VITA E FILOSOFIA. Per una rivoluzione antipastorale ....

“Governare la vita”. Il lascito di Foucault, la filosofia come diagnosi del potere - selezione di Federico La Sala

Una raccolta di saggi di autori vari curata da Sandro Chignola sui due corsi che il filosofo tenne al Collège de France tra il 1978 e il 1979. Istruzioni per l’avvenire più che lavori compiuti
domenica 11 giugno 2006.
 

di Girolamo De Michele (Liberazione, 09.06.2006)

Tra il 1978 e il 1979 Michel Foucault tiene due corsi al Collège de France: si tratta, per il filosofo che negli stessi anni lavora alla Storia della sessualità, di esporre delle ipotesi di lavoro, di saggiare la validità di progetti in corso di definizione. Di ripensare lo stesso disegno di un potere disciplinare. Non è casuale che questa ricerca sia abbozzata nel corso di quella sorta di impasse che prende Foucault dopo la stesura de La volontà di sapere, che doveva introdurre le successive ricerche sulla sessualità e che invece si rivela il primo passo verso una ridefinizione dei processi di soggettivazione.

Questi corsi, pubblicati in Francia nel 2004 e tradotti in Italia nel 2005 - Sicurezza territorio popolazione e Nascita della biopolitica - sono oggi messi in questione da una enquiry ruotante attorno a un seminario presso l’Università di Padova coordinata da Sandro Chignola, che ha curato la pubblicazione dei contributi più rilevanti, accresciuti da altri saggi di spessore: il risultato è questo Governare la vita (edizioni Ombre Corte, pp. 154, euro 13,00).

I testi di Foucault, va detto, sono discontinui, caratterizzati da pieni e vuoti parimenti sorprendenti, a volte persino discutibili: è l’esposizione di lavori a venire, non di compiute ricerche. A fronte della brusca interruzione della ricerca causata dalla morte di Foucault, l’atteggiamento degli studiosi qui raccolti (oltre allo stesso Chignola, Pandolfi, Senellart, Karsenti e Zanini) è quello di chi accetta la sfida del testo e rilancia, cercando di produrre quei pieni che mancano nell’originale.

Non esegeti dediti all’ermeneutica del frammento, ma studiosi militanti, che ripropongono e rilanciano questioni e problemi: «la teoria non anticipa la prassi - scrive Chignola - e non traguarda in formule prescrittive. Il lavoro del filosofo è la diagnosi dell’attualità. Apertura di cantieri storici in cui verificare ciò che siamo. Critica del presente nella misura in cui la ricerca si mette a disposizione di coloro che tengono aperta la porta stretta del futuro».

Cosa è messo in questione dall’ultimo Foucault? La questione stessa del potere, o meglio, di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione. Questo approccio implica l’abbandono di una sorta di dogma del pensiero politico: lo studio del potere a partire dal sovrano, secondo un asse che partiva dal Machiavelli del Principe per incentrarsi sul Leviatano di Hobbes e finire con l’attribuire centralità al sovrano schmittiano come colui che decide del rapporto amico-nemico.

Questo approccio ha generato una vera ossessione nei confronti del Leviatano (concretizzatasi in un passato non lontano nelle superfetazioni dei testi di Carl Schmitt e nell’assunzione naturalistiche delle sue categorie): è dunque salutare, oltre che innovativa, la mossa con cui Foucault sposta lo studio dalla fabbricazione del sovrano alla fabbricazione degli individui, cioè verso la produzione della vita stessa.

Non più il potere medioevale come istanza che dà la morte e lascia vivere: il potere moderno, cioè il biopotere, interviene direttamente sulla vita producendola (si pensi agli apparati amministrativi che governano l’esistenza, alla medicalizzazione del corpo, alla selezione delle malattie) e lasciando quindi la libertà di morire.

Foucault scopre che il potere in sé è qualcosa che non esiste, nel senso che non esiste un potere per così dire “puro”: «esso circola, ripartisce, organizza lo spazio sociale. E’ un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate - scrive ancora Chignola - più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano».

Come aveva detto della follia, Foucault può ora dire che il potere non esiste, ma «non si può dire che non sia niente». Esiste nella misura in cui produce effetti: cioè governa. La governamentalità è proprio questo, in ultima analisi: la definizione di un nuovo insieme sociale, la “popolazione”, che si distacca per organizzazione, disciplinamento, assoggettamento dall’insieme informe del “popolo”, che è ciò che al governo resiste.

Rispetto alle analisi dei processi di assoggettamento della Storia della follia la novità è costituita dalla scoperta del ruolo della pastorale cristiana come tecnica di potere fondata sull’obbedienza pura, tecnica che viene incorporata dallo Stato, attraverso la scienza di polizia, cioè quella «forma specifica di sapere e di intervento politico - spiega Senellart - che ha per oggetto non solo il buon ordine pubblico, ma anche il numero degli uomini, le necessità della vita, la salute al fine di accrescere la potenza interna dello Stato».

Da cui segue che relazioni, metodi e punti di applicazione del potere diventano visibili solo assumendo il punto di vista della resistenza al potere, piuttosto che tipi ideali. Soprattutto, con una mossa che Foucault concepisce nei termini di uno storicismo radicale (cioè senza il suo retroterra finalistico o biologistico): il potere va analizzato a partire dalla sua capacità di risolvere un confronto strategico, ossia non in base a una supposta “verità”, ma sulla base della sua capacità di produrre le condizioni di effettualità della verità.

Con le parole stesse di Foucault, è «non tanto la storia del vero e del falso, bensì la storia della veridizione ad essere politicamente rilevante». Vero è, parafrasando il sofista Trasimaco, ciò che le tecniche di governamentalità hanno la capacità di rendere vero. Da cui, come ulteriore conseguenza, un rinnovato interesse verso le teorie dei giochi linguistici e degli atti discorsivi, che hanno da dirci sulla questione del potere molto più delle ermeneutiche heideggero-gadameriane.

Non sorprende che, a questi livelli, Foucault rigetti decisamente ogni riduzione che appiattisce questo complesso gioco di relazioni sulle false antitesi del pensiero dialettico o sulle facili esemplificazioni del paradigma della guerra. Si tratta di riduzionismi che non sono in grado di rendere conto della complessità che si intesse tra Stato e mercato. Se infatti la circolazione delle merci, come pure degli individui (e quindi la gestione delle infrastrutture) è ciò di cui si prende cura la scienza di polizia (police), è anche vero che il mercato stesso viene a costituirsi non come ciò che supporta una qualche verità data, ma è il luogo stesso di veridizione (o di falsificazione) della pratica governamentale.

Ma «una simile concezione dello stato di diritto entro l’ordine economico - sono parole di Foucault - esclude, in fondo, che vi sia un soggetto universale del sapere economico, capace, in un certo senso, di dominare dall’alto l’insieme dei processi, di fissare dei fini e di sostituirsi a una o all’altra categoria di agenti per prendere una certa decisione». Lo spazio della sovranità si rivela quindi «abitato da soggetti economici che la teoria giuridica non è in grado di governare. Nemmeno il mercato, però, ha una tale capacità» (Zanini).

Qui Foucault si ricongiunge all’intuizione di Deleuze che vedeva la coesistenza, incessante quanto impossibile a costituire una totalità determinata, della tecnocrazia che «pretende di promuovere assetti parziali dei rapporti sociali al ritmo delle acquisizioni tecniche», e del dispotismo «che vorrebbe istituire la totalizzazione del significabile e del conosciuto al ritmo della totalità esistente» (Logica del senso). In definitiva, «non c’è e non può esserci pacificazione o sintesi liberale», perché «il liberalismo non esiste che nel modo della crisi» (Karsenti).

Rimane aperta una questione, da rilanciare alle pratiche dei movimenti prima ancora che al pensiero critico: che cos’è che, politicamente, non è mai accaduto? La risposta di Foucault è: una rivoluzione antipastorale. Una rivoluzione contro l’obbedienza pura, contro la costituzione di soggettività in termini di dipendenza. In tempi di rigurgiti ecclesiastici neo-pastorali, così come di nostalgie neo-leninistiche (Zizek) o derive iper-soggettivistiche, la domanda è di urgente attualità.


Sul tema, in rete, si cfr.:

-   KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.

DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA E DI PARLARE DA CITTADINO SOVRANO. Pubblicato in Francia «Le gouvernement de soi et des autres» di Michel Foucault (il volume sul corso tenuto nel 1983 al Collège de France).

-  NAZIONI E RECINZIONI: GOVERNARE I VIVENTI. "Una cittadinanza ridotta a dati biometrici". Un’analisi di Giorgio Agamben


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