Le nanopolveri prodotte dalla guerra e dai poligoni di tiro entrano nei tessuti di soldati e i civili coinvolti, senza più uscirne
E’ in atto una contaminazione planetaria prodotta da nanoparticelle inquinate. Ingerite anche mangiando un alimento contenente nanopolveri, passano irreversibilmente nei tessuti. Entrano nel sangue e nello sperma. Vengono trasmesse al partner tramite l’atto sessuale. Analizzati casi di sperma con bismuto, calcio, titanio, ferro, titanio, cobalto, cromo, molibdeno, acciaio. L’inquietante scoperta delle "nanopatologie" emerge nella Commissione di inchiesta del Senato sull’uranio impoverito. Questa è la relazione della dottoressa Antonietta Gatti, responsabile del Laboratorio dei biomateriali presso il Dipartimento di neuroscienze dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia.
Dott.ssa Antonietta Gatti
27 febbraio 2006
(www.peacelink.org/editoriale).
«Nanopathology»
«Nanopathology» è una parola inventata da me, anche se ora comincia ad essere di uso corrente: significa patologie da micro e nano particelle. Con una macchina di nuovo tipo, un microscopio elettronico di tipo ambientale, non solo riusciamo a individuare delle cose molto piccole, ma anche abbiamo sviluppato una tecnica innovativa per vedere all’interno dei tessuti patologici.
Una nuova tecnica di indagine per osservare l’infinitamente piccolo
Con questa tecnica riusciamo a vedere cose che sono molto piccole. Siamo abbastanza avvezzi a sentire l’espressione PM10: si tratta delle particelle che non ci fanno girare in auto la domenica e vuol dire 10 micron. Ebbene, in questo momento noi stiamo lavorando con particelle che sono più piccole di un micron, che si avvicinano ai nanometri (siamo arrivati fino a dieci nanometri): sono le dimensioni delle proteine e dei virus, quindi stiamo lavorando con qualcosa che è veramente molto piccolo. Perché ne parliamo? Perché effettivamente in questo modo riusciamo a vedere dei corpi estranei all’interno dei tessuti patologici.
Dall’uranio impoverito all’analisi dei tessuti
Quando scoppiò il caso dell’uranio impoverito, mi dissi: se c’è dell’uranio, andiamo a vederlo all’interno dei tessuti patologici, perché solo così si può dimostrare una correlazione tra l’uranio e la patologia eventualmente sviluppata. Se sta fuori, questo tipo di uranio impoverito non dà grossi problemi.
Ho potuto analizzare il midollo, un pezzetto di fegato, un colon, un polmone, delle sezioni di campioni biologici. In alcuni casi ho avuto più campioni dello stesso paziente; per esempio, midollo, sperma e sangue.
Nelle biopsie sono state trovate particelle tonde. E’ importante soffermarsi sulla forma rotondeggiante: lo scienziato dei materiali sa che le forme rotondeggianti provengono da combustioni ad altissima temperatura.
A duemila gradi vengono prodotte insolite particelle
Queste particelle, a mio avviso, si presentano strane. E’ stata rinvenuta nel tratto digestivo, nello stomaco, una particella di zirconio rotondeggiante, anzi tondissima, di 50 micron, quindi abbastanza grande. Trovare nell’ambiente una particella di zirconio così tonda è tecnicamente difficile. Lo zirconio, infatti, ha un’altissima temperatura di fusione e la rotondità della particella relativa al caso che sto illustrando è necessariamente dovuta ad una temperatura superiore almeno ai 2.000 gradi.
Oltre i duemila gradi: cosa accade con la combustione dell’uranio impoverito
Ho avuto modo di leggere il rapporto annuale del 1977 della base militare di Eglin, in Florida, nel quale sono stati valutati gli effetti sull’ambiente dell’esplosione di una bomba all’uranio impoverito. Gli americani fecero esplodere simili bombe nel deserto del Nevada per raccogliere poi elementi di uranio impoverito che, in realtà, non furono trovati. Vennero invece raccolti i prodotti della combustione determinata dall’uranio impoverito.
Quando esplodono, bombe di questo tipo creano temperature superiori ai 3.000 gradi che fondono tutto ciò che si trova nel crogiuolo.
Il rapporto della base statunitense ha dimostrato che le particelle rinvenute da quelle esplosioni avevano una forma perfettamente rotondeggiante, mentre la loro composizione chimica era determinata ovviamente dai materiali fusi presenti nel crogiuolo.
Nel deserto del Nevada c’era solo sabbia, ma in una zona di guerra le esplosioni fanno fondere i materiali presenti (ad esempio, parti di un carro armato), creando quindi un inquinamento ambientale in cui si rilevano tutti gli elementi soggetti alla combustione avvenuta.
Se si bombarda una raffineria o una fabbrica di armi, dall’esame dei residui della combustione che segue le esplosioni si possono individuare tutti i composti chimici presenti al momento del bombardamento.
Il rapporto sulla base di Eglin già nel 1977 poneva l’accento sulle polveri create da questo tipo di esplosioni, le cui dimensioni erano al di sotto del micron. Il sito governativo dal quale era possibile reperire il rapporto è stato oscurato.
Le nanoparticelle tondeggianti
Esaminando il caso di un tumore della pleura abbiamo trovato piccolissime particelle di antimonio. Da una biopsia polmonare è risultata la presenza di tungsteno, materiale utilizzato nella produzione di lampadine: ritrovarlo all’interno di un polmone non è assolutamente normale. Nel caso di un linfoma di Hodgkin è stata rinvenuta una particella molto particolare perché composta da fosforo, cloro, piombo e cromo. E’ importante ricordare tale composizione per verificare non solo le problematiche di salute riferite all’uranio impoverito, quanto anche quello di indagare sui soggetti che abitano le zone limitrofe al poligono di Salto di Quirra in Sardegna. E il piombo è tossico. Ricordo, ad esempio, che nel XVIII secolo a Venezia esisteva una scuola di vetrai che produceva bellissimi vetri al piombo, attualmente esposti nei musei; ebbene, tutte le persone che operavano in quella scuola sono decedute in maniera anomala per via degli effetti tossici del piombo. Dalla biopsia del midollo osseo di un altro soggetto è stato rinvenuto anche del titanio, mentre abbiamo esaminato il caso di un soldato sminatore, che faceva cioè brillare gli armamenti nemici, al quale è stato diagnosticato un cancro della prostata. Dagli esami effettuati è risultata la presenza di notevoli quantità di metalli pesanti (bismuto, ferro, cobalto e tungsteno). In letteratura è risaputo che i metalli pesanti sono cancerogeni. Dalle immagini relative alle cellule esaminate è possibile notare che la loro forma è sempre rotondeggiante. Numerosi sono stati i casi in cui abbiamo rinvenuto particelle di acciaio, e quindi piombo, di antimonio misto a cobalto, lega che prima non conoscevo, pur lavorando nel settore dei biomateriali da molti anni. Ho ritrovato questo tipo di lega in un soldato americano che ha operato nella prima guerra del Golfo. E’ strano. Io non ho delle risposte. Ho solo delle evidenze.
Esplosioni e nanoparticelle
La nanotecnologia, nuova scienza del XXI secolo, consente di creare in laboratorio particelle molto piccole non presenti in natura, tecnica molto faticosa e dispendiosa. Tali particelle, una volta create, hanno la particolarità di aggregarsi, formando, in base alle leggi fisiche della nanotecnologia, dei clusters. Il cluster è un aggregato di nanoparticelle.
Per l’eliminazione di ordigni bellici a Baghdad, ad esempio, i soldati, dopo aver scavato una buca, vi mettevano dentro gli armamenti del nemico e li facevano deflagrare. Nei crateri si possono trovare delle polveri con questi composti: piombo, stagno, bismuto, silicio, zirconio, argento, vale a dire tutti gli elementi che abbiamo visto nelle biopsie. Ciò significa che nell’involucro delle bombe, al loro interno, c’erano tutti questi elementi. Se si trovano lì e se una persona li respira, finiscono dentro i polmoni, sembra abbastanza logica la consequenzialità.
Le nanoparticelle superano le barriere e passano nello sperma
Veniamo ora all’analisi dello sperma. Non pensavo che fosse possibile. Ancora adesso su certi libri si parla dell’esistenza di barriere, come la barriera polmonare, quella intestinale, quella ematoencefalica. Si riteneva che alcuni corpi estranei non potessero andare oltre queste barriere, almeno questo è ciò che si sapeva fino a poco tempo fa. Tuttavia, in un articolo di un gruppo di tossicologi del lavoro belgi, apparso nel 2002 su una rivista scientifica molto importante, si riporta un esperimento semplicissimo: quegli studiosi hanno fatto inspirare delle nanoparticelle da 0.1 micron, quindi cento volte più piccole di quelle che respiriamo in strada al di fuori di qui, e siccome erano particelle radioattive le hanno seguite nel loro corso. Ebbene, una volta respirate, dopo 60 secondi hanno passato la barriera polmonare e sono entrate nel sangue; dopo un’ora sono arrivate al fegato. Quando questi corpi estranei sono all’interno, non è più possibile eliminarli, al momento, almeno, non si conoscono tecniche di eliminazione. Ma se sono nel sangue possono andare benissimo nelle gonadi, nello sperma; se sono dentro lo sperma ci può essere anche una contaminazione di un partner.
Il soldato canadese dalle sette sindromi
Ho studiato il caso di un soldato canadese. Questo paziente, che era un maratoneta, è tornato dalla guerra del Golfo dopo sei mesi in sedia a rotelle e dopo otto anni è morto. Nel frattempo ha sviluppato almeno sei o sette sindromi, aveva tutto il compendiario del libro di patologia e, alla fine, anche l’Alzheimer.
Aveva disseminate in tutto il corpo (io ho avuto il fegato, il polmone, la milza) particelle di antimonio cobalto, di cui abbiamo parlato, di cobalto e di mercurioselenio; non ho mai visto questa lega, non so come possa essere entrata. Questa persona aveva gli occhi marroni; dopo due anni di patologia aveva gli occhi sul grigio, dopo altri due anni gli occhi sono diventati blu. Il cobalto è blu: c’è una correlazione? Non lo so. So che esiste la sindrome di Wilson, che è genetica, in cui si accumula rame: la parte esterna dell’occhio diventa gialla brunata come il rame. E’ una coincidenza? Nessuno ha mai dato una spiegazione, quindi siamo aperti a tutte le possibili ipotesi; sta di fatto, però, che la moglie ha sviluppato quella che si chiama la burning semen disease, in italiano si potrebbe tradurre come «sindrome del seme urente». Il militare, una volta tornato a casa, aveva delle turbe neurologiche e non riusciva a portare a termine l’atto sessuale; il giorno dopo la partner aveva bruciori nella parte interna tali da non poter stare in piedi. Ha dovuto inserire un preservativo con del ghiaccio dentro. La partner, in seguito, ha avuto anche perdite di sangue che non sono comprensibili da nessun ginecologo.
Sperma con bismuto, calcio, titanio, ferro, cobalto, cromo, molibdeno, acciaio: le nanoparticelle possono passare nel partner
Ho conosciuto personalmente mogli che hanno sviluppato un cancro dell’utero. Sta di fatto che se nello sperma di un soldato ci sono degli elementi come bismuto, calcio, titanio, ferro, ebbene, non sono assolutamente biocompatibili: cosa facciano poi a livello dello sperma, cosa facciano nel partner non lo so, ma possono passare nel partner.
E’ un fatto che molti soldati della prima guerra del Golfo hanno avuto figli malformati; è un fatto, non so se c’è una correlazione.
Questa cosa non è biologica, ma non è neanche biodegradabile, quando è all’interno rimane, non va più via. Ho delle immagini in cui si nello sperma si possono notare alcune palline tonde di ferrocromo, e, di nuovo, una particella di zirconio. Quindi ci sono delle chimiche che effettivamente ricorrono. Notiamo anche particelle di tungsteno, titanio, cobalto, ferro, cromo e molibdeno. E poi anche acciaio, che potrebbe derivare benissimo dall’armatura di un carro armato.
Mangiare un cavolo con le nanoparticelle e ammalarsi di tumore
In conclusione possiamo dire che le nanoparticelle possono passare: passano tranquillamente la barriera polmonare ma passano anche quella intestinale, perché se - per esempio - mangio un cavolo su cui è caduta questa polvere, ho una certa probabilità di ingerirlo. Quindi, questa polvere giunge negli organi interni e posso avere delle patologie di tali organi interni perché non c’è nessuna barriera che possa fermare queste nanoparticelle. Siamo partiti dall’uranio impoverito per imbatterci in una questione che di certo porta molto più lontano perché sconfina dallo specifico problema relativo all’uranio ed investe più estensivamente la questione ambientale.
Note:
Riduzione dell’audizione tenuta il 18 maggio 2005 davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presso il Senato della Repubblica.
Titolazione e adattamento a cura di Alessandro Marescotti.
Il testo integrale è reperibile presso il sito del Senato
Sul tema, in rete, si cfr.:
Dossier uranio esaurito. Solo chi non voleva sapere non ha saputo, a cura di Giovanni Sarubbi (www.ildialogo.org).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
In difesa della storia anche a costo della vita
“Oro dentro” racconta l’impegno di Fabio Maniscalco, archeologo morto a causa di un tumore provocato dall’uranio impoverito durante le missioni nei Balcani
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 27.09.2015)
Un libro che bisognava scrivere e Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’oro dentro del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (in questo caso il patrimonio culturale, e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco (19652008).
È raro che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro , invece, ci riesce. Si chiude il libro commossi e turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi. La vita di Fabio Maniscalco dimostra che un singolo individuo può fare la differenza. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di conflitti terribili, giocati così in alto sopra le nostre teste.
Fabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare - come molte altre cose - fatale e irreversibile. La sua voglia di riscatto lo spinge, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Da solo riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale.
Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dello Stato Islamico, ma anche gli stati europei hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione.
Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.
La Difesa dovrà risarcire i familiari di un soldato sardo. Il decesso alcuni anni fa
In Italia sarebbero 250 i morti e 1991 i malati per possibile contaminazione
Uranio impoverito, condannato il ministero
1,4 milioni ai familiari di un militare *
CAGLIARI - Il tribunale di Roma ha condannato il ministero della Difesa ad un risarcimento di 1,4 milioni ai familiari di un militare sardo morto alcuni anni fa per presunta contaminazione da uranio impoverito.
La notizia è stata resa nota dal sito www.vittimeuranio.com, secondo cui - stando ad un bilancio del gruppo operativo interforze della Sanità Militare - in Italia sarebbero 250 i morti e 1991 i malati per possibile contaminazione da uranio.
La sentenza di Roma giunge a meno di un anno di distanza da un’altra condanna simile inflitta alla Difesa dal tribunale civile di Firenze: il caso riguardava un paracadutista reduce dalla missione Ibis in Somalia, risarcito con 545 mila euro e deceduto un mese dopo.
Secondo il sito, inoltre, proprio in questi giorni sarebbe morto un altro militare, sempre per la contaminazione da uranio. Si tratterebbe di un sottufficiale dell’Esercito della provincia di Cagliari, che ha prestato servizio nel poligono di Teulada. "Mio padre - racconta la figlia - ha sofferto per una mielodisplasia linfatica degenerata in seguito, nonostante lunghe cure, in leucemia mieloide acuta, causa tre mesi fa del suo decesso".
* la Repubblica, 6 dicembre 2009
IL CASO.
Un volume raccoglie i volti e le testimonianze dei militari italiani colpiti da gravi malattie dopo l’esposizione alla radioattività
Uranio impoverito, la voce delle vittime
DI LAURA SILVIA BATTAGLIA (Avvenire, 31.07.2009)
È una delle inchieste più scomode degli ultimi anni. Scomode perché ci sono di mezzo lo Stato, la Nato, le forze armate e centinaia di militari italiani morti per una strana sindrome, il linfoma di Hodgkin.
All’origine di tutto questo ci sarebbe una sostanza chimica chiamata “uranio impoverito”, prodotta dalla fissione nucleare e utilizzata in ambito militare, sulla quale si sono affaccendati e si affaccendano ancora scienziati, studiosi, capi di stato maggiore, marescialli e commissioni parlamentari d’inchiesta ( ben due, nel 2004 e 2006) per capire e dimostrare quanto l’esposizione a questa sostanza sia la causa principale delle malattie incurabili che militari e civili hanno contratto nei luoghi in cui è stato accertato il suo impiego: Iraq, Bosnia, Kosovo, Somalia e anche il poligono interforze di Salto di Quirra, in Sardegna. Il punto è che, rispetto a questa questione, si sono affaccendati poco i giornalisti, sia per la difficoltà di procedere fino in fondo con il metodo investigativo, sia perché la materia brucia sulla pelle di molti militari, la maggior parte dei quali già morti. Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni, tre giornalisti giovani e indipendenti, invece, hanno realizzato L’Italia chiamò, ( Edizioni Ambiente, pagine 160, euro 16,90; con dvd di 60 minuti), un’inchiesta multimediale, comprensiva di tutti i linguaggi ( video, fotografia, audio, scrittura) e, per risalire alla causa, sono partiti dall’effetto: hanno scelto di raccogliere le denunce dei soldati italiani colpiti dalla malattia e di ripercorrere a ritroso le loro vite e la loro attività, incrociando le valutazioni di medici e biologi sulle cartelle cliniche dei pazienti con i dati scientifici internazionali sui rischi da uranio impoverito e con i risultati dei test militari effettuati dagli americani. Il succo della questione - come bene rimarca la prefazione di Maurizio Torrealta, giornalista di Rainews24 - è sdoganare l’espressione “ impoverito” per un tipo di uranio che sarebbe lo scarto del procedimento di arricchimento e che, se esploso, libererebbe comunque radioattività in forma di nanoparticelle. Una radioattività così pericolosa da non rendere ragione del termine con cui lo si definisce, se un memorandum segreto del dipartimento della Guerra degli Usa, datato 1943, poi reso noto negli anni Settanta, suggeriva l’uso di armi all’uranio impoverito « perché in grado di penetrare i vestiti protettivi e la stessa pelle umana, contaminando sangue e polmoni » . Il 28 marzo 1997 negli Stati Uniti viene pubblicato il rapporto Depleted Uranium che rende conto degli effetti delle armi “non convenzionali” sui veterani nella Guerra del Golfo.
Ma nessuna notizia se ne ha in Italia e nulla ne sanno i nostri militari. Fino a che l’elicotterista Domenico Leggiero diventa il rappresentante dell’Osservatorio militare e pubblica per primo dati scomodi per i vertici delle forze armate, numeri che snocciola anche L’Italia chiamò: soldati morti per linfomi riconducibili alla presenza di nanoparticelle nell’organismo: tra 80 e 170.
Soldati ammalati: tra 300 e 2540.
Da questa inchiesta, poi, le stime e le relazioni di causa- effetto tra le omissioni dell’Esercito italiano e le confessioni dei nostri militari malati, ogni lettore potrà trarle da sé, perdendosi nella profondità degli occhi di Angelo Ciaccio, il caporalmaggiore di Napoli affetto da leucemia gravissima, una causa di servizio già presentata al ministero della Difesa; o ammirando la dolorosa dignità del padre di Luca Sepe, soldato dell’esercito, morto senza diagnosi certa ( si scoprirà poi trattarsi di linfoma di Hodgkin) dopo cento giorni in Kosovo, maneggiando materiali contaminati senza protezioni; o ancora leggendo le speranze possibili nel sorriso sereno di Emerico Laccetti, comandante del Centro emergenza della Croce rossa italiana, sopravvissuto a un tumore mortale, dopo avere dormito in un campo vicino Tirana, contaminato da bombardamenti americani. Tutti orgogliosi di essere soldati a servizio della patria, tutti indignati per non essere mai stati informati dai loro superiori sulle conseguenze gravissime a cui erano esposti. L’Italia chiamò dimostra con i fatti di non essere un’inchiesta a tesi, come qualcuno potrebbe pensare: piuttosto, aiuta a sollevare il velo giusto su tutte quelle guerre che diciamo giuste. Dalle storie individuali dei soldati in servizio nei Balcani o in Somalia una traccia per risalire alle cause di un’incidenza stranamente anomala di linfomi e leucemie
Uranio impoverito, solo 30 milioni per le vittime
di DAVIDE MADEDDU *
Via libera per indennizzare le vittime dell’uranio impoverito e, con il provvedimento approvato dal governo di recente arrivano anche le polemiche. Si tratta di trenta milioni di euro per indennizzare le vittime dell’uranio impoverito e delle nano particelle. Ma le associazioni denunciano “l’esiguità delle risorse”.
Ci sono volute battaglie, proteste in piazza e ricorsi davanti ai tribunali penali e civili ma, alla fine, i “gli invisibili” e i loro familiari hanno ottenuto una piccola vittoria. Ossia il via libera da parte del consiglio dei ministri allo stanziamento di trenta milioni di euro, da spendere nell’arco dei tre anni per risarcire le vittime o i loro familiari. Ad annunciare il via libera al provvedimento, che poi è l’applicazione del provvedimento adottato dallo scorso governo di centrosinistra, è stato il ministro della Difesa La Russa che nel corso di una conferenza stampa, per annunciare il provvedimento, ha detto: «Nei tre anni avremo 30 milioni di euro che, giustamente, vanno a risarcire le vittime dell’uranio e delle nano-particelle. È una cosa che era molto attesa da un numero limitato di persone, ma quando io parlo di grande attenzione a chi presta la propria opera al servizio della nazione significa che non bisogna guardare ai numeri, ma ai singoli casi».
Davanti alla cifra del rimborso qualcuno ha avuto da ridire. È il caso di Domenico Leggiero, presidente dell’Osservatorio militare, l’associazione che da anni si impegna per sostenere e difendere i diritti dei militari e dei loro familiari. «Davanti al via libera che stanzia i soldi non possiamo che essere soddisfatti - spiega Leggiero - però, attorno a tutta la vicenda non possiamo fare a meno di evidenziare tutti i ma e i i nodi che devono essere ancora sciolti».
Ricordando le numerose iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e quelle portate avanti in sede giudiziaria con l’avvocato Tartaglia Leggiero spiega che si tratta di «un provvedimento che aspettavamo da anni ed è stato dettato dalla caparbietà delle famiglie che per dieci anni hanno lottato per rivendicare i diritti dei loro cari». Non solo, ad avere un ruolo determinante nella vicenda anche «le avvisaglie delle iniziative giudiziarie che l’Osservatorio sta portando avanti con il sostegno dell’avvocato Tartaglia». Per Leggiero le risorse messe a disposizione dal Consiglio dei ministri sarebbero troppo poche per intervenire e risolvere il problema in maniera complessiva. «A noi risulta che i casi siano adesso 2537 mentre il numero di deceduti sia salito a quota 166 - aggiunge Leggiero - se si guardano questi dati si capisce benissimo che trenta milioni di euro sono troppo pochi per risolvere una situazione sempre più preoccupante».
È cronaca dei giorni scorsi, benché non legata al provvedimento del Consiglio dei ministri, la decisione della Corte d’Appello di Roma che ha respinto il ricorso del ministero della Difesa contro la sentenza di primo grado che riconosceva un risarcimento pari a un miliardo di lire ai familiari di Stefano Melone, l’elicotterista orvietano morto per un tumore.
A sollecitare il riconoscimento della causa di servizio e gli indennizzi ai militari colpiti da malattie legate all’esposizione all’uranio impoverito in tutti quei casi in cui l’amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità’ tra gli agenti patogeni e la patologia sono stati, recentemente anche i parlamentari del Pd Carlo Pegorer, Pier Luigi Scanu, Mario Gasbarri, Felice Casson, Mauro Del Vecchio e Silvana Amati con un’interrogazione parlamentare presentata al ministro della Difesa La Russa. Una storia ancora non finita.
* l’Unità, 19 dicembre 2008
Uranio, Commissione approva relazione finale: i militari saranno risarciti *
Sì a maggioranza della commissione monocamerale d’inchiesta sull’ uranio impoverito alla relazione finale. A favore il centrosinistra, che ha raccolto anche il sì di Calogero Mannino (Fi) e l’astensione degli altri rappresentanti del centrodestra. Il documento denuncia l’impossibilità di verificare scientificamente, con sicurezza, un nesso di causalità nell’ utilizzo dell’ uranio impoverito all’ estero negli scenari di guerra e le conseguenze sulla salute dei nostri militari.
La commissione ha quindi riconosciuto il diritto dei militari colpiti da malattie «in tutti quei casi in cui l’amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità». La relazione ricorda inoltre che è già stato varato e approvato un decreto che di fatto estende ai militari colpiti da malattie di questo tipo i benefici già previsti per le vittime del terrorismo, mentre altri stanziamenti sono stati previsti dalla recente legge finanziaria.
Allo schema di relazione, sono state apportate diverse modifiche sulla base di proposte venute dai senatori Bulgarelli (Pdci-Verdi), Casson (Ulivo), Valpiana (Prc) e Rame.
Lidia Menapace (Prc), presidente dell’ organismo d’inchiesta, ha insistito perchè si adottino tutte le precauzioni e le cure.
«Questa è la cosa più importante. La commisione ha chiuso sul passato e lascia al Parlamento un lavoro per il futuro, affinchè vengano definiti tutti i protocolli. Ma intanto è già chiaro, fondamentale, che la prevenzione, precauzione e la cura sono assolutamente non rinviabili».
A titolo personale la Menapace ha sottolineato che l’approvazione della class-action in finanziaria fornisce ai militari uno strumento in più per difendere i loro diritti.
«Non dico che questo risultato sia il trionfo della razionalità ma certamente è un buon match a favore della ragionevolezza. All’ inizio i nostri rapporti con la Difesa erano rigidi e in parte pregiudiziali e molto polemici, ma le cose sono cambiate».
Il verde Mauro Bulgarelli ha sottolineato che la commissione è «una bella macchina a cui però manca il motore, perchè ci siamo dovuti fermare nel momento decisivo, quello delle verifiche e degli approfondimenti. Inoltre abbiamo avuto con molta difficoltà i dati sanitari e ci sono mancati dei dati fondamentali per il confronto e la verifica. Ad esempio, sui tumori che colpiscono in maniera abnorme i cittadini che vivono vicino ai poligoni militari».
Felice Casson ha detto che il lavoro «non è concluso e dovrà continuare nella prossima legislatura: è molto difficile e molto delicato e riguarda anche i poligoni militari italiani, ma i dati purtroppo non ci sono arrivati».
Luigi Ramponi (An) ha motivato la sua astensione: sono state inserite nel corpo della relazione, ha detto, proposte che hanno un po’ sviato il senso generale. Buone però le conclusioni.
«Tutte le indagini fatte hanno dimostrato che non esiste una connessione anche se queste non sono definitive. Ma intanto vengono risarciti i militari».
La commissione segnala nella relazione che non ha ricevuto dati sull’ uso di uranio impoverito da parte di eserciti stranieri impegnati negli scenari di guerra e in tutti i luoghi che hanno interessato i militari italiani, elemento questo che era stato ritenuto importante dai consulenti della commissione.
Nella relazione si fa anche notare che per i lavori è stato utilizzato un terzo del bilancio messo a disposizione (100 mila euro per il 2007).
* l’Unità, Pubblicato il: 12.02.08, Modificato il: 12.02.08 alle ore 17.48
I dati forniti dal ministro della Difesa durante un’audizione a Palazzo Madama
"Prenderemo tutte le misure di prevenzione, ma l’Italia non lo ha mai usato"
Uranio impoverito, Parisi in Senato "Tra i soldati all’estero 255 casi di tumore"
Ma l’Osservatorio militare contesta: "I malati sono almeno 2.500 e le vittime oltre 150"
ROMA - Sono 255 i malati di cancro, tra i militari italiani che negli ultimi dieci anni hanno partecipato a missioni all’estero, 37 sono deceduti. Almeno stando ai dati ufficiali. A rivelarlo è il ministro della Difesa, Arturo Parisi, nel corso di un’audizione davanti alla commissione d’inchiesta sull’Uranio impoverito del Senato. Numeri, questi, assai inferiori rispetto a quelli forniti dall’Osservatorio militare che, infatti, li contesta frontalmente e parla di almeno 2.500 malati e 150 morti.
Secondo i dati della Direzione di sanità militare, spiega il ministro, "sono in totale 255 i militari che hanno contratto malattie tumorali e che risultano essere stati impegnati all’estero nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq e in Libano nel periodo 1996-2006. Di questi militari, 37 sono morti". Nello stesso periodo i militari malati per tumore, e non impiegati all’estero, sono stati 1.427.
Parisi assicura anche che nell’impiego di soldati "in zone critiche", la Difesa "sta applicando ogni misura precauzionale. Non intendiamo in alcun modo sottovalutare il fenomeno e tantomeno dissimularlo". Un’ammissione comunque importante, da parte di un ministro. Che comunque aggiunge: l’Italia "non ha mai fatto uso di armamento ad uranio impoverito, nè risulta che nel nostro poligono possa essere stato utilizzato da altri, a meno di dichiarazioni mendaci degli utilizzatori stranieri, che non voglio neppure ipotizzare".
Ma Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare, l’associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari, sostiene che i dati sono molto diversi: "Ci dispiace, ma così anche Parisi perde credibilità. Avevamo riposto speranze in lui, ma queste cifre sono troppo lontane dalla verità".
Leggiero è pronto a mostrare "altri dati ufficiali della Difesa che parlano di un numero di malati quasi decuplicati e di un numero delle vittime da moltiplicare per tre: "Proprio oggi, in Sicilia, si stanno svolgendo i funerali del carabiniere Giuseppe Bongiovanni, morto l’altro ieri per un tumore contratto durante una missione all’estero. Se andate a vedere, questa morte non risulta al ministero".
* la Repubblica, 9 ottobre 2007.
EX-JUGOSLAVIA: 189 CASI TUMORE TRA MILITARI ITALIANI DAL ’96*
(AGI) - Roma, 27 lug. - Sono 189 i casi di neoplasia registrati dal ’96 all’anno scorso tra i militari italiani che hanno preso parte alle missioni in Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Il dato e’ contenuto nell’ultima relazione presentata al Parlamento dall’apposito Comitato scientifico interministeriale (Difesa-Salute), che sottolinea come il numero di casi di cancro segnalati al ministero della Difesa sia "molto inferiore" a quello riferito dalle associazioni cointeressate alla tematica dei rischi dell’esposizione all’uranio impoverito, che ne avrebbero censiti - nello stesso periodo - oltre 500. I casi accertati, sempre secondo la relazione, sono 3 nel ’96, nessuno nel ’97, 8 nel ’98, 9 nel ’99, 25 nel 2000, 18 nel 2001, 30 nel 2002, 22 nel 2003, 41 nel 2004 (l’anno con il picco piu’ elevato), 18 nel 2005 e 14 nel 2006.
Le diagnosi piu’ frequenti sono state quelle di cancro alla tiroide (28) e ai testicoli (28), di linfoma di Hodgkin (21), di linfoma non Hodgkin (20), di melanoma (16).
"La legge numero 27 del 2001 - si legge nella relazione - prevede una campagna di monitoraggio delle condizioni di salute dei cittadini italiani, militari e civili, che abbiano partecipato a missioni di pace nei territori della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo a partire dal 1 agosto 1994″: tre anni dopo e’ stato varato un "progetto di sorveglianza epidemiologica dei tumori della popolazione militare" che ha come obiettivo principale l’istituzione di un registro tumori per la popolazione militare simile a quelli gia’ esistenti per la popolazione civile e, successivamente, la definizione di uno studio retrospettivo sull’incidenza di neoplasie tra i militari italiani che hanno partecipato alle missioni in quell’area.
Nell’ambito del progetto, e’ stato realizzato un database contenente 64.788 record individuali, con 159 casi di tumore per 157 soggetti diversi (a due di loro sono state diagnosticate due diverse forme di tumore): 111 appartenevano all’Esercito, 21 ai Carabinieri, 21 all’Aviazione e 4 alla Marina. I relativi decessi sono stati complessivamente 29: 1 nel ’98, 1 nel ’99, 7 nel 2000, 2 nel 2001, 2 nel 2002, 6 nel 2003, 8 nel 2004 e 2 nel 2005.(AGI)
* Il dialogo, Giovedì, 02 agosto 2007
Sull’uranio l’Italia sapeva dal ’96
Un documento della Nato metteva sull’allerta dai pericoli delle basse radiazioni. Erano i tempi della Bosnia, ma il nostro paese non prese precauzioni fino al 2000. Quando i malati erano già decine
di Cinzia Gubbini (il manifesto, 27.04.2007)
Roma. Sapevano, o almeno avrebbero dovuto sapere, fin dal 1996. Le autorità italiane erano state informate sui rischi dell’esposizione alle basse radiazioni per i soldati impegnati in operazioni militari e di peacekeeping ben prima che l’Italia adottasse una linea precauzionale, nel ’99. Il 2 agosto del 1996 la Nato inviò al Comando militare dell’alleanza atlantica in Europa (Ace) - dunque anche all’Italia - una direttiva molto dettagliata sulle misure da prendere in casi di rischi da contaminazione per radiazioni. Il documento spiega che le basse radiazioni, causate da raggi alpha, beta e gamma, possono «produrre un rischio a lungo termine per la salute dei soldati» e che «la prima conseguenza delle esposizioni potrebbe essere l’insorgere del cancro anche tempo dopo l’esposizione».
L’Italia adottò solo nel 1999 le norme emanate dalla Forza multilaterale che prevedono l’utilizzo di tute, maschere e occhiali per proteggersi dalle polveri sottili dell’uranio impoverito che - appunto - è tra i materiali che emanano basse radiazioni. Nel ’96, anche le forze militari italiane erano impegnate in Bosnia nella missione di pace a guida Nato (su mandato dell’Onu), ma nessuno pensò di fornire ai nostri soldati l’attrezzatura necessaria per proteggersi da contaminazioni pericolose. Il decreto che finanzia la missione italiana è del 19 agosto. Neanche venti giorni dopo la comunicazione della Nato sui rischi per la salute dei militari.
La direttiva è nota da tempo agli addetti ai lavori. Falco Accame, il presidente dell’«Associazione nazionale italiana assistenza vittime arruolate nelle forze armate» lo ha spedito non ricorda più quante volte a tutti gli organi che si sono occupati della vicenda. Nessuno ha mai sembrato farci caso. Ieri il documento è stato pubblicato sul sito GrNews.it, che sta conducendo un’inchiesta sull’uso dell’uranio impoverito e sulla mancanza di precauzioni per proteggere i soldati. L’ultima persona, in ordine di tempo, che ha visionato il documento è il gip di Bari Chiara Civitano che nei giorni scorsi ha respinto la richiesta di archiviare un’inchiesta sull’uranio impoverito. Il giudice ha dato 90 giorni di tempo al pubblico ministero Ciro Angelillis per effettuare ulteriori indagini e capire se la Difesa avesse ottenuto informazioni anche prima del ’99. Ma non basta quel documento per capire che, sì, la Difesa e lo Stato maggiore non potevano non sapere? «Non è così semplice, purtroppo», spiega l’avvocato Sandro Putrignano che rappresenta il sindacato Uil. E’ stata infatti proprio la Uil nel 2003 a presentare un esposto alla Procura di Bari sull’uso dell’uranio impoverito, a partire dalle segnalazioni degli ambientalisti: gli aerei che partivano dalla base Nato di Gioia del Colle per bombardare la ex Jugoslavia al ritorno si liberavano degli ordigni avanzati sganciandoli nelle acque pugliesi. «In un passaggio dell’ordinanza del gip - spiega Putrignano - si afferma che essendo scritto in inglese, non è certo che il documento sia stato inviato alle autorità italiane».
Se non bastasse il documento del ’96 - dove non si cita mai l’uranio impoverito - ne esiste comunque un altro, che risale addirittura all’ottobre del ’93. Lo inviò il Pentagono al comando interforze di stanza a Mogadiscio, dove era presente anche l’Italia con la missione «Restore Hope». Anche questo è un prontuario sulle precauzioni da prendere. In questo caso l’oggetto è uno solo: l’uranio impoverito. Altro documento noto da tempo, ma senza scatenare grosse reazioni.
Di cautele simili a quelle adottate dal gip di Bari sono piene le inchieste aperte in Italia sulle contaminazioni da uranio impoverito. I gip sostengono sia molto complicato arrivare a un rinvio a giudizio: sembra difficile individuare un profilo di colpevolezza (cioè: chi è il colpevole?), e su tutto pesa l’incertezza scientifica nel provare cause dirette tra l’esposizione all’uranio e l’insorgenza di forme tumorali. Provare la causa diretta è difficile, ma esistono ormai diverse dichiarazioni di medici che riconoscono anche il contrario, e cioè che non vi è certezza che non vi sia un legame. La questione d’altronde è delicata. Se ci fosse un rinvio a giudizio i militari malati potrebbero chiedere i risarcimenti. Che sarebbero molto più alti di quei (pochi) finora riconosciuti come causa di servizio: 17 mila euro.
Rischio uranio in Libano? Militari in allerta
di Davide Madeddu *
La paura si chiama uranio impoverito e fa rima con Beirut. Una paura che accompagna i militari impiegati nella missione in Libano cui seguono le preoccupazioni delle associazioni che aiutano i militari malati ma anche le rassicurazioni «fino a prova contraria» del ministero della Difesa.
La vicenda parte tutta dal reportage inchiesta “Polveri di guerra uranio a Beirut” di Rainews24 realizzata da Maurizio Torrealta, Angelo Saso e Flaviano Masella,( la stessa squadra che realizzò un’inchiesta shock denunciando la presenza di uranio nella città di Khiam, nel sud del Libano). Secondo questa inchiesta infatti «potrebbe esserci uranio arricchito tra le macerie di Beirut». Una paura che sarebbe confermata, secondo il reportage, dalle analisi condotte da due diversi laboratori inglesi (tra i quali l’Harwell, utilizzato anche dal ministero della Difesa), che avrebbero rilevato presenza di uranio arricchito, molto più radioattivo e dagli effetti più devastanti rispetto a quello impoverito, anche nel filtro del carburatore di un’ambulanza che ha operato per 14 giorni, sotto i bombardamenti israeliani dell’estate scorsa, nel sud della capitale libanese.
Nel video, qualcuno ipotizza che Israele abbia realizzato "un’arma speciale", qualcun altro che gli ordigni contenessero anche uranio naturale, per innalzare il generale livello radioattivo in modo da non consentire l’isolamento dell’uranio arricchito. Dopo l’inchiesta ora arrivare la presa di posizione di Falco Accade, presidente dell’ associazione Anafav che si occupa di dare assistenza e supporto ai familiari dei militari che hanno avuto problemi per cause di servizio.
«In Libano - dice Accame - deve valere il principio di precauzione per i nostri militari. È assurdo aspettare che la diplomazia israeliana ci dia le mappe delle bombe che ha disseminato in Libano per prendere provvedimenti. Intanto noi siamo sul posto e nessuno può escludere con certezza che non siamo esposti a rischi». Non è tutto. «Fino a qualche mese fa -prosegue Accame- gli israeliani hanno negato di aver utilizzato armi non convenzionali, poi è saltata fuori la notizia delle tracce di radioattività riscontrate in due siti nel sud del paese arabo».
Per questo motivo il rappresentante che ogni giorno si occupa di dare assistenza ai militari che hanno avuto problemi di salute e ai loro familiari si appella al ministero della Difesa. «È necessario che il ministero della Difesa faccia chiarezza sulla vicenda per non ritrovarci tra qualche anno a dover fare la conta di casi sospetti di malati e morti, come sta accadendo oggi con le missioni degli anni scorsi». A breve giro di posta, arriva qualche risposta ministeriale. «Prima di inviare i militari sono stati effettuati i controlli sulle aree, compresi quelli sull’eventuale presenza di sostanze radioattive - spiega Lorenzo Forcieri, sottosegretario alla Difesa- e tutte le verifiche hanno escluso la presenza di materiale radioattivo». «In ogni caso - aggiunge Forcieri - continua da parte nostra la vigilanza e il controllo nelle aree e sulla salute dei militari».
* l’Unità, Pubblicato il: 27.01.07, Modificato il: 27.01.07 alle ore 11.36