(...) Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo (...)
La bustina di minerva
Ipazziammo!
Il film ’Agorà’ di Amenabar sulla filosofa, matematica e astronoma Ipazia fatta a pezzi dal vescovo Cirillo, ha scatenato una guerra di religione e ha fatto gridare al complotto. Che non c’è
di Umberto Eco (L’Espresso, 30 aprile 2010
È difficile che con il battage pubblicitario e la serie di dibattiti intorno al film ’Agorà’ di Alejandro Amenabar qualcuno non abbia almeno sentito nominare Ipazia. Comunque, per coloro ancora poco informati dei fatti, dirò che all’alba del quinto secolo d. C., in un impero in cui anche l’imperatore ormai è cristiano, in una Alessandria dove si scontrano l’ultima aristocrazia pagana, il nuovo potere religioso rappresentato dal vescovo Cirillo e una vasta comunità ebraica, vive e insegna Ipazia, filosofa neoplatonica, matematica e astronoma, bellissima (si diceva) e idolatrata dai suoi allievi. Una banda di parabalani, talebani cristiani dell’epoca, milizia personale del vescovo Cirillo, si scaglia su Ipazia e la fa letteralmente a pezzi.
Di Ipazia non rimangono opere (forse Cirillo le ha fatte distruggere), e pochissime testimonianze, vuoi cristiane che pagane. Tutte più o meno ammettono che Cirillo qualche responsabilità ce l’aveva. A lungo Ipazia cade nel dimenticatoio, sinché viene rivalutata dal Seicento in avanti, e particolarmente dagli illuministi, come martire del libero pensiero, celebrata da Gibbon, Voltaire, Diderot, Nerval, Leopardi, e via via sino a Proust e a Luzi, sino che diventa icona del femminismo.
Il film non è certo tenero coi cristiani e con Cirillo (anche se non cela le violenze dei pagani e degli ebrei) e si è subito diffusa la voce che le forze oscure della reazione in agguato stessero per impedirne la circolazione in Italia, così che era partita una sottoscrizione di migliaia di firme. Per quello che ho capito, la distribuzione italiana era piuttosto esitante a far circolare un film che forse avrebbe suscitato forti opposizioni da parte cattolica, compromettendone la circolazione, ma quelle firme l’hanno decisa a tentare l’avventura. Ma non è del film che voglio occuparmi (filmicamente ben fatto, malgrado alcuni vistosi anacronismi) bensì della sindrome del complotto che ha scatenato.
Navigando per Internet ho trovato attacchi cattolici, in cui si protestava contro chi voleva mostrare solo il lato violento delle religioni (ma il regista ripete che il suo obiettivo polemico era il fondamentalismo di ogni sorta), ma nessuno ha tentato di negare che Cirillo, che non era solo uomo di chiesa ma anche personaggio politico, fosse stato un duro, con gli ebrei come coi pagani. Non è un caso se santo e dottore della chiesa lo ha fatto quasi millecinquecento anni dopo Leone XIII, un papa ossessionato dal nuovo paganesimo rappresentato dalla massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi. Ed è imbarazzante la celebrazione di Cirillo tenuta il 3 ottobre 2007 da papa Ratzinger, il quale loda "la grande energia" del suo governo senza spendere due righe per assolverlo da quell’ombra che la storia ha fatto pesare su di lui.
Cirillo mette a disagio tutti: su Internet trovo Rino Camilleri (già difensore del Sillabo) che a garantire l’innocenza di Cirillo chiama in causa Eusebio di Cesarea. Eccellente testimone, salvo che Eusebio era morto settantacinque anni prima del supplizio di Ipazia e quindi non aveva potuto testimoniare nulla. Dico, se si deve scatenare una guerra di religione, almeno si consulti Wikipedia.
Ma veniamo al complotto: circolano su Internet varie notizie sulla censura attuata (da chi?) per celare lo scandalo Ipazia. Per esempio si denuncia che il volume otto della ’Storia della filosofia greca e romana’ di Giovanni Reale (Bompiani) dedicato al Neoplatonismo, con notizie su Ipazia, sia misteriosamente scomparso dalle librerie. Una telefonata alla Bompiani mi ha chiarito che è vero che di tutta la serie dei dieci volumi gli unici due esauriti (e che quindi saranno ristampati) sono il sette e l’otto, certamente perché toccano argomenti come il ’Corpus Hermeticum’ e alcuni aspetti del neoplatonismo che non interessano solo chi si occupa di filosofia ma arrazzano tutti i dissennati che si impicciano di scienze occulte vero o presunte. Ma poi sono andato a vedere nei miei scaffali questo famigerato volume otto e ho visto che Reale, il quale è uno storico della filosofia e si occupa solo di testi consultabili, mentre di Ipazia non ci è rimasto nulla, dedica a Ipazia sette righe (dico sette) dove si limita a dire il poco che seriamente si sa. E allora perché censurarlo?
Ma la teoria del complotto va oltre e sempre su Internet si dice che sono scomparsi dalle librerie tutti i libri sul neoplatonismo, asineria da far sghignazzare qualsiasi studente del primo anno di filosofia. Insomma, se volete sapere qualche cosa di serio su Ipazia, cercate in linea ’enciclopediadelledonne.it’ con una bella voce di Sylvie Coyaud sul tema e, per qualcosa di più erudito, chiedete a Google ’Silvia Ronchey Ipazia’ e troverete pane (non censurato) per i vostri denti.
Il santo del giorno
Cirillo di Alessandria.
Nell’unione di due nature il fascino del cristianesimo
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 27 giugno 2020)
Un Dio che rimane sé stesso, anche se si “mescola” con l’umanità senza svilirne l’identità profonda: è questo uno dei messaggi più affascinanti e profondi del cristianesimo. Un appello a trovare Dio nel volto del compagno di strada sapendo che comunque Egli rimane il “totalmente altro”. Non è stato facile rendere a parole il complesso concetto teologico delle due nature, umana e divina, unite nella persona di Cristo; una formulazione cui hanno contribuito padri come san Cirillo d’Alessandria, vescovo e dottore della Chiesa. Nato attorno al 370, nel 412 divenne vescovo di Alessandria, comunità che guidò fino alla morte, nel 444. Il confronto teologico vide Cirillo (difensore anche del titolo mariano di “Madre di Dio”) contrapposto soprattutto a Nestorio, la cui dottrina, basata sulla divisione tra le due nature di Cristo, fu condannata dal Concilio di Efeso del 431.
Altri santi. San Sansone, sacerdote (VI sec.); sant’Arialdo di Milano, diacono e martire (XI sec.).
Letture. Lam 2,2.10-14.18-19; Sal 73; Mt 8,5-17.
Ambrosiano. Lv 23,9.15-22; Sal 96 (97); Rm 14,13-15,2; Lc 11,37-42.
UN GIARDINO PER IPAZIA: MEGLIO TARDI CHE MAI *
Finanlamente dopo secoli di oblio, una piazza, o meglio un giardino, verrà dedicato a Ipàzia (Alessandria d’Egitto, 415) che considerata la prima matematica, astronoma e filosofa della greca antica. La sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto composta di monaci detti parabolani guidati dal Vescovo Cirillo di Alessandra, peraltro poi fatto Santo, che non vedevano di buon occhio una donna dedicarsi a materie allora ritenute prettamente "maschili".
Il Comitato “Una Piazza per Ipazia”, costituitosi a seguito della raccolta firme lanciata dalla sezione ANPI Trullo-Magliana nel dicembre 2014, e promotore della richiesta di intitolazione di una Piazza o Giardino alla filosofa neoplatonica e filomate Ipazia d’Alessandria comunica che è stata finalmente apposta dalla toponomastica di Roma Capitale la targa, in zona Tor Sapienza, che intitola un giardino ad “Ipazia d’Alessandria”.
"Abbiamo più volte sottolineato - spiega il comitato - come Ipazia sia di grande attualità per i significati che veicola la sua singolare esistenza: vittima del fondamentalismo religioso ma anche esempio di donna integerrima, studiosa, scienziata, divulgatrice di conoscenza".
"È per noi significativa in quanto simbolo di una resistenza morale e non violenta all’ordine dominante al quale rispose con il rifiuto di sottomettersi docilmente alla costrizione. Tale rifiuto legandosi all’impegno positivo di difendere valori fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà assume la veste dell’affermazione. Da uno degli allievi di Ipazia, Sinesio di Cirene, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto utilizzava la sperimentazione pratica, Fermat la definì ’la meraviglia del suo secolo’."
"Ci auguriamo - conclude il comitato - che il riconoscimento attribuitole con la dedica di un giardino nella nostra città possa essere uno stimolo per restituirle la visibilità che merita per, parafrasando Sinesio, “tenere desti i semi di sapienza da lei ricevuti”.
Per celebrare l’intitolazione il comitato si farà promotore della cerimonia che si terrà nel Giardino Ipazia d’Alessiandria, in data da definire".
* Comitato “Una Piazza per Ipazia” (ANPI Trullo - Magliana Sez. “F.Bartolini”; Ipazia ImmaginePensiero onlus;Donne di Carta; Associazione Filomati-Philomates Associaton; Associazione Toponomastica Femminile; G.A.MA. DI; UDI Monteverde; Circolo UAAR Roma , Civiltà Laica Roma, Adriano Petta.)
* Fonte: Gravità-Zero, domenica 7 agosto 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Letteratura
Ipazia, maestra del dubbio
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 05.08.2016)
L’età cruciale per diventare dogmatici e intolleranti oppure, al contrario, persone aperte, amanti del dialogo e della pluralità dei punti di vista è l’adolescenza. Una serie infinita di studi sullo sviluppo del cervello umano lo dimostra.
La regista e scrittrice Roberta Torre però, con il suo libro dedicato a Ipazia e la musica dei pianeti - edito da rueBallu nella collana Jeunesse ottopiù, cioè per bambini di più di otto anni, vincitrice del Premio Andersen 2016 come miglior progetto editoriale - ci ricorda implicitamente quanto sia bene cominciare presto a preparare il nostro cervello all’apertura mentale e al pensiero critico. E che cosa c’è di meglio di una scienziata di epoca alessandrina, che sembra anticipare l’approccio fallibilista di Karl Popper, per raccontare una bella storia, attualissima in tempi di Isis, in cui i cattivi sono i fondamentalisti e i buoni sono coloro che socraticamente sanno di non sapere? Solo loro potranno elevare il dubbio a metodo rigoroso, individuando l’unica via percorribile per arrivare alla conoscenza.
Ipazia è stata una martire. Non una martire cistiana, però, bensì una martire uccisa dai cristiani. «A uccidermi - dice in questo racconto, splendidamente illustrato da Pia Valentinis - sono state le persone. Parabolani li chiamavano, dei monaci del deserto, guerrieri, pronti a uccidere per Dio, o meglio per quello che altri uomini più furbi indicavano loro circa il volere di Dio. Che una donna non fosse degna, di insegnare, di parlare, di pensare».
E Ipazia, proprio come Socrate, amava insegnare ovunque le capitasse: «Per strada, alle persone qualsiasi, a chiunque incontrassi e volesse sapere qualcosa sui filosofi del passato, sulle loro idee. Indossavo il mio mantello e uscivo per le vie di Alessandria. Ecco quello che mi manca della vita...». Sì perché il racconto è ambientato in una specie di oltretomba spaziale. Camilla, un’astronauta che ha appena compiuto vent’anni, atterra su un asteroide per fare una serie di rilevazioni da mandare alla base. In realtà non ha pensieri scientifici, come i buchi neri o i limiti della galassia, ma passa il suo tempo ad ascoltare musica rock con gli auricolari. È lì che Ipazia ora passa i suoi giorni. Ne nasce un dialogo, costellato dalle vicende che la videro protagonista nell’Alessandria del quarto secolo dopo Cristo.
Ipazia è una delle poche donne filosofo della storia occidentale, e a quei tempi essere filosofi significava occuparsi anche e soprattutto di astronomia, di matematica, geometria, di tutte le arti liberali. Perfezionò l’astrolabio di Ipparco e insegnò alla scuola della Biblioteca di Alessandria, prima che questa subisse l’ennesima distruzione da parte dei cristiani in lotta contro i seguaci di Serapide, motivati dalla politica loro favorevole dell’imperatore cristiano Teodosio.
Ipazia è divenuta celebre per avere criticato il sistema tolemaico e difeso l’eliocentrismo di Aristarco, se è vero ciò che scrive il suo allievo prediletto, Sinesio. L’opera di Tolomeo non era da considerarsi, agli occhi degli studiosi di Alessandria, definitiva e inattaccabile, ma popperianamente falsificabile.
La filosofia neoplatonica di cui la maestra Ipazia nutriva i suoi discepoli - un neoplatonismo che prendeva le distanze dagli eccessi teologici delle scuole orientali ed era invece improntato più al modello ateniese - li educava al rispetto della pluralità delle ipotesi e alla ricerca della verità.
Ipazia fu massacrata in modo barbaro e violento. Furono i cristiani a ucciderla. Forse perché i suoi insegnamenti astronomici erano visti con sospetto. Forse perché era una donna. Forse perché era “laica”, libera, in un’età di lotte atroci tra fondamentalismi religiosi.
Alla fine forse proprio questo è ciò che Roberta Torre vuole trasmettere ai bambini dagli otto anni in su - almeno fino ai venti di Camilla, che pur appartenendo a una missione scientifica non sembra essere una campionessa di pensiero critico: - la laicità come elemento essenziale delle persone libere, amanti della conoscenza e della civiltà. La musica dei pianeti può legare la neoplatonica Ipazia alla musica dell’iPod di Camilla ma solo se anche lei, come già Sinesio, saprà abbeverarsi alla scuola del dubbio.
«Forse tutta questa rabbia che hanno nell’affermare il loro credo - dice Ipazia - è un modo per non pensare ai dubbi, che pure devono esserci. Come si fa a non avere dubbi?, dicevo a Sinesio, e lo ripeto anche a te, astronauta. Che cosa bella sono i dubbi, sono degli amici che sembrano nemici, ma in verità ti dico che il nostro compito come studenti è quello di diventare amici dei dubbi».
Lettera immaginaria di Ipazia a Teone
di Antonella Rizzo (29 ottobre 2015)
Padre,
i miei pensieri attraversano le colonne del tempio di Serapide per giungere a te.
Seppur confusi, stipati come gli adorati volumi, in continua ribellione, io li governo tutti. Sono i solchi del tuo viso la spinta alla mia conoscenza e la sorgente madre dove abbevero la mia inquietudine. Siamo materia viva, fatti di involuzioni ed evoluzioni e i pensieri sono ciò che plasma il nostro destino, destinandoci alla vita o alla sopravvivenza. I miei sono di una sostanza incandescente poichè non riuscirò mai a placare il loro moto, forse fuoco vivo nel deserto, ma sono certa che sono architrave e timpano della nostra volontà, così fragile ed effimera.
Credo che il mio tramonto avverrà con le sembianze di uno spicchio di luna intriso di sangue. Che le mie parole non siano veleno per il tuo male, Padre, perché ciò che abbiamo edificato a sostegno della libertà non potrà difendersi dai tempi. Ma saprò sacrificare la mia vita, se necessario, per la verità e la mia scienza. Ho dovuto superare la tormenta dell’invidia, morbo mortale, muro invalicabile che gli uomini di potere hanno eretto per proteggersi da una donna sola con un vecchio padre, rea di conoscere la matematica e la filosofia.
Vedi, Padre, ho scelto la solitudine e l’infertilità per essere madre di tutti e figlia del dubbio che mi tormenta.
Io ho scelto. I miei figli, i miei discepoli mi nutrono con le loro attenzioni, le domande che aspettano bramose un cenno di risposta, l’opposizione alla scoperta che genera altre verità, sono questi i doni continui che mi vengono serviti come offerte agli Dei.
Oggi ti ringrazio ancora una volta di avermi spalancato le porte del cielo perché la tua saggezza non andasse dispersa e di avermi concepito Donna, come Aspasia di Mileto e Diotima di Mantinea. Null’altro potrei volere se non averti a lungo nella mia vita in questo squarcio di notte, mai asservita alla pratica del sonno ma alla contemplazione degli Astri e all’esercizio del pensiero. Quando tace il giorno ciarliero e produttivo qui, nel nostro tempio di antichi papiri di cui siamo indegni custodi, si apre una voragine nella volta celeste.
Ha il colore delle piume dei pavoni e mozza il fiato, Padre, quando lo fisso.
Il tempo diventa luce e la mente è libera dal giogo degli affanni, dalla fatica della pietà giusta verso i buoni servi che rimettono a noi i loro guai. Mi perdo e tutto mi appare comprensibile e umano, ciò che è scritto e ciò che dobbiamo ancora scoprire. La beatitudine del sapere è la vera gioia e l’unica ragione di vita.
Mio grande Teone e padre adorato, grazie alla tua immensa saggezza gli insegnamenti di Platone e di Plotino hanno attraversato il mare burrascoso della storia e tu non hai mortificato la mia natura femminile per rendermi erede dei tuoi saperi. Hai compreso la mia fedeltà alla grande anima dello spirito ellenico di cui i semi sono germogliati nel mio essere, la mia incorruttibile speranza in un mondo governato da filosofi giusti, la mia generosità. E’ immenso il tuo dono e lo amministrerò con tutta la cura possibile. E continuerò ad aprire la nostra casa a tutti coloro vorrano unirsi al nostro cerchio ad apprendere la sacralità della matematica e dell’astronomia.
Padre, io non vedo Ebrei, Cristiani, Pagani ma solo uomini. Il mondo argina a fatica la materia malvagia che sta emergendo ma farò in modo che la nostra casa sia il fulcro della libertà dove verrà avversata ogni forma di crudeltà e di prevaricazione.
Tu ricordi Sinesio, uno dei miei più cari discepoli: egli è cristiano ora, ma sempre a me devoto. Le nostre anime sono in completa comunione, ed egli si rivolge a me grato della luce che porta nel cuore, della sapienza che non conosce religione, o razza alcuna e si fa condurre nella nostra casa ogni volta che le decisioni più gravi lo assillano e lo tormentano. Questo è ciò che ho appreso dal tuo esempio.
So che non temi la morte ma la mia incolumità. Ma io sono qui, a seguire le traiettorie della volta celeste che è infinitamente più grande di ogni paura e a fissarne i meccanismi con foga, senza badare ai bisogni del corpo. Le sue leggi ci mettono in comunicazione con l’immensità del mondo conosciuto e sconfiggono la nostra dipendenza dai manipolatori, dalle religioni che predicano pace e praticano vendetta. Tu mi hai insegnato che la geometria è l’anima delle cose, della giustizia e della bellezza e io ammiro l’opera di Dinocrate ergersi in tutta la sua magnificenza e splendore nella luce incerta del mattino che pone fine al mio peregrinare, e so che la divinità è nell’uomo stesso e nelle sue azioni complesse.
Quello che tu temi, e io più di te, è quell’uragano di forza incontrollata che sta attraversando il nostro tempo. Ciò che avevamo realizzato, un cenacolo di menti votate alla scoperta del cosmo intero e delle leggi che ne regolano i processi, è minacciato dalla furia cieca dei tori nel recinto.
Ebbene, ci sono bestie di tutte le razze nell’arena e ognuna vorrebbe cospargere di sangue il passato che lo ha umiliato. Le loro divinità sono il pretesto per esercitare la tirannia e la bramosia di potere ne è la vera motivazione. Costoro armano eserciti di affamati di cibo e speranza per difendere i loro interessi e mirano alla distruzione del nostro sapere, il nemico più temibile delle loro coscienze.
Ma io, Padre, esco dal nostro tempio e mi rallegro quando sento tirarmi le vesti, chi per un quesito, chi per ringraziarmi dei gratuiti insegnamenti, altri ancora dicono di scorgere un lume di speranza nei miei occhi. Essi si nutrono del fatto che in me non risiede la mendacia e l’inganno, poiché anche coloro che predicavano la liberazione dalle catene ne stanno forgiando delle altre, lavorando alacremente alle incudini .
Alessandria vedrà legionari distruggere le sue mura e i suoi papiri. Per distruggere un uomo occorre distruggere la sua storia, e la libertà capitolerà insieme a tutte le teste mozzate.
Ma io, Ipazia di Alessandria, figlia di Teone, temo solo le tenebre dell’anima e non la fine della mia esistenza.
Scritto da Antonella Rizzo
Questa voce è stata pubblicata in Lilith e il nuovo femminile": storie di donne del passato.
PETIZIONE*
Diretta a Roma Capitale
Questa petizione sarà consegnata a:
Roma Capitale
UNA PIAZZA PER IPAZIA
ANPI Trullo-Magliana Franco Bartolini *
Italia
Ipazia era una donna libera ed una libera pensatrice, simbolo della laicità, del sapere trasmesso per insegnamento e della libera ricerca scientifica, vittima dell’integralismo religioso, dell’opportunismo politico e della violenza dell’uomo sulla donna. Ipazia è stata una figura poliedrica la cui attualità risiede nel fatto che l’essere umano ha da sempre dovuto lottare per la propria libertà e identità.
Ipazia è stata filosofa neo-platonica, astronoma, matematica, nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 360 d.C. Fu l’ultima discepola alessandrina dopo la distruzione della biblioteca e della scuola filosofica di Alessandria voluta dall’imperatore Teodosio nel 391. Ipazia continuò a insegnare e studiare sino al marzo del 415, quando su istigazione del vescovo Cirillo fu catturata dai monaci Parabolani, sue guardie personali e guidate dal vicevescovo Pietro il Lettore, accecata, lapidata, fatta a pezzi e bruciata.
Nel 2015 cade il sedicesimo centenario della sua morte e a Roma manca un luogo, un toponimo che la ricordi è per questo che i seguenti firmatari chiedono che venga intitolata a suo nome una piazza, o in alternativa una strada o altro luogo pubblico.
* PER FIRMARE: vai su -> change.org
Ipazia, maestra di libertà. In ricordo di Margherita Hack
di ALESSANDRO ESPOSITO *
Circa tre anni fa uscì nelle sale cinematografiche italiane il film Agorà, del regista ispano-cileno Alejandro Amenábar: la pellicola racconta la storia, in verità poco nota, di una filosofa, matematica ed astronoma di nome Ipazia, che viveva in Alessandria d’Egitto tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo dell’era volgare.
Da tutti stimata per la sua profonda erudizione e per la sua statura morale, Ipazia si trovò a vivere in un’epoca di delicata transizione: dalla cultura ellenistica alla progressiva affermazione nel bacino mediterraneo del cristianesimo niceno e teodosiano. Alla scuola del pensiero greco Ipazia si era formata, ereditandone l’estrema libertà per tutto ciò che riguardava lo studio delle scienze e dei fenomeni naturali.
Era una ricercatrice, Ipazia: curiosa, intelligente, mai sazia. Si interrogava, dubitava, stilava ipotesi che poi valutava e che, a seconda dei casi, comprovava o confutava. Così le era stato insegnato: il pensiero non conosce limiti nel suo libero esercizio. Va allenato, nutrito, coltivato.
È però consapevole, il pensiero, della sua fallibilità, della necessità di subire trasformazioni costanti alla luce dell’esperienza e delle riflessioni che essa suscita: chi ha imparato la difficile fatica del pensare sa rimettere in discussione convinzioni ed acquisizioni, sa tornare su un ragionamento e verificare dove esso, eventualmente, scricchiola, è disposto a riformulare ipotesi e a ridefinire presunte e sempre provvisorie conclusioni.
Questo è il mondo dal quale proviene Ipazia. Intorno a lei, frattanto, si sviluppa un movimento che, seppur presente già da secoli nella sua città, adesso è in forte ascesa. Li chiamano «cristiani» e vengono da una costola di quell’ebraismo che in Alessandria vanta una tradizione millenaria. Qualcuno di loro è anche suo allievo e segue con diligenza le lezioni di matematica, geometria e astronomia: la convivenza tra cristiani, ebrei e pagani è pacifica, lo studio delle discipline scientifiche è un qualcosa che li accomuna, al di là delle legittime e niente affatto problematiche differenze di credo. Ma qualcosa di nuovo sta accadendo: più in particolare, due cose.
A livello imperiale, la religione cristiana, dapprima perseguitata, è stata in un primo momento tollerata con l’editto di Costantino del 313 e poi, persino, dichiarata «religione ufficiale dell’impero», con l’editto di Teodosio del 380: aveva, insomma, trovato il suo accomodamento con il potere, divenendo, in tal modo, elemento chiave per il controllo sociale e per la repressione del dissenso. Soltanto adesso, infatti, vengono convocati i primi concili ecumenici (Nicea, nel 325 e.v. e Costantinopoli, nel 381), che hanno lo scopo di uniformare la dottrina e di individuare chi se ne discosta, catalogandolo come «eretico».
A livello locale, si afferma in Alessandria un’interpretazione settaria e fondamentalista del cristianesimo, portata avanti da una corrente detta dei «parabolani», del cui appoggio si servirà il vescovo Cirillo per consolidare la sua posizione di potere. Cirillo, in seguito proclamato santo, nonché «padre e dottore della chiesa» (sic!), si distinse per la sua radicale intolleranza: scacciò da Alessandria gli ebrei che vi risiedevano da secoli e combatté ostinatamente ogni manifestazione del libero pensiero.
Pensare in modo indipendente, si sa, rappresenta un rischio agli occhi di chiunque intenda esercitare il potere senza contraddittorio; motivo per cui Cirillo, come attestato in più di una fonte tardo-antica[1], decise di eliminare Ipazia: classico espediente a cui ricorre chi è a corto di argomenti. Ipazia fu dunque vittima di un fanatismo cristiano niente affatto estintosi: ancora oggi sono tutt’altro che inconsueti gli anatemi lanciati contro l’esercizio libero e creativo del pensiero in ambito di fede.
Chi crede, secondo alcuni (ma, ahimè, temo di dover dire: secondo i più), deve anestetizzare la riflessione, bandire la ricerca e reprimere la fantasia: il suo solo compito è quello di obbedire, senza porsi troppi interrogativi, i quali hanno il solo scopo di farci tergiversare e vacillare, e senza lasciarsi attraversare dal dubbio, che dalla fede, a giudizio di costoro, allontana irrimediabilmente. Peccato, però, che chi non dubita e non si interroga non pensi; e questo sembrano volere alcuni: una fede estranea, quando non addirittura contraria, al pensiero Una fede che si traduca in obbedienza cieca e ottusa, in pedissequa ripetizione di quanto non deve in alcun modo essere messo in discussione.
Ipazia non volle ripetere: osò la novità, come l’esito delle sue inesauste ricerche la spingeva a fare, irrimediabilmente e liberamente. Intuì, a quanto sembra, quello che la scienza arrivò a scoprire soltanto mille e duecento anni dopo, con gli studi di Keplero: che fosse la terra a girare intorno al sole e non viceversa, come invece tutta l’astronomia del tempo sosteneva, ritenendola un’acquisizione incontrovertibile. Eppure Ipazia ebbe il coraggio di sfidare quell’evidenza che tanti, accontentandosi, adducevano come prova inconfutabile a sostegno di convinzioni radicatesi nelle menti e nei cuori a suon di ripetizioni e di tesi inculcate.
Per fedeltà all’inviolabilità del libero pensiero fondato sulla ricerca, Ipazia morì, vittima di un fanatismo che propose, come ricetta utile soltanto alla schiavitù delle coscienze, la comodità dell’abitudine, che mette al riparo dalla fatica della riflessione. Per questo non dobbiamo dimenticare: e ti portiamo viva nei cuori, Ipazia, maestra di libertà, prezioso antidoto contro il fanatismo che, ancora, percorre la terra e gli uomini, alimentando quell’ignoranza che tu hai combattuto, consapevole del fatto che essa genera soltanto ottusità e violenza.
A Margherita Hack, maestra di indomita libertà
Alessandro Esposito - pastore valdese
(2 luglio 2013)
NOTE
[1] Rimarcano la responsabilità del vescovo Cirillo nell’omicidio di Ipazia Socrate Scolastico (Historia Ecclesiastica) e Damascio (Vita Isidori). Per un’accurata nota bibliografica rimando al bel volume curato da Silvia Ronchey: Ipazia. La vera storia, Milano, Rizzoli, 2010 ; nonché al volume curato da Adriano Petta e Antonino Colavito : Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, La Lepre edizioni, Firenze, 2009 (prefazione a cura di Margherita Hack)
* Dal blog di Micromega
di Luisa Muraro ("Alias”, 24 dicembre 2011)
Maria di Nazaret (Palestina) è tornata di moda. Dico tornata perché chi sa un po’ di storia religiosa la conosce come una figura che si è regolarmente prestata a interpretare esigenze del momento, provenienti dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra.
La sua carriera comincia prestissimo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino e chiede al figlio di provvedere. Il culmine lo raggiunge nel Concilio di Efeso, quinto secolo, quando i padri conciliari le danno il titolo di madre di Dio. Chi ha lottato per questo risultato?
Sorpresa, quel Cirillo di Alessandria al quale gli storici imputano una parte di responsabilità nell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Cirillo era un politico spregiudicato,ma anche buon teologo. A lui interessava essenzialmente la dottrina su Gesù e la sua identità: doppia (uomo e dio) o una? Una, sosteneva Cirillo, quella divina; il titolo dato a Maria veniva di conseguenza. Non è finita lì, le peripezie continueranno, una storia in cui si trova di tutto, pensate soltanto alla Porta di Gaudí (la natività) nella Sagrada Familia di Barcellona, che fu concepita per recuperare alla religione le famiglie operaie.
La Maria di moda ai nostri giorni trionfa con il femminismo che combatte il patriarcato ancora annidato nella religione. Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico,ma anche le agnostiche si sono dedicate e strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti), che ha convocato una schiera di amici a commentare il canto che Luca mette in bocca a Maria. Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini.
Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni ’80, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso: memorabile quel numero della rivista “Inchiesta” (1989) da lei curato, Il divino concepito da noi, con numerosi testi mariani. Per i nostri giorni penso a Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente. Riaffiora a questo punto il titolo esorbitante dato a Maria dai padri conciliari di Efeso: madre di Dio. E perché non Dio lei stessa? La donna che dà corpo a Dio, come non vedere Dio nel suo, di lei, corpo? Mi pare che ci sia una sentenza dell’ex Sant’Uffizio che vieta di pensarlo, ma come fermare le idee? Solo la mediocrità e la paura fermano le idee, altrimenti premono per svilupparsi.
Teresa di Lisieux (una femminista, qualcuno ha scritto di lei) va in quella direzione. In una sua poesia di meditazione sulla Vergine che allatta Gesù, dice: il serafino contempla Dio faccia a faccia, beato lui, io su questa terra che cosa posso vedere? un’ostia bianca come il latte... Ecco che cosa io posso vedere e godere: il latte della Vergine. Cirillo, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa, aveva altro in testa, indubbiamente, ma la umana testa, per quanto robusta, sarebbe limitata, la fa grande e libera che la teniamo aperta al soffio delle idee.
E i cristiani si armarono
di Lucia Ceci (Saturno, 21 ottobre 2011)
DISTRUGGERE PIETRE, si sa, vuol significare spesso affrancarsi da un intero sistema. Stanno a dimostrarlo immagini che condensano passaggi epocali: l’abbattimento della statua di Stalin a Budapest nell’ottobre 1956, la demolizione di centinaia di immagini di Saddam Hussein in Iraq, il fuoco talebano sui Buddha di Bamiyan.
A sancire uno spartiacque decisivo nella storia del cristianesimo fu la distruzione, nel 391, del Serapeo di Alessandria d’Egitto, il tempio dedicato al dio regolatore delle acque del Nilo, garante della salute dei vivi e del destino dei morti. Ne fece le spese soprattutto la smisurata statua di Serapide, fatta in legno laminato d’oro e d’argento, che i cristiani decapitarono, spaccarono a colpi d’ascia e diedero alle fiamme al cospetto di cittadini increduli. Dal Serapeo la furia devastatrice si estese agli altri templi di Alessandria e di lì a tutte le città dell’Egitto. Una volta profanati, gli spazi sacri vennero decontaminati e convertiti in basiliche.
Dietro la distruzione e la riconversione dei luoghi di culto si celava una battaglia decisiva per ridefinire i confini del sacro e la gestione del particolare potere che esso veicolava. Ma non era una rivoluzione dal basso: a un anno dalla strage di Tessalonica e dalla successiva penitenza cui il vescovo Ambrogio aveva costretto l’imperatore, Teodosio aveva emanato un editto che autorizzava la distruzione dei templi pagani. La croce, simbolo di sofferenza e martirio, si era trasformata in simbolo di potere. Come era stato possibile?
Giovanni Filoramo lo indaga nel denso volume La croce e la spada, che ha per oggetto il «secolo breve»: quel periodo che va dalla conversione di Costantino (312) alla morte di Teodosio (395), in cui si assiste alla trasformazione di un gruppo religioso minoritario in Chiesa di Stato, pronta, dopo essere stata perseguitata, a perseguitare a sua volta nemici interni ed esterni. Il libro ripercorre le tappe di questo itinerario e il contributo dei suoi principali protagonisti: gli imperatori romani da Costantino a Teodosio e i vescovi cristiani da Eusebio ad Agostino.
La svolta decisiva, che riguarda la ricerca di un’ortodossia unitaria e il modo in cui il cristianesimo si rapporta al potere politico, ha luogo sotto Teodosio: col Concilio di Costantinopoli si fissa il dogma trinitario e si impone, grazie all’intervento dell’imperatore, la verità dottrinale uscita vincente dall’assise valida come legge di Stato.
La dissidenza religiosa, di conseguenza, si trasforma in crimen publicum. L’avvio della criminalizzazione dell’eretico apre un capitolo nuovo e funesto nella storia del cristianesimo, quello in cui si può uccidere «in nome di Dio», illuminato nel libro attraverso l’illustrazione dei primi pericolosi segnali di cambiamento: la condanna a morte dell’eretico Priscilliano e l’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Non si trattò solo, per dirla con Edward Gibson, di «intolerant zeal». Né, come hanno sostenuto gli apologeti, di una mera conseguenza della svolta costantiniana.
Nella Chiesa del IV secolo la fede fondata sulla rivelazione di Dio mediante il Figlio mise in moto una duplice, contraddittoria spinta: inclusiva in quanto mirava ad accogliere l’intera umanità, ma anche esclusiva perché la preservazione della «purezza» della comunità portò ad eliminare, oltre all’errore, l’errante.
Giovanni Filoramo, La croce e il potere, Laterza, pagg. 443, • 24,00
Ipazia per sempre
di Silvia Ronchey (La Stampa, 15.11.2010)
A distanza di 15 secoli, Ipazia è ancora una ferita aperta. Dopo il film di Amenábar, Agorà, arrivato la scorsa primavera anche in Italia, vincendo tenaci e prevedibili veti, la tragica eroina del libero pensiero, icona di laicità, è al centro del nuovo libro diSilvia Ronchey, Ipazia. La vera storia (Rizzoli, pp. 319, e19). Filosofa, matematica e astronoma, docente nell’Accademia platonica di Alessandria d’Egitto, dove visse tra il 370 e il 415 d.C., Ipazia fu massacrata, letteralmente fatta a pezzi dal fanatismo della prima Chiesa cristiana locale, e segnatamente del suo patriarca Cirillo.
Era il culmine di un crescendo di intolleranza (è del 391 un altro celebre misfatto, la distruzione del Serapeo), dopo che l’editto di Costantino, nel 313, sembrava aver dischiuso le migliori speranze concedendo ai cristiani la libertà di culto: ma adesso le vittime erano i pagani. Delle opere di Ipazia non è rimasto nulla, e al di là della sua triste sorte ben poco sappiamo di lei: che era aristocratica, in tutto, ed era bella, e i suoi allievi se ne innamoravano, ma venivano inesorabilmente respinti. Silvia Ronchey cerca di ricostruirne l’autentico profilo inserendola nel contesto dell’epoca e degli eventi, in riferimento costante alle fonti antiche (in appendice al testo, la «documentazione ragionata» occupa un centinaio di pagine) e mettendo a confronto le diverse testimonianze di matrice cristiana con quelle pagane, in un racconto non meno godibile che erudito. Ne proponiamo qui le pagine conclusive.
Nel quinto secolo la morte di Ipazia non segna la fine di un’era, ma, come avevano intuito sia Diderot sia Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia muore, ma passa la fiaccola. Il nucleo intellettuale di cui è erroneamente vista come l’«ultima» esponente è in realtà quello da cui germoglierà per undici secoli la fioritura più rigogliosa della cultura bizantina. Dove il paganesimo sopravvivrà non solo, nella sua accezione più alta, nel platonismo filosofico, ma anche nel culto popolare cristiano; dove all’olimpo dell’antico politeismo si sostituiranno il martirologio e il sinassario, alle narrazioni mitologiche le leggende agiografiche, alla selva dei simulacri pagani la folla delle icone.
Il quinto secolo non è l’orlo di un baratro, come spesso ha indotto storici e letterati a credere l’errata percezione del millennio bizantino come «decadenza infinitamente protratta», anche questa ampiamente legata alla propaganda papista. È, invece, l’inizio di un’inversione di tendenza, la vigilia di una rinascita della paideia antica.
La condanna di Cirillo nelle fonti bizantine, contrapposta alla sua difesa nella Roma dei papi, è la cartina al tornasole della persistente volontà di separazione tra Stato e Chiesa che a Bisanzio, Stato laico anche se con religione di Stato, si applicò senza soluzione di continuità.
L’esistenza nel cuore dell’Europa di uno Stato della Chiesa, il cui capo spirituale è anche detentore di un potere temporale, è un unicum storico. Là dove questa anomalia non si è prodotta, non si è avuta interruzione della cultura antica. Lo studio dei testi antichi è continuato, insieme alla tradizione manoscritta e alla trasmissione delle idee, anche se queste potevano talvolta apparire in conflitto con l’ideologia cristiana dominante. La fiaccola di cui Ipazia è stata portatrice non si è spenta, ma molti altri uomini e donne hanno continuato a passarla.
Attraverso di loro, la philosophia di Ipazia, di Sinesio e degli antichi, eclettici o meno, philosophes di Alessandria arriverà al nostro Umanesimo e Rinascimento. E per questo tramite, all’illuminismo e a quelle altre correnti di opinione che hanno spezzato l’omertà della Chiesa occidentale e fatto di Ipazia il simbolo della libertà di pensiero.
Con distorsioni e deformazioni, perché nel mondo occidentale moderno, che non ha conosciuto finora abbastanza Bisanzio, la vicenda di Ipazia poteva difficilmente essere compresa nei suoi corretti termini storici. È stata così attualizzata e adattata ai tempi, come del resto la storia fa sempre, secondo il mai abbastanza citato detto di Croce per cui si fa storia solo del presente.
Ma su un punto non si può non essere concordi: a qualunque cosa Ipazia sia somigliata di più, a una studiosa o a una sacerdotessa, a una composta insegnante o a un’aristocratica eccentrica e trasgressiva; che sia stata giovane o no, che abbia fatto o no davvero innamorare i suoi allievi, che abbia o no - non è escluso - scoperto qualcosa di nuovo; che l’insegnamento iniziatico da lei impartito con tanto successo all’inquieta aristocrazia ellenica offrisse o no già la rivelazione che a un livello alto la teologia platonica inglobava quella cristiana e che gli improbabili dogmi di quest’ultima andavano tollerati, praticando l’arte platonica della «nobile bugia», perché utili al popolo quanto ogni antica superstizione pagana; che sia stata risoluta nello sbarrare il passo all’ingerenza della Chiesa nello Stato e troppo ingombrante nello sfidare la strategia di Cirillo con la sua parrhesia, o che la sua morte sia stata solo un incidente dovuto al subitaneo isterismo di un influente prelato cristiano ottenebrato dall’emulazione e dall’ambizione, oltreché al momentaneo disorientamento di un prefetto augustale romano messo in difficoltà da un vuoto di potere imperiale; in ogni caso, ogni volta che nella storia si ripropone, e si ripropone spesso, il conflitto tra un Cirillo e un’Ipazia, una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia.
IL MESSAGGIO DELL’EVANGELO ... E IL MESSAGGIO DEL VANGELO E DEL "LATINORUM. "Quello che, personalmente, più mi interessa, è cogliere la “tragedia” - non potrei chiamarla diversamente - consistita nel legame stretto stabilitosi tra la Chiesa e l’Impero" (G. Caramore) ...
Dopo duemila anni di e-vangelizzazione (forzata e in-crociata) di una Gerarchia che ha sempre e per lo più identificato "Dio" con "Mammona" e "Cesare" con "Erode", l’"eu-charistia" con l’"eu-carestia", è bene che si torni a riflettere sul comunicare - sull’evangelizzare, sulla Parola, e sul "discernimento", sulla capacità di "conoscenza approfondita, attenta valutazione critica"!!!
Se no, che ce ne facciamo del "pensiero" di persone dalla coscienza accecata dalla voglia di potere universale ("cattolico") e dalla lingua biforcuta, che contabbandano "anima cattolica" come "anima cristiana", "cattolicesimo" come "cristianesimo", la grazia ("charis") dell’amore divino ("charitas") come il "caro-prezzo" ("caritas") del Dio Ricchezza ("Deus caritas est": Benedetto, XVI)?! (Federico La Sala)
Intorno all’“Agorà”. Ipazia, una donna per la libertà
di Gabriella Caramore (Adista - Segni Nuovi - n. 36 del 1 maggio 2010)
La figura di Ipazia - matematica, astronoma e filosofa greca, massacrata nel V sec. dal fanatismo
della prima Chiesa cristiana - continua ad affascinare e a essere oggetto di studio. Ora che la sua
storia, raccontata dal regista Alejandro Almenábar nel film campione d’incassi, “Agorà”, dopo
mesi di ritardo arriva finalmente nelle sale italiane (dal 23 aprile), fioccano le iniziative di
approfondimento.
Un incontro a Roma (Palazzo Mattei, 14 aprile scorso), in collaborazione con
l’Istituto Treccani, ha visto la partecipazione dello storico Luciano Canfora, del filosofo Giulio
Giorello, della giornalista Gabriella Caramore (conduttrice e curatrice della trasmissione
radiofonica “Uomini e Profeti”), e della bizantinista Silvia Ronchey. Di seguito il testo
dell’intervento di Gabriella Caramore.
(...) La storia dell’intreccio tra Chiesa e potere è lunga, lo sappiamo, quasi duemila anni, frastagliata, diversamente composta e ricomposta. Non ho nessuna pretesa di farne qui una sintesi. E inoltre andrebbe ripercorsa sui due fronti: quello della laicità e quello della fede, quello di Cesare e quello di Dio.
Quello che, personalmente, più mi interessa, è cogliere la “tragedia” - non potrei chiamarla diversamente - consistita nel legame stretto stabilitosi tra la Chiesa e l’Impero: la tragedia di una comunità [o più comunità] di dispersi e perseguitati che, aggrappandosi alle vesti ormai a brandelli dell’Impero, ne accoglie e asseconda l’istanza di egemonia e di dominio. Ma, così facendo, nega, cancella e tradisce la parola di libertà e di benedizione per le genti dalla quale era sorta. Nella storia di Ipazia prende forma l’intreccio di un potere religioso e un potere politico che si danno la mano (siamo a quasi un secolo dalla svolta di Costantino) per stroncare la libertà della ricerca e la bellezza della conoscenza.
Naturalmente è doveroso pensare che le cose non siano state così schematiche. Da una parte Chiesa e potere, dall’altra il puro e libero sapere. Molteplici tensioni erano in gioco, poliedrici interessi. (...) Ma quello che colpisce è che il grande passo è stato compiuto: quella che era una ecclesìa di poveri e umiliati, di smarriti e diseredati, di mansueti e fiduciosi nella misericordia di Dio e non nel trionfo del mondo, si mette dalla parte dei potenti, si arroga il diritto di imporre la propria verità, fa valere con la violenza la propria egemonia, baratta con la prepotenza l’umile adesione a una vicenda di sconfitta.
Non dobbiamo essere “manichei” nel giudizio. Sappiamo quale scommessa, quale salto nel buio sia uscire da uno stato di minorità per sopravvivere. Tutti i movimenti sovversivi della storia, nati come movimenti di liberazione, ce lo hanno mostrato. (...) Sappiamo anche che sarebbe troppo semplicistico ribaltare il giudizio di secoli di storia che hanno visto nei grandi padri fondatori della Chiesa - da Ambrogio a Giovanni Crisostomo ad Agostino - delle persone dal retto giudizio sul mondo, ribaltarlo giudicandoli spietati persecutori delle minoranze oppresse. (...) Ma quello che non possiamo non vedere - e che anche la Chiesa di oggi, forse, dovrebbe considerare - è che stringendosi, con un patto, al potere la Chiesa ha vinto nel mondo, ma ha perso nel Regno (se così si può dire).
Tutte le parole dell’Evangelo, e la vicenda stessa della croce, narrano di una vita che deve essere perduta se la si vuole salva (Matteo 16,25; Marco 8,35; Luca 9,24; 16,33); di una opzione per avere la postazione “ultima” nelle graduatorie del potere (Matteo 20,16; Marco 10,31; Luca 13,30); di una adesione ai poveri, agli afflitti, ai miti, a quelli che hanno fame e sete della giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia, agli insultati (Matteo 5,3-11; Luca 6,12-13.20).
Nel momento in cui la Chiesa capovolge questa “logica” di Gesù - che è una logica capovolta rispetto ai valori del mondo -, nel momento in cui si fa “prima” e siede sui troni del potere, in questo momento inizia la sua “crisi”. Non una crisi rispetto alla mondanità, ma una crisi rispetto alla “evangelicità”. Inizia la sua fatica, la sua contraddittorietà, che dura ancora oggi, a vivere nella sequela del Cristo.
Gesù di Nazareth non ha mai taciuto di fronte alla menzogna, non ha mai preteso egemonie, si è lasciato condurre al macello come “pecora muta” senza mai aggrapparsi a poteri mondani. Il cristianesimo - non la cristianità nella sua storia, ma la parola cristiana nella sua sorgività - è una religione della libertà. Gesù ha predicato la libertà dalla menzogna, la libertà dal potere, la libertà dai vincoli familiari, la libertà dall’ossequio al tempio. Sposando l’Impero la Chiesa ha “tradito” questo impegno di libertà e si è immessa in un traiettoria ambigua, di cui stenta a disegnare i contorni.
Di Ipazia si dice che era bellissima, sapiente, capace di scrutare negli spazi stellari, inventrice di strumenti di misurazione e quindi versata nella speculazione e nella sperimentazione, indomabile nell’amore di conoscenza. Non dobbiamo fare l’errore di pensare che fosse l’unica donna sapiente nel suo tempo e nel suo ambiente. E altrettanto sbagliato sarebbe far risalire la misoginia della Chiesa alla fonte evangelica che - nonostante le parole dell’apostolo Paolo, ancora oggi citate a testimonianza di una sottomissione della donna -, testimonia di una straordinaria accoglienza nei confronti dell’universo femminile.
(...) Ma non c’è dubbio che il suo essere donna, sapiente, bellissima era un pericolo troppo grande per l’ottusità, l’arroganza, la menzogna. Era “troppo”, Ipazia. Troppo simbolicamente eversiva, pur nell’assoluta innocuità, troppo vistosamente rappresentativa per non personificare un bottino succulento. Una donna che rifiuta di obbedire senza convinzione. Questo è stato intollerabile.
In un poemetto del 1978, Il Libro di Ipazia, Mario Luzi tratteggia Ipazia con modalità che mi sembra possano corrispondere a quelle di una figura di profezia. Vittima di fanatismi incrociati, martire - testimone - dell’amore per la bellezza e per la conoscenza, per la giustizia e per il sapere.
Profezia è fenomeno che ha avuto espressioni diverse nelle diverse culture. Biblicamente, il profeta è colui che parla la voce di Dio (che parla “al posto” di Dio). Anche il mondo greco ha avuto i suoi profeti, coloro che parlavano con parresìa, con franchezza, in amore di verità, in spregio del pericolo, a costo della loro vita, perché la comunità fosse salva. Ipazia non ha divinità da ascoltare. Parla a nome di se stessa. Nessun dio le appare immune dagli attributi di idolo che l’essere umano gli conferisce. E tuttavia anche Ipazia è in ascolto di una voce che le impone di dire la verità, di fare verità, e di esprimersi in piena e totale libertà. Anche Ipazia, come i profeti, viene fatta selvaggiamente e esemplarmente sparire - sminuzzata, quasi a dimostrare quanto poteva essere calpestata la voce della verità - cercando di sprofondarla nel silenzio. Ma dove le persone tacciono le pietre continuano a gridare (Luca 19,40). E le pietre e i manoscritti bruciati ad Alessandria hanno continuato a gridare. Si è cercato di farli tacere. Più volte. Ma il loro grido è tornato a risuonare.
(...) Se dovessimo dare una parola “moderna” alla tenace insistenza di Ipazia dovremmo usare, credo, la parola “responsabilità”. Fare buon uso - dare una buona risposta - di ciò che ha ricevuto in dono: fare un buon uso, nella prospettiva delle comunità, della sapienza, della bellezza, della conoscenza.
Ipazia è figura del dubbio, della perplessità, della ricerca. Ma la sua storia cade in un momento in cui dubitare è vietato. Occorrono opzioni certe. Occorre scegliere il proprio campo, schierarsi con chi e contro chi combattere. Tutti i poteri totalitari si sono imposti in questo modo. Ma qui, in questo angolo di mondo, in una Alessandria che perde la sua prerogativa di società plurale, ha inizio anche, o si consolida, la monoliticità della Chiesa cristiana. E un mondo che annaspa per non affondare affonda nella barbarie e nella crudeltà per non saper cambiare.
Il fisico Russo
Ma anche Euclide è un classico
[Intervista a c. di Luigi Dell’Aglio] *
Attenzione: la tendenza a dimenticare i classici, a lasciarli morire, sta danneggiando non solo la conoscenza umanistica ma la stessa conoscenza scientifica. Oggi sempre meno studenti sanno dimostrare teoremi e chi abbandona questa antica tradizione domani non sarà in grado di argomentare, cioè di ragionare, avverte Lucio Russo, professore all’Università di Roma Tor Vergata, che ha insegnato in Italia e a Princeton, negli Usa. Russo ha sperimentato personalmente come sia naturale e proficuo un continuo scambio fra i due saperi: ha lavorato diversi anni nella meccanica statistica e nel calcolo delle probabilità, poi nel 1991, affascinato dalla lettura di un classico - il trattato Sui galleggianti di Archimede (anche i grandi libri di scienza sono classici) - è passato d’impulso a studiare storia della scienza, ora il suo principale campo di ricerca.
Professore, storicamente l’"auctor classicus" era quello le cui opere costituivano un tale modello di eccellenza da essere studiate nelle scuole. È giusto che ora vengano isolate ed estromesse?
«I classici sono le opere in cui le idee radicate nella nostra cultura (che spesso finiscono con l’essere assorbite inconsapevolmente e acriticamente) appaiono in forma viva e consapevole. I classici, così intesi, sono fondamentali per la formazione del pensiero. Non perché trasmettano verità e valori perenni, come in genere si dice, ma, al contrario, perché permettono di esaminare criticamente, nella loro genesi, strutture concettuali e valori che ci sono familiari».
Esiste una sufficiente consapevolezza che difendere i classici significa difendere il libero esercizio del pensiero?
«Certo la lettura dei classici non può essere apprezzata da chi preferisce il conformismo e l’adesione passiva ai luoghi comuni. Le prospettive dei classici coincidono quindi in larga misura con quelle della cultura e del pensiero critico. Ora si sta abbassando il livello culturale della scuola e dell’università: queste rischiano di non fornire più né gli strumenti culturali necessari per comprendere i classici, né le motivazioni sufficienti per leggerli».
Oggi conoscenza scientifica e conoscenza umanistica combattono per ampliare (la prima) o per difendere strenuamente (la seconda) la propria sfera di influenza. Come sta cambiando il rapporto di forze tra i due saperi?
«A me sembra che cresca la pressione diretta a ridurre in generale lo spazio del sapere nelle scuole e nella società. L’impressione che la cultura umanistica sia sacrificata a vantaggio della cultura scientifica è un’illusione ottica di cui è vittima chi adotta un particolare punto di vista. Credo piuttosto che le discipline oggi vincenti, che hanno assunto un ruolo centrale nell’organizzazione degli studi, siano le tecniche di marketing e le arti della comunicazione. Il diminuito peso dei "classici" non colpisce solo il sapere umanistico. Tra i classici più importanti includerei gli Elementi di Euclide: l’opera ellenistica che, per ventidue secoli, ha trasmesso i fondamenti del metodo scientifico non solo ai futuri scienziati ma a tutti gli uomini di cultura. Quintiliano, nella Institutio oratoria, sosteneva che non si può diventare oratori se si è digiuni di geometria. A maggior ragione non vi è stato filosofo che non conoscesse il metodo dimostrativo usato in geometria. Oggi nessuno legge più Euclide; nello stesso tempo si sta spegnendo la tradizione di insegnare come si dimostrano i teoremi. Pesanti saranno le conseguenze sulle capacità di argomentare che avranno le nuove generazioni. Mi sembra questo un buon esempio di come sia pericoloso l’abbandono dei classici e di come il fenomeno colpisca in pieno anche le conoscenze scientifiche».
Ma quali teorie alimentano lo scontro?
«Direi che siano oggi vincenti due tendenze solo apparentemente contrapposte, che in realtà rappresentano due facce della stessa medaglia. Da una parte vedo uno scientismo ingenuo che nega la rilevanza di temi, come quelli etici ed epistemologici, non affrontabili con i soli metodi scientifici (ma che non possono neppure essere affrontati ignorando gli strumenti conoscitivi forniti dalla scienza). Dall’altra, un diffuso atteggiamento anti-scientifico. Questo, più che di teorizzazioni esplicite, vive del dilagare dell’ignoranza in materia scientifica, spesso esibita quasi con compiacimento. Mi piacerebbe pensare a un "nuovo umanesimo" che superasse questa contrapposizione recuperando, nell’ambito di una cultura unitaria, un pensiero scientifico critico. Ma non si tratterebbe certo di un umanesimo in conflitto con la scienza».
Dall’umanesimo prende corpo il metodo sperimentale della scienza moderna. Perciò lo scientismo, quando attacca il sapere umanistico e vuole limitarne lo spazio nella scuola, attacca anche Galileo.
«Credo che l’attacco scientista contro l’umanesimo nasca dall’ignoranza e debba essere respinto. È necessario però respingere, nello stesso tempo, una versione anti-scientifica della cultura umanistica, che in Italia ha una lunga e triste tradizione. Per essere più chiaro, penso che non sia esistito un solo umanesimo ma almeno due versioni della cultura umanistica. Una, che penso sia oggi superata, proponeva un modello di cultura (basato su classici come il De oratore di Cicerone) che assegnava una posizione centrale all’eloquenza e mirava soprattutto a formare dirigenti politici. A questi venivano trasmesse le virtù civiche descritte in opere letterarie e storiche latine. Tutt’altra cosa è la cultura di quegli intellettuali del Rinascimento che crearono la civiltà moderna basandola in larga misura sul recupero della filosofia e della scienza dei Greci. A questa cultura dobbiamo non solo capolavori artistici e letterari, ma anche la nascita della scienza galileiana. Si tratta di una cultura realmente unitaria, un approccio di cui abbiamo oggi bisogno anche per affrontare le questioni nuove poste dalla scienza e dalla tecnologia».
Lo scienziato, il tecnologo, il medico non possono agire secondo scienza e coscienza se hanno ricevuto un insegnamento esclusivamente specialistico...
«Sono convinto che la carenza di educazione umanistica avrebbe effetti gravi. Credo, in particolare, che il livello di consapevolezza epistemologica degli scienziati si sia abbassato nell’ultimo secolo, insieme con il livello di cultura filosofica di chi si dedica alla scienza. Se vengono ignorati i classici della scienza e della filosofia, si ridà spazio, tra gli scienziati, a tendenze filosofiche che direi arcaiche, come quelle neopitagoriche. Naturalmente gli eccessi dello "specialismo" non costituiscono un problema delle sole facoltà scientifiche. Mi sembra che le facoltà umanistiche ne siano colpite in misura simile, ma con effetti forse ancora più devastanti, proprio perché l’eccessivo specialismo mina alla base il senso stesso degli studi umanistici. Sarebbe utile e significativo che uno studente di fisica potesse seguire corsi di filosofia, ma mi sembrerebbe addirittura indispensabile, per un futuro studioso di filosofia della scienza o di storia della scienza, seguire corsi scientifici (e oggi può non accadere)».
Luigi Dell’Aglio
* Avvenire, 2010-05-26