Vattimo

"Vattimo, il pensiero debole e il relativismo". Uscita la prima monografia italiana sul grande filosofo, scritta da Giovanni Giorgio

Parla l’autore, che cita anche il discepolo più in gamba di Vattimo, Santiago Zabala
domenica 11 marzo 2007.
 

Vattimo, il pensiero debole e il relativismo

Parla don Giovanni Giorgio, autore di una monografia sul filosofo calabrese

TERAMO, venerdì, 9 marzo 2007 (ZENIT.org).- La prima monografia in Italia sul filosofo del postmodernismo, Gianni Vattimo (Torino, 1936), è stata scritta da un prete, Giovanni Giorgio, professore alla Pontificia Università Lateranense.

“Il pensiero di Gianni Vattimo” (Franco Angeli, Milano, 2006) è una visione di insieme dell’itinerario speculativo di questo professore di Filosofia teoretica all’Università di Torino, che nel 2006 ha compiuto 70 anni.

Negli ultimi anni Vattimo, discepolo del filosofo Hans-Georg Gadamer, ha guardato al cristianesimo dalla prospettiva della kenosi - abbassamento di Dio - e a partire dalla categoria della carità, considerata come base per una società tollerante.

L’autore del saggio, Giovanni Giorgio è presbitero della diocesi di Teramo-Altri, è docente di filosofia teoretica presso la Pontificia Università Lateranense di Roma ed è Preside del Seminario San Pio X di Chieti.

Don Giovanni è socio e segretario della Società italiana per la ricerca teologica. Tra i suoi altri libri, va menzionato il volume dal titolo “Dio padre e creatore. L’inizio della fede” (Dehoniane, Bologna, 2002).

In questa intervista concessa a ZENIT, don Giorgio spiega i principali punti della filosofia qualificata come “pensiero debole” di Gianni Vattimo.

Vattimo è esponente del pensiero debole, o sarebbe troppo riduttivo qualificarlo così?

Giorgio: Non direi che Vattimo è esponente di un pensiero debole. Egli fu uno dei partecipanti ad un volume collettivo apparso nel 1983, il cui titolo era appunto Il pensiero debole. Insieme a Vattimo parteciparono a quel volume Amoroso, Carchia, Comolli, Costa, Crespi, Dal Lago, Eco, Ferraris, Marconi e Rovatti.

È vero tuttavia che l’etichetta ’pensiero debole’ è quella con cui più comunemente si indica la proposta filosofica di Gianni Vattimo. Come spesso accade il nome non si sceglie, ma viene dato.

A tal proposito, tuttavia, vale la pena fare una precisazione. Il ’pensiero debole’ di Gianni Vattimo non vuole essere un pensiero fragile, che rinunci al rigore o che sia arbitrario. In una intervista rilasciata a Santiago Zabala, il suo miglior discepolo, Vattimo sostiene di credere in «una teoria forte della debolezza».

Voglio dire che è per motivi filosoficamente rigorosi e sostanzialmente legati alla violenza della metafisica che Vattimo si è orientato per la sua proposta filosofica, che sembra essere all’altezza dei tempi che stiamo vivendo, segnati dal moltiplicarsi delle differenze e dalla necessità di una loro pacifica coesistenza, lontano da ogni fondamentalismo.

Dunque non è riduttivo qualificare Vattimo come esponente del ’pensiero debole’, purché sia chiaro che non si tratta di un pensiero fragile.

Quale è stata l’evoluzione nell’itinerario speculativo del filosofo Vattimo circa la pretesa di trovare la verità?

Giorgio: Possiamo rispondere grosso modo così: il mondo occidentale è figlio della metafisica, ovvero di quell’atteggiamento di pensiero che si rivolge al mondo contingente (ente) cercandone il senso (essere) in un mondo immutabile ideale.

I due mondi sono gerarchicamente ordinati: quello contingente dipende da quello ideale e ad esso deve adeguarsi per trovare la propria ’verità eterna’. Ma questo, riguardo all’uomo, che significa? Che l’uomo è espropriato della sua libertà, in quanto egli deve essere semplicemente quello che da sempre e per sempre è stabilito che sia, in base al mondo delle essenze ideali immutabili. Egli non ha il diritto di volere attivamente ciò che ha da essere in un progetto di sé di volta in volta storicamente diverso. Deve solo applicare passivamente alla sua vita quello che è da sempre stabilito. Ma questo significa che l’uomo occidentale vive in un’alienazione ontologica, in quanto la sua vita non gli appartiene. Come uscire da questa alienazione? Questa è - a mio giudizio - la domanda che guida la riflessione di Vattimo.

La risposta a questa domanda, circa la verità dell’esistenza umana, in una prima fase (1961-1975 circa) del suo pensiero, Vattimo la cerca nella dialettica hegelo-marxista, alla luce della quale legge autori a lui molto cari, come Heidegger e Nietzsche, il quale ultimo viene qualificato come ’pensatore della liberazione’ (più dialettico di così!!). In buona sostanza l’esistenza alienata, scissa dal proprio senso, riconquista rivoluzionariamente il suo senso nell’emancipazione che riconcilia definitivamente esistenza e senso. L’esistenza cioè vuole e conquista se stessa nell’utopia del progetto rivoluzionario.

Quale è la seconda fase di Vattimo?

Giorgio: La seconda fase (1975-1994) del pensiero di Vattimo corrisponde al momento in cui si rende conto che la proposta filosofica della dialettica rappresenta un’ennesima riproposta della metafisica, perché la dialettica prospetta di nuovo un ennesimo mondo ideale, quello utopico, al quale l’esistenza dovrà passivamente adeguarsi, una volta raggiunta la pacificazione postrivoluzionaria.

Ma in questo modo non si fa altro che instaurare un ennesimo regime ideale che, abolendo definitivamente la storia, pretende, ancora una volta, di imporsi violentemente come la verità definitiva e non ulteriormente mutabile per l’uomo. Questi non deve fare altro che adeguarsi ad essa. Ma in questo modo perde di nuovo la sua capacità di progettazione di sé. Si ricade in ciò da cui si voleva uscire.

A Vattimo non resta che cambiare strada: la verità per l’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, non è da cercare in un mondo ideale, ma nella storia di cui siamo figli. Il senso non è trascendente la storia, ma immanente alla storia, cioè fatto dagli uomini. Non dobbiamo ’escogitare’ mondi ideali astratti, ma comprendere la nostra provenienza. Per questo l’ermeneutica è la strada alla verità: se ricostruiremo la nostra memoria sapremo in quale movimento siamo inseriti, e potremo trovare un senso alla nostra vita non ’escogitato’ più o meno arbitrariamente.

Ora questo senso Vattimo lo legge in ciò che Heidegger chiama ’il compimento della metafisica’ e Nietzsche chiama ’la morte di Dio’. Con queste espressioni si vuole indicare che la storia che l’occidente ha vissuto e vive è la storia di un indebolimento, ovvero il tramonto di ogni pretesa del pensiero ’forte’ che si ritiene capace di attingere il mondo ideale e il suo fondamento ultimo. Noi siamo i figli di questa storia recente di secolarizzazione. Tramontata ogni pretesa ’forte’ del pensiero e dell’essere resta la possibilità di un ’pensiero debole’ che viva consapevolmente questa debolezza non come una condanna, ma come una chance positiva. L’indebolimento dell’essere può essere infatti la strada per una modalità non violenta di vita, in cui la pacifica coesistenza delle differenze - impossibile rispetto ad uno ed un solo mondo ideale vero - diviene possibile.

Nell’ultimo periodo Vattimo rilegge il cristianesimo...

Giorgio: La terza fase del suo pensiero, a partire dagli anni Novanta e fino ad oggi, è caratterizzata dalla rilettura ’debole’ del cristianesimo. Detto altrimenti: se il ’pensiero debole’ rappresenta l’evoluzione autentica della secolarizzazione moderna, questa è secolarizzazione del cristianesimo, il quale, a sua volta, è secolarizzazione del mondo sacro pagano. Questa ultima fase, permette a Vattimo di leggere unitariamente l’intera storia del pensiero occidentale come destino di secolarizzazione, cioè di indebolimento delle strutture forti e violente dell’essere e del pensiero.

Attualmente le sue ultime pubblicazioni vanno verso la declinazione delle conseguenze delle sue prese di posizioni filosofiche specie a livello etico.

Si avverte un certo fascino in Vattimo riguardo alcuni aspetti del cristianesimo, come il concetto di carità. Cosa lo attrae e invece cosa non lo convince della fede?

Giorgio: Ciò che attrae Vattimo è la kenosis divina di Gesù di Nazareth, cioè il mistero dell’incarnazione, il fatto che Dio abbia dismesso i panni della potenza e si sia mostrato debole e crocifisso. Attorno a questo nucleo egli ha riletto in una prospettiva ’debole’ il cristianesimo. Mi permetto di utilizzare ancora Santiago Zabala per essere più chiaro.

Cosa propone essenzialmente la fede: verità da ritenere o carità da operare. A giudizio di Vattimo il cuore del cristianesimo è la carità, l’apertura ospitale all’alterità. Se questo è vero, allora, a giudizio di Vattimo, la società occidentale odierna democratica e pluralista è l’erede legittima di un cristianesimo secolarizzato e ’indebolito’ nelle sue pretese forti di verità.

Se questo è quanto lo attrae e lo convince del cristianesimo, ciò verso cui Vattimo ha estrema repulsione è il volto dogmatico e disciplinare di una Chiesa ridotta ad istituzione. È come se in Vattimo si facessero presenti due volti della Chiesa: quello istituzionale e perentorio, a suo giudizio più preoccupata di salvare la verità e il suo potere che le persone, e quello invece pastorale - più di base, se si vuole - più preoccupata di incontrare le persone nella carità. La fatica vera è quella di coniugare in uno questi due aspetti: verità e carità.

Un aiuto in tal senso mi pare ci possa venire da una considerazione che ha sviluppato Carmelo Dotolo nel suo volume La rivelazione cristiana. Parola evento mistero (Paoline, Milano, 2002). Il fatto che la verità cristiana non sia una tesi, ma una persona, cioè Gesù di Nazareth, implica che la verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno che ci possiede per aprirci alla comprensione del senso della vita che in lui si dona nella carità.

In tal senso ognuno è chiamato a percorrere personalmente l’itinerario che conduce alla verità, perché soltanto nel cammino del dono di sé al dono di Dio essa si schiude.

Secondo lei, quando Benedetto XVI parla del relativismo odierno ha in mente linee di pensiero come quelle sostenute da Vattimo?

Giorgio: Ritengo che Benedetto XVI pensi anche al pensiero di Vattimo. Qui, tuttavia, vale la pena di fare una precisazione, perché il termine ’relativismo’ sta diventando un calderone dove confluisce tutto e il contrario di tutto.

Se con ’relativismo’ intendiamo la modulazione di una libertà autoreferenziale che può pensare, dire e fare quello che gli pare, allora Vattimo non è relativista. Egli infatti fornisce argomenti, sia pure discutibili, che giustificano la sua posizione in modo razionale.

Se con ’relativismo’ intendiamo invece la situazione di pluralismo in cui le diverse concezioni della vita, dell’uomo, della storia, della politica, della religione, e così via, dialogano razionalmente, cioè scelgono di argomentare e di non imporre violentemente la propria visione delle cose, alla ricerca di una possibile convivenza pacifica delle differenze, allora Vattimo è un relativista.

Rispetto a questo credo che Vattimo ci insegni una cosa. Siamo usciti fuori dal tempo in cui era possibile un pensiero unico, un’unica verità. È finito il tempo del nazifascismo, è finito il tempo del comunismo e comincia a incrinarsi anche il regime tardocapitalista globalizzato.

Siamo in una società trasparente, per citare un titolo di Gianni Vattimo, una società della comunicazione in cui la molteplicità dei punti di vista ci convince sempre più che ogni nostra verità è storica, cioè è mutabile, non definitiva e vale fino a prova contraria.

Questa situazione non è una condanna per il cristianesimo, ma una chance, come cerca di mostrare Carmelo Dotolo nel suo ultimo volume uscito da qualche giorno Un cristianesimo possibile. Tra postmoderno e ricerca religiosa (Queriniana, Brescia, 2007).

Con questo non voglio dire che verità dogmatiche debbano essere messe in discussione, ma certo che la forza del dogma non si misura dalla sua monotona capacità di ripetersi identico a se stesso, quanto nella capacità di sprigionare forme nuove di pensiero e di vita che siano forza rinnovatrice della storia.

L’intervista è apparsa su Zenit

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