STORIE DI REGIME
di Furio Colombo (l’Unità, 01.04.2006)
Faccio una proposta. Propongo una legge che faccia finire la persecuzione contro Bernardo Provenzano. Che quest’uomo possa finalmente tornare a vivere alla luce del sole come tutti i cittadini dopo essere stato costretto a restare alla macchia per quarant’anni. Che senso ha, a questo punto, un atteggiamento di rivalsa e vendetta verso questo anziano dirigente di una vasta organizzazione, che è fuori legge se la legge si interpreta da un punto di vista formale, come fanno, per attitudine professionale i giudici, ma è un intraprendente imprenditore, se lo si valuta dal punto di vista, pur autorevole, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro.
Naturalmente si leveranno i cultori della interpretazione letterale delle imputazioni ascritte al grande assente, pedanti ripetizioni di capi d’accusa, reati di mafia che, del resto, non hanno impedito ad altri imputati di assumere rilevanti funzioni istituzionali. Ma tipico della vita è passare avanti. Ed è qualificante, per una pragmatica civiltà che pensa al dopo, non lasciarsi inchiodare dalla vendetta.
I veri liberali si uniranno certamente a questa proposta che vuole sgombrare il campo da vecchi rancori e conti rimasti in sospeso col passato. Saranno - presumo - gli stessi liberali che si stanno accalcando intorno a Mediaset, per tributare a quel grande gruppo di comunicazione il sostegno dei veri cultori della libertà.
Il principio guida non è quello meschino ed egoista del vecchio liberalismo secondo cui la tua libertà è sacra fino a quando non nega la mia. No, il principio è molto più alto e capace di occupare spazi larghi e nuovi che prima erano umiliati da lacci e laccioli. Sei ricco? Goditela. Hai potuto conquistare spazi esclusivi di comunicazione mai prima permessi a uno solo? Usali, chi può permettersi di impedirlo? Da quando si punisce la fortuna? Da quando ci si vendica di qualcuno solo perché è più bravo?
Si potrebbe aver voglia di rivedere le bucce del più bravo. Come lo è diventato, quando, perché, con quali leggi e regolamenti, se ha potuto crearsi qualche norma particolare che lo ha favorito, spiazzando altri.
C’è persino chi insiste nel porre una domanda pignola e ossessiva: da dove viene, meglio, da dove è venuta, all’improvviso, tutta quella ricchezza? Nel film di Nanni Moretti «Il caimano» il personaggio (uno fra molti) che interpreta Berlusconi, alla domanda risponde: «Non lo dirò mai». Questa frase è politicamente, e anche dal punto di vista narrativo, il cuore del film. Ma, diranno i liberali scattati in difesa del monopolio e del segreto professionale, si tratta di invidia e malanimo.
Infatti, più ci si addentra nel discorso e più si nota il contrasto fra il lato moderno e solare del grande perdono a Mediaset, gesto liberale se mai c’è ne è stato uno, e il lato meschino, vendicativo e rivolto al passato di coloro che sognano di confinare Mediaset nel mondo dei quiz e del Grande Fratello e di separarla dalla politica.
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Vediamo alcuni argomenti illuminanti proposti dalle punte alte del liberalismo italiano.
«Pensare di far approvare una legge che - costringendolo a scegliere fra la propria condizione di magnate della televisione e quella di leader politico - impedisca a Berlusconi di ritentare di tornare al governo contraddice, oltre che il principio di realtà, anche il principio di libertà» (Piero Ostellino, Corriere della Sera, 26 marzo). «Certo che Silvio è un’anomalia. È anomalo perché è un fenomeno. Quale imprenditore è riuscito a scendere in politica, fondare un partito e vincere le elezioni? Solo un accidente come lui, che è fuori del normale» (Fedele Confalonieri, Corriere della Sera, 31 marzo).
Una persona volgare potrebbe suggerire che simili argomentazioni servirebbero egregiamente alla difesa di un imputato di stupro e violenza. Il principio di realtà e il tributo al fenomeno sono quel che ci vuole non solo per perdonare, ma anche per celebrare l’eccesso, al di là dell’eventuale danno inferto alla parte debole.
Qui siamo all’ammirazione del superuomo (il fenomeno) e al riconoscimento puro e semplice dello stato dei fatti («il principio di realtà») che vuol dire «se puoi farlo, fallo. Chi si lamenta è meschino e sfigato».
Ma ci sono altri argomenti, che arricchiscono anche culturalmente il dibattito.
Confalonieri: «Eppoi basta con ‘ste balle. Da dodici anni non si occupa più delle sue aziende. Ora ci sono i suoi figli». Nessuna cessione o passaggio di proprietà, ma che importa? Coloro che non hanno in famiglia immense imprese di comunicazione come si permettono di discuterne? Si sente nell’aria la domanda: come osano, questi straccioni? E poi che cosa c’entra il governo, e il fatto che chi governa è colui che assegna le licenze a chi trasmette televisione, e che male c’è se il proprietario delle televisioni, diventato capo del governo, dà le licenze a se stesso e controlla se stesso (oltre alla normale competenza sulla Televisione di Stato)? Questi sono noiosi dettagli burocratici. Invece il «principio di realtà» ci dice che da un lato c’è una costellazione di imprese con migliaia di dipendenti e dall’altra «un fenomeno della natura».
Come possono permettersi un Prodi qualunque, un Fassino qualunque, di intromettersi tra «principio di realtà» e «principio di libertà» ? Santo cielo, ma non ci sono più liberali in questo Paese?
Confalonieri, il manager, ha fiducia: «Il campo di battaglia sono le elezioni. Chi vince vince, chi perde perde. Ma le aziende restino fuori dalla contesa. Del resto anche dall’altra parte ci sono persone ragionevoli. Ma non ne faccio i nomi per non danneggiarli». Presumibilmente sono persone inclini ad accettare il «principio di realtà». Se sei un fenomeno, sei un fenomeno. E i non fenomeni, in nome del «principio di libertà» dei fenomeni, la smettano di lamentarsi.
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Ostellino, il liberale, sa con precisione dove si piantano i paletti delle garanzie democratiche. Ascoltate: «Il conflitto di interessi deve essere risolto dopo e non prima del successo elettorale del suo portatore». Ovvero, la questione va discussa con il detentore di un grande potere privato, non appena assume anche un grande potere pubblico. Alla faccia del principio di realtà. Attenzione al passaggio successivo, destinato a fondare un nuovo principio liberale ma anche giuridico: «Il conflitto di interessi non si risolve ignorando la volontà popolare». Vuol dire: se mi eleggono, ogni violazione della legge è perdonata nel prima, nel dopo e per sempre. Io potrò sempre dire: «Mi ha eletto il popolo, come vi permettete di giudicarmi»?
Subito incalza Confalonieri che, dopo la sfuriata di Berlusconi alla Confindustria, l’attacco a Diego Della Valle che si è dovuto dimettere solo per avere osato tenergli testa, e dopo le minacce a Lucia Annunziata e le accuse a Floris di avere truccato Ballarò , dice senza imbarazzo: «Dà fastidio l’animo di rivincita con cui l’Unione ha caricato la sfida elettorale. È mai possibile che, per rivalsa verso il politico Berlusconi, debba attaccare le sue aziende?».
La conclusione è memorabile, una sorta di minaccia alla nostra reputazione di elettori e di eletti del centrosinistra: «Una legge punitiva contro Mediaset diverrebbe il conflitto di interessi del centrosinistra». Fantastico. È conflitto di interessi opporsi al conflitto di interessi. Ed è punitivo separare l’immensa distesa di aziende Mediaset (più la pubblicità, più le banche, più le assicurazioni) dal quasi dittatoriale ruolo del Primo ministro, a cui la Casa delle libertà, vandalizzando la Costituzione, ha attribuito, con la sua riforma, tutto il potere.
Per la cronaca sono le stesse aziende in cui - ci conferma la cronaca di Repubblica del 31 marzo - il direttore del TG5 Rossella urla «mi hai rotto» al vice direttore Sposini che tenta di inserire nel corso di un Tg quasi completamente dedicato a Berlusconi, una smentita appena pervenuta dall’Unione.
Il tutto viene riassunto come segue nell’appello proposto dal Foglio e firmato anche da Piero Ostellino e Sergio Ricossa: «Obbligare Berlusconi a scegliere tra il suo status di imprenditore e la politica vorrebbe dire inaugurare un nuovo regime». Finalmente la parola regime viene usata per descrivere il saldo legame fra controllo del governo e controllo delle informazioni, con l’indotto di una potente azione intimidatoria nei confronti di coloro che in teoria restano liberi di non spaventarsi di una rettifica dell’opposizione da inserire in un telegiornale privato e di governo. Ma in pratica hanno visto che cosa è successo a Enzo Biagi, Diego Della Valle e Lucia Annunziata (forse a Sposini del TG5), e si danno una regolata.
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Come vedete il piccolo Lord continua a pretendere che, per le sue violazioni di leggi e di pratiche accettate e rispettate nel mondo, vengano puniti gli altri, coloro che si oppongono e non stanno al gioco.
La grandiosità della sua pretesa trapela nel mondo. In questi giorni ne parlano a lungo il settimanale Newsweek e il quotidiano finanziario Wall Street Journal. Entrambi pubblicano articoli che fanno apparire mite e benevolo il testo che avete appena letto.
Ai liberali che firmano e sostengono l’appello sulla necessità di mantenere intatto l’attuale regime di monopolio di Berlusconi fondato su più governo per lui e più televisioni per lui (e solo per lui) avanzo una proposta di quelle “costruttive” che loro, fra un insulto, una falsità e una minaccia, invocano sempre.
Che cosa direbbero di pubblicare l’appello del “Foglio” in inglese, sul New York Times o almeno sull’ Herald Tribune? Certo, costa. Ma un piccolo sacrificio (Casini direbbe: un fioretto) forse da quella parte riescono a farlo. Il fatto è che la verità non deve avere confini. È bene che il mondo sappia che cosa vuol dire “liberale” in Italia, oggi.
Conflitto d’interessi, la mia legge e il mio saluto ai lettori de l’Unità
di Furio Colombo *
Ho appena depositato alla Camera dei Deputati la legge sul conflitto di interessi, la stessa che avevo preparato alla Camera nella XIII Legislatura (1996)e che avevo presentato al Senato non appena eletto nel 2006, secondo e ultimo governo di Romano Prodi.
Lo annuncio su questo giornale come si farebbe in una corsa a staffetta, per lasciare traccia del passaggio e dunque come raccordo e testimonianza di lavoro insieme a conclusione di un pezzo bello e difficile (bello nel giornale, difficile in Italia) passato sotto la testata de l’Unità.
Vado, come molti lettori sanno, in cerca di una nuova avventura, mentre resta intatta l’amicizia e gratitudine per questo giornale, per chi mi ha così straordinariamente sostenuto e aiutato quando lo dirigevo, per chi ha diretto, dopo, con coraggio e bravura. Affido il testo della mia legge sul conflitto di interessi a l’Unità (sapendo che lo pubblicherà ne l’Unità on line) perché è il cuore di tutti questi anni di opposizione a Berlusconi. So, naturalmente, che Walter Veltroni ha annunciato una sua legge sul conflitto di interessi nel prossimo futuro. Ne sono felice e non vedo l’ora di confrontare i due testi. Non è una gara. È un impegno comune. È l’impegno che avrebbe dovuto identificare subito il Partito Democratico.
È impossibile nominare un solo tratto della persona, della leadership, del ruolo politico, del governare di Berlusconi senza scontrarsi in pieno con il macigno immenso del conflitto di interessi. La prima e più convincente prova è nel senso di «vecchio» e «già detto» o «già usato» che sarà la reazione di molti lettori.
Il colpo di genio è stato questo: liquidare come ridicolo, noioso, inutile, se necessario eversivo ogni tentativo di tornare a parlare di conflitto di interessi. Conta il totale, ferreo controllo mediatico per dirottare un Paese? La prova è ciò che è accaduto ai Radicali (il partito di Pannella e di Bonino). Una serie di manifestazioni anche drammatiche come lo sciopero totale della sete e della fame del leader di quel partito ha infranto, verso la fine della campagna elettorale per le elezioni europee, il totale blocco che ha quasi sempre impedito ai Radicali di essere visti o ascoltati. So che l’esempio è imperfetto perché l’ossessivo embargo a danno dei Radicali non risale a Berlusconi ma a molto prima. E tuttavia serve a dimostrare il punto. Una volta rimosso, sia pure per pochi giorni, il sacro divieto, Pannella, Bonino e il gruppo Radicale alle elezioni Europee sono magicamente balzati dall’uno al tre per cento e in alcune grandi città hanno raggiunto (ricordate, in pochi giorni) il cinque, il sei, il sette per cento.
Chi domina le fonti pubbliche e private delle notizie e mostra di poter creare per i fedeli carriere precoci e grandiose, come è accaduto per Minzolini, e fa sapere di gestire al meglio il destino maschile e femminile di chi si affida al buon cuore di quel potere, è in grado di chiudere porte che dovrebbero essere aperte, di aprire brecce vastissime a illustrazione della sua gloria. È - soprattutto - in grado di scoraggiare quelle stupide domande (tipo "ma chi è Elio Letizia e perché Berlusconi ha dovuto andare a Casoria nel giorno, nell’ora, nel luogo e con le imbarazzanti persone indicate"?) che rovinano una carriera.
È una legge semplice. Risponde a tre domande. Chi è incompatibile con la responsabilità diretta del potere? Chi lo diventa se si violano alcuni limiti e alcune condizioni? Quali incompatibilità non si possono cancellare? Nella vita sociale e professionale vi sono molto rigorose incompatibilità accettate da tutti in base a dati di fatto e regole precise.
Un uomo sposato non può avere una seconda moglie. Un giudice, restando giudice, non può fare l’avvocato.
Un deputato o senatore non può legalmente dirigere una azienda o un giornale ed esserne responsabile. In nessuno di questi casi si dice che l’incompatibilità viola un diritto. La regola, se mai, serve a impedire che un diritto si espanda in uno spazio che gli altri cittadini non hanno. La regola non è una ingiustizia ma la barriera contro il pericolo di una ingiustizia. Semplice? Abbastanza, tanto che queste incompatibilità ci sono nelle democrazie di tutto il mondo. In Italia, da quindici anni, reazioni scomposte fanno subito barriera se appena nominate il conflitto di interessi.
Ecco dunque perché tutto comincia (e molto finirebbe) con una legge seria, prioritaria, severa. È stata la prima cosa che abbiamo fatto ridando vita a questo giornale. I colleghi coraggiosi e i lettori di allora ricorderanno l’ondata di attacchi personali e di calunnie. Ai colleghi e ai lettori di adesso lascio lo stesso impegno. E lo stesso rischio.
IL TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE
* l’Unità, 02 agosto 2009
Il suicidio della politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 27/5/2007)
Invece di farsi mille domande molto sospettose sulle vere intenzioni di Luca di Montezemolo, converrebbe ascoltare quel che egli ha detto sulla politica italiana: una politica «debole», «litigiosa» sempre tesa a «galleggiare in attesa della consultazione elettorale successiva». Chiunque rilegga il discorso che il presidente della Confindustria ha pronunciato il 24 maggio sa che questi mali non sono immaginari ma molto reali e comunque percepiti diffusamente come reali. Sa che la politica in Italia non riesce a decidere, bloccata com’è da veti sempre più fitti e da quelle che Ilvo Diamanti chiama minoranze dominanti. Nel loro libro su La Casta (Rizzoli) Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sullo Stato disastrato e parlano di caste grandi, piccole e piccolissime: tutte intoccabili.
Persino il singolo parlamentare tende di questi tempi a divenire casta: il veto d’un singolo può paralizzare ogni cosa. Chiudersi a questo monito e considerarlo addirittura un’usurpazione non riscatta la politica ma conferma, semplicemente, le accuse che le vengono rivolte. Se è veramente forte, il politico non s’indigna se criticato. Se ha ambizione e anche attitudine a guidare con autorità il proprio campo e il proprio paese accoglie tutti i consigli che possano irrobustire quest’autorevolezza. Se si chiude vuol dire che ha paura, che non si ritiene all’altezza.
Che è animato da una sorta di xenofobia, che diffida d’ogni voce straniera che minaccia la sua identità e il suo territorio. Il politico debole non ha torto a prendersela con le élite che vedono i difetti altrui e non i propri,madebole resta pur sempre se si fa sommergere da simili fobie. Alla fine avrà paura del voto stesso, come nei giorni che hanno preceduto le elezioni di questa domenica. Un’elezione non indifferente ma neppure decisiva, perché i governi solidi sopravvivono ai voti locali. Tremare davanti alle amministrative è come tremare davanti a Montezemolo o a un articolo di Mario Monti o alle interferenze della Chiesa, della magistratura, delle minoranze dominanti. Vuol dire che i poteri forti son divenuti talmente numerosi che un vero potere al centro non c’è più.
Ogni voto e giudizio contrario è ritenuto destabilizzante, ed è vissuto come un’usurpazione e un’indebita incursione. Naturalmente queste incursioni corrono il rischio di sottovalutare le servitù della politica. Chi critica è di enorme aiuto quando fa sentire la propria voce (quella di Montezemolo è d’altronde severissima con il «cinismo dell’antipolitica » e con la tentazione del Paese a «far da sé nella convinzione che lo Stato assente sia preferibile allo Stato considerato invadente») ma è di aiuto davvero pratico se scorge le differenze fra il proprio statuto e quello del politico, se riconosce i limiti propri oltre a quelli altrui: lui, il critico non impegnato nell’azione, non è stato messo alla prova, non si è misurato con le difficoltà della politica, del consenso, del tribunale elettorale che un giorno ti premia e il giorno dopo può licenziarti.
I rappresentanti delle élite che ammoniscono dall’esterno hanno un privilegio che il politico non possiede: godono di immunità, sono immortali mentre il politico è, per definizione, mortale. Berlusconi non ha torto quando ricorda che il difficile è ottenere il 51 per cento. Così Prodi, quando rammenta che entrare in politica non è una discesamauna salita fatta di «fatica, sudore, mediazioni, consenso, voti per raggiungere risultati». Non ha torto neppure il sindacalista Bonanni, quando sospetta Confindustria di scaricare sui governanti incapacità che son di industriali e sindacati. Ma questo non permette di liquidare il monito di Montezemolo, soprattutto quando questi fa lo sforzo, esplicito, di «parlare prima come cittadino e poi come imprenditore». Se c’è oggi una forza che difende il particolare più dell’interesse generale, che scarica sulla politica incapacità che son proprie, che adotta il comportamento denunciato da Bonanni («Lui sembra che scenda dal pero», dice di Montezemolo), questi è piuttosto il sindacato.
Domandarsi quali siano le carriere che questi critici vogliono intraprendere interessa forse gli esperti in retroscene ma vuol dire rinunciare a correggere e migliorare la politica. Vuol dire rimanere nella melma in cui essa s’è impantanata dai tempi di Tangentopoli, e cercare una scusa per non agire. Vuol dire non chiedersi quel che spinge queste persone critiche e quel che le rende popolari. Se fanno tanta impressione, se ogni giorno si parla di governi e leader alternativi, vuol dire che c’è, in giro, un’immensa sete di guide, capaci di decidere presto e imperiosamente. Negli anni di Weimar, dunque di una democrazia debole e litigiosa, il filosofo Max Scheler si soffermò su questo punto, considerandolo il male più grande. Vide che s’era creato un tragico distacco fra spirito e potere, e parlò di una «nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall).
I Führer sarebbero alla fine venuti, sotto forma di anti-politica e anti-democrazia, perché la politica dei partiti non seppe dissetare quegli assetati di leadership. Scheler scriveva su élite e leadership poco dopo un saggio fondamentale della sociologia, il Suicidio scritto nel 1897 da Emile Durkheim, in cui son descritte le società che perdono le regole, vedono frantumarsi i legami sociali, precipitano nell’assenza di leggi che è l’anomia. Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato. Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia.
Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar. Quando vengono meno regole e leggi i desideri diventano illimitati nel nostro caso i desideri dei partiticasta che difendono i loro elettorati e altrettanto illimitata è l’insaziabilità, la brama che non si sfama.
Il «male dell’infinito» sommerge tutti. Tanto più gravi sono le delusioni, quando vien fuori che i mezzi e le risorse realmente a disposizione finanziarie e non non bastano ai propri fini. Le forze che oggi governano sembrano afflitte da questa insaziabilità, che invece d’ordinare il mondo lo sbriciola (lo specchio rotto di cui parla Eugenio Scalfari): «una sete inestinguibile » cattura i partiti, e nessuno sa regolare le proprie passioni e capire il vantaggio d’avere un limite. In Durkheim è questo il suicidio anòmico, nella società priva di autorità rispettate e temute. A questo bivio è la politica. Le tante critiche che le vengono rivolte non sono sempre giuste, abbiamo visto. La crisi della politica non cade dal cielo e al caos contribuiscono in tanti: imprenditori, sindacati, caste varie comprese quella dell’informazione. I cittadini non hanno sfiducia solo nel Parlamento, nel governo, nell’opposizione. Diffidano anche delle imprese, della Chiesa che sequestra la politica, perfino di se stessi. I politici usano difendersi nascondendosi dietro la complessità del proprio compito, delle proprie pene.
Ma la complessità è una via di fuga.Èuna terribile tentazione di cui urge liberarsi. Chi dice che «tutto è molto più complicato» già s’è arreso. La semplicità è la via, e tutto ruota attorno a una cosa semplice: in una comunità organizzata ci vuole la dignità dell’esercizio del governare, del reggere il timone. L’Italia è un Paese che dal 1992 ha distrutto la politica e che non ne può più d’averla distrutta. Tutti invocano il suo ritorno: sotto forma di capacità rinnovata di guida, sotto forma di un rapporto meno nevrotico col tempo (è un altro punto sollevato da Montezemolo: «Fare oggi scelte coraggiose, i cui risultati si vedranno fra otto o dieci anni, significa avere senso dello Stato»). Sotto forma di misure forti, che ristabiliscano la maestà della legge e l’idea stessa della maestà (ci deve pur essere un modo per rimediare d’imperio al disastro dei rifiuti in Campania).
La politica deve fare il primo passo, dice l’ex Presidente Scalfaro in un’intervista a Repubblica: «Ma non a partire dalle prossime elezioni: a partire da domani». Anzi, da oggi.
Eterni ritorni in parlamento
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 12 maggio 2007)
È dal 1994 che la disciplina del conflitto di interessi passa e ripassa in Parlamento sempre ripetendo gli stessi argomenti, e per lo più le stesse stupidaggini. In materia la dose di stupidaggini è particolarmente elevata perché questa è la battaglia che più preme a Berlusconi. Così qualsiasi argomento, non importa quanto sballato, viene gettato nella mischia. E tanto meglio se fa soltanto confusione.
L’esito è stato che il governo di centrosinistra non arrivò a nulla, mentre il successivo governo Berlusconi ha varato una legge Frattini che, vedi caso, rendeva praticamente intoccabile Sua Emittenza. Era pertanto inevitabile che i beffati dalla legge Frattini riaprissero il problema. Ed eccoci qua. Il disegno di legge che propone una nuova disciplina intesa a disciplinare davvero il conflitto di interessi è stata varata in Commissione ieri e andrà in Aula, alla Camera, il 15 maggio. Invece di commentare un testo ancora incerto e modificabile sarà più utile ricordare quali sono i nodi fondamentali del dibattito.
Il primo è se il blind trust, l’affidamento cieco del patrimonio a un gestore indipendente, risolva il problema. La risposta è indubbia: per i pesci piccoli e soprattutto per un portafoglio differenziato di titoli, sì; ma per le balene e i beni visibili, no. Persino Frattini lo riconosce: un affidamento «cieco» presuppone un patrimonio di titoli che il gestore può cambiare, e così rendere invisibili e ignoti al proprietario; ma non può accecare beni visibili che restino tali. Eppure, e stranamente, il progetto continua a puntare sul blind trust. A quanto pare i nostri legislatori non solo non hanno tempo di leggere libri e giornali, ma nemmeno di leggersi tra di loro.
Secondo nodo: se il conflitto di interessi sia meglio impedito dall’ineleggibilità o dall’incompatibilità. Stranamente l’ultima versione di questo dibattito è che la sanzione più grave, o più risolutiva, sia la non-eleggibilità. Sarebbe così se si precisasse ineleggibilità «a cariche di governo». Ma se non si precisa così, allora la privazione dell’elettorato passivo lascia il tempo che trova. Nel nostro ordinamento non occorre che un presidente del Consiglio o un ministro siano parlamentari. Vedi il caso del primo governo Amato e del governo Ciampi. Questa precisazione elementare è stata fatta centinaia di volte. Pertanto dovrebbe essere chiaro che il problema è di incompatibilità. Ma da noi si direbbe che non c’è mai nulla di chiaro su nulla.
Terzo nodo: se l’esempio da seguire sia il modello Usa, e quale sia questo modello. A questo proposito la tesi dei Berlusconi boys, Frattini in testa, è che nemmeno negli Stati Uniti nessuno è mai obbligato a vendere (se dichiarato in conflitto di interessi). Ma non è così. È vero che i vari ethics board americani incaricati di accertare i conflitti di interesse non impongono nessuna vendita, ma impongono che l’interessato faccia una scelta tra patrimonio e carica politica. Pertanto se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi.
Dicevo che il dibattito sul conflitto di interessi è monotono. Mi correggo, una novità c’è: è l’introduzione del mammismo (o forse dovrei dire del «babbismo»). L’altro giorno Berlusconi ha detto: «Vorrebbero che affidassi il mio patrimonio a uno sconosciuto. Nessuno lo può chiedere a una persona che come me ha cinque figli». Poverini. Quasi quasi mi commuovo anch’io.
Centrodestra in piazza "Contro il regime di Prodi"
LA DIRETTA. La protesta di Forza Italia, An e Lega. "Finanziaria di regime". Partono i tre cortei, alle 17 i comizi a San Giovanni. Bonaiuti: "Berlusconi è caricatissimo". In strada striscioni, pupazzi e cartelli contro il governo. Il premier: "Non sono preoccupato". L’Udc a Palermo. Buttiglione: "La Cdl è morta"
Litvinenko una storia italiana
di Furio Colombo *
Oggi, nel giorno che segue il malore ancora inspiegato di Berlusconi, è doveroso associarsi agli auguri di Prodi. Non c’è bisogno di essere amici, meno che mai dipendenti, per augurare a una persona temporaneamente colpita da un male, un voto sincero di guarigione. È bene che la sua voce torni netta come è sempre stata per poter ascoltare, capire e interpretare senza finzioni ciò che lui, con molta chiarezza, continua a dire.
Ieri, a Montecatini, ha concluso: «Vi lascio in eredità il partito della Libertà».
Dando per scontato che Berlusconi stia bene e che continuerà a ripetere questa frase, è necessario capirla.
Essa è la chiave di tutta la vicenda Litvinenko-Scaramella-Guzzanti, una vicenda fuorilegge, che diventa torbida e finisce tragicamente nel delitto Polonio 210.
Il fatto è: una ex spia del Kgb è stata uccisa a Londra alcuni giorni fa alla presenza di un ex collaboratore di primo piano della Commissione Mitrokhin del Parlamento italiano. Era la commissione presieduta da Paolo Guzzanti che (ci informa un documento pubblicato ieri da la Repubblica) Litvinenko chiamava «Pablo», forse perché aveva subito percepito il senso allucinato, da narrazione latino americana, della vicenda italiana.
Intanto prendiamo atto di un fatto cruciale. I due documenti pubblicati ieri da la Repubblica (trascrizione di una conversazione Euvgenji Limarev, e di un incontro a Londra con Aleksandr Litvinenko, entrambi ex spie del Kgb, entrambi sotto contratto con la commissione italiana Mitrokhin) annunciano che la pista di un delitto che ha impressionato il mondo passa dall’Italia.
Le due voci, quella del vivo e quella del morto, ci dicono di un intenso lavoro che era in corso in Italia, con tutti i mezzi (le loro parole ci dicono: legale e illegale) che quell’intenso lavoro si chiamava commissione Mitrokhin, che ha avuto due protagonisti di spicco, Scaramella e Guzzanti, ciascuno dei quali compare in momenti diversi accanto all’uomo appena eliminato.
Che cosa stavano facendo, quando le due ex spie sovietiche li hanno visti lavorare da appartamenti «coperti» basi segrete o comunque non identificate, scortati da personale che poteva o no essere dello Stato, spendendo somme che potevano o no essere legali, svolgendo una funzione che poteva o no essere compatibile con i codici italiani?
La risposta c’è: l’ha data Silvio Berlusconi domenica mattina. Stavano combattendo per la libertà secondo le direttive del leader. Infatti quando si annuncia una crociata per la libertà, senza una sola frase di spiegazione (libertà individuale? libertà di mercato? libertà di parola o di espressione? libertà dei diritti umani? dei diritti civili? della integrità fisica?) significa che la minaccia è totale e che vi è un’altra parte (quella «comunista» che copre l’intero arco della opposizione a Berlusconi) che va eliminata perché impedisce la libertà. E va eliminata senza badare ai costi. Le due ex spie russe vedono passare somme ingenti. E va eliminata senza badare ai mezzi. Le due ex spie russe sono state arruolate facendo loro credere che avrebbero denunciato i delitti di Putin. Va eliminata senza badare ai rischi. Molte delle cose dette dalla ex spia Litvinenko devono essere state inavvertitamente passate «all’amico Putin». «Mi sono accorto che siamo stati usati», dice a la Repubblica l’ex spia Limarev, quello finora sopravvissuto.
La Commissione Mitrokhin deve essere stata uno strumento di lotta estrema e - avranno pensato i protagonisti - a momenti disperata, per la libertà, se si è pensato di creare una istituzione talmente anomala per un regolare Parlamento democratico, un organismo di indagine senza limiti e senza frontiere, pur di mettere con le spalle al muro i nemici la cui sopravvivenza politica è stata giudicata non tollerabile.
Del resto, come si ricorderà, accanto alla commissione Mitrokhin (di cui adesso finalmente si può rivendicare la natura non ridicola e non grottesca, che invece molti, in buona fede avevano creduto di vedere in quella strana avventura allora non decifrata) è scattata subito anche la commissione Telekom Serbia.
Il suo teste chiave, che avrebbe dovuto incastrare Prodi, Fassino e Dini, è risultato un noto imbroglione internazionale ed è finito in prigione prima che il presidente di quella commissione e i vari illustri avvocati che lo scortavano avessero il tempo di redigere una plausibile relazione finale.
Messe l’una accanto all’altra, le due commissioni - che lasciano un segno tremendo nella vita parlamentare italiana - svelano come si conduce la lotta del partito unico della libertà di cui ci ha parlato Berlusconi a Montecatini.
Una delle due commissioni avrebbe dovuto eliminare i leader dell’opposizione. L’altra aveva il compito di colpire nel mucchio, cercando di estrarre quanti più nomi di indiziati da perseguire. Ma senza escludere punti di congiunzione e sovrapposizione fra i due strumenti di lotta per la libertà. Anche la Mitrokhin cercava legami fra Prodi e il Kgb (o fra Prodi e il rapimento di Moro). E persino fra l’azienda Olivetti, sospetta di Ulivismo, e il Kgb.
Ed entrambe le ex spie sovietiche, che nel Kgb, ai tempi del primo Putin, devono averne visti di eventi incredibili - hanno raccontato agli intervistatori di Repubblica il loro disorientato stupore nello scoprire che la commissione che li aveva arruolati non lavorava contro la malavita e le mafie, ma contro l’opposizione italiana. In entrambi i documenti, finora i primi che abbiano fatto davvero luce sul febbrile lavoro Scaramella-Guzzanti, i due ex agenti dicono di essersi resi conto che il fine grottesco e ad essi estraneo per cui erano stati arruolati non li esentava affatto dal pericolo.
A quanto ci dicono, essi accettavano di correre quel pericolo per smascherare, con l’aiuto di una legittima commissione parlamentare italiana, il peggio del pericolo Putin.
Uno dei due dice di avere capito l’errore quando ha visto in televisione Berlusconi intento ad abbracciare e baciare, e lodare come un riferimento della sua vita, «l’amico Putin».
L’altro, forse, avrà rivisto come in flash la sua incredibile esperienza italiana quando, invece di far luce sulle stragi cecene, volevano fargli inchiodare Pecoraro Scanio o Umberto Ranieri al loro passato di spie sovietiche.
Avrà rivisto i misteriosi Suv «guidati da agenti della polizia penitenziaria italiana» che li prelevavano negli aeroporti e li portavano in appartamenti senza identificazione, dove assistevano alle continue telefonate fra un leader (Scaramella) e l’altro (Guzzanti) con accenni deliberati e pesanti al vertice del sistema politico americano. Avrà rivisto la quantità di denaro che si riversava in quelle teatrali operazioni. E la quantità di uomini che, intorno alla commissione Mitrokhin, vedevano in azione e in movimento, senza capire perché.
Ma in punto di morte, e di una morte così atroce, non si può sorridere.
Suggerisco che non ne sorridiamo neppure noi, nonostante certi aspetti vistosamente ridicoli (e - per un italiano - umilianti) della vicenda.
Non possiamo sorridere perché la libertà che Berlusconi voleva «difendere» con gli strumenti della commissione Telekom Serbia e della commissione Mitrokhin, in realtà era nostra, la libertà dell’Italia, attaccata da italiani con uomini e mezzi in stile Pinochet. Ricordate quando l’abbiamo detto per la prima volta, tanti anni fa, su questo giornale. Sembrava una bestemmia e come tale è stata trattata. Ora rileggete ciò che Limarev e l’assassinato Litvinenko hanno detto a Repubblica e domandatevi se c’è niente, in ciò che loro descrivono della loro esperienza come «consulenti» della commissione Mitrokhin, che ricordi una democrazia e uno Stato di Diritto.
Non possiamo sorridere perché c’è un cadavere lungo questo percorso. Ed è presente per un caso strano e ancora da spiegare, sul luogo e nel tempo del delitto, un personaggio di primo piano della commissione Mitrokhin.
Ora anche l’ex presidente di quella commissione (che non corrisponde in nulla a una istituzione della Repubblica in base alla Costituzione), afferma di essere in pericolo.
Se è vero, o anche se esiste il minimo dubbio, chiediamo che sia protetto. Lo diciamo volentieri da questa «testata omicida», che è stata dichiarata tale per avere definito «regime» il tempo in cui si sono svolte le avventure ora narrate dalle testimonianze di Limarev e confermate dalla morte di Litvinenko. Se un regime è disporre di tutti gli strumenti, dal conflitto di interessi alle leggi ad personam, dall’uso arbitrario delle polizie regolari a quello delle polizie parallele, dall’arruolamento di personaggi misteriosi con sigle misteriose (chi è in realtà Mario Scaramella, l’uomo che con soldi italiani va per il mondo ad arruolare agenti di servizi di altri Paesi da usare contro l’Italia e si trova per caso presente alla morte di uno di essi?) all’uso francamente illegale di istituzioni della Repubblica come le commissioni parlamentari, allora tristemente e orgogliosamente confermiamo: è stato un regime.
LE INTERCETTAZIONI.
Nelle telefonate tra il consulente della Mitrokhin e Guzzanti le manovre per far apparire il premier un uomo del Kgb
"Così incastreremo Prodi". il piano Scaramella-Guzzanti
Le trappole emergono dal lavoro dei pm di Napoli *
Nella lingua inglese, c’è un’efficace formula per definire il piano preparato nei segreti della "Commissione Mitrokhin" contro Romano Prodi. La formula è character assassination, la distruzione della reputazione, l’annientamento della sua credibilità, l’assassinio di una persona non nel suo corpo, ma nella sua identità morale, professionale, sociale. Il senatore Paolo Guzzanti è determinatissimo a trovare elementi che possano diventare, una volta pubblici, la tomba politica dell’antagonista di Silvio Berlusconi. Li chiede, li invoca, li pretende, dal suo consulente privilegiato Mario Scaramella e il "professore" non lesina al presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta occasioni, opportunità posticce, piani di aggressione privilegiati e subordinati. Prodi deve diventare l’uomo di fiducia del Kgb in Italia. Potrebbe non bastare e, allora, il "professore" consiglia al senatore di autorizzare altre manovre. Nella Repubblica di San Marino si possono creare le condizioni per accusare Prodi di essere finanziato da Mosca attraverso la Cassa di Risparmio e, da qui, a Nomisma. La confezione di questi falsi documenti sarebbe dovuta finire sul tavolo del procuratore di Bologna. Se le testimonianze, raccolte dai transfughi del Kgb in Europa, non dovessero essere sufficienti, il "professore" si dichiara disponibile a raccogliere direttamente a Mosca altri dossier del Kgb compromettenti.
Forte di una lettera del ministro degli Esteri Gianfranco Fini, dovrebbe però avere il placet del "Capo" per evitare problemi con Vladimir Putin. Infine, le Coop. Si potrebbe organizzare un’evidenza del loro legame con la criminalità organizzata. Una convergenza d’interessi che si consuma nell’indifferenza, tutta politica, delle "toghe rosse" della procura di Napoli. Un bel piano, no, alla vigilia delle elezioni.
Paolo Guzzanti mostra sempre grande entusiasmo per le fantasiose trovate del suo collaboratore. Che appare molto interessato a capire, anche per il suo futuro professionale, qual è la parte in commedia di Silvio Berlusconi. Guzzanti, come leggeremo, lo rassicura: "... Annuiva gravemente... Ha voglia di giocare all’attacco".
La storia delle trappole preparate dentro il Parlamento con i poteri speciali attribuiti a una commissione di inchiesta contro Romano Prodi, allora candidato premier, a soli tre mesi dalle elezioni, si può, in fondo, raccontare con due sole telefonate tra quelle intercettate per ordine della Procura di Napoli, oggi nel fascicolo trasmesso al pubblico ministero di Roma. La prima telefonata ci racconta come potessero apparire buffi, grotteschi, ridicoli, i tentativi di Mario Scaramella agli occhi di chi, tra gli altri, avrebbe dovuto accreditare le sue frottole. Come l’ucraino Aleksander Talik.
Il 5 gennaio 2006, conversando con la moglie, le dice: "Tu capisci? Mario sembra un bambino. È tutta una cosa che non quadra. Io non capisco niente, sembra un gioco. Tutte queste storie sul Kgb, sugli attentati. Mi fa schifo tutto questo. Io non capisco tutte queste combinazioni stupide. Non capisco proprio la ragione di queste cose. Mario mi porta questo che ha scritto Andreij (Andreij Ganchev, interprete ufficiale della commissione Mitrokhin). Ma chi è Andreij? Andreij può scrivere quello che vuole, dico io. Per me ha lo stesso valore che scrivere su un muro che Aleksander è scemo. È la stessa cosa. Che senso ha tutto questo? Mario ha nominato alcuni personaggi: grandi colonnelli, eccetera. Dice che Andreij ha dato le informazioni a questo colonnello del Fsb. Ma dico io: questo colonnello non ha niente da fare che scrivere queste cose deliranti? Delirio assoluto, incomprensibile. Mi capisci?". La saggia moglie, Natasha, la fotografa con concretezza con un paio di parole: "Sasha, loro hanno semplicemente inventato questa storia".
I fabbricanti della storia inventata li si può vedere all’opera qualche giorno dopo. E’ il 28 gennaio del 2006. Sono le 10 e 59 minuti. Paolo Guzzanti e Mario Scaramella discutono per 21 minuti e 37 secondi.
Mario Scaramella: "Il segnale che io ho avuto è questo: non c’è un’informazione Prodi uguale agente Kgb, ma parliamo di "coltivazione", contatti".
Paolo Guzzanti: "Coltivazione è abbastanza, eh?!".
Scaramella: "Per me, è moltissimo. È quello che mi viene detto. A questo punto, non pretendete una dichiarazione da chicchessia che dica "Prodi è un agente"". Guzzanti: "Perché, "coltivato" invece si?".
Il problema del senatore e del suo collaboratore è chiaro. Non possono accusare Romano Prodi di essere un agente e dunque ripiegano su una formula meno assertiva, ma più malignamente suggestiva. Romano Prodi è stato un uomo "coltivato" dal Kgb. Il problema dei due signori è di costruire un supporto di testimonianze che regga in pubblico, perché, come dice Guzzanti, "non è una lite tra giornali, qui si finisce poi in tribunale". Tocca a Scaramella trovare il testimone chiave. Vladimir Bukovskij (intellettuale dissidente riparato a Londra, scambiato dai sovietici nel 1976 con il comunista cileno Luis Corvalan) si è chiamato fuori con una considerazione che non fa una piega "Se attacchiamo politici occidentali, quando non abbiamo documenti, poi perdiamo credibilità, anche quando invece abbiamo i documenti". "Comunque - racconta Scaramella a Guzzanti - non arriviamo a dire che Prodi è un agente del Kgb in questi termini. Quello che è certo è che i russi consideravano Prodi amico dell’Unione Sovietica".
Guzzanti si infuria: "Scusa Mario, abbi pazienza! Per me, agente o "coltivato" va bene. "Amico dell’Unione Sovietica" non significa un cazzo! Che mi frega a me? Che ti pare una notizia, "Prodi amico dell’Unione Sovietica"? Ci aveva pure [rapporti] con l’Istituto Plecanov. Mi stai a prendere per il culo, scusa? "Coltivato" a me va benissimo, perché l’espressione "coltivato" significa quel che significa nel linguaggio di intelligence".
A questo punto, il "professore" propone come testimone chiave Oleg Gordievskij (ex colonnello del Kgb, riparato a Londra nel 1985, autore con Cristopher Andrew de "La Storia segreta del Kgb"). Ma c’è una difficoltà. Oleg non ne vuole sapere di mettere tra virgolette "Prodi agente del Kgb", perché "questo non è accaduto", dice. Scaramella però conviene che si può lavorare sul discorso di "coltivazione". Guzzanti gli spiega gli essenziali passaggi che deve documentare per la commissione. "Mario, scusami, do alle parole l’importanza delle parole. Allora, in quella cosa lì si dice: "Award man" (la trascrizione fonetica tradisce verosimilmente un "our man", un "nostro uomo" con "award man" che significherebbe "uomo premio"). Tu pronunci la sigla e quello dice "Yes!"".
Scaramella: "Certo, certo".
Guzzanti: "Punto e basta! Non voglio sapere altro! L’unica domanda è: queste frasi sono confermate e confermabili?".
Scaramella: "Assolutamente sì".
Guzzanti: "E allora questo è l’unico punto, ma mi serve certificato e marca da bollo".
Scaramella ha ora capito in che solco si deve muovere e, volenteroso, non si risparmia. Dice: "Anche più di quello. Con questo meccanismo si può arrivare a dire: "Sì, io so che [Prodi] era in contatto con gli ufficiali del V dipartimento [del Kgb], con i... con un ufficiale del servizio A... Eh, la notizia viene specificata". Scaramella è ora entusiasta. Un fuoco d’artificio. Ha capito che cosa può far felice il "Capo".
Scaramella: "Capo, il discorso è questo: non c’è dubbio sull’autenticità, la veridicità e la confermabilità delle dichiarazioni".
Guzzanti: "Io voglio che lui...".
Scaramella: "Quello che ha detto non lo dice, questo è il punto... Quella mezza parola in più rispetto a quello che ha detto, lui alla fine dice: "Era sotto coltivazione come promettente obiettivo di..."".
Guzzanti: "Questa è una cosa di cui non me ne frega niente! Io voglio sapere se lui non smentirà mai di aver detto quello che ha detto. Punto! La "coltivazione"... il IV dipartimento... queste possono essere successive cose. Io devo poter dire: "Il signor O. G. (Oleg Gordievskij), parlando del signor R. P. (Romano Prodi) dice così. Punto!".
Scaramella: "Io non sono in grado oggi di dire se lui è in grado di ripeterlo. Lo ha detto e lo conferma".
Guzzanti: "A me mi basta che lui non smentisca di averlo detto!".
Scaramella: "Quel che ci abbiamo è acquisito, Capo, senza possibilità di manipolazioni".
Definiti i passaggi successivi del piano, Scaramella cerca di capire da Guzzanti, il suo "Capo", qual è l’opinione del "Capo" di Guzzanti su quel che stanno cucinando. A chi pensare se non a Silvio Berlusconi? Proprio al presidente del Consiglio in carica in quel gennaio 2006, sembra far riferimento il senatore di Forza Italia quando informa il consulente di come sono andate le cose.
Scaramella: "Tu hai qualche dettaglio in più dell’incontro con il Capo?".
Guzzanti: "La notizia ha avuto un forte impatto. Io quando vado da lui gli dico le cose a voce ma, contemporaneamente, gli metto sotto il naso un appunto scritto in cui ci sono le stesse cose che gli sto dicendo e nell’appunto scritto - che lui s’è letto e riletto sottolineando i punti salienti, scrivendo 1, 2, 3, come fa lui - ci sono le cose di cui abbiamo parlato come futuro... Annuiva gravemente, come uno che non solo è..., anzi, quando io ho detto: "Sai, il problema di questa faccenda è che, se noi andiamo a un processo, poi è una (parola incomprensibile)... è una cosa in cui dobbiamo dimostrare ciò che diciamo", e lui, sorprendendomi un po’,... però ho capito che ha voglia di giocare all’attacco. Ha detto: "Beh, un momento! Intanto però, li costringiamo a difendersi". Questa l’ho trovata una reazione estremamente positiva. (...) E contemporaneamente io gli dico: "Guarda, ... ti porto il risultato e quindi (frase incomprensibile)".
Scaramella ha ben chiaro che il gioco si è fatto grosso e, come sempre, vuole apparire il più determinato tra i giocatori del pacchetto di mischia. Gordievskij va bene, ma per andare sul velluto gli sembra una buona idea organizzare anche manovre subordinate e di sostegno al piano principale.
Scaramella: "Io lavoro a blindare quel po’ che abbiamo. Se serve di più io ho dei canali (...) Ce ne sono tre possibili: 1) Stati Uniti, dove c’è stato abbastanza chiaramente detto tutto quello che era gestito in un modo, poi è diventato friendly dall’altra parte. Quindi ci sono dei seri limiti, però forzabili. 2) San Marino. San Marino ha una banca puttana che è quella che fa le cose sporche: è la Cassa di Risparmio. Tu saprai certamente che Nomisma ha delle sostanziali quote in Cassa di Risparmio, cioè la Cassa di Risparmio è proprietaria di una buona fetta di Nomisma".
Guzzanti: "Sì".
Scaramella: "Io so che i collegamenti finanziari che ci sono stati in passato sono stati anche tramite San Marino. Allora c’è un canale proprio di indagine da cui possono uscire degli elementi anche di esposizione. Mò ho, per esempio, lunedì, con la Procura di Bologna che, indirettamente, potrebbe diventare recipiente di alcune informazioni, non dirette, ma indirette".
Guzzanti: "Quando ce l’hai l’incontro?".
Scaramella: "Con De Nicola (procuratore di Bologna ndr.) ce l’ho lunedì a Bologna alle 11. Allora potrebbe essere, non direttamente, non esplicitamente facendo i nomi, ma dando la pista: "Guardate i soldi di Mosca. Dalla Cassa di Risparmio finiscono in primarie società". E si arriva a Nomisma. È un altro di quei passaggi che poi un domani, al livello giudiziario...".
Guzzanti: "Certo".
Scaramella: "Il terzo [canale] è frontale. (...) Ho la possibilità di accesso a questi documenti a Mosca, legalmente (...) E’ una cosa diversa dalla rogatoria".
Guzzanti: "Lì mi pare che Vladimir (Bukovskij) ti ha detto "vai da questi", no? O te lo ha detto Oleg (Gordievskij)?".
Scaramella: "L’ha detto proprio Oleg. Oleg ha detto: "Vai e dai 200 dollari a qualcuno..."".
Guzzanti: "Sì, sì, sì".
Scaramella: "Non ti sfugge il livello di esposizione di chi si va a prendere, non autorizzato, le informazioni in un momento così delicato con i russi. Cioè, io lo so fare e lo faccio bene e lo faccio immediatamente".
Scaramella è preoccupato di andarsene a Mosca a contattare agenti del Kgb, a chiedere loro - in cambio di soldi - documenti riservati senza un ombrello politico o diplomatico.
Guzzanti: "E convocare un ufficio di presidenza [della Commissione]?".
Scaramella: "Quello non serve, scusami, perché io ho già la delega dell’ufficio".
Guzzanti: "E allora?".
Scaramella: "Voi mi avete già contattato... e Fini (allora ministro degli Esteri, ndr) ha scritto all’ambasciata. Si può fare questo passaggio. Va bene".
Guzzanti: "Ma i tempi? Tutto deve essere consegnato al più tardi per venerdì prossimo".
Scaramella: "Per il 10, eh? E allora mi organizzo questa settimana di andare a Mosca (...) Se puoi fare tu un passaggio, visto che noi abbiamo la lettera di Fini che dice: "Ho dato istruzioni...", si potrebbe fare lunedì un passaggio. Io vado da martedì, mercoledì. Vado a Mosca e torno con un bottino anche più grasso dell’agenzia ecologica. La missione giustifica comunque anche l’accesso a tutta una serie di canali che poi sono anche miei. (...) E quindi, superiamo Oleg. Oleg diventa la fonte che ha indicato e poi uno ha approfondito. E... se il tuo Capo, come dire, va poi... che in teoria si potrebbero urtare suscettibilità del governo russo, questo è il punto. Per me, non c’è nessun problema. È sostenibile, poi, dopo, questo passaggio?".
Guzzanti: "È chiaro che se tu stai facendo una cosa e ci... qualsiasi problema sarebbe risolto per via immediata con un colpo di telefono a (nome incomprensibile)".
Non si sa come è finita. Non si sa se Scaramella è andato a Mosca. Non si sa se nella capitale russa ha confezionato qualche altro dossier farlocco. Non si sa se da Roma - autorevolmente, si presume - una telefonata abbia lubrificato le sue iniziative. Come toccherà alla Procura di Roma accertare se Paolo Guzzanti è consapevole della buffonesca cospirazione di Mario Scaramella o ne sia, al contrario, soltanto uno sprovveduto, anche se divertito, allocco giocato con il trucco delle tre carte dal solito furbissimo napoletano cialtrone. Perlomeno in un caso, gli ingenui intrappolati nelle grottesche trame di Mario Scaramella sono due: Paolo Guzzanti e Silvio Berlusconi. Nel variopinto mazzo di carte offerte da Scaramella, il Senatore e il Presidente "spizzano" un jolly falso.
Scaramella: "... Questa questione riguarda un personaggio che è presidente delle Coop rosse. Attualmente ha tutta una serie di lavori in corso con i Ds, per i Ds, posizioni formali di impegno politico, è stato giudicato per associazione mafiosa ed è persona direttamente coinvolta nelle indagini che riguardano il materiale nucleare a Rimini. Quindi ci sono elementi oggettivi di appartenenza alle cooperative rosse, di associazione mafiosa, dichiarata da una sentenza definitiva e di lavori che riguardano le indagini su tutta questa roba che ci stanno raccontando gli ufficiali stranieri...".
Questo diceva Mario Scaramella il 27 gennaio. Il 2 febbraio, intervistato da "Telecamere", Berlusconi gridava: "Agli atti di un processo in Campania, il presidente di una cooperativa ha denunciato che i soldi erano di provenienza della criminalità organizzata. Di questo, erano al corrente esponenti del partito. Una certa magistratura ha fatto si che si arrivasse a una prescrizione".
(la Repubblica, 1 dicembre 2006)
Buongiorno
Un professionista serio
di Massimo GRAMELLINI *
Egregio James Bond, le scrivo per sondare la sua disponibilità a compiere indagini segrete sul conto del presidente del Consiglio. Lei è uomo di mondo e certo non la sconvolgerà sapere che le menti più sopraffine del centrodestra cercano da anni di dimostrare che Prodi ha intascato tangenti, evaso il fisco, lavorato per il Kgb e forse nascosto Bin Laden in uno scantinato di Bologna. Ma quel che troverà anche lei inaccettabile è che abbiano affidato un’attività così delicata a spie prive di qualsiasi spessore professionale. Come Igor Marini, il sedicente operaio dell’affare Telekom-Serbia che si spacciava per numero 2 dello Ior, si firmava Guardiano del Santo Sepolcro e sosteneva di aver maneggiato ordini di pagamento intestati a un certo Mortad.
Ora, chiunque di noi si mettesse in testa di incastrare Prodi, escogiterebbe qualche stratagemma un po’ meno somigliante a un monologo di Zelig. Cambierebbe i nomi, intanto. Il conte Igor. Pio Pompa. E Scaramella, l’ultimo arrivato del caso Mitrokhin, che pare uscito da una puntata dei puffi. Mi chiedo quale segretezza pensassero di conservare, questi agenti della mutua, chiamando Prodi «Mortadella», Pecoraro Scanio «Culattosky» e un dossier ultrariservato «Operazioni traumatiche». Come se un galeotto nascondesse la piantina del carcere in una cartellina denominata «Piani di evasione». Ma dove l’hanno presa, la laurea in spionaggio? Alla scuola serale dell’ispettore Clouseau? Qualsiasi premier, persino il nostro, ha diritto di farsi spiare da un professionista serio e preparato. Uno come lei, caro 007, con un nome decente, un fascino invidiabile e uno smoking stirato. In caso di risposta affermativa, per l’onorario e i benefits (Bond girl inclusa), pregherò gli ex presidenti delle commissioni Telekom e Mitrokhin di mettersi in contatto con la sua segretaria. Sempre che nel frattempo abbiano smesso di credere ai puffi.
* La Stampa, 1.12.2006