[...] «Non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi e occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti fondamentali in alcun modo modificabili» [...]
La rivincita postuma delle idee di Dossetti
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 8 gennaio 2013)
Alcide De Gasperi a parte, nella storia della Dc di questo dopoguerra nessuna personalità ha lasciato una traccia importante come quella di Giuseppe Dossetti (che quest’anno, nel centenario dalla nascita, sarà ricordato con manifestazioni di grande spessore). Forse proprio per il fatto che Dossetti fu un personaggio molto particolare, spesso non in sintonia con importanti settori della Chiesa e del suo partito.
Il 5 marzo del 1949, De Gasperi così gli scriveva: «Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive... ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere... e poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza».
In Vaticano su di lui qualcuno esprimeva forti dubbi. Il 6 luglio di quello stesso 1949, il futuro cardinale Giuseppe Siri, vescovo di Genova, molto ascoltato da Pio XII, si rivolgeva per iscritto a monsignor Ronca, capo del cosiddetto «partito romano», per segnalargli come la corrente «che fa capo all’onorevole Dossetti» avesse queste caratteristiche: «Organizzazione propria e piuttosto fanatica fede in colui che è riguardato ispiratore e capo; azione di punta nel promuovere riforme sociali sulla cui piena giustizia non si è concordi e tutt’altro che sicuri; azione di critica nei confronti del partito e del governo, condotta in quella forma pubblica, spettacolare ed a tinta sabotatrice».
Caratteristiche che rendevano inquieti molti suoi colleghi di partito. Con queste parole il giovane Oscar Luigi Scalfaro si rivolgeva a De Gasperi il 22 luglio 1951: «Ciò che mi ha profondamente addolorato è di sapere (e vorrei così non fosse) che anche lei, presidente, considera ciascuno di noi come un dossettiano travestito, come un cripto dossettiano... mi pare poco bello che ogni critica, per serena che sia, venga conglobata nell’accusa di dossettismo». Per poi aggiungere: «Il sapere domani che una soluzione, pur ritenuta serena e oggettivamente possibile, fosse stata esclusa "per non darla vinta a Dossetti", ci farebbe male e ci costringerebbe a gravi considerazioni e gravi conclusioni».
Dossetti seppe essere ad un tempo uomo politico e uomo di Chiesa come mise ben in evidenza un suo ex seguace, Gianni Baget Bozzo (anche lui prete e uomo politico), in Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti (Vallecchi).
Piero Craveri, nel suo De Gasperi (il Mulino), riporta un appunto del presidente del Consiglio sulla «mentalità dossettiana» definita, nel gennaio del 1950, come «munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive, oltre che di un calore di sentimento e di una abilità di espressione e di manovra non comune, di fronte alla quale mancano nella direzione del partito e dei gruppi uomini forti e altrettanto suggestivi».
Un rilevante personaggio che gli fu ostile, Luigi Gedda, in 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare (Mondadori), lo colloca a capo di coloro che nella Democrazia cristiana «lavoravano per un’intesa con i comunisti».
Nella sua Breve storia del Concilio Vaticano II (il Mulino), Giuseppe Alberigo - che gli fu amico - lo dipinge come teologo «privato» del cardinale Lercaro e racconta di come «avviò una fitta rete di contatti con vescovi e teologi, redigendo e facendo circolare osservazioni sugli schemi preparatori... cosicché l’"officina bolognese" è stata coinvolta in un ininterrotto fiancheggiamento dei lavori conciliari».
A quei tempi la sua «tana» (così la definiva lui stesso) era quella di via della Chiesa Nuova, dove Dossetti e i suoi sodali venivano ospitati da Laura e Pia Portoghesi. Monsignor Attilio Nicora, nelle sue memorie, attribuisce grande importanza a quel «salotto rosso di Chiesa Nuova... dove Einaudi divenne presidente della Repubblica e Giorgio La Pira distribuiva le sue profezie».
Adesso Paolo Pombeni, che di lui si occupa da quarant’anni, in un importante studio in uscita dal Mulino, Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano, torna su quella figura che, scrive, è stata, a suo giudizio, soprattutto nell’ultimo periodo di vita (è morto nel 1996) «assai fagocitata da interpretazioni e strumentalizzazioni politiche più o meno di parte», ma che «poneancora molti problemi interpretativi allo studioso di storia».
Effettivamente Dossetti ha avuto un ruolo di primo piano in questo dopoguerra. Fu uno dei principali artefici della Costituzione; fu l’inventore di Amintore Fanfani, che però entrò nell’empireo della Repubblica staccandosi da lui (con Dossetti, Fanfani intrattenne un complesso rapporto per certi versi simile a quello che, nel secolo precedente, Francesco Crispi aveva avuto con Giuseppe Mazzini); tenne a battesimo una generazione di politici e intellettuali democristiani che avrebbero avuto un grande ruolo nella prima e nella seconda Repubblica (nella seconda - come diremo - ancor più che nella prima); fu, negli anni del centrismo, più che diffidente nei confronti dei partiti laici (anche se ebbe una parte decisiva nel far salire al Quirinale Luigi Einaudi); avversò quelli che molti anni dopo sarebbero stati definiti i «poteri forti» e successivamente nutrì scarsa simpatia per l’avventura referendaria dei radicali; ebbe un rapporto complesso con i comunisti, dai quali però non fu mai riamato; fu ostile, in campo internazionale, agli Stati Uniti e, in modi eclatanti, ad Israele.
Fondamentale fu, secondo Pombeni, la sua formazione. Terminato il liceo, Dossetti nel 1930 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna ed entra nell’Azione cattolica sotto la guida di don Dino Torreggiani. Seguirà il corso di Arturo Carlo Jemolo, al quale chiederà la tesi su «La violenza nel matrimonio canonico» (anche se il professore non la potrà poi seguire perché chiamato, nel 1933, ad insegnare nell’ateneo di Roma).
Jemolo ricorderà sempre quel suo studente e molti anni dopo, il 17 maggio del 1972, gli darà - su «La Stampa» - un clamoroso «riconoscimento» muovendo a Paolo VI un severo rimprovero perché non aveva avuto il «coraggio» di nominarlo vescovo.
Laureato, Dossetti nel novembre del 1934 si trasferisce alla Cattolica di Milano, assai ben accolto dal rettore, padre Agostino Gemelli. Le sue prime esperienze sono state raccontate con dovizia di particolari da Enrico Galavotti in Il giovane Dossetti (il Mulino), quello stesso Galavotti che sta per dare alle stampe (sempre per i tipi del Mulino) Il professorino, quasi mille imprescindibili pagine dedicate alla vita di Dossetti tra il 1940 e il 1948, dalla «crisi del fascismo» alla «costruzione della democrazia». Galavotti racconta come il giovane Dossetti abbia tessuto rapporti di amicizia con Antonio Amorth, Luigi Gui e soprattutto Giuseppe Lazzati.
Nel 1936 è ammesso, assieme a Lazzati, in un sodalizio di laici consacrati fondato da padre Gemelli: i Missionari della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Lì conoscerà Luigi Gedda (il futuro fondatore dei Comitati civici, che avranno un ruolo determinante nel far stravincere alla Dc le elezioni del 1948), nominato da Gemelli alla guida dell’organizzazione. Sarà antipatia a prima vista: con Gedda, prima Lazzati, poi lui stesso, entreranno fin da allora in conflitto.
In quello stesso anno diventa assistente volontario alla cattedra di Diritto canonico retta da Vincenzo Del Giudice (che era stato con Gemelli nell’ala destra del Partito popolare, aveva firmato nel 1925 il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce e nel 1941 avrebbe abbandonato la Cattolica in aperto dissidio con lo stesso Gemelli).
Dall’ottobre del ’41 entra a far parte di un gruppo di persone (Amorth, Lazzati, Fanfani, Sofia Vanni Rovighi, don Carlo Colombo, il gesuita padre Carlo Giacon e talvolta Giorgio La Pira) che ogni venerdì si riuniscono a casa di un docente della Cattolica, Umberto Padovani, per parlare soprattutto di Jacques Maritain e del suo Umanesimo integrale (pubblicato nel ’36), della «crisi indotta dalla guerra» e di cosa accadrà «dopo». Dopo la guerra certo, ma anche - man mano che le cose si fanno più chiare - dopo la fine dell’esperienza mussoliniana.
Ma torniamo agli anni che precedettero l’ingresso dell’Italia in guerra. Pombeni affronta senza imbarazzi quello che definisce «il problema del rapporto del giovane Dossetti con la cultura fascista dominante». Nel senso che, a dispetto del racconto dossettiano di aver maturato fin dagli anni giovanili «un irriducibile antifascismo», lo storico Paolo Acanfora ha trovato il certificato di una iscrizione di Dossetti al Partito nazionale fascista, documento rilasciato il 4 giugno del 1940 dal segretario federale di Reggio Emilia Dino Fantozzi (nel certificato si specifica che l’iscrizione al Pnf risalirebbe al 1935 e si riporta anche il numero della tessera).
Pombeni spiega bene come la questione abbia un rilievo marginale, dal momento che Dossetti non fu coinvolto da una visione del mondo «veramente fascista nel senso pienamente ideologico», bensì aderì «al clima generale di una cultura con forti tratti nazionalistici e con illusioni di risposta a crisi epocali che si ritenevano in corso in Europa».
Certo è che il radiomessaggio di Pio XII del Natale 1942, nel quale il pontefice indicava ai cattolici l’«azione» come «precetto dell’ora», è colto dai frequentatori casa Padovani come il segnale che è giunto il momento di mobilitarsi.
Ancora pochi mesi e, il 25 luglio del 1943, cadrà il regime fascista: il 4 agosto una circolare di Gedda avverte che potrà accadere che singole personalità cattoliche siano chiamate in politica, anche se l’Azione cattolica in quanto tale deve restare opera religiosa. Riservatamente, però, Gedda offre al capo del nuovo governo, Pietro Badoglio, il supporto strutturato della stessa Azione cattolica. Nell’autunno del 1943, l’Italia è divisa in due e al Nord si sviluppa la lotta partigiana.
Dossetti, che nel frattempo è stato chiamato ad insegnare all’Università di Modena, sulle prime dubita dell’opportunità di prendere parte alla «guerra civile». Ma, come documenta Giuseppe Trotta nel libro Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello Stato (Aliberti), presto si convince che l’esperienza dei cattolici nella lotta al nazifascismo è indispensabile per «riguadagnare loro un posto centrale» nell’Italia del dopoguerra. Dal febbraio 1945 sale lui stesso in montagna e il 1° aprile di quell’anno prende parte alla battaglia di Ca’ Marastoni. Ciò che gli vale l’incarico di presidente del Cln di Reggio Emilia e quello di vicesegretario della Dc.
Da vicesegretario polemizza già allora con De Gasperi, accusandolo di aver optato nel 1946 «per una soluzione che favoriva l’esito monarchico nel referendum». Ma qui Pombeni mette in dubbio «che De Gasperi avesse tutta questa simpatia per una casa regnante come quella italiana», sostiene che fu solo «prudente» e che «l’analisi di Dossetti si rivelò errata».
In realtà un ruolo fondamentale Dossetti lo ebbe, come si è detto, nei mesi successivi, quando si trattò di redigere la Costituzione. Il suo sodale La Pira si batté allo stremo per «definire un sistema integrale organico dei diritti della persona e dei diritti degli enti sociali - compresi quelli economici - in cui la persona si espande», rinviando come «modelli» alla Costituzione sovietica e a quella di Weimar, mentre ad un tempo consigliava di non farsi sedurre dal progetto francese che riecheggiava i principi costituzionali del 1789 e in quanto tale doveva «essere da tutti respinto».
Rispettato dal comunista Palmiro Togliatti e dal socialista Lelio Basso, Dossetti si avvalse della collaborazione di Costantino Mortati e fu guardato con un certo riguardo anche da Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI) che, scrive Pombeni, «ebbe con lui e con il suo gruppo un rapporto non lineare ma in complesso di attenzione e di apprezzamento».
Pombeni definisce poi «una sciocchezza» quel che aveva detto Gedda e cioè che Dossetti sia stato «incline al comunismo». Quando, nel 1947, De Gasperi mise i comunisti fuori dal governo, Dossetti, scrive Pombeni, «non ebbe esitazione ad attribuirne la responsabilità alle ambiguità politiche di Pci e Psi», anche se sostenne che la Dc «poteva e doveva realizzare da sola» la politica riformatrice delle sinistre. Dossetti del resto, proprio in quel 1947, contribuì a sventare un tentativo del Pci di sostituire De Gasperi con Francesco Saverio Nitti e denunciò per l’occasione (riprendendo un’espressione di Leo Valiani) il «tentativo di connubio comunisto-capitalistico».
Ma gli uomini più legati a De Gasperi, Attilio Piccioni e Umberto Tupini, diffidavano apertamente di lui e dei suoi «professorini». Più di tutti Luigi Gedda. E già alla vigilia delle elezioni del 1948, quando divenne più importante il ruolo del fondatore dei Comitati civici, Dossetti chiese a Pio XII l’autorizzazione a ritirarsi dalla vita politica. Licenza che non fu concessa né a lui né a Giuseppe Lazzati, il quale aveva avanzato la stessa richiesta (i due ne parleranno diffusamente nell’intervista a Pietro Scoppola e Leopoldo Elia pubblicata dal Mulino con il titolo A colloquio con Dossetti e Lazzati).
Ma l’anno davvero complicato fu il successivo: il 1949. A marzo Dossetti si mise di traverso alla decisione di far aderire l’Italia al Patto atlantico. Alla fine votò a favore, ma «controvoglia» e rilasciò al giornale del suo partito, «Il Popolo», una dichiarazione maliziosamente superflua, in cui diceva di aver votato in quel modo nella convinzione che la Nato dovesse essere «una costruzione assolutamente difensiva, pacifica e democratica».
A giugno, in occasione del Congresso di Venezia, pronunciò un discorso interamente rivolto alla «classe operaia» da conquistare, anzi che doveva essere «liberata dal Partito comunista». Discorso che voleva essere di «pungolo» alla Dc e si concludeva con l’appello ad «un atteggiamento altrettanto virile verso i ceti conservatori di quello che noi prendiamo - e l’abbiamo sempre preso - nei confronti dell’estrema sinistra».
De Gasperi si spazientì e gli rispose: «È vero che ogni governo ha bisogno di un certo stimolo, se volete, di unpungolo (non mi piace la parola, perché ricorda i buoi), ma comunque io accetto anche il pungolo ad una condizione, che a un certo momento quelli che stanno pungolando scendano dal carro e si mettano anch’essi alla stanga».
Fu in questa occasione che Fanfani scese dal carro dossettiano per avvicinarsi al gruppo dirigente del partito, puntando da quel momento alla successione a De Gasperi.
E il Pci come reagì alle aperture di Dossetti? Pombeni mette in risalto come quella dei comunisti fu una sorprendente risposta di chiusura. Togliatti su «Rinascita» scrisse che l’opposizione dossettiana a De Gasperi era «di tendenze nettamente fasciste... al punto di ricalcare persino nelle parole le formule del fascismo (tutto il potere alla Dc; corporativismo economico; anticomunismo)».
Pietro Ingrao sull’«Unità» accusò quel «riformatore vaticanesco» di «totalitarismo cattolico» e di «corporativismo antiautonomista». E aggiunse che, a suo avviso, Dossetti si muoveva nel solco «dei Gedda, dei Comitati civici, dei dottrinari del sacro cuore».
Lelio Basso che - come Togliatti - lo aveva conosciuto e apprezzato alla Costituente, sostenne sull’«Avanti!» che «Scelba e De Gasperi, Piccioni e Dossetti, hanno espresso un unico concetto: la definitiva trasformazione della Democrazia cristiana in regime».
Paradossalmente le sinistre offrirono una sponda a quei settori che nella Dc mettevano in atto una feroce «lotta interna contro il dossettismo». Dossettismo che faceva proseliti tra i giovani e che, nel nome di una sorta di «largo ai giovani», muoveva all’attacco del quartier generale.
A loro De Gasperi rispondeva con parole che solo in apparenza potevano apparire di semplice buon senso: «I vecchi hanno bisogno della competenza economica dei giovani; ma i giovani hanno bisogno del pensiero, autenticamente liberale, dei vecchi». Dove sarebbe da sottolineare la contrapposizione tra la «competenza economica» dei giovani formatisi negli anni del regime e il «pensiero autenticamente liberale» della classe dirigente prefascista non compromessa, a differenza della generazione dei trentenni, con il regime mussoliniano.
E siamo all’inizio degli anni Cinquanta. Dossetti è vicesegretario del partito, ma sempre più polemico nei confronti degli uomini più vicini a De Gasperi. Ai quali si è aggiunto - come bersaglio dei suoi strali - Giuseppe Pella, l’uomo degli industriali tessili di Biella, colui che di fatto era il rappresentante dei «poteri forti» di allora, definiti all’epoca «quarto partito». Crescente è anche la sua avversione nei confronti dei «parenti», i partiti laici alleati della Dc nella coalizione centrista. E anche qui De Gasperi si sentì in dovere di rispondergli: «Fantasiosa la diffida formale proposta da Dossetti per i "parenti": abbiamo finora lottato perché forze, guadagnate alla democrazia, non tornassero indietro; ed ora vogliamo mettere in pericolo anche il restante margine diminuito di sicurezza?».
Qui Pombeni interviene contro la «leggenda dell’integralismo dossettiano». Fu dipinto, scrive, «come nemico della collaborazione coi partiti laici per isolazionismo confessionale, mentre si trattava della proposizione di una linea che privilegiava la centralità e la coerenza della direzione politica... non sacrificabili alle esigenze tattiche (e talora di puro lobbismo) dei cosiddetti "partiti minori"».
Nell’ottobre del 1950, Dossetti chiede di entrare nell’istituto secolare dei Milites Christi, un sodalizio di laici consacrati fondato da Lazzati dopo l’uscita, nel 1938, da quello di Gemelli.
Nel marzo del 1951 il «professorino» muove all’attacco di De Gasperi al quale, annuncia, «non darò più in nessuna maniera la fiducia». Cosa era accaduto? Pio XII aveva tolto a Montini l’incarico di sovrintendere alle «faccende italiane». Quel Mons. Montini (il Mulino) che, come documenta con grande cura Fulvio De Giorgi, nel libro che ha questo titolo, aveva con Dossetti rapporti molto profondi anche se le personalità dei due non erano sovrapponibili.
Dossetti fu portato a ritenere che l’allontanamento di Montini fosse un segno dei tempi. I tempi della guerra di Corea, per la quale, temeva, l’Occidente, nel nome della lotta al comunismo, avrebbe abbandonato la «pregiudiziale antifascista». E quando nel 1951 gli Stati Uniti riconobbero la Spagna di Francisco Franco, gli sembrò che quella fosse la prova definitiva di ciò che già da tempo andava pensando.
Tra l’inizio di agosto e i primi di settembre Dossetti raccolse i suoi nel castello di
Rossena (Reggio Emilia) e sciolse la corrente. «Situazione internazionale e situazione interna non
sono confortanti», sosteneva, «la nuova politica americana, con la prevalenza dei generali sui
politici, può lasciar intendere che la Spagna è forse un anticipo del sistema generale». I convegnisti lasciarono il castello dove si era tenuto il convegno intonando un rifacimento - di Achille Ardigò
del canto anarchico: «Addio Rossena bella, o dolce terra mia, cacciati senza colpa, i dossettian
van via», che si concludeva con «repubblica borghese un dì ne avrai vergogna». Dopodiché Dossetti
si dimise prima dal partito e poi da deputato.
Andrea Riccardi, in Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta (Laterza), ha ben raccontato come sbagliasse Dossetti a non fidarsi fino in fondo del leader del suo partito. Il quale, di lì a breve, dimostrò quanto fossero «errate» (la definizione è di Pombeni) analisi e previsioni del suo antagonista, respingendo l’«operazione Sturzo» mediante la quale Pio XII avrebbe voluto che la Dc aprisse, in funzione anticomunista, all’estrema destra. Rifiuto che costò a De Gasperi una drammatica rottura con il pontefice.
Successivamente, nel 1956, Dossetti fu richiamato alla politica dal cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, che lo volle come candidato per le elezioni a sindaco contro il comunista Giuseppe Dozza (episodio analizzato con cura da Mario Tesini in Oltre la città rossa. L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna 1956-1958 pubblicato dal Mulino).
Il Dossetti di quel periodo, in cuor suo, piuttosto che i comunisti, da lui considerati «eretici cristiani» e ammirati per il rigore morale nonché per la dedizione alla causa, ha in antipatia i socialisti, «una componente scarsamente simpatetica col cattolicesimo politico, in quanto fortemente tributaria di tradizioni laiciste, positiviste e massoniche». Socialisti con i quali la Dc dell’epoca, guidata da Amintore Fanfani, cercava invece, faticosamente, un dialogo.
Per di più Dossetti rifiuta di mettere in lista i candidati suggeriti dagli industriali e sottolinea in più di un’occasione le sue riserve verso i liberali e i socialdemocratici nonché il suo distacco da quel «blocco sociale» che si era andato costruendo dopo il 18 aprile del 1948. E i laici lo ripagarono con altrettanta diffidenza, anche da parte dei settori più illuminati.
«Per noi», scriveva la rivista «il Mulino» (a cui apparteneva anche Nino Andreatta, che pure era consulente economico del candidato sindaco), «Dossetti, oggi come oggi, non toglie nulla a quanto di equivoco e contraddittorio abbiamo sempre rilevato nel mondo cattolico e nella Democrazia cristiana in particolare... Dossetti non riesce a dissipare in noi il sospetto di un rinnovato integralismo, che non esclude il ricorso a tecniche di indagine di tipo sociologico, ma le svuota della loro criticità e della possibilità di impegnarle positivamente per l’avvio di una democrazia moderna... Dossetti non reca alcun contributo al raggiungimento di una piena consapevolezza democratica da parte dei cattolici italiani e rende più incerte le premesse e le iniziative di quella sinistra democratica che auspichiamo operante nel nostro Paese». Si distinse, in quel gruppo, un grande liberale, Nicola Matteucci, che, dopo le elezioni, riconobbe al candidato cattolico di aver aperto «una prima breccia nell’immobilismo italiano».
Durissimo, invece, l’atteggiamento del Pci, solo in parte riconducibile alla circostanza che al Partito comunista apparteneva Dozza. Il discorso di Togliatti in piazza Maggiore, a conclusione della campagna elettorale, fu sprezzante nei confronti di Dossetti come raramente lo era stato verso altri esponenti della Dc (Dossetti, in replica, si limitò a ironizzare sul fatto che il segretario del Pci avesse «speso un’ora e mezza» a parlare della sua persona).
Nel corso di quella campagna, Dossetti fu dipinto dai comunisti «come l’agente o l’utile idiota della borghesia e delle classi reazionarie», fu accusato «di viltà politica perché aveva abbandonato la lotta nel 1951, ritirandosi sotto una metaforica tenda», fu messo alla berlina «come un costruttore di castelli in aria ideologici che ormai nulla avevano a che fare con il suo passato di costituente "di sinistra"». Gli si imputò persino, sempre da parte del Pci, il «tradimento» del ruolo che aveva avuto in passato, ai tempi della Resistenza.
Il candidato di Lercaro perse in quelle elezioni: la Dc prese meno del 28 per cento, i comunisti ebbero oltre il 45 e assieme ai socialisti, che conquistarono un modesto 7,2, poterono contare sulla maggioranza assoluta. Dopodiché Dossetti restò per due anni a Palazzo d’Accursio ad accusare il Pci di avere in mente una sorta di «capitalismo rosso»; e in quegli anni le ostilità nei suoi confronti di dirigenti comunisti (anche quelli, come Guido Fanti e Renato Zangheri, che in seguito avrebbero avuto un atteggiamento di dialogo) furono ai confini dell’oltraggio.
Tutto ciò nonostante Dossetti, in quello stesso 1956, avesse preso una posizione molto cauta al momento dell’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici, dichiarando quella che Pombeni definisce «la sua estraneità alconflitto della guerra fredda» («Io non sono né per l’uno né per l’altro, e sinceramente io sento catene di schiavitù dall’una e dall’altra parte», disse anche in quei momenti).
Il 6 gennaio del 1959 il cardinale Lercaro lo consacrò sacerdote ed è da «monaco di Monteveglio» che Dossetti seguirà i lavori del Concilio Vaticano II, offrendo un contributo di altissimo rilievo ben messo in evidenza dagli studi di Alberigo. Fu poi, negli anni Sessanta, al fianco del cardinale Lercaro. Per lui preparò il discorso con il quale, nel novembre del 1966, il porporato accettò la cittadinanza onoraria offertagli dal nuovo sindaco comunista Fanti. Lo aiutò a scrivere l’omelia del gennaio del 1968, con la quale Lercaro condannò i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord. E fu al suo fianco un mese dopo, quando il cardinale fu tolto dalla guida della diocesi di Bologna.
Dossetti interpretò quella rimozione (ancorché riconducibile, almeno in parte, a Paolo VI) come un segno di involuzione della Chiesa. E gradualmente si allontanò dall’Italia.
Nell’estate del ’72 si stabilì in territorio palestinese, a Gerico. Da dove si pronunciò, in modi assai veementi, contro il governo di Israele, in particolare nel settembre 1982 dopo il massacro di Sabra e Chatila. Giunse ad imputare al primo ministro israeliano Menachem Begin l’«aggravante» di aver addossato «l’esecuzione materiale del massacro a milizie di cui si vuole per l’occasione ricordare che sono cristiane» (quello che era un semplice dato di fatto e cioè che, pur senza voler sminuire le responsabilità per omesso controllo dell’esercito guidato da Ariel Sharon, a compiere la strage erano stati i falangisti cristiani, guidati da Elie Hobeika).
Visse fino al 1996. Fece in tempo a vedere la crisi della prima Repubblica e i primi passi in politica di Silvio Berlusconi: «Mi sembra il momento di dire che c’è un’incubazione fascista», fu la sua diagnosi. Si schierò a difesa della Costituzione: «Non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi e occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti fondamentali in alcun modo modificabili», sentenziò.
Ebbe accenti critici nei confronti della liberaldemocrazia, dicendosi a favore della «democrazia reale, sostanziale». Non gli piacquero, però, i radicali di Marco Pannella e criticò «la democrazia diretta nella forma referendaria che oggi è divenuta... troppo acceleratamente di moda». Così, assai più di De Gasperi, divenne - anche per il contestuale tracollo delle idee comuniste e socialiste - il principale punto di riferimento di Romano Prodi e di tutti i leader del centrosinistra nella seconda Repubblica. Una rivincita con i fiocchi.
Voglio svegliare l’aurora - Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti 1913-2013 *
Dossetti. Il lavoro per tutti è la profezia della politica
di Pierluigi Castagnetti (l’Unità, domenica 10 febbraio 2013)
Martedì prossimo alla Camera dei deputati sarà ricordato Giuseppe Dossetti nel centenario della nascita, alla presenza del presidente della Repubblica. Dossetti, partigiano e presidente del Cln di Reggio Emilia, è stato impegnato in politica (prima alla Consulta, poi all’Assemblea costituente, poi in Parlamento e nella Dc di cui fu vicesegretario) per un periodo di soli sette anni, a cui hanno fatto seguito 44 anni di impegno come uomo di Chiesa, prete e monaco.
Anche nella vita della Chiesa è inevitabilmente ricordato per il suo straordinario apporto riformatore, come consigliere del cardinal Lercaro e di monsignor Bettazzi, e poi come moderatore e perito al Concilio Vaticano II. Il cardinal Martini lo definì «profeta del nostro tempo», sottolineando la sua straordinaria capacità di associare profezia religiosa e profezia politica. Ma in questa sede vogliamo ricordare il Dossetti costituente per un aspetto meno conosciuto e studiato. Di lui infatti si ricorda il decisivo apporto nella definizione della struttura personalistica della Carta, negli articoli 2 e 3, e poi i due articoli di cui è stato relatore il 7 e l’11. È stato meno approfondito il suo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul tema del lavoro. Così come poco si dice del suo rapporto stretto con Palmiro Togliatti, che lui stesso evocherà nel discorso all’Archiginnasio di Bologna nel 1986, come decisivo per la definizione di alcune «architravi» costituzionali.
Un sacerdote di Bologna, mons. Giovanni Nicolini, ricorda ancora quando gli capitò di accompagnare in auto Dossetti e La Pira e ascoltare le memorie di questi due grandi protagonisti dell’Assemblea costituente. Dossetti parlò di quando, all’inizio dei lavori, incontrò riservatamente Togliatti in un bar vicino a piazza del Popolo, al fine di sciogliere alcuni nodi preliminari e, in particolare, di decidere il principio ispiratore di tutta la Carta, quello che già in quel colloquio, avrebbe dovuto essere l’articolo 1. I due non si conoscevano bene ma nella conversazione si superò presto l’impaccio iniziale. Fu Dossetti a rompere gli indugi e a indicare il tema del lavoro, destando ovviamente consenso ma anche qualche comprensibile sospetto da parte di Togliatti: «Lei lo fa per compiacermi». «No, non mi interessa compiacerla, sono proprio convinto che il tema del lavoro debba rappresentare il cuore della nostra Carta e un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili. La strada per arrivare al comune obiettivo è probabilmente diversa fra noi due. Per lei il tema del lavoro è importante per ragioni politiche e sociali comprensibili, per me è importante come presupposto costitutivo della centralità della persona: senza il lavoro non c’è dignità e senza dignità l’individuo non diventa persona».
Nasce probabilmente in quella occasione e in quel contesto non solo l’intesa per definire il contenuto dell’articolo 1 (il cui testo sarà formalmente presentato poi da Fanfani), ma un rapporto personale che segnerà tutta la vita dell’Assemblea costituente, a partire appunto dal dibattito nella prima sotto-commissione sul tema del lavoro. Ne ha parlato puntualmente il costituzionalista Mario Dogliani, nel seminario del 15-16 ottobre 2011 tenuto a Montesole sul tema «Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti», a cui parteciparono anche i professori Ugo De Siervo e Salvatore Natoli. Il pensiero di Dossetti sul lavoro è anticipato nell’articolo apparso sulla vittoria laburista nelle elezioni del 1945 in Gran Bretagna «Triplice vittoria», riportato in questa pagina. [di seguito]
La discussione nella prima sotto-commissione prende spunto proprio da una proposta formulata da Mo-o e Dossetti: «Ogni cittadino ha diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione idonea allo sviluppo economico o culturale o morale o spirituale della società umana, conformemente alle proprie possibili tà e alla propria scelta». La discussione ovviamente si sviluppa a lungo e i testi si modificano. Quando si affronta il problema del salario, la prima formulazione che viene posta in discussione è congiunta di Togliatti e Dossetti: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia». Questa è una formula che poi è rimasta ed è confluita nell’articolo 36.
È ancora Dossetti a dichiarare: «Il lavoro è il fondamento di un diritto che però non è concepito come un diritto nei confronti del datore di lavoro, ma come un diritto che si dirige verso l’intera società, che ha il suo fondamento non nella naturalità dell’individuo, ma nel fatto che lavora... Il diritto ad avere i mezzi per un’esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro... Questa non è un’utopia perché non possiamo rinunciare al sogno, sogno inteso come sogno politico, di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro.... in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo. Tali principi programmatici non avranno la possibilità di operare un miracolo... ma serviranno almeno ad una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire». E La Pira precisa: «Gli articoli formulati dalla sotto-commissione sono sempre partiti... dalla premessa che es-si debbono concorrere a far cambiare la struttura economica e sociale del Paese». Dopo una lunga discussione si arriverà finalmente all’approvazione di una nuova formulazione leggermente diversa, sempre a firma Dossetti-Togliatti: «La remunerazione del lavoro intellettuale o tecnico manuale deve soddisfare le esigenza di esistenza libe-ra e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia».
Si potrebbe continuare ancora a leggere i verbali di quel lungo dibattito che affronterà varie altre questioni, in particolare quelle relative al diritto di sciopero, alla finalizzazione della libertà economica e ad altri aspetti, e sempre registreremo gli interventi di Togliatti-Dossetti, Togliatti-La Pira, Moro-Basso-Dossetti-Togliatti, i veri protagonisti di una discussione che anche allora ruotava attorno alla centralità di un diritto soggettivo che è presupposto di altri diritti, un diritto che dà senso e coagulo alla trama di tutti i rapporti economico-sociali, su cui avrebbe dovuto reggersi l’intera architettura costituzionale.
Non è mia intenzione trascinare Dossetti nel dibattito politico, e ancor meno in quello elettorale di oggi, ma non possiamo non rilevare la straordinaria attualità di un pensiero che può aiutare ancora a dare un senso e una prospettiva al processo di profondo cambiamento nel quale ci troviamo inevitabilmente inseriti.
Perché non possiamo non dirci laburisti
di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)
Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.
Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.
Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.
Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.
Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.
La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.
Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.
Reggio Emilia, 31 luglio
Giuseppe Dossetti, un problema storico
di Alberto Melloni (http://www.comune.re.it, 9 febbraio 2013) **
1. Giuseppe Dossetti - al quale con un gesto la cui nobiltà perdona il ritardo con cui dedichiamo questo luogo, che da oggi diventerà “il Dossetti” - è un personaggio storico lontano: per molti un nome, ricordato proprio perché quel nome resta e periodicamente ritorna come un fantasma, un mito, un’ossessione, una dossessione dice Galavotti. Comunque un problema storico.
Nato a Genova nel 1913, morto a Monteveglio nel 1996, potrebbe essere ormai studiato per quel che è stato nella storia, un politico, un riformatore, un produttore di cultura.
Dossetti fu un politico di vita attiva assai breve: resta in scena con pieno titolo solo sei-sette anni fra la Resistenza e l’inizio degli anni Cinquanta. In un tempo nel quale i cattolici non erano moderati. Perché quando lo erano stati avevano votato la fiducia a Mussolini in Italia col Partito popolare, ad Hitler in Germania col Zentrum: e in quel momento, nel roveto ardente della liberazione, avevano in mente ben altro che finire al guinzaglio di nuove illusioni conservatrici o autoritarie. Volevano una democrazia sostanziale, una società dominata dalla ricerca della giustizia sociale e strumenti democratici di democrazia, cosa che in italiano si chiama partito. E insieme, nello stesso gesto con lo stesso respiro, una chiesa segnata dalla trasparenza evangelica. Cose che richiedevano per lo meno una Costituzione. E forse un Concilio.
Dossetti è stato un riformatore, per tante cose un riformatore sconfitto. Padre di una Costituzione di cui deprecava la zoppìa della II parte, fondatore di avventure intellettuali e politiche che ha sovrastato con la sua visione del futuro. Perito del concilio Vaticano II, di cui pure sentiva le insufficienze. Cristiano, più precisamente “battezzato”, padre una “piccola famiglia” monastica nascosta fra l’appennino e la Palestina. Prete di una chiesa, quella di Bologna, quella italiana che dopo la rimozione di Lercaro, lo lascia andare in esilio in Medio Oriente dimenticandosi di lui. Eppure quest’uomo riformatore portatore del valore dell’utopia come utopia, lontano nella storia, ancora oggi fa discutere.
Dossetti lo si denigra, lo si dimentica, e potendo lo si rimuove. I reazionari ne fanno la caricatura: un cattocomunista, un pesce rosso che nuota nell’acqua santa, un integralista. Gianni Baget Bozzo, suo antico discepolo vi riconosce l’ostacolo che impedisce il dispiegarsi del disegno politico di rinascita nazionale di Forza Italia.
La chiesa italiana non riesce neppure da morto a dargli un posto, e a inserirlo nelle liste nelle quali, non senza qualche ipocrisia, mette La Pira o Lazzati, Sturzo e Toniolo, Bachelet o Moro. Perfino gli eredi delle tante scintille intellettuali e spirituali che ha seminato nella politica, nel diritto, nella ricerca, nella vita religiosa sono a mal partito con una personalità indocile a tutto, fuorché alla fede, che la vera eredità indivisa e indivisibile di questo personaggio.
E così si finisce per creare tanti piccoli Dossetti, sfocati, uno per la resistenza, uno per la Costituzione, uno per la Dc, uno per il monachesimo, uno per il concilio, uno per Palazzo d’Accursio e uno per Piazza del Gesù. Nessuno dei quali è vero per una ragione semplicissima: perché Giuseppe Dossetti è stato Dossetti proprio per essere stato tutte quelle cose lì in una volta sola, tutte insieme, con una intensità alimentata da una spiritualità antica e aspra, per tutta la vita: e lo è stato con la consapevolezza di un cristiano che voleva esserlo facendo la propria scelta “con tutte le sue forze”. Per questo comprendere Dossetti vuol dire cercare di cogliere l’insieme di que sta intensità che già egli evocava nel discorso dell’Archiginnasio.
2. Questa intensità si dispiega in tempi e storie precise, che di poco sbordano dal “secolo breve”, quello iniziato con la Grande Guerra e finito con la riunificazione della Germania. Dossetti nasce infatti nel 1913, ai tempi della Sagra della primavera di Strawinski, mentre infuria quella che Emilio Gentile chiama l’apocalisse della modernità: il delirio del bagno di sangue, del lavacro della violenza, che vede inerme una chiesa decerebrata dalla repressione antimodernista e una cultura che in tutti (con la sola eccezione di Sigmund Freud) attecchisce e fermenta il desiderio della violenza, di cui tornano anche oggi i sinistri rumori.
È giovane quando il cattolicesimo è filofascista. Studente modello a Bologna, cresce fra Cavriago e Reggio sotto l’influsso della madre e del radicalismo cristiano di don Dino Torreggiani, il prete degli zingari, dei carcerati, segnato dalla figura di don Angelo Spadoni, il vicario scomunicato dopo la guerra. La spiritualità oblativa resterà come un ordito di tutta la sua vita. Dossetti vuole che la sua esistenza sia "un olocausto", ha il desiderio non di farla passare, ma di consumarla, di spenderla per qualcosa, anzi per Qualcuno, in una serie di intrecci spirituali decifrati analiticamente da Galavotti nel primo dei due tomi ai quali ha lavorato con difficoltà non tutte dovute al soggetto dei suoi studi.
Ma Dossetti non è solo l’anima pia del bimbo rapito davanti alla sindone. È anche altro e lo si vede fin da giovane. Negli anni Trenta va a vivere a Milano, all’Università Cattolica del p. Agostino Gemelli, il socialista diventato francescano, scienziato, filofascista, vulcanica testa calda di una riconquista della società a partire dalle sue classi dirigenti, esaudito nel suo desiderio al punto che sessant’anni di classe dirigente cattolica, da Dossetti a Romano Prodi incluso, si formano ad una scuola che solo di recente ha perso questo rango.
Negli anni dei tribunali speciali, della guerra d’Africa, delle leggi razziali, questo giovane giurista che studia diritto romano e diritto canonico, lavora per il fondatore dell’Università, per ottenere da Roma l’approvazione dei nuovi "istituti secolari". In Cattolica diventa un virtuoso della sua materia, di cui sarà poi ordinario in questa Università di Modena insieme ad un altro grande del diritto come Amorth. Talmente bravo che Pio XII promulga i documenti (due dei pochi nei quali non intervengono i suoi fidati consulenti gesuiti tedeschi) di cui Dossetti è il redattore. Talmente fine nella sua materia da riuscire a piegare Paolo VI quando il progetto di una Lex ecclesiae fundamentalis all’inizio degli anni Settanta cade perché la sua critica severa convince migliaia di vescovi a mettere uno stop a quel disegno.
Il cavallo di razza della Cattolica, però non è solo un dotto minutante di diritto canonico: è un leader naturale. L’8 settembre 1943 quando lo Stato fascista si sgretola, Dossetti e altri giovani dotti destinati ad una Italia nazionalcattolica, si sono già svegliati alla democrazia, hanno iniziato a pensare al domani del paese. Pensare la resistenza intellettuale, poi quella politica, e infine aderendo a quella militare. Dossetti (lo racconta in una delle interviste agli studiosi di fscire.it che passerà martedì sera in tutt’Italia) gira per Milano con i volantini azionisti. A casa Cadoppi, proprio dietro questo Palazzo oggi a lui dedicato, rifiuta l’idea di un "partito cattolico", diventa capo partigiano della provincia di Reggio Emilia, dove i militanti comunisti hanno un peso enorme e la cui condotta dopo la liberazione costituisce una pleonastica vaccinazione ideologica di cui non farà vanto. Capo partigiano disarmato, Dossetti porterà qualcosa di quell’audacia in una vita politica che lui dice (è un vezzo che userà molte volte parlando di sé) inizia per caso. Piccioni e i vecchi popolari pensano possa essere un vicesegretario decorativo accanto a De Gasperi. Invece sprigionerà una creatività politica senza pari.
Diventa il leader cattolico della commissione che alla Costituente stende quella carta che sarà anche la più bella del mondo, ma che, come dimostra il pizzico di storicamente sfocato che c’era nella splendida lectio di Roberto Benigni, è anche una delle più ignorate del mondo.
Ha attorno a sé un gruppo di cui fanno parte La Pira, Lazzati, Mortati, Amorth, Fanfani, radunati in via della Chiesa Nuova. È l’autore dell’accordo che porta tutti i partiti di massa a riconoscersi nei principi della prima parte della Carta, inclusi quelli sui patti Lateranensi e sulla libertà religiosa. Nella DC è il capo della battaglia contro quel realismo che diventa immobilismo politico. Inventa strumenti economici, politiche, riviste e cenacoli - con l’idea che una democrazia "sostanziale" possa far sua le aspirazioni di giustizia sulle quali la sinistra socialcomunista guadagna i propri voti. Alla fine nel 1949-1951, paralizzato dalle "pressioni indicibili" della Santa Sede, decide di andarsene: perché senza una riforma della chiesa non ci sarà quella dello Stato.
Svanisce dietro la cortina fumogena costruita Rossena e non porta nessuno dalla vecchia vita alla nuova che inizia a Bologna, sua chiesa e sua città per tutto il resto della vita. Per molti che hanno letto la sua rivista Cronache sociali (uno per tutti don Milani), una diserzione; per altri un sollievo che farà franare (è il caso di Montini e di De Gasperi) un equilibrio politico nel quale Dossetti era essenziale. Per altri un abbandono o un passaggio che comunque aumenta la riverenza per un inesauribile fiuto politico e un rapporto con la Scrittura magnetico.
Per lui è il transito verso una vita diversa, di studio e di preghiera, che lentamente prenderà una forma monastica, o per essere pignoli come bisogna essere in quest’aula parlando di un maestro del diritto canonico, prenderà la non-forma di una reciproca immanen za fra fedeltà battesimale e vita sotto una regola, nella quale l’antico rifiuto della categoria dei “religiosi” degli anni Quaranta si esprime in categorie nuove.
Dal 1953 infatti, Dossetti va a vivere a Bologna. Fonda in via san Vitale un "centro" che unisce una comunità di ricerca e una di contemplazione presto destinate a prendere ciascuna la sua via. Quello che tutti chiamavano "Pippo" diventa il fondatore di uno dei maggiori centri di ricerca sulla storia religiosa, l’autore d’una regola monastica per la famiglia religiosa - e per essa viene ordinato prete diocesano da Giacomo Lercaro che ne è padre. Non è questo l’approdo della sua vita? Sì, ma è un approdo che porta ancora molte sorprese. A partire dallo shock del 1956.
Appena fatti i voti di obbedienza a Lercaro, il cardinale gli dà l’obbedienza di candidarsi a sindaco di Bologna, contro il Pci di Giuseppe Dozza. Un brivido che scomoda Togliatti, venuto da Roma per dargli del traditore, e che finisce in modo paradossale.
Dossetti ovviamente perde le elezioni amministrative. Ma convoca giovani professorini, come Beniamino Andreatta e il già noto Achille Ardigò, e scrive quel Libro bianco per Bologna, che diventerà il manuale di tutte le giunte rosse da lì in poi. E tuona per chiedere, dal banco di un consiglio comunale, la "persecuzione della ragion di Stato" durante l’invasione dell’Ungheria.
Poco dopo, il cardinale lo ha lasciato tornare alla vita orante, lo fa prete e gli affida il gioiello di Bologna, san Luca. Il 25 gennaio 1959 arriva inatteso l’annuncio del concilio Vaticano II, la nuova pentecoste voluta da papa Giovanni. Durante la preparazione Dossetti rimette in modo la sua officina di san Vitale 114 non per studiare i temi del concilio, coperti da segreto, ma per preparare un’edizione delle decisioni dei grandi concili della serie bellarminiana ma senza l’omissione di Costanza: un modo sofisticato per dire che il concilio apparteneva a quella tradizione millenaria e non all’orizzonte della condanne dei decenni precedenti. Ma nel concilio si realizza quel sogno che aveva coltivato negli studi, meditando una frase di Torquemada affiorata: "nel concilio non c’è più autorità che nel papa, ma c’è più grazia"
Poi il concilio inizia, anzi “si apre” e apre la chiesa. Lercaro, padre conciliare, chiama Dossetti a Roma nel novembre del 1962 come suo consultore. Dossetti torna a vivere in quell’indirizzo emblematico, via della Chiesa Nuova. E da lì farà ricorso ai vecchi amici giuristi come Mortati, ai giovani del centro di Bologna - come Pino Alberigo, Boris Ulianich e Paolo Prodi - ai grandi teologi del Vaticano II. E sarà protagonista di passaggi decisivi del concilio. Paolo VI adotta nel 1963 un nuovo regolamento del concilio che lui ha riformulato e poi lo nomina perito del Vaticano II. La costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium si delinea con i voti orientativi da lui voluti, sul modello di ciò che aveva fatto in costituente.
Dossetti altri passaggi decisivi del Vaticano II: ma soprattutto vede nella riforma liturgica non un cambio di formule, ma il sogno realizzato di una chiesa eucaristica. Si inalbera quando il concilio non vota la condanna della deterrenza atomica e non canonizza in aula papa Giovanni, padre e maestro della sua nuova vita.
Per molti riformatori un concilio nella vita basta e avanza: è così anche per Dossetti? No: dal 1966, tornato a Bologna, lancia il progetto di una complessa riforma dell’arcidiocesi, diventa provicario, rischia di succedere al cardinal Lercaro nella cattedra e nella porpora.
Ma non sarà così. Non solo perché il papa decide di nominare a Bologna Antonio Poma come coadiutore con diritto di successione. Ma perché nel gennaio del 1968 a Bologna capita qualcosa che non si vedeva da secoli. Lercaro, con una collaborazione di Dossetti, lavora all’omelia del 1° gennaio 1968, prima giornata mondiale della pace. Era la festa che, nei sogni di Paolo VI avrebbe dovuto sancire una tregua mediata da lui in Vietnam: la tregua non ci fu, continuarono i bombardamenti sui civili e Lercaro, anziché usare il registro degli auspici, condannò i bombardamenti sul Vietnam in nome di Dio. E condannare bombe americane "in nome di Dio" è un caso internazionale che innesca una reazione a catena dove tutto - l’affaire di Avvenire, il messale, il Pci - si fonde in una rottura esplosiva: Paolo VI rimuove Lercaro dalla sua cattedra: uno shock senza precedenti, che cambia la vita di Dossetti e lo priva, dopo quattordici anni del padre, a ridosso della morte della madre che aveva voluto nella propria famiglia monastica.
Lercaro si sottomette a questa con “abbandono” e con una obbedienza soprannaturale sarà anche quella di Dossetti: che inizia un viaggio in Oriente, e poi, dopo l’udienza di Nixon atterrato con un elicottero da guerra in piazza san Pietro, si eclissa. Dall’Oriente a Monteveglio, da Gerusalemme a Gerico questo staretz cercato e temuto si sottrae a ogni impegno pubblico, fino alla morte di Poma, l’arcivescovo di Bologna che aveva sostituito Lercaro. Ma pur senza apparire è presente in momenti cruciali della chiesa e della storia. [...]
-***vedi post seguente/precedente
-***seconda parte
Come dicevo poco fa si batte contro la Lex ecclesiae fundamentalis che voleva dare alla chiesa una costituzione che, per quanto simile a quella delle democrazie liberali, ne avrebbe inquinato la fisionomia di comunione: si batte con un’azione di disseminazione che persuade l’episcopato cattolico e convince Roma - sarà un maestro come Eugenio Corecco l’artificiere ultimo di questa operazione delicatissima - a rimettere tutto entro la sistematica codiciale.
Nel 1978 è in Italia e attivo durante il rapimento di un suo antico amico Aldo Moro con una serie di iniziative e rivolte a vari leader politici e con una lettera alle Br che Giovanni Moro avrebbe dovuto ritirare la mattina della lettera di Paolo VI, quella che diceva “senza condizioni”.
Nel 1980 scrive a Menachem Begin una severa lettera teologica quando, durante l’occupazione israeliana di Beirut, i miliziani cristiani perpetrano quell’immane eccidio a Sabra e Chatila, di cui egli addossa la responsabilità morale ultima a Tshaal: episodio e lettera dopo le quali Begin si ritirerà dalla vita pubblica.
Nel 1982 assiste un cattolico come Beniamino Andreatta quando questi chiama in causa il papa in persona durante il discorso al parlamento che scoperchia lo scandalo dell’Ambrosiano/Ior e che salva la chiesa da un marasma dalle conseguenze incalcolabili.
Riprende la parola in modo pubblico solo nel 1986 con un profilo che per alcuni è tutto ciò che resta di uno statista diventato un monaco anziano e malato. Eppure l’idea di Dossetti che, se si posa una cultura profonda su una vita integra si riesce a capire meglio il futuro continua a sbalordire.
Come quando ad ottobre del 1990 scrive in un articolo apparso anonimo che sta per accadere nel mondo dopo l’operazione Desert Storm e spiega le conseguenze di quella che molti considerano la più classica delle guerre giuste. Dossetti teme che quell’alleanza internazionale non costituisca agli occhi delle masse diseredate dei Sunniti un titolo di legittimità, ma un ricordo delle crociate di cui il fondamentalismo ha bisogno.
Ripeto: 1990. Non per profezia: ma per rigore intellettuale.
Questa stessa lungimiranza lo riattiva anche politicamente all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi del 1994: quando si schiera in difesa della costituzione promuovendo una fitta rete di comitati non per trattare la carta da feticcio di una nostalgia di vecchi partigiani, ma per un giudizio ancora una volta sulla chiesa.
È la primavera del 1994. Così, con una tonaca addosso, diventa ancora una antenna politica di prima grandezza e guida un patriottismo costituzionale che, dopo la sua morte, il 15 dicembre 1996, farà valere le sue ragioni. Una sospensione emergenziale della vita monastica? l’inveramento di una vita politica nella spesa exhinanente di sé? Di fatto un’attenzione spirituale alla storia cosa che è sempre rimasta viva in Dossetti, quel muoversi tra i massimi sistemi, la chiesa e lo Stato.
3. E che come ciascuna delle altre, a qualcuno fa problema: perché Dossetti continua ad esserlo un problema (da rimuovere) per ciò che questo percorso di cristiano e di uomo significa. Chi ha avuto e ha paura della forza della sua proposta politica immagina che "facendosi prete" abbia dimostrato il carattere astratto o utopico del suo pensiero. Chi ha avuto e ha paura della visione della chiesa come comunità convocata dal dono lo dipinge come un uomo che è vero solo quando sta in silenzio. Ma Dossetti è ciò che è per la sua capacità di produrre rigore e cultura.
Una cultura il cui pregio non era quello di veder nero (altri vedevano più nero di lui), ma di vedere il vuoto che si apre quando la chiesa non accompagna il cambiamento dei paradigmi di civiltà con una risposta di fede che per Dossetti mancava, con esiti che l’unico suo libro di teologia sulla Shoah scava a fondo. In parte compensata da un "eccesso di fede" che vorrebbe fosse il modo proprio suo e della sua famiglia di compensare il semipelagianesimo dell’attivismo cattolico, la dissipazione delle energie spirituali, la mancanza di fede operante che tocca tutti, anche la gerarchia: una compensazione microcosmica dell’attivismo che si accontenta della presenza per la presenza, quella che è il danno che la chiesa fa a sé (e indirettamente, ma non inefficacemente allo Stato) e della quale il concilio - con i nodi dei poteri teologicamente partecipabili e della povertà di Cristo come povertà di impianti filosofici - è il paragone.
4. Se nella chiesa Dossetti inquieta per la sua fedeltà teologica al concilio come atto di confessione di una chiesa eucaristica e di una cristologia del nudus nudum Christum sequi, sul piano politico quel che fa problema è il suo giudizio sul fascismo come dato permanente della storia italiana.
Dossetti mutua da Gobetti l’idea del fascismo come autobiografia della nazione: ma non solo sul piano storiografico o sul piano della coscienza del cattolicesimo democratico (quello che non perdona i popolari italiani e i centristi tedeschi), ma proprio come dato permanente, che si ripropone.
È questa la radice teologica del suo patriottismo costituzionale. Quello che Dossetti fiuta e rifiuta nel 1994 è la tentazione di liberarsi dalla coscienza della guerra che i costituenti portavano con sé in un agnosticismo costituzionale della chiesa italiana che ricordava l’altra grande “mancanza al proprio compito” della chiesa.
Se Dossetti rimane un inciampo e un ingombro, se non si riesce a caramellarlo, se non si riesce
a farne democristiano prestato all’ascesi o viceversa è per questo vigore culturale. Che
non viene solo da un abitudine al rigore dello studio ma dalla Bibbia, indossata come la
povertà sanante della cultura religiosa. La bibbia che "raschia il cervello" e che
plasma l’intelligenza degli eventi e genera una “povertà” necessaria: perché (è una
polemica del 1966):
Pretendere che un valore culturale qualunque (anche se di grande dimensione e profondità
come potrebbe essere il diritto romano o la metafisica aristotelica) sia universalmente
valido equivarrebbe a scomunicare dall’umanità tutti quelli che non accettassero o
potessero comprendere e assimilare quel valore.
Dossetti per questo non cerca l’autoriforma dell’eremita, ma un monachesimo che sa che ogni cristiano ha bisogno della chiesa: e che la riforma della chiesa serve perché chi ne ha sete la trovi, in un momento nel quale si esauriscono le culture e non c’è (non c’è) un pensiero cristiano o non cristiano che non sia il mero rabberciamento di rottami ideali o ideologici. Questo spiega l’ostilità verso un uomo di un secolo. Il fascino di un uomo di un secolo fa che di quel secolo - come disse nel suo ultimo corso Pino Alberigo - fu la coscienza.
* FONTE. FINESETTIMANA.ORG
A 100 ANNI DALLA NASCITA DI DOSSETTI, BOLOGNA SETTE TROVA SOLO OMBRE. E DIMENTICA LE LUCI *
37011. BOLOGNA-ADISTA. Mentre si avvicina il centenario della nascita di don Giuseppe Dossetti, che cade il prossimo 13 febbraio, il settimanale della diocesi di Bologna ha deciso di ricordare il religioso sferrando quello che ha tutto il sapore di un attacco a testa bassa.
Il 30 dicembre scorso, sulle pagine di Bologna Sette, e con un occhiello in prima pagina, campeggiava infatti una lettera, datata 3 dicembre, del card. Giovanni Battista Re all’arcivescovo emerito di Bologna Giacomo Biffi (e recapitata alla redazione del settimanale da quest’ultimo) in cui l’ex prefetto per la Congregazione per i vescovi scrive di apprezzare le valutazioni di Biffi circa «le lacune e le anomalie della “teologia dossettiana”». Valutazioni che, se a qualcuno fosse sfuggita la seconda edizione del suo Memorie e digressioni di un italiano cardinale - uscita nel 2010 (v. Adista n. 93/10) - si possono agevolmente rintracciare nel pamphlet Don Giuseppe Dossetti. Nell’occasione di un centenario che il card. Biffi ha da poco dato alle stampe estrapolando dal precedente volume le pagine dedicate al collaboratore del card. Giacomo Lercaro.
Nella missiva Re afferma di condividere pienamente anche «le riserve» e le osservazioni riguardanti «il breve periodo in cui Dossetti fu segretario dei quattro Moderatori del Concilio, usurpando la competenza che il Regolamento attribuiva a monsignor Pericle Felici, Segretario generale del Concilio».
E infine assesta l’ultimo colpo: riferendosi alla causa di beatificazione di Paolo VI scrive che «nel capitolo della Positio riguardante la guida del Concilio da parte di Paolo VI, vi sono un paio di pagine dedicate a don Dossetti» nelle quali, prosegue il card. Re, «si dice esattamente quanto anche Vostra Eminenza afferma circa don Dossetti in quanto segretario dei quattro Moderatori».
A completare il quadro, le poche righe introduttive del settimanale diocesano che sottolinea come la breve lettera assuma, in virtù dell’autorevolezza del suo mittente, «il carattere di un documento che gli storici della Chiesa non potranno ignorare nella loro ricerca appassionata e sincera della verità».
A una settimana di distanza, sul numero datato 6 gennaio, Bologna Sette fa una parziale marcia indietro a seguito delle «numerose reazioni tra i lettori». «La diocesi di Bologna non ha mai intentato processi ai suoi arcivescovi o ai loro più stretti collaboratori nel governo e non intende cominciare adesso», vi si legge. «Pur sperimentando nel vivo luci e ombre di cui ogni persona è portatrice, ha custodito le luci e trascurato le ombre». «Se a qualcuno è sembrato che il nostro settimanale sia venuto meno alle esigenze della carità, ce ne scusiamo sinceramente, senza voler ribadire che non era nostra intenzione recar turbamento alla Chiesa o offendere la memoria di don Giuseppe».
Tra le missive giunte in redazione, il settimanale pubblica (oltre a quella di Mario Boldrini, «semplice fedele appartenente alla Chiesa di Bologna», e dando conto che lettere di analogo contenuto sono giunte da don Francesco Cuppini, don Alessandro Marchesini, Giancarlo Pellegrini, Francesco Pellegrini, don Paolo Tasini) quella di don Athos Righi, superiore della Piccola famiglia dell’Annunziata, la comunità monastica fondata da Dossetti. «Avendo passato la mia vita fin dalla prima giovinezza a fianco di don Giuseppe Dossetti - scrive don Righi -, conoscendone la fede e avendomi lui trasmesso tutto il suo amore per la Chiesa, non posso nascondere il mio dolore per la lettera del cardinal Re al cardinale Biffi da voi recentemente pubblicata». «Si possono certamente avere molte opinioni su don Giuseppe Dossetti - prosegue - ma il contenuto della lettera e anche le righe di presentazione aprono un argomento che richiederebbe un confronto serio sui dati storici».
«Scuse dovute per le cattiverie sorprendenti pubblicate nel numero precedente», commenta, su Il Mulino, uno dei fondatori della rivista e dell’omonima associazione, Luigi Pedrazzi: «Pur cautissime, quelle scuse sono state un vero e sorprendente regalo ai lettori, almeno a quelli che desidererebbero un giornale del tutto normale. Mentre normale in molti non lo giudichiamo, a causa dell’abitudine, spesso imperante, di criticare pensieri e aspetti della figura di Dossetti mai sottoponendo tali critiche al confronto di giudizi diversi, motivati, come sarebbe possibile, con competenza e cortesia». «Come si fa a non vedere - si chiede Pedrazzi - che uno “zelo” così male inteso danneggia e riduce non poco l’immagine concreta della nostra Chiesa, di fatto ostile e insensibile a un’attenzione a Dossetti, qui a lungo presente e non per breve tempo?».
«Il problema di don Giuseppe è che egli è terribilmente vivo!», ha commentato dalla sua rubrica sulle pagine del Resto del Carlino (6/1), don Giovanni Nicolini, sacerdote di Bologna: «I suoi amici si possono ormai canonizzare, ma lui deve essere almeno del tutto censurato, e magari pure aggredito. Dunque, anche se non è bello, si capisce da questo quanto lui sia vivo e quindi, per qualcuno, anche molti ingombrante». «Che poi tutto avvenga proprio nella ricorrenza dei cinquant’anni del Concilio è significativo - ha proseguito - e mostra come molte persone, anche e soprattutto della Chiesa, non riescano a cogliere e ad accogliere il gran dono che Dossetti è stato per il Concilio. Ma il vero problema non è tanto che non gli piace Dossetti, quanto che non gli piace il Concilio. E quindi il grande regalo che per il Concilio è stato il lavoro umile e sapiente di Dossetti, a servizio del cardinale Lercaro, della nostra Chiesa di Bologna e della Chiesa Universale». (ingrid colanicchia)
*Adista Notizie, n. 3, 26/01/2013
L’affaire Dossetti Il monaco ribelle divide ancora politica e chiesa
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 gennaio 2013)
“Dossessione”, un neologismo coniato dallo storico Enrico Galavotti. È quella furia ossessiva che ancora oggi - a cent’anni dalla nascita e a diciassette dalla morte - travolge e sfigura il profilo di Giuseppe Dossetti, il leader politico che divenne sacerdote. Veleni e omissioni, aggressioni meditate e altrettanto ponderate rimozioni. Non è sospettabile di reticenza il feroce pamphlet che l’ex arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi ha voluto mandare alle stampe proprio in occasione del centenario (Don Giuseppe Dossetti, Cantagalli editore): se è possibile, ancora più affilato delle critiche mosse dal cardinal Re sul settimanale della diocesi bolognese.
Assai poco evangelico il ritratto che ne affiora, una sintesi di giudizi sferzanti già pronunciati in passato. Ideologo inconcludente. Teologo autodidatta. Storico assai fazioso. Cospiratore nel teatro conciliare voluto da papa Giovanni XXIII. Addirittura autore di un «colpo di mano», con la complicità del suo vescovo Lercaro. E, in conclusione, artefice di uno stile astioso, ereditato dalla sua ampia e poco seria famiglia. Basta così?
Se non è damnatio memoriae, genere in cui si esercitò Gianni Baget Bozzo, può trattarsi di più serafica omissione. A destra come a sinistra. Sia nei palazzi vaticani che in quelli della politica. Tra i tanti pontefici, sacerdoti e anime pie, citati in questi giorni nei santuari della geografia elettorale, sfugge sempre il nome di Dossetti.
Eppure alla sua eredità si richiama una componente importante che è quella del cattolicesimo democratico, ben rappresentata nel partito di Bersani. Perché non una parola sul monaco ribelle, protagonista di due eventi fondanti della storia italiana repubblicana, la Costituente e il Concilio Vaticano II?
Forse proprio qui, in queste due pagine ancora incompiute e contestate, è custodita la chiave per penetrare il mistero della “dossessione”, tra incubo e rimozione. Se è facile interpretarla sul versante vaticano, con la frenata opposta alle riforme conciliari da una parte importante delle gerarchie ecclesiali, più complicato farsi largo tra le ostilità della politica, di segno molto diverso.
Quella dell’antidossettismo è una storia antica, che risale addirittura a De Gasperi. Ma a noi interessa il capitolo più recente che Galavotti - ora autore per il Mulino di una documentata monografia sul “Professorino” (gli anni tra il 1940 e il 1948) - ha ben ricostruito in un’opera della Treccani. È il capitolo sulla storiografia revanchista che negli anni Novanta, spesso organica a una precisa parte politica, stroncò il dossettismo e tutte le scelte più forti legate a quella esperienza: l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione. È rimasta celebre la battuta con cui il filosofo Nicola Matteucci liquidò nel 1991 il suo intervento contro la partecipazione italiana alla guerra del Golfo. «Aveva taciuto per trent’anni, poteva continuare».
Prevedibile nella destra berlusconiana, può sorprendere il silenzio omissivo nelle file progressiste. Ci aiuta un libro-manifesto scritto in questi giorni da un senatore del Partito democratico, Roberto Di Giovan Paolo, il cui sottotitolo è una dichiarazione di fede: Perché oggi non possiamo non dirci dossettiani. (Dossetti, il dovere della politica, Nutrimenti).
«Quella del monaco reggiano è una figura difficile, certo meno rassicurante rispetto a papa Giovanni oggi di moda nei nostri Pantheon esibiti in Tv», dice il parlamentare del Pd. «Dossetti era un magnifico rompiballe, che ancora oggi interroga le coscienze». Di Giovan Paolo evoca le battaglie degli attuali dossettiani per l’immigrazione e l’accoglienza, per le carceri e per i poveri. «Scelte che anche nelle file dei progressisti vengono liquidate come “testimonianza” o come “pauperismo”. Ma che in Dossetti si legavano non solo alle radici costituzionali, ma anche a una precisa idea del ruolo dei partiti dentro la società civile».
Né le cose vanno meglio con quei cattolici trincerati «nel ghetto dei valori non negoziabili». Una formula inaccettabile «per i fedeli laici che si richiamino alla sua lezione». E se il dossettismo è innegabilmente riconosciuto nella formazione di alcuni leader del Pd, Di Giovan Paolo fa notare «la sua scarsa presenza nelle candidature cattoliche ora valorizzate da Bersani. Come se il suo profilo fosse un po’ in ribasso».
Personalità fortemente carismatica, è destinata a suscitare tuttora sentimenti assoluti, passione o ostilità, amore e odio. «Quando cominciai a raccogliere le prime testimonianze», racconta Paolo Pombeni, da quarant’anni studioso della sua figura, «mi imbattei solo in adoratori o in avversari, senza misure intermedie». Come si addice a un percorso esistenziale singolare, anche tormentato, ora efficacemente restituito da Pombeni in Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino). Giurista allievo di Jemolo, partigiano senza mitra, leader politico capace di fronteggiare De Gasperi, intelligente tessitore nel backstage della Costituzione, più tardi la scelta sacerdotale e il ruolo innovatore svolto nel Concilio ed ancora il ritiro monastico, poi l’esilio in Terrasanta, infine l’imprevisto rientro sulla scena pubblica per contrastare l’assalto alla Costituzione.
«Era un personaggio atipico, che sfugge a ogni catalogazione», aggiunge lo studioso. «Non era un profeta disarmato, perché sapeva bene come si fa politica, anche da sconfitto. Ed era un irregolare, che agiva mai su mandato ma sempre su propria intuizione». Una figura in sostanza ingovernabile, allora come oggi, «difficilmente spendibile anche per l’idea altissima che nutriva della politica, un’idea sostanziata di moralità». In altre parole, un’eredità distante da pestilenze e tatticismi dell’evo contemporaneo. «Fu tra i primi a comprendere il fenomeno Berlusconi, anche ricorrendo a toni che allora apparvero eccessivi. In realtà capiva che stava cambiando la cultura di un paese».
Un personaggio assai impegnativo, che qualche problema creò alla sua stessa famiglia culturale. Sul finire degli anni Sessanta, tre erano i candidati alla successione nella guida dell’Istituto per le scienze religiose da lui fondato a Bologna. A Paolo Prodi, Dossetti preferì Giuseppe Alberigo (il terzo era Boris Ulianich), e ancora oggi sopravvive qualche ruggine tra i diversi rami della sua eredità scientifica. Anche nelle file dei dossettiani di stretta osservanza - divisi tra la fondazione bolognese, la comunità della Nunziata e gli eredi di sangue come Giuseppe Dossetti junior - ciascuno se ne ritiene depositario esclusivo.
Ma per il centenario, che si celebra il 13 febbraio, si spera che ci sia pace almeno tra gli studiosi nel profluvio di importanti iniziative promosse dal segretario scientifico succeduto ad Alberigo, Alberto Melloni, con la partecipazione del presidente Napolitano (www.fscire.it).
La “dossessione” vi troverà una cura? Forse sì, ma santo mai. Nessuno in Vaticano ne ha mai promosso la canonizzazione. E la sua comunità religiosa, la Piccola famiglia dell’Annunziata, comprensibilmente ne soffre. Sì per Giorgio La Pira, sì per Giuseppe Lazzati - altri due grandi riformatori cristiani - ma per Dossetti non è stato neppure aperto il fascicolo. Né i tuoni lanciati dalla diocesi di Bologna promettono niente in tal senso.
Alle critiche antidossettiane del settimanale Bologna Sette, allegato ad Avvenire, ha replicato con severità sulla rivista Il Mulino Luigi Pedrazzi, fondatore dello storico gruppo dei mugnai. Un grave errore della comunità ecclesiale bolognese, lo giudica lo studioso. In fondo è una storia che si ripete. Fu Dossetti a tentare la rivoluzione prima nello Stato e poi nella Chiesa. Fallì in entrambe, almeno in parte, ma c’è ancora chi non glielo perdona. Anche il suo tentativo di dare vita nel ‘48 a un partito cattolico di sinistra - un “giallo politico” indagato da un saggio di Melloni che deve uscire da Donzelli (Dossetti e l’indicibile) - è insieme un enigma e un problema che si prolunga fino all’oggi. Quando si dice “dossessione".
Il battesimo
di G.Dossetti (dalla Omelia del sabato di Pasqua - 1970)
“Una sola cosa diciamo: un ulteriore commento lo faremo in un atto di potenza, tra pochi istanti, con la celebrazione del rito del battesimo che è rito di potenza, con il quale nel nome del Signore, in Cristo risorto, per la potenza dello Spirito, la comunità della Chiesa che siamo tutti noi genera alla vita divina un nuovo figlio.
Battezzeremo adesso un piccolo con la nuova acqua battesimale fecondata dalla potenza dello Spirito del Signore risorto. E’ questa, per eccellenza, l’ora messianica, nella quale viene compiuta veramente la nuova creazione. Come l’antica creazione, come il primo mondo uscito all’inizio dalle mani di Dio e violato poi dal peccato, aveva un capo e delle membra, Adamo e i suoi discendenti, così il nuovo mondo, la nuova creazione scaturita da questa notte pasquale, ha un nuovo capo e nuove membra: il capo, il Cristo risorto; le membra, i figli rigenerati dall’acqua del battesimo fecondata dalla potenza del suo Spirito effuso attraverso la sua passione e la sua risurrezione.
E noi ci dobbiamo sempre più abituare - ed ecco il commento nel rito di potenza che compiremo adesso - a vedere questa notte pasquale non solo come la notte in cui Cristo è risorto, ma la notte in cui viene al mondo un uomo nuovo, un uomo diverso da quello che viene generato secondo la carne e il sangue.
Il bimbo che fra poco battezzeremo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, generato dai suoi genitori è carne e soffio vitale, ma generato dall’acqua scaturita dal costato di Cristo, nella potenza del battesimo della sua morte e della sua risurrezione, è carne e Spirito Santo. Il suo destino umano sarebbe la morte, il destino divino che viene suggellato su di lui dal risorto presente tra noi e tra noi operante è la vita e la vita divina.
Ecco allora quello che non noi, ma il Signore presente tra di noi opererà tra poco.”
L’attacco a Dossetti divide il Vaticano
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 9 gennaio 2013)
Il pensiero di don Giuseppe Dossetti si trova di nuovo sotto attacco dei conservatori. Proprio alla vigilia dell’uscita di due libri che a cent’anni dalla nascita affrontano la vita dell’importante religioso e politico dc, ispiratore delle aperture innovative del Concilio Vaticano II e accusato di filocomunismo. La polemica è guardata in Vaticano con preoccupata intensità, perché capace di assumere sfumature politiche inattese.
L’imbarazzo è palpabile, e per molte ragioni. Perché sono appena trascorsi i cinquant’anni delle celebrazioni per l’inizio del Concilio. Perché la questione scoppia alla vigilia di una tornata elettorale che già si annuncia carica di veleni. E soprattutto perché quella appena esplosa è una mina difficile da disinnescare, senza scontentare tutti. Tanto a destra quanto a sinistra, per intenderci, di uno schieramento ecclesiastico le cui intenzioni di voto appaiono questa volta, tutt’altro che uniformi.
All’origine del caso il confronto mai sopito fra Dossetti e l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, il quale sull’eredità spirituale del sacerdote che finì per ritirarsi a vita privata in una comunità da lui fondata, ha sempre dato battaglia. Ma andiamo con ordine. Il 30 dicembre scorso Biffi ha fatto pubblicare sulle pagine di Bologna Sette, il settimanale dell’arcidiocesi, una lettera del cardinale Giovanni Battista Re in cui l’illustre porporato sosteneva di condividere le tesi dell’ex arcivescovo di Bologna sulle «lacune e le anomalie della teologia dossettiana». Non solo. Il cardinale, condividendo le riserve di Biffi, criticava il periodo in cui Dossetti era segretario dei quattro moderatori al Concilio Vaticano II, “usurpando” le competenze dell’allora segretario.
Dunque, un colpo alle idee di Dossetti che fecero da leva alle posizioni del cardinale Lercaro in chiave di profondo rinnovamento della Chiesa. Re è un pezzo da novanta in Vaticano. Già vescovo di Brescia, è stato il sostituto in Segreteria di Stato, e poi prefetto della Congregazione per i vescovi. Bologna Sette ha presentato la lettera di Re addirittura come «un documento che gli storici della Chiesa non potranno ignorare nella loro ricerca appassionata e sincera della verità».
Una fine d’anno amara per i dossettiani, che domenica 6 gennaio hanno così espresso, sempre sul settimanale della Curia, per bocca di don Athos Righi, superiore della comunità fondata dal leader, il loro “dolore”. I lettori, sorpresi e amareggiati. La rivista dell’arcidiocesi si è vista costretta a battersi il petto: «Se il nostro settimanale è venuto meno alle esigenze della carità ce ne scusiamo sinceramente... non era nostra intenzione recar turbamento alla Chiesa o offendere la memoria di don Giuseppe». I numeri del settimanale sono ora sui tavoli della Segreteria di Stato.
Assieme ai due volumi che stanno per uscire: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano, di Paolo Pombeni, e Il professorino, di Enrico Galavotti (entrambi editi da Il Mulino). Un bel caso da risolvere, non c’è che dire. Perché su Dossetti, la Chiesa continua a dividersi.
L’alleanza liberisti-cattolici
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 10 gennaio 2013)
Essere cattolici e chiudere due occhi sull’immoralità del premier è stato possibile negli anni di egemonia berlusconiana. Oggi si assiste ad un altro connubio, forse meno impervio del precedente, quello tra cattolicesimo e liberismo. Così sembra di capire da queste prime battute della campagna elettorale.
Da un lato un candidato premier, Mario Monti, che fa del liberismo la sua bandiera morale oltre che l’anima del suo programma politico, dall’altro la Chiesa di Roma che ne benedice la candidatura anche se intanto getta l’allarme sui poveri che aumentano di numero e auspica un governo più equo con i tagli e con le tasse. Questa tensione amichevole è un interessante esempio di quanto possa essere ricca di risvolti la relazione fra liberalismo e cattolicesimo.
Ci sono certamente diversi tipi di liberalismo (come ci sono diverse declinazioni del cristianesimo cattolico), almeno tre: come filosofia liberale dei diritti civili, il liberalismo è affermazione della sovranità dell’individuo nelle decisioni morali e politiche, anche quando si tratta di valori ultimi, come la vita e la morte; come ordinamento costituzionale, stato di diritto e sistema di divisione e bilanciamento dei poteri o liberalismo politico; infine come dottrina economica centrata sull’interesse individuale e la libera competizione.
In quest’ultimo caso, la visione liberale può diventare una vera e propria filosofia dell’autoregolamentazione del mercato e una dottrina compiuta secondo la quale la giustizia o è via mercato o non è, in quanto l’intervento statale di redistribuzione della ricchezza tende a disturbare il movimento economico invece di correggerlo per il meglio. Delle tre coniugazioni la prima e la terza sono le più interessanti per la questione che ci interessa.
La prima è certamente quella che più preoccupa la Chiesa perché riduce vistosamente l’autorità del magistero pastorale. Ad una prima impressione potrebbe sembrare che anche la terza incontri resistenze, poiché la giustizia sociale è un’importante acquisizione della dottrina cattolica moderna.
Eppure, le cose sono più complesse, perché tra le declinazioni del liberalismo che meno si adattano alle esigenze della Chiesa vi è proprio quella che ha partorito lo stato sociale. Prima di tutto perché ha accresciuto il potere dello Stato rispetto a tutte le fonti di solidarietà e di carità non statali: le tasse hanno per anni preso il posto della beneficenza privata, i servizi pubblici quello dei servizi erogati dalla rete delle associazioni solidaristiche, e principalmente religiose. Quindi meno stato e più società civile - il cuore del liberismo - incontra prevedibilmente l’interesse della Chiesa.
Benché quindi ci possano essere diverse declinazioni di cristianesimo cattolico, una di queste può essere quella liberista. Il catto-liberismo (un termine non bello, ma efficace) tiene insieme il progetto di un dimagrimento dello stato sociale (a cui corrisponde una crescita delle funzioni dell’associazionismo cattolico, magari con l’incentivo pubblico) e la morale della misericordia per i poveri, i quali, dove la mano dello Stato non arriva, devono sapere di poter contare sulla carità cristiana.
L’orgogliosa politica dei diritti sociali che si proponeva di emancipare i poveri facendone cittadini sembra non soddisfare né liberisti né cattolici, che così si trovano quasi naturalmente alleati, uniti dalla politica della sussidiarietà che rilancia (magari con l’aiuto del pubblico) la società civile.