di Girolamo De Michele (Liberazione, 09.06.2006)
Tra il 1978 e il 1979 Michel Foucault tiene due corsi al Collège de France: si tratta, per il filosofo che negli stessi anni lavora alla Storia della sessualità, di esporre delle ipotesi di lavoro, di saggiare la validità di progetti in corso di definizione. Di ripensare lo stesso disegno di un potere disciplinare. Non è casuale che questa ricerca sia abbozzata nel corso di quella sorta di impasse che prende Foucault dopo la stesura de La volontà di sapere, che doveva introdurre le successive ricerche sulla sessualità e che invece si rivela il primo passo verso una ridefinizione dei processi di soggettivazione.
Questi corsi, pubblicati in Francia nel 2004 e tradotti in Italia nel 2005 - Sicurezza territorio popolazione e Nascita della biopolitica - sono oggi messi in questione da una enquiry ruotante attorno a un seminario presso l’Università di Padova coordinata da Sandro Chignola, che ha curato la pubblicazione dei contributi più rilevanti, accresciuti da altri saggi di spessore: il risultato è questo Governare la vita (edizioni Ombre Corte, pp. 154, euro 13,00).
I testi di Foucault, va detto, sono discontinui, caratterizzati da pieni e vuoti parimenti sorprendenti, a volte persino discutibili: è l’esposizione di lavori a venire, non di compiute ricerche. A fronte della brusca interruzione della ricerca causata dalla morte di Foucault, l’atteggiamento degli studiosi qui raccolti (oltre allo stesso Chignola, Pandolfi, Senellart, Karsenti e Zanini) è quello di chi accetta la sfida del testo e rilancia, cercando di produrre quei pieni che mancano nell’originale.
Non esegeti dediti all’ermeneutica del frammento, ma studiosi militanti, che ripropongono e rilanciano questioni e problemi: «la teoria non anticipa la prassi - scrive Chignola - e non traguarda in formule prescrittive. Il lavoro del filosofo è la diagnosi dell’attualità. Apertura di cantieri storici in cui verificare ciò che siamo. Critica del presente nella misura in cui la ricerca si mette a disposizione di coloro che tengono aperta la porta stretta del futuro».
Cosa è messo in questione dall’ultimo Foucault? La questione stessa del potere, o meglio, di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione. Questo approccio implica l’abbandono di una sorta di dogma del pensiero politico: lo studio del potere a partire dal sovrano, secondo un asse che partiva dal Machiavelli del Principe per incentrarsi sul Leviatano di Hobbes e finire con l’attribuire centralità al sovrano schmittiano come colui che decide del rapporto amico-nemico.
Questo approccio ha generato una vera ossessione nei confronti del Leviatano (concretizzatasi in un passato non lontano nelle superfetazioni dei testi di Carl Schmitt e nell’assunzione naturalistiche delle sue categorie): è dunque salutare, oltre che innovativa, la mossa con cui Foucault sposta lo studio dalla fabbricazione del sovrano alla fabbricazione degli individui, cioè verso la produzione della vita stessa.
Non più il potere medioevale come istanza che dà la morte e lascia vivere: il potere moderno, cioè il biopotere, interviene direttamente sulla vita producendola (si pensi agli apparati amministrativi che governano l’esistenza, alla medicalizzazione del corpo, alla selezione delle malattie) e lasciando quindi la libertà di morire.
Foucault scopre che il potere in sé è qualcosa che non esiste, nel senso che non esiste un potere per così dire “puro”: «esso circola, ripartisce, organizza lo spazio sociale. E’ un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate - scrive ancora Chignola - più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano».
Come aveva detto della follia, Foucault può ora dire che il potere non esiste, ma «non si può dire che non sia niente». Esiste nella misura in cui produce effetti: cioè governa. La governamentalità è proprio questo, in ultima analisi: la definizione di un nuovo insieme sociale, la “popolazione”, che si distacca per organizzazione, disciplinamento, assoggettamento dall’insieme informe del “popolo”, che è ciò che al governo resiste.
Rispetto alle analisi dei processi di assoggettamento della Storia della follia la novità è costituita dalla scoperta del ruolo della pastorale cristiana come tecnica di potere fondata sull’obbedienza pura, tecnica che viene incorporata dallo Stato, attraverso la scienza di polizia, cioè quella «forma specifica di sapere e di intervento politico - spiega Senellart - che ha per oggetto non solo il buon ordine pubblico, ma anche il numero degli uomini, le necessità della vita, la salute al fine di accrescere la potenza interna dello Stato».
Da cui segue che relazioni, metodi e punti di applicazione del potere diventano visibili solo assumendo il punto di vista della resistenza al potere, piuttosto che tipi ideali. Soprattutto, con una mossa che Foucault concepisce nei termini di uno storicismo radicale (cioè senza il suo retroterra finalistico o biologistico): il potere va analizzato a partire dalla sua capacità di risolvere un confronto strategico, ossia non in base a una supposta “verità”, ma sulla base della sua capacità di produrre le condizioni di effettualità della verità.
Con le parole stesse di Foucault, è «non tanto la storia del vero e del falso, bensì la storia della veridizione ad essere politicamente rilevante». Vero è, parafrasando il sofista Trasimaco, ciò che le tecniche di governamentalità hanno la capacità di rendere vero. Da cui, come ulteriore conseguenza, un rinnovato interesse verso le teorie dei giochi linguistici e degli atti discorsivi, che hanno da dirci sulla questione del potere molto più delle ermeneutiche heideggero-gadameriane.
Non sorprende che, a questi livelli, Foucault rigetti decisamente ogni riduzione che appiattisce questo complesso gioco di relazioni sulle false antitesi del pensiero dialettico o sulle facili esemplificazioni del paradigma della guerra. Si tratta di riduzionismi che non sono in grado di rendere conto della complessità che si intesse tra Stato e mercato. Se infatti la circolazione delle merci, come pure degli individui (e quindi la gestione delle infrastrutture) è ciò di cui si prende cura la scienza di polizia (police), è anche vero che il mercato stesso viene a costituirsi non come ciò che supporta una qualche verità data, ma è il luogo stesso di veridizione (o di falsificazione) della pratica governamentale.
Ma «una simile concezione dello stato di diritto entro l’ordine economico - sono parole di Foucault - esclude, in fondo, che vi sia un soggetto universale del sapere economico, capace, in un certo senso, di dominare dall’alto l’insieme dei processi, di fissare dei fini e di sostituirsi a una o all’altra categoria di agenti per prendere una certa decisione». Lo spazio della sovranità si rivela quindi «abitato da soggetti economici che la teoria giuridica non è in grado di governare. Nemmeno il mercato, però, ha una tale capacità» (Zanini).
Qui Foucault si ricongiunge all’intuizione di Deleuze che vedeva la coesistenza, incessante quanto impossibile a costituire una totalità determinata, della tecnocrazia che «pretende di promuovere assetti parziali dei rapporti sociali al ritmo delle acquisizioni tecniche», e del dispotismo «che vorrebbe istituire la totalizzazione del significabile e del conosciuto al ritmo della totalità esistente» (Logica del senso). In definitiva, «non c’è e non può esserci pacificazione o sintesi liberale», perché «il liberalismo non esiste che nel modo della crisi» (Karsenti).
Rimane aperta una questione, da rilanciare alle pratiche dei movimenti prima ancora che al pensiero critico: che cos’è che, politicamente, non è mai accaduto? La risposta di Foucault è: una rivoluzione antipastorale. Una rivoluzione contro l’obbedienza pura, contro la costituzione di soggettività in termini di dipendenza. In tempi di rigurgiti ecclesiastici neo-pastorali, così come di nostalgie neo-leninistiche (Zizek) o derive iper-soggettivistiche, la domanda è di urgente attualità.
Sul tema, in rete, si cfr.:
KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
ANTHROPOLOGY, PHYSICS, METAPHYSICS, PSICHOLOGY, ART.
Una nota a margine dell’articolo di Pietro Barbetta (Qeios, Aug 16, 2023),
"[...] It did not happen in Silvaplana - as it did to #Nietzsche - nor in the Death Valley - as it did to #Foucault. I was, maybe I still am, entangled within the middle-class petit-bourgeoise of the sub-province of a European Tribe.
When I felt my mind opening, I started to enjoy Foucault with all my senses. I learned not to get immediately to the point. I learned to avoid the paratactic style, to be curious and remain more focused on the text, as a reader, and writer, to enjoy the style and connect the singularity of each moment with the whole picture on the canvas, going back and forth between the details and the ensemble, coming back to the details with a new gaze. Systemic epistemology, in my view, starts with the History of Systems of Thought, a new topic to be taught - inaugurated by Foucault in 1970 - a new investigation of the social unconscious, the unconscious of the World, the same unconscious, always at work, called by #Deleuze and #Guattari: Desiring Machine.
I started to enjoy the Baroque style of writing, making theatre, movies, and music; following Foucault, #Blanchot, #Joyce, #Deleuze, #Pasolini, #Basaglia, #Magritte, Jackson #Pollock and many other figures of #Modernism; all of them contributed to unveiling the oppressed unconscious of the Weastern World, which is not the branded on and forced upon tiny, private unconscious concerning only the #triangle mom-dad-child.
After more than 50 years of frequenting these authors, and others, moment after moment I acquired the patience to create a space. Blanchot’s space is L’espace literaire. My modest - and less prestigious space - is the therapeutic space, a space where psychotherapy and psychoanalysis, in fleeing the so-called “scientific approach” can become a minor work of art of contemporary times." (cit.).
*
ANTROPOLOGIA COSMOLOGIA E PSICOANALISI: "SAPERE AUDE!"(KOENIGSBERG 1784 - KALININGRAD 2023). Ma, dopo Foucault (1984) e con Foucault, non resta ancora da accogliere in prima persona l’illuminante sollecitazione foucaultiana a riprendere la lezione di #Kant sull’illuminismo (1784) e, con #Freud e #Fachinelli, andare oltre l’orizzonte #edipico, "which is not the branded on and forced upon tiny, private unconscious concerning only the triangle mom-dad-child" (cit.), e uscire dallo stato di #claustrofilia e di #minorità planetario?! Non è il caso di ripensare, come ha tentato di fare #UmbertoEco, al "pendolo di [Leon] Foucault" [Parigi, 18 settembre 1819 - 11 febbraio 1868] e, al contempo, con #DanteAlighieri e #GalileoGalilei, portarsi fuori dall’aiuola "che ci fa tanto feroci" e dare il via a una seconda #rivoluzionecopernicana?
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
Sentieri critici. Un percorso di letture, alcune cruciali e altre discutibili, sull’opera di Michel Foucault, a partire dal confronto aperto con Marx che invita a un controverso «corpo a corpo»
di Girolamo De Michele (il manifesto, 11.02.2016)
La pubblicazione degli ultimi corsi e alcuni convegni hanno reso densa la bibliografia critica su Michel Foucault: dai volumi collettivi Usages de Foucault e Marx & Foucault a Le sujet des normes di Macherey, dalla monografia di Chignola Foucault oltre Foucault ai capitoli foucaultiani di Confini e frontiere di Mezzadra e Neilson e di La razón neoliberal. Economía barrocas y pragmática popular di Verónica Gago. Prova a staccarsi da questo panorama il volume curato da Daniel Zamora Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (edizioni Aden, Paris), che si propone di svelare, attraverso la comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale», una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo «ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata e spesso ignorata», e che sarebbe un significativo indice della deriva della gauche post-68.
In verità, è curiosa la descrizione di un Foucault misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante Michael C. Behrent, Michael S. Christofferson e Jan Rehmann, dei quali le critiche a Foucault sono note da anni: tant’è che buona parte del volume è costituito da testi già pubblicati lo scorso decennio, o riscritture di cose già dette. Vale a dire: testi che precedono non solo il «Foucault greco» (falsificandolo in una sorta di riposo del guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale), ma anche i corsi sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si evince la presenza di Thompson e Porchnev nelle letture del Foucault preteso pre-politico.
Insomma, un «ultimo Foucault» che inizia e finisce dove piace ai suoi «demistificatori». Cui si aggiunge spesso il mancato uso sistematico dei Dits et écrits, sostituiti da un utilizzo dei testi e delle citazioni secondo il metodo dei morceaux choisis. Così del corso sulla biopolitica Behrent fornisce una faziosa genealogia, che elenca l’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun nesso causale fra le traduzioni di Hayek e Friedman e il lavoro di Foucault: si allude a una concomitanza che si insinua essere non casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con episodi di militanza attiva, o con intense attività seminariali delle quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso fascicolo del 1978 di «aut aut» (n. 167-168).
Così come viene riscritta la biografia intellettuale di Foucault con scivoloni marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per buona senza verifica l’affermazione che «le parole capitalista e proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970» (Eric Paras): affermazione falsa - e molte sorprese avrebbe lo sciatto lettore se cercasse anche bourgeois, o addirittura Marx; e soprattutto che non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli enunciati e dei rapporti fra cose e parole.
Quanto alla tentazione neoliberale, essa è resa credibile con lo scorporo del corso del 1979 da quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di avviare, enunciando delle fondamentali «precauzioni di metodo», a un’analitica del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo - o l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru (Zamora) - per un’adesione ideologica. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages de Foucault, che Foucault ha chiarito in un’intervista inedita recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso nei Dits et écrits), come la sua «analisi positiva» delle forme di potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti di legna, non comporta alcun giudizio favorevole agli «aspetti negativi» del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti negativi di una nuova figura di potere».
Lotte trasversali
È Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce «dispotismo del capitale» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con buona pace di Chakrabarty, che si serve proprio di Foucault per attualizzare quel concetto marxiano). Il fatto è che Foucault non negava (si veda il dibattito con Chomsky del 1971) il carattere classista dello sfruttamento: aggiungeva però che la determinazione economica, da sola, non è sufficiente a individuare i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe».
È Rehmann, per contro, a non riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di Loach: dalle lotte dei migranti nel settore dei servizi che mettono in questione la centralità e le pratiche del sindacalismo tradizionale, alle soggettivazioni di genere e alle pratiche di assoggettamento. Ciò che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude, ma riapre la ricerca foucaultiana: in direzione del rapporto fra liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo.
Tutta qui, dunque, la loro capacità interpretativa? Sì e no. Perché se gli strumenti sono davvero rugginosi e spuntati, il vero scopo di questo libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio di quella politica grunf-grunf che vede nelle forme di lotta e conflitto del tempo presente il tradimento di un programma materialistico in stile-Diamat, del quale si indicano i responsabili in Foucault e nei Nietzscheani di sinistra - così Rehmann nel libro omonimo, non per caso introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni intento a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora. Quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali al loro manifestarsi, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati dalla lettura di Foucault, Nietzsche e Deleuze.
Non stupisce allora che sia l’autore del saggio più teoreticamente debole, Jean-Loup Amselle, a costruire (come fece Cacciari nel 1977) una «sinistra post-moderna» a suo uso e consumo nella quale ribollono assieme Negri e Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui strategia riformista consisterebbe nella svendita all’austerità e all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche «leccalecca» come il matrimonio per le coppie omosessuali.
Nondimeno, questi autori sfiorano una questione aperta: quella del mancato incrocio tra Foucault e il marxismo. Che non avvenne perché in Francia il marxismo «ufficiale» reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo strutturalismo fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico, nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in reazione al tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx. In altri termini, quel marxismo, costretto a «mollare la presa» di una critica che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva con ottusa protervia la Fortezza Bastiani da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari» in atto - così Negri nel 1978 - al quale anche Foucault contribuiva.
Il potenziale dirompente
Diversa era la situazione in Italia, dove un altro marxismo aveva cominciato a dialogare con Foucault - attraverso la rivista «aut aut», ma anche in quelle pagine del Marx oltre Marx dove Negri descriveva la circolazione e distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault dell’analitica del potere. Come sia stata interrotta quella ricerca teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e di fatto cominciano ad esserlo: lo testimoniano i testi già citati, e in particolare quelli del colloquio Marx & Foucault curati da Laval, Paltrinieri e Taylan. Dove al Foucault lettore di Marx, con saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un uso marxiano di Foucault, succedono tentativi, spesso riusciti, di avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (Negri, Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini).
Non si tratta di elevare la foucaultiana diagnostica del presente a un «insieme di consegne che il filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come sottolineano nel proprio intervento - che conclude il volume - Nicoli e Paltrinieri, ma di usare la critica per mostrare «il potenziale dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, i grunf-grunf bastano e avanzano.
Foucault
Anarcheologia del potere
di Sebastiano Maffettone ( il Sole 24 ore domenica, 15.06.2014)
L’uscita di un’opera di Michel Foucault rappresenta sempre un evento culturale di rilievo. Lo si può dire anche per questo volume intitolato Del governo dei viventi, pubblicato ora in italiano da Feltrinelli dopo l’edizione francese del 2012 curata da Michel Senellart, autore anche di un’utile Nota finale.
Il corso in questione segue quello più famoso sulla biopolitica, in cui Foucault chiariva come il biologico influenzi il politico e viceversa. Negli anni precedenti, lo stesso Foucault aveva proposta la centrale nozione filosofico-politica di governamentalità, come contrapposta alla sovranità hobbesiana, e letto il liberalismo come tecnica o regime di governo. All’interno di questo quadro categoriale, il corso del 1979-1980 presenta un’idea centrale, che è poi quella del titolo del volume, sul «governo dei viventi».
Dopo aver chiarito nel primo capitolo la natura di questo concetto, il corso è diviso in due parti. La prima parte ripercorre la vicenda dell’Edipo Re di Sofocle, e la seconda - in maniera più sorprendente - discute temi della tradizione patristica cristiana. Il trait d’union tra le due parti riguarda ovviamente il governo dei viventi in termini di "aleturgia". Con questo inconsueto termine, Foucault intende riferirsi al fatto che non è possibile «dirigere gli uomini senza fare delle operazioni nell’ordine del vero». Queste operazioni poi, pur essendo necessarie, sono sempre "eccedenti" rispetto a quanto serve per governare in modo efficace.
In questo modo, Foucault vuole mettere da parte ogni interpretazione strumentale del rapporto tra potere e verità. Un "atto di verità" ritualizza il potere ma non ne costituisce uno strumento. Da ciò si ricava che un "regime di verità" è quello che obbliga gli individui ad aderire ad atti di verità.
Un esempio storicamente rilevante è costituito dalla perenne lotta della ragion di stato contro il magico, a cominciare da stregoni e indovini. Questa lotta è fatta propria anche dalla tradizione ecclesiale, che Foucault rilegge non solo attraverso Cassiano, Agostino e Tertulliano ma con l’ausilio di sofisticata letteratura secondaria.
Se la filosofia in generale è, per il nostro, un modo permanente per riflettere sul rapporto con la verità, nel corso del 1979-1980 questa riflessione si applica più esplicitamente alla questione della governabilità. Coevo alla scrittura della parte finale della Storia della sessualità, il discorso sul governo dei viventi propone una lettura diversa da quella nicciana, attribuita di solito anche a Foucault stesso, del nesso potere-sapere. Quest’ultimo viene ricompreso in un atteggiamento piuttosto che in una visione teoretica, atteggiamento che, con qualche auto-ironia, Foucault battezza di «anarcheologia». Si denuncia in questo modo l’assoluta non-necessità di ogni potere. La dove al fascino indubbio del movimento decostruttivo si accompagna, come di consueto, l’impossibilità di ogni speranza normativa.
LA CRITICA ERRANTE DI UN PENSIERO RIBELLE
Lo scandalo DELLA VERITÀ
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 23.10.2009)
Il corso di Michel Foucault raccolto nel volume edito da Feltrinelli «Il governo di sé e degli altri» articola il tema di una prassi teorica che si presenta come critica all’esistente e atto ribelle rispetto al potere. Un testo che, assieme a «Il coraggio della verità» in corso di pubblicazione, smentisce le interpretazioni che hanno presentato il filosofo francese come un teorico del neoliberismo
Il coraggio della verità è il titolo del corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France dal febbraio al marzo del 1984. Pochi mesi dopo, nel mese di giugno, il filosofo sarebbe morto. La morte aleggia sulle ultime parole pubbliche pronunciate da Foucault e non solo perché all’inizio del corso egli ammette di essere seriamente malato o si moltiplicano i riferimenti agli ultimi giorni di Socrate. Piuttosto, le lezioni si concludono all’insegna della finitudine, come consapevolezza di un senso terreno e irripetibile da dare all’esistenza tra gli uomini. Continuazione esplicita di Il governo di sé e degli altri, uscito in Francia nel 2008 e in Italia da pochi giorni presso Feltrinelli, Il coraggio della verità (di cui l’editore milanese ha annunciato la pubblicazione in italiano) corona una meditazione sobria e analitica ma non di meno radicale su ciò che Hannah Arendt avrebbe definito l’esistenza politica. Qui dobbiamo essere chiari. I due corsi, e soprattutto il secondo, mandano all’aria le interpretazioni edificanti e parrocchiali, essenzialmente revisioniste, che nell’ultimo decennio, in base alla pubblicazione dei corsi, si sono volute dare della ricerca foucaultiana. Laddove Foucault ricostruiva le peripezie dell’etica antica in chiave di progressiva spoliticizzazione (e quindi giustificazione di un governo pastorale o se vogliamo del dominio), alcuni interpreti contemporanei hanno voluto vedere una sorta di filosofia pratica dell’interiorità - come in quella parodia degli esercizi spirituali che va sotto il nome di consulenza filosofica. Uno storico e filosofo scettico e libertario è stato così ridotto a una sorta di pedagogista o maestro di saggezza, caricatura che Foucault avrebbe aborrito. Basterebbe la sobrietà con cui ha affrontato gli ultimi mesi di vita a mostrare come per Foucault la «cura di sé» fosse qualcosa di squisitamente privato di cui non fare commercio intellettuale e materiale.
Gli idoli del cinico
Nel Governo di sé e degli altri, Foucault indica, basandosi su Euripide, Platone, Plutarco ecc.come la parresia fosse in origine un concetto politico - la parola che l’uomo libero pronuncia al cospetto della polis contro la tirannia e l’ingiustizia. Dunque, qualcosa che ha senso in pubblico e presuppone un coro. Successivamente, in sintonia con il declino della polis, la parresia entra a far parte degli arcana imperi. Come si vede nei rapporti di Platone con i due Dionigi, il «parlar franco» diventa quello del filosofo al tiranno; in altri termini, si tratta di qualcosa al tempo stesso tecnico e segreto (da qui l’affinità con il tema platonico della supremazia della sapienza orale).
La fine della libertà greca è il contesto storico in cui la parresia perde qualsiasi sapore politico per divenire «franchezza» teoretica, «verità» personale e interpersonale. Si gettano qui le premesse per quel rimpatrio dei filosofi in se stessi alla base di gran parte dell’etica ellenistica e in particolare dello stoicismo. Ma, se si hanno in mente le altre ricerche di Foucault, è impossibile non pensare alla fondazione della soggettività teoretica. A partire dal Noli foras ire di Agostino si dipana una strada che passa da Cartesio e transita dalle parti di Husserl per finire nel ricettario edificante contemporaneo.
Le prime lezioni del corso del 1984 riprendono e rielaborano il Governo di sé e degli altri. Come se sentisse l’urgenza di fissare un materia delicatissima (in fondo si tratta di ripensare in chiave di conflitto etico-politico, e non più di mero disvelamento della razionalità, le origini del pensiero occidentale), Foucault ritorna sulle diverse declinazioni della parresia, si sofferma sulle interpretazioni della morte di Socrate, tira i fili che da quelle antiche discussioni portano direttamente ai dilemmi d’oggi, mostra come in ultimo la psuché sia il terreno cui è approdato il «parlar franco». È nell’interiorità dell’anima che il saggio vedrà in ultimo manifestarsi il logos. Simone Weil ha potuto parlare, a proposito della filosofia platonica, di intuizioni precristiane. Foucault ci mostra quanto classica sia l’idea (che si vuole moderna) dell’io come terreno privilegiato della verità.
Era possibile un’altra storia? Attraverso un’analisi originalissima della svolta cinica, Foucault sembra suggerire di sì - portandoci su un terreno che non è quello della mera nostalgia della polis e tanto meno del ripiegamento stoico. Il cinico non è qualcuno che esercita all’occasione la parresia o tanto meno la teorizza, ma è quello che la pratica sempre - qualcuno cioè che vive, si potrebbe dire, in uno stato di parresia.
Il cinico pertanto, smaschera con il suo esempio gli idoli privati e pubblici. Esemplare, a questo proposito, quel filosofo cinico trascinato in giudizio perché si rifiuta di accettare i misteri. Se i misteri sono cattivi, egli dice, il filosofo deve dire la verità su di loro. Se sono buoni, dovrà attirarvi più gente possibile; in ogni caso, deve conoscerli e quindi non possono darsi misteri. Con una battuta, i cinici smascherano la mitologia religiosa e la prosopopea del potere. In questo modo, corrono dei rischi, esattamente come Socrate, di cui portano alle estreme conseguenze il metodo, ma senza quell’aura di superiorità un po’ tortuosa che già aveva sollevato su Socrate le ironie di Aristofane.
I cinici, infatti, danno soprattutto l’esempio, incarnano la verità con il loro comportamento. In un capitolo straordinario sulla posterità dei cinici, Foucault mostra quanto il loro esempio sia affine allo spirito rivoluzionario moderno. Il cinico è, in ultima analisi,un filosofo pratico sovversivo e, in questo senso, si erge contro il conservatorismo platonico e aristotelico e il loro supremo senso dell’ordine.
Lo spirito antistituzionale
Povertà nella vita quotidiana, corpi coperti di stracci, mancanza di dimora, nomadismo... In questa filosofia praticata in basso Foucault vede giustamente i prodromi di un cristianesimo popolare e primitivo, ma anche delle eresie che germineranno ai margini dell’istituzionalizzazione del cristianesimo e contro di essa. Come non pensare, oltre ai valdesi citati da Foucault, alle sette gnostiche, ai catari e via via ai levellers o agli anabattisti? C’è nel cosiddetto cinismo, sembra dire Foucault, uno spirito anti-istituzionale e anti-aristocratico che, pur provenendo direttamente dall’esperienza filosofica classica, mira direttamente al cuore di un’altra modernità. I cinici si rifanno a Socrate, ma lo liberano delle mitologie filospartane e autoritarie di un Senofonte, lo de-platonizzano e così facendo lo superano. Ecco il senso del motto di Diogene «cambiare il valore della moneta». Non un’apologia della falsificazione, ma - verrebbe voglia dire - una trasvalutazione dei valori democratica, popolare, rivoluzionaria.
Ascesi, verità come scandalo, militantismo: sono questi i tre aspetti che il cinismo consegna alla posterità. Non solo nella religione o nelle dottrine sociali. Si pensi - dice Foucault - alla pretesa degli artisti moderni di vivere una vita esclusiva, e cioè di vivere l’arte, di non accettare una separazione tra arte e vita. «C’è un anti-platonismo dell’arte moderna che (...) è stata una tendenza che si ritrova in Manet sino a Francis Bacon, da Baudelaire sino a Samuel Beckett o Burroughs; anti-platonismo: l’arte come irruzione dell’elementare, messa a nudo dell’esistenza» (Le courage de la verité).
La pedanteria dell’esempio
Certo, nel cinismo filosofico, dice Foucault c’è anche l’annuncio di un altro tipo di pedagogismo, che non si manifesterebbe attraverso il razionalismo socratico-platonico e poi storico, cristiano ecc., ma con la pedanteria dell’esempio. Il militante è pronto a trasformarsi - come l’esperienza storica ci mostra sino alla nausea - in funzionario, magari dell’umanità. Il sovversivo in moralista. L’eretico in tutore di un ordine che non può che invecchiare fatalmente.
Ma si tratta di una dialettica squisitamente moderna, che è alla base delle nostre illusioni e delle innumerevoli delusioni contemporanee. E tuttavia, la «ragion cinica» - per citare un vecchio libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk - continua a lavorare contro l’eternizzazione del presente. Perché, come nota giustamente Frédéric Gros nelle note conclusive a Le courage de la verité, il gesto dei cinici consiste nell’appello alla trasformazione del mondo e quindi alla possibilità di un mondo «altro». Con ciò, crediamo, il senso della ricerca di Foucault si emancipa dalla patina insopportabilmente perbenista e confessionale da cui è stato ricoperto da una ventina d’anni.
Viene voglia di dire che il significato profondo della parresia per noi non è affatto nel ripiegamento interiore che Foucault ha ricostruito sino alle soglie del cristianesimo, ma nell’indifferenza di Diogene di fronte ad Alessandro e al suo seguito; nel disprezzo delle convenienze teoriche e politiche; nell’appello alla verità contro la falsità mediale e istituzionale. In definitiva, in un’esistenza autenticamente ribelle. Dopotutto, poco prima di morire, Foucault ha notato che il vero significato della ribellione non è nella sua vittoria, che è sempre problematica, ma nel fatto che solo essa rende possibile la storia.
PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’ ("CHARITAS"):
Francesco, in un’intervista a un giornale olandese, parla anche di corruzione: "La tentazione c’è sempre nella vita pubblica. Sia politica che religiosa". Nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono gli arrampicatori, attaccati ai soldi" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare". Così Papa Francesco in un’intervista al giornale di strada olandese "Straatnieuws", realizzata il 27 ottobre e tradotta oggi da Radio Vaticana, nella quale mette in guardia dalla "tentazione della corruzione" che c’è sempre nella vita pubblica, "sia politica, sia religiosa". Parole che assumono una nuova veste alla luce dello scandalo Vatileaks bis.
"Vorrei sottolineare due tentazioni - spiega Bergoglio - la chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione. L’altra tentazione è di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari, accordi trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione. Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa".
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Papa Bergoglio fa un esempio concreto: "Ricordo che una volta con molto dolore ho visto, quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerra con la Gran Bretagna per le isole Malvine, la gente dava delle cose, e ho visto che tante persone, anche cattolici, che erano incaricati di distribuirle, le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione. Una volta ho fatto una domanda a un ministro argentino, un uomo onesto, che ha lasciato l’incarico perché non poteva sopportare alcune cose un po’ oscure. Gli ho chiesto: ’quando voi inviate aiuti, sia pasti, siano vestiti, siano soldi, ai poveri e agli indigenti, di quello che inviate, quanto arriva là, sia in denaro sia in spesa?’ Mi ha detto: ’Il 35 per cento’. Significa che il 65 per cento si perde. E’ la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me".
E spiega il perché della scelta di vivere a Santa Marta invece che nel Palazzo Apostolico: "Il Palazzo Apostolico non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande. Dopo aver visto questo appartamento mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola. Questo significa essere isolato. Io ho pensato: non posso vivere qua semplicemente per motivi mentali. Mi farebbe male. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare qui, a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Trovo gente, la saluto e questo fa che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada".
Papa Francesco sottolinea quanto sia importante continuare a lottare contro il peccato, la cupidigia e lo sfruttamento, soprattutto dei bambini. "Io vorrei un mondo senza poveri. Dovremmo lottare per questo. Ma io sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia umana c’è sempre, la mancanza di solidarietà, l’egoismo che crea i poveri. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri. Basta pensare ai bambini sfruttati come schiavi o ai bambini sfruttati per abuso sessuale. E un’altra forma di sfruttamento: uccidere bambini per togliere gli organi, il traffico di organi. Uccidere i bambini per togliere gli organi è cupidigia. Per questo non so se lo faremo questo mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e ci porta l’egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre...sempre".
A una domanda sullo spinoso argomento dell’uso dei beni e delle ricchezze della Chiesa, Bergoglio risponde: "I beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Se facciamo un catalogo dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è molto ricca. Ma quando è stato fatto il Concordato con l’Italia nel 1929 sulla Questione Romana, il governo italiano di quel tempo ha offerto alla Chiesa un grande parco a Roma. Il Papa di allora, Pio XI, ha detto: no, vorrei soltanto un mezzo chilometro quadrato per garantire la indipendenza della Chiesa. Questo principio vale ancora. Sì, i beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50mila euro per costruire tre scuole in paesi poveri, l`educazione è una cosa importante per bambini. Sono andato all`amministrazione competente, ho fatto questa richiesta e i soldi sono stati inviati".
Quanto ai "tesori della Chiesa", "non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell`umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all`asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Ma abbiamo cominciato a vendere dei regali e altre cose che mi vengono date. E i proventi della vendita vanno a monsignore Krajewski, che è il mio elemosiniere. E poi c’è la lotteria. C’erano delle macchine che sono tutte vendute o date via con una lotteria e il ricavato è usato per i poveri. Ma ci sono cose che si possono vendere e queste si vendono".
Ipocrisia e avidità tornano anche nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono questi, che invece di servire, di pensare agli altri, di gettare le basi, si servono della Chiesa: gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi. E quanti sacerdoti, vescovi abbiamo visto così. E’ triste dirlo, no?. Dio ci salvi dalle tentazioni di una doppia vita, dove mi mostro come uno che serve e invece mi servo degli altri. Ci si chiede di metterci al servizio, ma c’è chi ha raggiunto uno status e vive comodamente senza onestà, come i farisei nel Vangelo. Mi commuovono quei preti e quelle suore che per tutta la vita sono al servizio degli altri"
* la Repubblica, 06.11.2015 (ripresa parziale).
Un testo di Michel Foucault sulla tradizione dell’Occidente
L’arte di vivere senza verità
Perché oggi ha vinto il cinismo
Con Manet, Bacon Baudelaire, Beckett ciò che sta in basso irrompe nelle forme artistiche elevate
La dottrina cinica nel mondo antico era popolare, oggi è un atteggiamento elitario e marginale
di MICHEL FOUCAULT (la Repubblica, 01.07.2009)
C’è una ragione che ha portato l’arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell’idea che l’arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura o di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là del semplice abbellimento, dell’imitazione, per diventare messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari. Non c’è dubbio che questa visione dell’arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, al di sotto, di tutto ciò che in una cultura non ha il diritto o quanto meno non ha la possibilità di esprimersi. A tale riguardo, si può parlare di un antiplatonismo dell’arte moderna. Se avete visto la mostra su Manet, quest’inverno, capirete quello che voglio dire: l’antiplatonismo, incarnato in maniera scandalosa da Manet, rappresenta a mio avviso una delle tendenze di fondo dell’arte moderna, da Manet fino a Francis Bacon, da Baudelaire fino a Samuel Beckett o a Burroughs, anche se non si identifica attualmente come elemento caratterizzante di tutta l’arte possibile.
Antiplatonismo: l’arte come luogo di irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza. Di conseguenza, l’arte ha stabilito con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici, un rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione. È questo l’elemento che fa dell’arte moderna, a partire dal XIX secolo, quel movimento incessante attraverso il quale ogni regola stabilita, dedotta, indotta, inferita sulla base di ciascuno dei suoi atti precedenti, è stata respinta e rifiutata dall’atto successivo. In ogni forma d’arte si può trovare una sorta di cinismo permanente nei riguardi di ogni forma d’arte acquisita: è quello che potremmo chiamare l’antiaristotelismo dell’arte moderna.
L’arte moderna, antiplatonica e antiaristotelica: messa a nudo, riduzione all’elementare del l’esistenza; rifiuto, negazione perpetua di ogni forma già acquisita. Questi due aspetti conferiscono all’arte moderna una funzione che in sostanza si potrebbe definire anticulturale. Bisogna opporre al conformismo della cultura il coraggio dell’arte, nella sua barbara verità. L’arte moderna è il cinismo nella cultura, il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. Ed è soprattutto nell’arte, anche se non solo in essa, che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori. Restano naturalmente molti aspetti ancora da approfondire, e in particolare quello della genesi stessa della questione dell’arte come cinismo nella cultura.
Si possono vedere i primi segnali di questo processo, destinato a manifestarsi in modo clamoroso nel XIX e nel XX secolo, ne Il nipote di Rameau e nello scandalo suscitato da Baudelaire, Manet, (Flaubert?). Ci sono poi i rapporti tra cinismo dell’arte e vita rivoluzionaria: affinità, fascinazione reciproca (perpetuo tentativo di legare il coraggio rivoluzionario di dire la verità alla violenza dell’arte come irruzione selvaggia del vero); ma anche il loro non essere sostanzialmente sovrapponibili, dovuto forse al fatto che, se questa funzione cinica è al cuore dell’arte moderna, il suo ruolo nel movimento rivoluzionario è solo marginale, almeno da quando quest’ultimo è dominato da forme di organizzazione, da quando i movimenti rivoluzionari si organizzano in partiti e i partiti definiscono la "vera vita" come totale conformità alle norme, conformità sociale e culturale. È evidente che il cinismo, lungi dal costituire un legame, è un motivo di incompatibilità tra l’ethos dell’arte moderna e quello della pratica politica, sia pure rivoluzionaria.
Si potrebbe formulare lo stesso problema in termini diversi: perché il cinismo, che nel mondo antico aveva assunto le dimensioni di un movimento popolare, è diventato nel XIX e nel XX secolo un atteggiamento elitario e marginale, anche se importante per la nostra storia, e il termine cinismo viene utilizzato quasi sempre in riferimento a valori negativi? Si potrebbe aggiungere che il cinismo ha molti punti di contatto con un ’altra scuola greca di pensiero: lo scetticismo - anche in questo caso, uno stile di vita, più che una dottrina, un modo di essere, di fare, di dire, una disposizione a essere, a fare e a dire, un’attitudine a mettere alla prova, a esaminare, a mettere in dubbio.
Ma con una grandissima differenza: mentre lo scetticismo applica sistematicamente al campo scientifico questa attitudine, trascurando quasi sempre l’esame degli aspetti pratici, il cinismo appare incentrato su un atteggiamento pratico, che si articola in una mancanza di curiosità o in un’indifferenza teorica, e nell’accettazione di alcuni princìpi fondamentali. Ciò non toglie che, nel XIX secolo, la combinazione tra cinismo e scetticismo sia stata all’origine del "nichilismo", inteso come modo di vivere basato su un preciso atteggiamento nei confronti della verità. Dovremmo smetterla di considerare il nichilismo sotto un unico aspetto, come destino ineluttabile della metafisica occidentale, a cui si potrebbe sfuggire solo facendo ritorno a ciò il cui oblio ha reso possibile questa stessa metafisica; o come una vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale divenuto ormai incapace di credere ai suoi stessi valori.
Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e al XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l’ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile di esistenza.
Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell’etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell’arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità.
Traduzione di Stefano Salpietro
Foucault
TRA IL SÉ E IL NOI - COME LASCIARLO ALLA SUA IRREQUIETEZZA
Un sentiero di lettura per aggiornarci sul filosofo francese. Dai saggi curati da Mario Galzigna in Foucault, oggi per Feltrinelli, alla monografia di Paul Veyne Foucault. Sa pensée, sa personne, uscito da Albin Michel al libro sul Pensiero politico di Foucault di Vincenzo Sorrentino per Meltemi
di Stefano Catucci (il manifesto, 16.11.2008)
Nella sempre più ampia quantità, di studi dedicati a Michel Foucault alcune immagini e alcune citazioni ricorrono e mostrano l’urgenza di un problema: come leggere i suoi scritti e come usare le sue indicazioni di ricerca senza annettere un pensiero così irrequieto agli imperturbabili classici d’accademia?
Per un verso si tratta di un destino inevitabile giacché ogni esperienza filosofica, a mano a mano che si storicizza, tende a fissarsi nei testi che la esprimono e diviene perciò oggetto di analisi letterali, se non proprio di una pratica filologica. Ma per un altro verso è un paradosso, dato che Foucault ha contestato con forza, e costantemente, il predominio della «cultura del commento» e denunciato la piccola pedagogia spicciola nascosta nell’idea che una filosofia sia interamente compresa nei suoi testi.
Quella della «cassetta degli attrezzi» è l’immagine che Foucault metteva a disposizione per chi volesse incamminarsi sulle piste di ricerca da lui avviate, una immagine che viene spesso utilizzata per sottolineare la priorità dell’uso di un pensiero rispetto alla fedeltà di un’interpretazione.
E vi andrebbe aggiunta una citazione, quella secondo cui «il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero consiste nell’utilizzarlo, nel deformarlo, nel farlo stridere e gridare» senza accordare alcun tipo di interesse al criterio della «fedeltà» a un dettato: viene impiegata per rafforzare l’idea che la sua opera sia refrattaria a quei processi di acquisizione i quali, trasformandola in un classico, la normalizzano privandola del suo carattere più esplosivo, del suo essere un esempio di pratica critica e non un corpo di dottrine da applicare.
Un pensiero enigmatico
È significativo che quell’immagine e quella citazione compaiano in diversi contributi del volume Foucault, oggi, curato da Mario Galzigna (Feltrinelli, 2008, pp. 308, euro 20). Pur nella discontinuità tipica dei libri collettanei, tanto più forte se - come in questo caso - nascono come raccolta degli atti di un convegno, gli interventi ruotano essenzialmente intorno all’interrogativo posto da Alessandro Fontana nel saggio di apertura: come leggere Foucault oggi.
Fontana appartiene alla generazione degli allievi diretti di Foucault ed è tra coloro che portano il maggior merito dell’impresa che ha condotto alla pubblicazione delle sbobinature dei corsi tenuti al Collège de France. La sua, tuttavia, non è una voce che riporta all’insegnamento vivo di Foucault giudicando quanto vi si sia rimasti «fedeli». Offre piuttosto indicazioni di metodo che vengono incontro anche alla frequente delusione di chi, confidando fin troppo nell’immagine della «cassetta degli attrezzi», cerca di applicare al presente le intuizioni di Foucault nella speranza di trovarvi indicazioni concrete sulle pratiche di resistenza e di militanza, dunque su una prassi politica che, essendo tutta da reinventare, troverebbe nei suoi scritti un suo primo, foss’anche provvisorio abbecedario. Foucault però, osserva Fontana, non ha «prodotto ’saperi’», non ha elaborato concetti universali, «categorie astratte e forme trascendenti o trascendentali» da applicare. Il suo, semmai, è un pensiero «enigmatico» e «ambiguo», che non si lascia ricondurre a precetti generali ma obbedisce a una forza dispersiva irriducibile a un catalogo ordinato di strumenti.
La via da lui indicata è quella della sfida critica nei confronti dei saperi consolidati. Lasciate perdere perciò, consiglia Fontana, «esegesi e commenti», e «fate funzionare le macchine analitiche nel reale» senza trasformare l’esempio delle sue ricerche in un corpus di dottrine. Solo così, avverte ancora, si può intendere la relazione viva che intercorre tra i libri di Foucault, i suoi corsi, le interviste e gli interventi sparsi che Deleuze definiva «linee di attualizzazione» della sua filosofia. La tentazione ermeneutica che mira a intendere anche la lezione orale di Foucault come un testo scritto, insomma, dovrebbe essere rovesciata fino a leggere anche nei suoi libri non la fissazione di un programma, ma una prestazione critica in atto.
Le parole di Fontana spingono lo sguardo sul ruolo che Foucault assegnava alla storia come cardine del suo progetto di filosofia critica. È questo, sia pure in una modulazione differente, ciò che preoccupa anche Paul Veyne nel libro Foucault. Sa pensée, sa personne, pubblicato di recente in Francia dall’editore Albin Michel (pp. 216, euro 16). Veyne, che di Foucault è stato collega al Collège de France, amico e «consulente» per i problemi riguardanti la storia antica al centro degli ultimi scritti foucaultiani - ma idee e analisi, scrive, erano come l’arco di Ulisse «che lui solo aveva la forza di tendere», mentre «il mio ruolo» si riduceva «a confermare le sue informazioni e a dargli conforto» -, vede appunto nella forza esplicativa attribuita al gioco delle singolarità storiche e nel rifiuto di sottometterle a principi generali la novità rivoluzionaria del pensiero di Foucault. Tramite l’ancoraggio ai temi concreti della ricerca egli metteva in questione i presupposti più radicati della metodologia storica, in primo luogo il totem della relazione causa-effetto, e contemporaneamente strappava ai filosofi la maschera di protezione formata dal ricorso a categorie universali.
La storia si presentava così, agli occhi di Foucault, come un crogiuolo di differenze e la filosofia come un’esperienza del dettaglio il cui empirismo radicale, sostiene Veyne, sfiora lo scetticismo senza però scivolare nel nichilismo. A trattenerlo su questa soglia è la constatazione dell’esistenza della libertà: libertà di avere convinzioni, speranze, indignazioni, libertà di ribellarsi.
Neppure l’esercizio della libertà, però, doveva essere ricondotto a principi generali: «non utilizzate il pensiero per dare valore di verità a una pratica politica», aveva scritto nel 1977. Compito di uno «storico foucaltiano», oggi, è dunque per Veyne riconoscere il peso delle singolarità al di sotto dei tessuti unitari che continuiamo a stendere su di esse, rintracciare discontinuità e differenze laddove tendiamo a vedere continuità e somiglianze.
Il Foucault raccontato da Veyne è dunque un «antropologo empirico» più vicino a Montaigne e a Nietzsche che a Heidegger, un «antropologo» per il quale ogni storia realmente critica, e ogni filosofia ancorata sulla storia, dovrà infine essere una «storia della verità», ovvero dei modi in cui ogni epoca ha prodotto i propri parametri di verità senza cessare di variarli: «ontologicamente parlando», conclude Veyne, «non esistono che variazioni», mentre la dimensione metastorica «non è che un nome privo di senso».
Sarebbe difficile ad ogni modo, e non solo per uno spirito sofistico, negare che le indicazioni di Foucault sul modo di intendere una filosofia, usandola più che interpretandola, o sulla maniera di fare storia, indagando le singolarità e le variazioni piuttosto che le continuità, non siano filosofemi di carattere generale e non sottintendano in alcun modo una dottrina.
Certo, come ha riconosciuto Daniel Defert, Foucault ha esplicitato raramente i grandi temi della sua filosofia, lasciando di fatto ai suoi commentatori quello che Veyne definisce un «temibile compito». Fra la prosecuzione delle sue ricerche sul terreno concreto delle analisi storiche e l’interpretazione dei suoi scritti non c’è, allora, solo quella profonda distanza che appariva a prima vista, ma anche un rapporto di complementarità. E che le interviste, le conferenze e le lezioni di Foucault vengano trattate, oggi, a tutti gli effetti come «testi» dipende in gran parte proprio dal fatto che in esse egli ha evocato i principi della sua filosofia più spesso, e più esplicitamente, di quanto non abbia fatto nei libri pubblicati.
Un esempio del rapporto complementare fra uso e interpretazione del dettato foucaltiano viene da quei contributi che, nel volume Foucault, oggi, prendono in considerazione il tema della biopolitica, l’attrezzo senza dubbio più diffuso, riprodotto e imitato fra quelli che riempiono la famosa cassetta. Dai saggi di Roberto Esposito, Ottavio Marzocca e Judith Revel emerge come una corretta ricostruzione del pensiero di Foucault serva non tanto a definire un gradiente di fedeltà letterale, quanto piuttosto a delineare un orientamento politico. Particolarmente chiare, in questo senso, le puntualizzazioni di Revel: la dimensione biopolitica non funziona per Foucault come una chiave universale per comprendere l’attualità e non indica neppure uno strato di roccia comune a tutti, la vita biologica della specie, sul quale edificare il proprio sé, la propria singolarità. Ciò che è comune, semmai, dev’essere costruito per Foucault a partire dalla proliferazione delle differenze che si oppongono al riduzionismo biologista: è la costruzione di una pluralità di «modi di vita», intesi come nuclei di resistenza alle forme di assoggettamento dei dispositivi biopolitici, a rappresentare per Foucault la posta in gioco politica di quella che, soprattutto negli ultimi scritti, egli ha insistentemente definito un’«etica». Questa non lascia intravedere il movimento di un ritiro verso la cerchia delle relazioni private, come pure viene spesso sostenuto, ma la produzione di uno spazio comune a partire da un soggetto non invischiato nelle definizioni identitarie, bensì concepito come «forza creatrice».
Un interrogativo sulla democrazia
La dimensione del «noi», scriveva Foucault, non è qualcosa che ci sia stato assegnato preliminarmente, per natura, ma un obiettivo da problematizzare di continuo per renderne possibile la «futura costruzione». E la biopolitica non è il margine entro cui sono confinate le nostre pratiche politiche, ma il limite che occorre oltrepassare per assumere, nei confronti del potere, un atteggiamento «affermativo» e non solo «difensivo».
Il rapporto fra la costruzione del «sé» e del «noi», fra la costituzione autonoma della propria soggettività e la relazione con l’altro, è al centro anche del volume che Vincenzo Sorrentino ha intitolato Il pensiero politico di Foucault (Meltemi, pp. 309, euro 25) e che ricostruisce un intero percorso filosofico a partire dai suoi esiti finali.
Un lavoro di interpretazione, quello di Sorrentino, ma guidato da una interrogazione sulla democrazia che negli scritti di Foucault assegna esemplarità etica anche a figure antiche, come quella greca della parresia: il «parlar franco» del filosofo di fronte al potere, il coraggio della verità che a rischio della vita afferma il diritto della critica come principio di una pratica di libertà. Di qui, secondo Sorrentino, è possibile delineare la visione che l’ultimo Foucault profila dell’individualità, assai diversa da quella atomistica della cultura dominante, e sciogliere dalle ambiguità per quanto possibile la sua filosofia politica, aprendola a usi e prosecuzioni non impugnabili a piacere da ogni parte.
SCRITTI SULL’ARTE Oggetti di uno sguardo non estetico bensì strategico
Gli scritti di Foucault dedicati alla letteratura, quasi tutti degli anni Sessanta, godono oggi di minore attenzione rispetto al resto della sua opera. Un libro di Miriam Iacomini appena uscito per Quodlibet, «Le parole e le immagini» (pp. 286, euro 24), li riconduce in primo piano mettendoli in parallelo con le pagine di Foucault sulla pittura: su Bosch, Goya e Van Gogh in «Storia della follia», su Velazquez in «Le parole e le cose», su Manet in una conferenza pronunciata a Tunisi e su Magritte nel saggio «Questa non è una pipa».
L’arte, in Foucault, è oggetto non di uno sguardo estetico, ma strategico. L’immagine pittorica in particolare, scrive Iacomini, si rivela per lui capace di far emergere alla visibilità le coordinate ontologiche di un’epoca. Per forza esplicativa può essere ricondotta a quel «rapporto sagittale con la propria attualità» che Foucault riferiva a Kant, alla novità di un testo - «Che cos’è Illuminismo?» - nel quale in gioco era appunto una domanda su «ciò che sta succedendo adesso».
Non solo la pittura, ma anche le immagini su cui Foucault lavora per mettere in risalto la discontinuità dei processi storici - la cura settecentesca per l’isteria all’inizio di «Nascita della clinica», il supplizio di Damiens con cui si apre «Sorvegliare e punire» - hanno quell’evidenza «sagittale» che mostra gli strati archeologici su cui è edificato il nostro presente. L’analisi del «calligramma» di Magritte è utilizzata da Iacomini come passaggio per giungere dalla pittura agli scritti di Foucault sulla letteratura, visti come un impulso che alimenta, e in parte orienta, la sua metodologia di lavoro.
La relazione fra gli studi letterari e la fase estrema della filosofia di Foucault è stata già più volte sottolineata, ma Iacomini ne effettua una ricognizione ad ampio raggio facendone risaltare l’irruzione anche in pagine trascurate dei suoi testi maggiori. La funzione di sostegno che garantivano all’elaborazione teorica impedisce forse ai suoi studi su pittura e letteratura di aprire linee di ricerca oggi ulteriormente percorribili. Ma proprio perché compongono l’idioma di Foucault mostrano di essere indizi molto fecondi per una genealogia del suo pensiero.
Foucault letterato (la bella clandestina) *
di Giancarlo Alfano (alfabeta2-alfapiù, 29 ottobre 2015)
La ricezione di Foucault in Italia e nel mondo ha solitamente ignorato i suoi interessi per la letteratura, anche per l’atteggiamento del pensatore francese, che non ha mai riunito i suoi interventi dedicati a scrittori e opere letterarie, né, tanto meno, ha mai scritto un libro sull’argomento (gli Scritti letterari - pubblicati da Feltrinelli nel 1971 e varie volte ristampati, a cura di Cesare Milanese - furono un’operazione editoriale italiana, di cui non esiste equivalente in Francia).
Di recente, invece, a partire invece dai materiali raccolti in Dits et écrits, dalla conversazione del 1964 con Claude Bonnefoy intitolata Il bel rischio (pubblicata da Cronopio e recensita qui), e dall’introduzione di Mario Galzigna alla nuova edizione italiana della Storia della follia, l’immagine di un « Foucault letterato » si è invece progressivamente messa a fuoco. E in questa linea s’inserisce adesso la nuova iniziativa di Cronopio che, sotto il titolo La grande straniera. A proposito di letteratura, pubblica alcuni interventi realizzati dal filosofo francese tra il 1963 e il ’70.
I curatori dell’edizione sottolineano, del resto, che il rapporto di Foucault con la letteratura è stato costante, sin dalla sua prima formazione, con le due biblioteche di famiglia (quella seria, medico-filosofica, del padre, e quella piacevole e immaginosa, letteraria, della madre), quella incredibilmente ricca della École Normale Supérieure e quelle dei centri di cultura francese a Uppsala e Varsavia, dove il pensatore iniziò a lavorare proprio come professore di lingua e letteratura francese.
Al di là della dimensione aneddotica, questi materiali sono molto interessanti per un ripensamento non banale né parziale dell’opera di Foucault. Basti pensare agli argomenti dei tre testi pubblicati nell’elegante volumetto di Cronopio: due puntate di un ciclo radiofonico del ’63 dedicato a «linguaggio e follia»; una conferenza del ’64 su Letteratura e linguaggio; una conferenza del ’70 sulla scrittura del Marchese de Sade. Nomi e questioni che in quegli anni erano al centro della riflessione francese, a partire da Le degré zero de l’écriture (1953) di Roland Barthes (presentissimo sottotraccia nella conferenza del ’64) o dal Kant avec Sade di Jacques Lacan, pubblicato su «Critique» nello stesso anno, 1963, in cui Foucault pubblicava il suo celebre saggio sulla trasgressione.
Ci sono in particolare due temi che emergono dalla Grande straniera. Il primo riguarda il concetto di «opera», che nella conferenza del ’64 è utilizzato dall’autore per articolare il rapporto tra linguaggio e letteratura, tra funzione comunicativa e destinazione espressiva, con l’individuazione di una svolta estetica che avrebbe luogo tra Sette e Ottocento, quando - utilizzando i termini di Foucault - scompare la Retorica e la critica entra direttamente nel campo della letteratura. Ne deriva un’esplicita dimensione metaletteraria, che il pensatore declina in un’interessante riflessione sulla spazialità del testo letterario (e qui si dovrà pensare a una certa influenza di Blanchot, nonché del giovane Genette). Il secondo riguarda invece quel che chiamerei la «messa in opera»: è il caso del linguaggio della follia, o meglio della possibilità di accesso al linguaggio da parte del folle. Lo si vede con grande chiarezza nella citazione di una splendida lettera a Jacques Rivière in cui Artaud parla delle sue poesie come di qualcosa che viene da altrove e che egli accoglie pur di contrastare, almeno in parte, l’«inesistenza assoluta di cui talvolta soffro».
È qui che l’opera più conosciuta di Foucault s’incontra col suo costante interesse per la letteratura. Tra la scrittura «tacitante» degli Archivi delle istituzioni (che descrivono il folle o l’anormale solo per chiuderlo nel Grande Internamento) e la scrittura letteraria che permette al soggetto di situarsi nella Biblioteca dei classici, si situa l’avvento della scrittura folle o trasgressiva (o del simulacro: si vedano le belle pagine su Proust). Un avvento che resta forse un po’ ambiguo nella riflessione foucaultiana, ma che questa bella pubblicazione di Cronopio ci aiuta a ripensare, invitandoci a scoprire e opportunamente valutare la costante presenza della «grande straniera» nella sua opera.
*
Michel Foucault
La grande straniera. A proposito di letteratura
traduzione a cura del collettivo Materiali Foucaultiani
Cronopio, 2015, pp. 152 € 16