La Sala

ITALIA. STORIE DI REGIME - di Furio Colombo - selezione a cura del prof. Federico La Sala

sabato 2 dicembre 2006.
 

STORIE DI REGIME

di Furio Colombo (l’Unità, 01.04.2006)

Faccio una proposta. Propongo una legge che faccia finire la persecuzione contro Bernardo Provenzano. Che quest’uomo possa finalmente tornare a vivere alla luce del sole come tutti i cittadini dopo essere stato costretto a restare alla macchia per quarant’anni. Che senso ha, a questo punto, un atteggiamento di rivalsa e vendetta verso questo anziano dirigente di una vasta organizzazione, che è fuori legge se la legge si interpreta da un punto di vista formale, come fanno, per attitudine professionale i giudici, ma è un intraprendente imprenditore, se lo si valuta dal punto di vista, pur autorevole, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro.

Naturalmente si leveranno i cultori della interpretazione letterale delle imputazioni ascritte al grande assente, pedanti ripetizioni di capi d’accusa, reati di mafia che, del resto, non hanno impedito ad altri imputati di assumere rilevanti funzioni istituzionali. Ma tipico della vita è passare avanti. Ed è qualificante, per una pragmatica civiltà che pensa al dopo, non lasciarsi inchiodare dalla vendetta.

I veri liberali si uniranno certamente a questa proposta che vuole sgombrare il campo da vecchi rancori e conti rimasti in sospeso col passato. Saranno - presumo - gli stessi liberali che si stanno accalcando intorno a Mediaset, per tributare a quel grande gruppo di comunicazione il sostegno dei veri cultori della libertà.

Il principio guida non è quello meschino ed egoista del vecchio liberalismo secondo cui la tua libertà è sacra fino a quando non nega la mia. No, il principio è molto più alto e capace di occupare spazi larghi e nuovi che prima erano umiliati da lacci e laccioli. Sei ricco? Goditela. Hai potuto conquistare spazi esclusivi di comunicazione mai prima permessi a uno solo? Usali, chi può permettersi di impedirlo? Da quando si punisce la fortuna? Da quando ci si vendica di qualcuno solo perché è più bravo?

Si potrebbe aver voglia di rivedere le bucce del più bravo. Come lo è diventato, quando, perché, con quali leggi e regolamenti, se ha potuto crearsi qualche norma particolare che lo ha favorito, spiazzando altri.

C’è persino chi insiste nel porre una domanda pignola e ossessiva: da dove viene, meglio, da dove è venuta, all’improvviso, tutta quella ricchezza? Nel film di Nanni Moretti «Il caimano» il personaggio (uno fra molti) che interpreta Berlusconi, alla domanda risponde: «Non lo dirò mai». Questa frase è politicamente, e anche dal punto di vista narrativo, il cuore del film. Ma, diranno i liberali scattati in difesa del monopolio e del segreto professionale, si tratta di invidia e malanimo.

Infatti, più ci si addentra nel discorso e più si nota il contrasto fra il lato moderno e solare del grande perdono a Mediaset, gesto liberale se mai c’è ne è stato uno, e il lato meschino, vendicativo e rivolto al passato di coloro che sognano di confinare Mediaset nel mondo dei quiz e del Grande Fratello e di separarla dalla politica.

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Vediamo alcuni argomenti illuminanti proposti dalle punte alte del liberalismo italiano.

«Pensare di far approvare una legge che - costringendolo a scegliere fra la propria condizione di magnate della televisione e quella di leader politico - impedisca a Berlusconi di ritentare di tornare al governo contraddice, oltre che il principio di realtà, anche il principio di libertà» (Piero Ostellino, Corriere della Sera, 26 marzo). «Certo che Silvio è un’anomalia. È anomalo perché è un fenomeno. Quale imprenditore è riuscito a scendere in politica, fondare un partito e vincere le elezioni? Solo un accidente come lui, che è fuori del normale» (Fedele Confalonieri, Corriere della Sera, 31 marzo).

Una persona volgare potrebbe suggerire che simili argomentazioni servirebbero egregiamente alla difesa di un imputato di stupro e violenza. Il principio di realtà e il tributo al fenomeno sono quel che ci vuole non solo per perdonare, ma anche per celebrare l’eccesso, al di là dell’eventuale danno inferto alla parte debole.

Qui siamo all’ammirazione del superuomo (il fenomeno) e al riconoscimento puro e semplice dello stato dei fatti («il principio di realtà») che vuol dire «se puoi farlo, fallo. Chi si lamenta è meschino e sfigato».

Ma ci sono altri argomenti, che arricchiscono anche culturalmente il dibattito.

Confalonieri: «Eppoi basta con ‘ste balle. Da dodici anni non si occupa più delle sue aziende. Ora ci sono i suoi figli». Nessuna cessione o passaggio di proprietà, ma che importa? Coloro che non hanno in famiglia immense imprese di comunicazione come si permettono di discuterne? Si sente nell’aria la domanda: come osano, questi straccioni? E poi che cosa c’entra il governo, e il fatto che chi governa è colui che assegna le licenze a chi trasmette televisione, e che male c’è se il proprietario delle televisioni, diventato capo del governo, dà le licenze a se stesso e controlla se stesso (oltre alla normale competenza sulla Televisione di Stato)? Questi sono noiosi dettagli burocratici. Invece il «principio di realtà» ci dice che da un lato c’è una costellazione di imprese con migliaia di dipendenti e dall’altra «un fenomeno della natura».

Come possono permettersi un Prodi qualunque, un Fassino qualunque, di intromettersi tra «principio di realtà» e «principio di libertà» ? Santo cielo, ma non ci sono più liberali in questo Paese?

Confalonieri, il manager, ha fiducia: «Il campo di battaglia sono le elezioni. Chi vince vince, chi perde perde. Ma le aziende restino fuori dalla contesa. Del resto anche dall’altra parte ci sono persone ragionevoli. Ma non ne faccio i nomi per non danneggiarli». Presumibilmente sono persone inclini ad accettare il «principio di realtà». Se sei un fenomeno, sei un fenomeno. E i non fenomeni, in nome del «principio di libertà» dei fenomeni, la smettano di lamentarsi.

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Ostellino, il liberale, sa con precisione dove si piantano i paletti delle garanzie democratiche. Ascoltate: «Il conflitto di interessi deve essere risolto dopo e non prima del successo elettorale del suo portatore». Ovvero, la questione va discussa con il detentore di un grande potere privato, non appena assume anche un grande potere pubblico. Alla faccia del principio di realtà. Attenzione al passaggio successivo, destinato a fondare un nuovo principio liberale ma anche giuridico: «Il conflitto di interessi non si risolve ignorando la volontà popolare». Vuol dire: se mi eleggono, ogni violazione della legge è perdonata nel prima, nel dopo e per sempre. Io potrò sempre dire: «Mi ha eletto il popolo, come vi permettete di giudicarmi»?

Subito incalza Confalonieri che, dopo la sfuriata di Berlusconi alla Confindustria, l’attacco a Diego Della Valle che si è dovuto dimettere solo per avere osato tenergli testa, e dopo le minacce a Lucia Annunziata e le accuse a Floris di avere truccato Ballarò , dice senza imbarazzo: «Dà fastidio l’animo di rivincita con cui l’Unione ha caricato la sfida elettorale. È mai possibile che, per rivalsa verso il politico Berlusconi, debba attaccare le sue aziende?».

La conclusione è memorabile, una sorta di minaccia alla nostra reputazione di elettori e di eletti del centrosinistra: «Una legge punitiva contro Mediaset diverrebbe il conflitto di interessi del centrosinistra». Fantastico. È conflitto di interessi opporsi al conflitto di interessi. Ed è punitivo separare l’immensa distesa di aziende Mediaset (più la pubblicità, più le banche, più le assicurazioni) dal quasi dittatoriale ruolo del Primo ministro, a cui la Casa delle libertà, vandalizzando la Costituzione, ha attribuito, con la sua riforma, tutto il potere.

Per la cronaca sono le stesse aziende in cui - ci conferma la cronaca di Repubblica del 31 marzo - il direttore del TG5 Rossella urla «mi hai rotto» al vice direttore Sposini che tenta di inserire nel corso di un Tg quasi completamente dedicato a Berlusconi, una smentita appena pervenuta dall’Unione.

Il tutto viene riassunto come segue nell’appello proposto dal Foglio e firmato anche da Piero Ostellino e Sergio Ricossa: «Obbligare Berlusconi a scegliere tra il suo status di imprenditore e la politica vorrebbe dire inaugurare un nuovo regime». Finalmente la parola regime viene usata per descrivere il saldo legame fra controllo del governo e controllo delle informazioni, con l’indotto di una potente azione intimidatoria nei confronti di coloro che in teoria restano liberi di non spaventarsi di una rettifica dell’opposizione da inserire in un telegiornale privato e di governo. Ma in pratica hanno visto che cosa è successo a Enzo Biagi, Diego Della Valle e Lucia Annunziata (forse a Sposini del TG5), e si danno una regolata.

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Come vedete il piccolo Lord continua a pretendere che, per le sue violazioni di leggi e di pratiche accettate e rispettate nel mondo, vengano puniti gli altri, coloro che si oppongono e non stanno al gioco.

La grandiosità della sua pretesa trapela nel mondo. In questi giorni ne parlano a lungo il settimanale Newsweek e il quotidiano finanziario Wall Street Journal. Entrambi pubblicano articoli che fanno apparire mite e benevolo il testo che avete appena letto.

Ai liberali che firmano e sostengono l’appello sulla necessità di mantenere intatto l’attuale regime di monopolio di Berlusconi fondato su più governo per lui e più televisioni per lui (e solo per lui) avanzo una proposta di quelle “costruttive” che loro, fra un insulto, una falsità e una minaccia, invocano sempre.

Che cosa direbbero di pubblicare l’appello del “Foglio” in inglese, sul New York Times o almeno sull’ Herald Tribune? Certo, costa. Ma un piccolo sacrificio (Casini direbbe: un fioretto) forse da quella parte riescono a farlo. Il fatto è che la verità non deve avere confini. È bene che il mondo sappia che cosa vuol dire “liberale” in Italia, oggi.


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