Nessuna risposta agli studenti dell’Onda.
Ma è bastato un alzare di ciglia Oltretevere che
l’esecutivo ha messo mano alla borsa. Zanda (Pd):
«A scuola, università e ricerca sottratti 10 miliardi».
di Roberto Monteforte (l’Unità, 6.12.2008)
È bastato che i vescovi minacciassero una manifestazione di piazza contro il governo a difesa della scuola «paritaria», rafforzato dal richiamo di Benedetto XVI al «diritto inalienabile alla libera educazione dei figli e quindi agli aiuti per l’educazione religiosa, perché prontamente l’inflessibile Tremonti trovasse risorse per le «private». Almeno così è parso.
Assicurare le risorse alle scuole gestite da religiosi, in primo luogo le «materne», è diventato «un primario impegno politico» del governo e della maggioranza. Ripristinare quasi totalmente, con 120 milioni su circa 134 milioni, lo stanziamento per le scuole private nel 2009: questo prevedeva un emendamento al disegno di legge di bilancio del relatore Maurizio Saia (Pdl) concordato col governo. Solo una «coincidenza» assicura il relatore: nessuna risposta immediata alla richiesta della Cei. Lo contraddice il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas, che rivolto alla Cei assicura: «Con questo stanziamento possono dormire su quattro cuscini».
Finanziamento assicurato? Forse, visto che quell’emendamento è stato ritirato e modificato in un particolare: è stata cassata la destinazione a favore delle paritarie per attribuirlo genericamente al bilancio del ministero. Sarà il ministro Gelmini a deciderne l’uso: scuola pubblica, paritarie o opere per la sicurezza degli istituti. Quello che pare assodato è che questi 120 milioni saranno «l’unico» stanziamento di Tremonti per la scuola. Una rassicurazione a metà, quindi, quella data dalla maggioranza, divisa al suo interno. «Tremonti fa il gioco delle tre carte e non si assume le responsabilità della destinazione dei fondi che comunque sono troppo esigui» commenta la Bastico (Pd) che chiede di ridurre fortemente i tagli alle scuole pubbliche.
Certo è che è stato efficace l’«uno due» della Cei. Primo colpo: in mattinata una dichiarazione dai tuni duri e ultimativi del responsabile scuola della Cei, monsignor Stenco. Chiama direttamente in causa il ministro dell’Economia, Tremonti rimproverandogli «di colpire di nuovo la scuola cattolica». «Guarda caso nel 2008 ripete la stessa manovra del 2004: taglia per tre anni consecutivi 130 milioni di euro alla scuola cattolica - afferma -. È un film già visto: si continua a colpire il sistema paritario». Il direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione rifà un po’ di conti. «Nel 2000 - spiega - la legge sulla parità scolastica ha previsto un contributo di 530 milioni di euro per tutto il sistema delle scuole paritarie, mentre la spesa per la scuola statale è di 50 miliardi. Il contributo, dello 0,1 per cento, è quindi già irrisorio». «Nel 2004, - prosegue - per tre anni consecutivi Tremonti ha tagliato 154 milioni sui 530 di contributo totale, cioè il 33 per cento». «La scuola cattolica ha taciuto - conclude - e li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. Ora, però, il ministro ripete la stessa manovra».
Come dire: la misura è colma. «La Chiesa adesso - conclude minaccioso - deve tirare le sue conseguenze perché senza contributi le scuole dell’infanzia di certo rischiano di chiudere». Il secondo colpo, più morbido, arriva dal portavoce della Cei monsignor Pompili. «Siamo preoccupati, per il destino delle scuole pubbliche non statali. Tuttavia - ha aggiunto - pur consapevoli del momento economico e sociale del Paese, confidiamo negli impegni che il Governo ha assunto pubblicamente».
La risposta non si fa attendere. Non sono necessarie Onde di protesta e migliaia di studenti e docenti in piazza. Il governo pare pronto ad accogliere le richieste della Chiesa. Una «sensibilità» attesa e a lungo contrattata Oltretevere. Quello che il governo offre è troppo poco: lo rimarca dall’opposizione la Garavaglia, il ministro «ombra» alla scuola. «Questo è solo un primo segnale» sottolinea, ricordando l’allarme lanciato a suo tempo dal Pd «sui tagli alle scuole paritarie» a cui l’esecutivo è rimasto sordo. «Ora - osserva - il governo di fronte alle legittime proteste provenienti da più parti, inclusi i vescovi, ci ha ripensato e ha cercato di rimediare al danno». Ma è che l’esecutivo guarda all’istruzione come a un costo da contenere. «I 120 milioni? Si tratta di un granello di sabbia rispetto ai circa 10 miliardi, tagliati a scuola, università e ricerca» afferma il senatore Luigi Zanda, invitando a rimediare ai colpi assestati alla scuola pubblica. «È bastato un semplice comunicato della Cei e il governo si mette sull’attenti e ritrova i fondi per le scuole private» afferma Claudio Fava di Sinistra democratica.
Seimila istituti e quarantamila prof la galassia
dell’istruzione cattolica
Un giro d’affari che supera ogni anno il miliardo. -Mezzo milione di iscritti: solo alle materne quasi 300mila
di Salvo Intravaia (la Repubblica 6.12.2008)
ROMA - Oltre 6 mila istituti, quasi mezzo milione di alunni, 40 mila insegnanti e 18 mila tra bidelli e personale di segreteria. Ecco i numeri della scuola cattolica italiana, attorno alla quale ruota ogni anno un giro d’affari superiore a un miliardo di euro. In Italia, quello delle scuole non statali è un mondo piuttosto complesso. Per comprenderlo basta dare uno sguardo a "La scuola italiana in cifre: anno 2007". La galassia delle scuole non statali è dapprima suddiviso in due grossi blocchi: quelle pubbliche e quelle private. Che a loro volta sono suddivise in altre due categorie: le paritarie e le non paritarie. Le prime partecipano alla spartizione di circa 537 milioni di euro che lo Stato assegna in base ad una legge del 2000. Le seconde devono cavarsela con mezzi propri.
Una scuola può essere pubblica ma non statale? Sì, basta che sia gestita da un ente locale o pubblico: Comune, Provincia o Regione. È il caso di molte scuole materne: su 10.709 non statali 1.690 sono gestite direttamente dai Comuni, 246 dalle Regioni (come in Sicilia), 3 dalle Province e 405 da altri enti pubblici. Per ottenere lo status di scuola paritaria il gestore (ente pubblico o soggetto privato) deve avanzare richiesta all’ufficio scolastico regionale di competenza e, soprattutto, rispettare i requisiti stabiliti dalla legge 62 del 2000. Su un totale di 14 mila e 600 istituti privati sparsi in tutte le regioni italiane quasi 13 mila (l’88 per cento) sono paritari: facenti, cioè, parte del "sistema nazionale di istruzione" ed equiparati alle scuole statali.
E le scuole cattoliche? Secondo una statistica dello stesso ministero, oltre metà delle 13 mila scuole paritarie che operano nel nostro territorio sono gestite da enti religiosi. La quota gestita da laici è pari ad un terzo del totale. Ma è nel settore dell’ex scuola materna (ora dell’infanzia) che la Chiesa può fare la voce grossa. Su 628 mila bambini italiani che ogni anno frequentano le scuole paritarie (il 38 per cento del totale), 280 mila sono iscritti in scuole religiose. Se queste ultime dovessero "fallire" sarebbe un dramma per migliaia di famiglie perché lo Stato non sarebbe in grado di provvedere: mancano locali e arredi. Anche nella scuola elementare e media non statale gli istituti confessionali prevalgono, con più del 70 per cento di iscritti.
In totale, 280 milioni di contributo statale annualmente vanno diritto nelle casse delle scuole paritarie cattoliche. Ecco perché il taglio di 134 milioni previsto dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha fatto storcere il naso ai vescovi e indotto il governo a fare marcia indietro.
di Miriam Mafai (la Repubblica 6.12.2008)
Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell’Economia, tanto da essere soprannominato "signor no". Qualcuno, non solo dell’opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro. La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. «Tagliare, tagliare le spese» era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio? Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.
Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d’ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell’Ufficio Nazionale della Cei per l’educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.
La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro. Nel giro di poche ore il sottosegretario all’economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. «Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento. Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini?» .
Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà. E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure «a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose». In parole più semplici, c’è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata. Naturalmente nessuno contesta il diritto «inalienabile» delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose. E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l’insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?
Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l’articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato». E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private. Bisognerà dunque aspettare quasi quarant’anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento. E saranno il governo D’Alema e il suo ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come «paritarie». Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come «paritarie»).
Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l’intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie. Maria Pia Garavaglia, ministro dell’istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti. Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti «pari diritti agli studenti e alle famiglie» È, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.
Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione? È giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo «nell’articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato».
E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l’articolo 33 della Costituzione?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Una inchiesta de l’Espresso sull’otto per mille alla Chiesa Cattolica
L’otto per mille e la Santa cresta
Grazie al contributo fiscale lo Stato italiano versa più di un miliardo l’anno per pagare gli stipendi dei preti. Per i quali però bastano 361 milioni. E le altre centinaia? In un’inchiesta, tutta la verità su business e privilegi del Vaticano. Ecco un’anticipazione
di Stefano Livadiotti *
Trentunomila e 478 euro virgola qualcosa. E’ la somma che lo Stato, quindi l’intera platea dei contribuenti, ha versato nel 2010 per il mantenimento di ognuno dei 33 mila e 896 sacerdoti in servizio attivo nelle diocesi del Paese. Il totale fa un miliardo e 67 milioni di euro, l’importo del cosiddetto 8 per mille (salito nel 2011 a un miliardo, 118 milioni, 677 mila, 543 euro e 49 centesimi). E l’assegno l’ha incassato la Chiesa, attraverso la Conferenza episcopale. Che poi a ciascuno di quei preti ha girato direttamente solo 10.541 euro, un terzo di quanto ha stipato nei propri forzieri. L’espressione è un po’ forte, ma i numeri sono numeri: e dicono che i vescovi fanno la cresta sullo stipendio dei loro sottoposti.
Wojtyla, si sa, non amava granché Agostino Casaroli. Considerava il suo segretario di Stato troppo amico dei regimi comunisti dell’Est. Quasi un propagandista. E per questo si scontrava spesso con lui. Invece avrebbe dovuto fargli un monumento equestre. Perché la revisione del Concordato che Casaroli trattò con l’allora premier italiano, Bettino Craxi (in sostituzione della "congrua", il salario di Stato garantito ai parroci), è stata di gran lunga il miglior affare che la Chiesa abbia portato a casa nella sua storia più recente. Funziona così. Un po’ come in un gigantesco sondaggio d’opinione, ogni anno i contribuenti, mettendo una croce sull’apposita casella nella dichiarazione dei redditi, possono indicare come beneficiaria dell’8 per mille una delle confessioni firmatarie dell’intesa con lo Stato (o scegliere invece quest’ultimo).
Sulla base delle indicazioni effettivamente raccolte, viene poi diviso in percentuale non il solo ammontare versato da quanti hanno espresso una preferenza (il 40 per cento circa del totale), ma l’intero montepremi.
Al gruzzolo concorrono, cioè, anche i versamenti all’erario di coloro che, maggioranza assoluta, non hanno barrato un accidenti (quattrini che nella cattolicissima Spagna restano invece allo Stato). O che magari non hanno neanche mai sentito parlare del trappolone a suo tempo confezionato da Giulio Tremonti nelle vesti di consulente del governo. Il meccanismo, guarda caso, sembra ricalcato da quello scelto dai partiti per i rimborsi elettorali garantiti dal finanziamento pubblico. Il risultato dell’arzigogolo è facilmente intuibile. Anche perché perdere una sfida con lo Stato italiano davanti a una giuria popolare è matematicamente impossibile. Tanto più se lo stesso sedicente avversario ha stabilito regole che lo penalizzano in partenza. E ancor più se durante la gara cammina invece che correre (la Chiesa si affida a un gigante mondiale come la Saatchi & Saatchi per una martellante campagna pubblicitaria costata nel 2005 qualcosa come 9 milioni di euro, il triplo di quanto donato dai preti alle vittime dello tsunami; lo Stato risulta non pervenuto). Ma il vantaggio per la Chiesa va perfino al di là di quanto si possa intuire.
Per quantificarlo bisogna necessariamente affidarsi a dati un po’ vecchiotti, per il semplice motivo che il ministero dell’Economia fornisce le statistiche sulle scelte effettive dei contribuenti solo alle confessioni religiose ammesse al beneficio. Non è però un problema, dal momento che le percentuali variano in maniera quasi impercettibile tra un anno e l’altro. Dunque: nel 2004 la Chiesa è stata scelta da una minoranza pari al 34,56 per cento dei contribuenti italiani. Ma lo stesso dato, calcolato invece sulla sola platea di quanti hanno ritenuto di dare un’indicazione sull’8 per mille, l’ha fatta schizzare di colpo, e miracolosamente, a una schiacciante maggioranza dell’87,25. Ed è quest’ultima la percentuale utilizzata per ripartire l’intera torta. Che è destinata inevitabilmente a crescere. Il suo valore, infatti, si aggancia ora alla variazione del Pil, cioè alla crescita economica, ora all’aumento della pressione fiscale. Quando non ai due elementi insieme.
Questo garantisce alla Chiesa di incassare sempre più quattrini, a prescindere dal consenso racimolato. E perfino quando questo scende in maniera vistosa. E’ successo, per esempio, nelle dichiarazioni dei redditi del 2007 (incassate nel 2010: c’è uno sfasamento temporale di tre anni). Quell’anno, forse sulla scia dello scandalo pedofilia, il numero dei contribuenti che ha indicato come beneficiari Ratzinger & C. si è ridotto, secondo i calcoli degli stessi vescovi, di 95.104 unità. Così, perfino la percentuale drogata di spettanza della Chiesa ha fatto registrare un passo indietro: dall’86,05 del 2006 (89,82 nel 2005) all’85,01 per cento. Ma, sorpresa, grazie al doppio traino di Pil e pressione fiscale, la Chiesa ha comunque incassato di più: 100 milioni di euro.
I conti della cresta sono presto fatti. Nel 1989, come ricorda la stessa Cei in un documento ufficiale intitolato "Otto per mille: destinazione e impieghi 1990- 2011", con la congrua la Chiesa prendeva 399 miliardi di lire (che nel 1990, nel primo anno con il nuovo sistema, diventarono 210 milioni di euro, perché nel totale furono inseriti anche 7 miliardi di lire di quattrini pubblici destinati alla nuova edilizia di culto). I coefficienti di rivalutazione dicono che oggi quella cifra equivarrebbe a 369,01 milioni. Per il 2011, secondo i calcoli più aggiornati, alla Chiesa spetta invece, come dicevamo, un miliardo, 118 milioni, 677 mila e 543 euro: più del triplo.
Ma per la Santa Casta l’affare è ancora più ghiotto di quanto già non appaia a prima vista. Nello stesso ventennio, infatti, l’importo complessivo delle paghe dei preti (addirittura diminuito di 20 milioni tondi tra il 2009 e il 2011) è cresciuto molto più lentamente: dai 145 milioni del 1990 ai 361 del 2011 (più 149 per cento). E così il margine, che rappresenta in questo caso il guadagno, o la cresta, della Chiesa è via via aumentato, passando dai 65 milioni iniziali ai 757.677.543 euro di quest’anno, con un incremento del 1.066 per cento. Chapeau. E dire che in un volantino distribuito dalla Cei nelle parrocchie, e intitolato "Aiuta tutti i sacerdoti", si sostiene che l’8 per mille «non basta» a mantenere i preti. I negoziatori della revisione concordataria del 1984, evidentemente consapevoli del papocchio che andavano allestendo, avevano previsto la possibilità di una revisione dell’aliquota: era stato insomma stabilito che l’8 per mille potesse diventare, per esempio, il sette o il nove, a seconda dell’andamento del suo gettito e delle spese reali della Chiesa.
Il compito di monitorare la situazione, e introdurre ogni tre anni gli aggiustamenti eventualmente necessari, era stato affidato, come nella migliore tradizione, a una commissione, l’ennesima. Fin da subito, se ne sono ovviamente perse le tracce. E chi, come quei rompiballe in servizio permanente effettivo dei radicali, ha chiesto notizie al riguardo si è sentito opporre il segreto di Stato. Addirittura. Un minimo di pudore da parte del governo nell’affrontare l’argomento è assolutamente comprensibile. Perché da sempre l’esecutivo di turno, non ritenendo ancora all’altezza il cadeau presentato annualmente alla gerarchia ecclesiastica, ci ha aggiunto dell’altro. Consegnando di fatto alla Chiesa anche una buona fetta della quota (striminzita, peraltro) di 8 per mille che gli veniva assegnata su indicazione dei contribuenti. Una forzatura sottolineata anche dalla Corte dei conti, che nel 2008 ha messo a punto una relazione sulla gestione dei fondi da parte dello Stato nel quinquennio 2001-2006 in cui si rilevavano «non poche incongruenze».
Una bacchettata di cui Berlusconi, troppo preoccupato a farsi perdonare dai preti certi eccessi di vitalità notturna, non ha tenuto alcun conto. Almeno a leggere le 17 pagine del decreto con cui sono stati ripartiti nel 2009 i 43.969.406 euro destinati dai contribuenti allo Stato in quota 8 per mille: 459 mila euro alla Pontificia università gregoriana di Roma, 500 mila al Fondo librario della Compagnia di Gesù, un milione e 146 mila alla diocesi di Cassano allo Ionio, 369 mila alla Confraternita di S. Maria della purità di Gallipoli... Alla fine, 10 milioni e 586 mila euro sono andati, in gran parte attraverso il Fondo beni culturali, a 26 immobili di enti-satellite del Vaticano. E altri 14 milioni e 692 mila euro sono stati destinati a soddisfare richieste (quasi tutte per opere ecclesiastiche) legate al terremoto abruzzese e curiosamente presentate ancor prima che il sisma si verificasse. In sostanza, lo Stato ha girato al Vaticano più della metà dei soldi che i contribuenti gli avevano espressamente conferito. Resta da capire che strada prendano i soldi pubblici che ogni anno rimangono nelle casse della Cei dopo il pagamento degli stipendi ai sacerdoti. Nel 2011 (come del resto in tutti gli ultimi cinque anni, nel corso dei quali sono rimasti perfettamente invariati) gli interventi caritativi nel Terzo mondo hanno totalizzato 85 milioni, pari al 7,59 per cento dei soldi pubblici incassati dalla Cei.
Anche sommando a questi gli aiuti smistati in Italia, non si va oltre i 235 milioni, che vuol dire il 21 per cento del contributo statale alla Cei. Il tutto, ammesso e non concesso che tra queste iniziative abbia qualche senso includere «l’installazione di una radio cattolica nell’arcidiocesi di Mount Hagen, a Pasqua Nuova Guinea e a Puerto Esperanza, in Perù e la formazione per tecnici e animatori giornalisti della radio diocesana di Matadi, nella Repubblica democratica del Congo», citati a pagina 14 del dossier "Otto per mille. Destinazione ed impieghi 1990-2008" alla voce "Promozione umana", ma molto più simili a spese per la propaganda e il reclutamento. Oppure operazioni al limite del folklore sciupone come «la formazione all’uso e alla gestione di un sistema fotovoltaico per la ricarica della batteria di cellulari, laptop e lampade per creare microimprenditorialità in diversi paesi dell’Africa ». Laptop nella savana? Mah. Di tutto questo ben di Dio, agli uomini di Chiesa restano le briciole. Non alla nomenklatura, s’intende, che quella si tratta bene.
Il capo dei vescovi, Angelo Bagnasco, ovviamente, lo nega: «Per la nostra sussistenza basta in realtà poco», ha detto il 26 settembre 2011. Ma non è esattamente così, se nel solo 2007 i 20 cardinali di stanza a Roma sono costati oltre tre milioni di euro, come ha rivelato senza essere smentito il settimanale cattolico inglese "The Tablet" (del resto il giornale citava la sintesi di un rendiconto riservato della Prefettura per gli affari economici del Vaticano), e se è vero che nel 2010, come ha scritto "El Pais", la spesa per l’intera curia è stata di 102,5 milioni. Eppure non è certo ai papaveri vaticani che si riferiva "Famiglia Cristiana" quando, nel settembre del 2011, ha scolpito: «Mentre la nave affonda, i timonieri continuano a sollazzarsi».
* L’Espresso, 18.11.2011
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-conti-oscuri-della-santa-casta/2166754
Cattolici, ma un po’ più laici
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2011)
Dalla Spagna a Palazzo Chigi spira un vento di riscossa cattolica. A Madrid i democristiani spagnoli del Partito popolare riconquistano il potere. In Italia una nutrita pattuglia cattolica è approdata nei giorni scorsi al governo con grande visibilità. A prima vista sembra un effetto del revival della religione, manifestatosi già sul finire del Novecento durante il lungo pontificato wojtyliano, e non manca Oltretevere chi assapori l’illusione di un maggiore spazio di manovra neotemporalista.
Certamente Cei e Vaticano sono decisi a dettare a Monti la linea di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche e dell’adeguamento della legislazione in tema di testamento biologico, fecondazione e pillole contraccettive e abortive alla dottrina dei valori non negoziabili. Così come è avvenuto durante l’era Berlusconi. Pretese e sogni si mescolano. Il sentimento popolare va in realtà da un’altra parte. Già negli anni scorsi, analizzando i flussi elettorali in Italia, si è appurato concretamente che il cittadino compie la sua scelta nelle urne principalmente in base ai temi, che toccano più da vicino la sua esistenza quotidiana: il lavoro, la crisi economica, il welfare. I cosiddetti temi eticamente sensibili - sistematicamente agitati dalle gerarchie ecclesiastiche e dalle cerchie politiche più opportuniste - sono in fondo alla scala delle urgenze. Perché i fedeli cattolici qui e altrove sono convinti che certi problemi vadano affrontati e risolti nell’intimo della propria coscienza.
IN SPAGNA, dunque, il Partito popolare ha in cima all’agenda il deficit pubblico, lo spread a 470 e una disoccupazione giovanile al 20 per cento. Al di là di questo va, tuttavia, notato che già negli anni passati il partito di Mariano Rajoy ha mostrato spesso disagio per le furibonde campagne antigovernative scatenate dalla parte più conservatrice della gerarchia ecclesiastica in nome della “vita” e della tradizione cattolica. Meno che mai Rajoy, che negli anni scorsi si era già meritato i rimbrotti di Giuliano Ferrara per non essere abbastanza ratzingeriano, ha voluto portare in campagna elettorale temi come l’aborto e l’omosessualità.
È probabile che il nuovo governo interverrà contro alcune forzature di Zapatero come la concessione dell’aborto alle minori senza informare i genitori o l’indicazione di parlare di coniuge A e coniuge B invece che usare i termini “marito” e “moglie”. Molti ritengono certo anche un cambiamento della legge sui matrimoni omosessuali. Ma nel complesso l’impianto laico della legislazione è destinato a rimanere perché questo vuole la società spagnola nel suo complesso. Il governo democristiano non toccherà il diritto all’aborto e le coppie omosessuali potranno naturalmente usufruire di una normativa sulle unioni civili. La Madrid “bianca” sarà quindi più avanzata di Roma.
Anche in Italia la situazione è molto più fluida di quanto possa apparire a prima vista. Quasi nessuno ha notato che, intervenendo giorni fa al convegno del movimento “Scienza e Vita” su bioetica e politica, il segretario del Pd Bersani - nonostante la presenza del cardinale Bagnasco, che aveva ripresentato le tavole dei principi non negoziabili - ha indicato una linea diversa: basata sul dovere delle democrazie di negoziare le “soluzioni” dei problemi, lasciando ad ognuno di credere nei principi generali cui sente di ispirarsi. Bersani ha anche respinto fermamente l’idea che essere non credente o diversamente credente significhi mancare di etica. “Ci sono persone che sono morte per un’etica (non trascendente), non dimentichiamolo”, ha sottolineato con orgoglio. Sul piano politico immediato il segretario del Pd ha chiesto di cambiare l’attuale legge sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” e praticamente di fare una legge diversa sul testamento biologico.
LA COSA interessante è che, parlando subito dopo di lui e dopo il segretario Pdl Alfano (steso sulla linea del Vaticano), il leader dell’Udc Casini - pur dando per scontato l’approvazione della legge sul fine vita - ha bollato di “miopia totale” quanti usano la bioetica “per dividere”. Rispetto alla linea degli atei devoti o rinati alla fede, trionfante nel regime berlusconiano e guardata con compiacimento dalla gerarchia ecclesiastica, Casini ha lanciato un allarme: “Stiamo molto attenti al legislatore che forzando si espone al cambiamento in ogni legislatura”.
Casini guarda lontano. Il “partito nazionale” ispirato al popolarismo europeo, che ha in mente, non può ridursi a essere mera cinghia di trasmissione dell’ideologia dei valori non negoziabili. Non c’è alcun dubbio, infatti, sulla constatazione (confermata da ricerche svolte a più riprese) che in caso di referendum sul testamento biologico i cittadini messi dinanzi al quesito secco - “volete la norma che esautora il paziente e affida ogni potere al medico o volete che siano rispettate le decisioni del paziente e dei suoi familiari per evitare l’accanimento di trattamenti medici non voluti”? - sceglierebbero la seconda. In altre parole la dottrina dei valori non negoziabili, imposta in politica, si rivela una gabbia non praticabile per le società contemporanee. Tocca ai cattolici a Palazzo Chigi praticare autonomia per soluzioni adatte alla realtà sociale italiana. Utile sarebbe stato che nella formazione del governo si fosse tenuto conto anche di un’area di pensiero laica rappresentata, esemplificando, da personalità come Rodotà e Zagrebelsky. È un peccato non averlo fatto.
Libertà vera di culto
di Anna Maria Quattromini *
Dopo aver letto delle pretese dei vescovi italiani che hanno chiesto e (subito) ottenuto di esentare le scuole cattoliche dai tagli, chiedo anch’io una moratoria come quella proposta dalla Lega per i musulmani.
Vorrei che per due anni non si costruissero nuove chiese con i soldi nostri, vorrei che per due anni non pagassimo i catechisti nella scuola pubblica con i soldi nostri, vorrei che per due anni la Chiesa pagasse le imposte sugli immobili e sulle attività economiche, mascherate da attività religiose (come i pellegrinaggi).
Sarebbe un bel risparmio e notevoli introiti per lo stato! Ovviamente i cattolici che volessero supplire, pagando di tasca loro tutte queste attività, sono liberissimi di farlo.
* l’Unità Lettere 9.12.08
Sulla scuola due pesi e due misure
di FRANCO GARELLI (La Stampa, 7/12/2008)
E’ difficile comprendere il recente affondo della Chiesa italiana contro il governo per i ventilati tagli alle scuole paritarie, tra cui quelle cattoliche hanno un peso rilevante. Lo sconcerto è diffuso più nell’opinione pubblica che nel mondo politico (sempre diplomatico nei rapporti con la gerarchia ecclesiale) e coinvolge non solo l’area laica ma anche non pochi ambienti cattolici.
Intendiamoci: la Chiesa può avere molte frecce nel suo arco nel rivendicare la parità di trattamento per le famiglie che scelgono la scuola privata rispetto a quella pubblica, nel ricordare che questo tipo di scuole hanno un peso piuma nel bilancio dell’istruzione (l’1%), nel denunciare che il decurtamento previsto dal governo di 1/3 dei fondi a suo tempo pattuiti dalla legge sulla parità scolastica può decretare la fine di questo importante servizio «pubblico»; ancora, nell’osservare che l’eventuale chiusura delle scuole «private» costringerebbe lo stato a prendersi a carico anche gli allievi di questi istituti, con un forte aumento della spesa pubblica per l’istruzione. Di qui la discesa in campo della Cei, che parla di «crisi profonda» della scuola paritaria e minaccia una mobilitazione in tutto il Paese degli istituti cattolici. Ciò che colpisce in questa dura reazione non è il merito di una questione da tempo controversa e sin qui senza una chiara (e auspicabile) soluzione, quanto i tempi e i modi in cui essa si è manifestata e il comportamento messo in atto al riguardo dagli attori coinvolti.
In un momento di forte deficit delle risorse pubbliche, in cui la crisi della finanza creativa sta affossando l’economia reale, in cui si prevedono tagli e amputazioni per tutti i settori della società, desta sorpresa che le scuole cattoliche pensino di sottrarsi alla cura da cavallo a cui è sottoposto il Paese. La rivendicazione della Cei avrà richiamato a molti la penosa situazione in cui versa la scuola pubblica, che di tanto in tanto produce morti e feriti tra i giovani che la frequentano, per la carenza di adeguate risorse per riqualificare gli spazi e renderli all’altezza di un Paese civile. Chi ha più voce in capitolo? Chi ha più diritto ad alzare la voce?
Il potere della Chiesa
Altro punto controverso della vicenda è la pronta risposta del governo di fronte alla protesta dei vertici ecclesiali, che ha fruttato alle scuole paritarie l’immediato ripristino dei fondi decurtati (120 milioni per il 2009). Qui è emerso sia il «potere» della Chiesa nel far cambiare idea al governo nel giro di qualche ora; sia il diseguale trattamento che l’esecutivo riserva alle diverse parti sociali, pur in un tempo in cui si predicano sacrifici per tutti. Le opere della religione meritano certamente grande considerazione pubblica. Ma perché i partiti al governo sono stati così solleciti nel ripristinare i fondi per le scuole paritarie, mentre da mesi sono inflessibili nel confermare i pesanti tagli che attendono le università italiane e una ricerca scientifica sempre più ridotta al lumicino? È davvero sufficiente, come qualche «maligno» ha detto, che il Vaticano fischi perché Tremonti e Berlusconi obbediscano?
Singolare è anche la minaccia avanzata nella circostanza dalla Chiesa per costringere il governo a modificare un provvedimento che penalizzava le sue strutture. Se non ascoltate, le scuole cattoliche scenderanno in piazza, potranno organizzare sit-in e lezioni all’aperto, «occuperanno» i media, proprio come hanno fatto in questi mesi il personale dell’Alitalia, le famiglie che protestavano contro il maestro unico, i dipendenti di aziende travolte dalla crisi. Come a dire, che il linguaggio rivendicativo è ormai di casa anche negli ambienti ecclesiali, disposti a mostrare (magari con pudore) i muscoli per difendere i propri valori e «interessi» e meglio operare per il bene comune.
L’insieme della vicenda è comunque intricato. Anzitutto, quella del finanziamento della scuola privata (cattolica in particolare) è un’annosa questione che divide tutti i raggruppamenti politici, anche se i partiti del centro-destra sembrano i più sensibili e ossequienti ai richiami della Chiesa. Inoltre, la campagna della Chiesa per la scuola cattolica cade in un momento favorevole per l’istruzione privata, per la crescente domanda delle famiglie di ambienti più seri e omogenei per la formazione dei propri figli. Il trend rischia dunque di bloccarsi se lo Stato non interviene, se le famiglie in un periodo di crisi devono accollarsi per intero questo investimento formativo. Più in generale, la Chiesa italiana non si capacita del perché nella «cattolica» Italia non vi sia la parità di condizioni di scelta scolastica riscontrabile in molti altri Paesi europei, pur più distaccati dalla tradizione religiosa. Perché chi sceglie la scuola cattolica deve essere economicamente penalizzato in Italia, mentre ciò non succede nella laica Francia, dove gli istituti cattolici attraggono un numero di studenti tre volte superiore a quello delle omologhe scuole italiane? In sintesi, anche la crisi economica alimenta la battaglia sui temi della laicità dello Stato, coinvolgendo quel finanziamento alla scuola paritaria che da anni è oggetto di contesa pubblica.