un modo di dire che suona come: “Perché ridi? sei vivo?” (“Dlaczego się śmiejesz, żywy jesteś?”).
Il riso stesso assume una valenza salvifica, e a questo proposito l’autrice ricorda una serie di leggende nelle culture più antiche. Il risus paschalis rappresenterebbe quindi il trionfo della vita sulla morte, anche se espresso con forme degenerate, proprio a causa della secolare condanna del cristianesimo nei confronti della sessualità, della corporeità e, appunto, del riso.