MISSIONE: SPACCARE
di Furio Colombo (www.unita.it, 25.03.2006)
Non è vero che non c’è un programma elettorale del gruppo Berlusconi. C’è, ed è così semplice e radicale che si riassume in una sola parola: spaccare. Non c’è spazio per la discussione se sia o no naturale o possibile o sensato impegnarsi a distruggere prima di lasciare il potere. E non importa neppure chiedersi: ma che senso ha spaccare tutto prima del tempo? Potrebbe anche vincere. So benissimo che evoco un incubo scrivendo questa frase, «potrebbe anche vincere». Ma per un momento devo cercare di constatare i fatti e di capirli prima di giudicarli.
Dunque il presidente del Consiglio in carica - che in una sciagurata ipotesi potrebbe anche essere il prossimo presidente del Consiglio italiano - si dedica con impegno e furore a spaccare tutto ciò che conta e che è fondamentale in un Paese: coesione, fiducia, senso di cittadinanza, associazioni di grande rilievo sociale (agli industriali, i sindacati) rapporti internazionali, confronto di un intero Paese con i pericoli del mondo (terrorismo), alleanze e legami fondamentali (per esempio con gli Stati Uniti). Fa tutto ciò con grande rilievo pubblico, nel modo più visibile e non più smentibile. Fa venire il pubblico finto ad applaudire. Decreta espulsioni e condanne. Attrae non solo l’attenzione degli italiani, ma anche la testimonianza attonita dei governi e delle istituzioni europei e quella, anche più attonita, della stampa americana.
Dovunque esistono destra e sinistra, anche se la destra di Berlusconi, che va dal monopolio alla rendita, dal controllo totale delle informazioni alla abolizione del falso in bilancio, e si allarga fra il condono di ogni regola capitalistica e l’altra destra, dei nuovi alleati francamente fascisti, è difficile da definire. Ma non esistono precedenti, in normali Paesi democratici, di qualcuno che spacca e divide e accusa e attacca dovunque scorge anche un vago elemento di dissenso. E lascia polvere e macerie persino dove dice e sostiene che governerà ancora.
Tutti noi cittadini siamo tuttora stupiti da ciò che è successo alla assemblea della Confindustria di Vicenza , la più violenta - e solo apparentemente incontrollata - scenata in pubblico che sia mai accaduta al di fuori di situazioni di dittatura. Un lavoro degno di Lukashenko, il contestato dittatore della Bielorussia. Ma Lukashenko è amico di Putin che è amico di Berlusconi, e può darsi che i tre, esperti di strangolamento della libertà, si siano scambiati consigli.
Ma l’impegno accanito, il lavoro intenso di una mattina per spaccare la Confindustria, un lavoro che evidentemente non gli era riuscito dietro le quinte, è il seguito, ma anche l’annuncio, di una politica vigorosamente distruttiva, che non è solo prerogativa del capo, ma viene richiesta, momento per momento, a ciascun dipendente del gruppo Berlusconi.
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Come molti lettori ricorderanno, il primo impegno di questo governo privato è stato di spaccare l’opposizione, tentando di separare pattuglie di sottomessi da coloro che, secondo il dettato sacro in ogni democrazia, erano decisi a tenergli testa. Di volta in volta ha inventato liste di cattivi. Ha aizzato la stampa di regime ad attaccare, preferibilmente con la calunnia o l’accusa gratuita («stampa omicida»), chi si ostinava a raccontare le cose.
È giusto che i lettori sappiano che la «stampa omicida», benché chiamata in causa mille volte «per avere inventato accuse al solo scopo di denigrare il governo», e dunque l’Italia, per avere ricordato, quando era indispensabile farlo, la Loggia massonica P2, i legami di mafia, per aver riferito con esattezza su processi e condanne, non ha, al momento, una sola querela per avere detto o narrato il falso. Ci sono decine di querele di chi si ritiene offeso (Bossi non vuole essere chiamato «razzista», ma basterà chiedere al giudice di convocare il teste Borghezio, o l’apposita commissione del Parlamento europeo). Ma nessuno ha potuto dire «non è vero». Mai.
Ma l’operazione di spaccatura è cominciata presto. Ricordate quanto a lungo e con quanto impegno Berlusconi, conferenza stampa dopo conferenza stampa, ha nominato e accusato questo giornale per «educare» gli altri giornalisti e ammonirli a non sognarsi di criticarlo?
Certo nessuno di noi dimentica che Berlusconi ha iniziato la sua carriera di «liberale» con il licenziamento di Biagi e Santoro, colpevoli di «attività criminosa», a cui è seguita una lunga serie che è giunta fino a Sabina Guzzanti. E alla fine si arriva alla minaccia in diretta (non una svista, l’esemplarità conta molto in questa strategia distruttiva) a Lucia Annunziata come modo per dire a tutti «state attenti qui non c’è posto per chi mi tiene testa».
Ricordate con quanto puntigliosa ripetitività i giornali di proprietà della famiglia Berlusconi sono tornati sulla accusa di contiguità al terrorismo, sul fatto che le parole con cui una opposizione critica un governo (parole senza le quali non esiste democrazia) in realtà - dicono loro - armano mani di assassini e richiedono (ci è stato detto proprio così) di aumentare la scorta, dopo ogni titolo «terrorista» dell’Unità, titolo tratto, il più delle volte, dalla stampa internazionale?
A questo si sono aggiunte lunghe e ripetute azioni di calunnia, durate anni e riprese costantemente da scrupolose persone di servizio del giornalismo, al fine di dire chiaro agli altri colleghi: «Se noi siamo in grado di sputtanare persone che hanno la reputazione di tutta una vita, vedete bene che siamo in grado di colpire chiunque». È questione di controllo delle informazioni, non di verità dei fatti, che a loro certo non importa.
Ricordate gli insulti dedicati dal premier agli inviati dell’Unità che osavano rivolgergli domande, il riferimento (prediletto fra il personale di servizio post fascista) delle banche off shore in cui avrebbe trafficato chi scrive questo articolo? Ricordate le presunte «cinquecento minacce» dell’Unità alla illustre persona di Silvio Berlusconi da parte dell’Unità (altro aumento del personale di scorta) anche allo scopo di avvisare gli inserzionisti pubblicitari di stare alla larga da chi osa fare opposizione?
Alla fine, come ha dimostrato l’editoriale del Corriere della Sera che - nella tradizione del New York Times e del Washington Post - ha dato una chiara indicazione di voto il mai interrotto tentativo di spaccare i frammenti di informazione libera, e più ancora di isolare e fare apparire indegni i giornalisti oppositori, non è riuscito a regola di regime come progettato. Certo ha devastato il sistema di informazioni italiano, già vastamente oscurato dal possesso e controllo delle televisioni. Intanto era al lavoro il progetto di spaccare i sindacati. Il breve periodo in cui è sembrato riuscire il trucco del «Patto per l’Italia» ha fatto pensare a un successo.
Arduo però sfidare il rapporto con la realtà e il contatto con l’opinione pubblica dei grandi sindacati popolari. Possono essere più o meno a sinistra, più o meno all’opposizione. Ma hanno fiuto per la truffa e le affermazioni false. E tutti si sono allontanati per tempo, nonostante l\’intenso fuoco di sbarramento contro il loro tornare insieme.
Al momento giusto, cioè estremo, quando la crescita zero inchioda un governo incapace alla sua responsabilità, restano due mosse immensamente distruttive, dannose e costose fino al limite estremo per l’Italia. Però - pensa il gruppo Berlusconi - che cosa importa l’Italia se la mossa può darci un beneficio?
Parte, dunque, con un finto e violento attacco di nervi, la campagna per dividere e spaccare la Confindustria. Niente è più normale di una grande e autorevole associazione di imprese in cui i titolari hanno interessi comuni ma anche visioni diverse. Al diavolo gli interessi, spacchiamoli sulla politica. È probabile che il gioco non sia riuscito, non nel modo totalmente distruttivo pianificato dal gruppo Berlusconi. Però l’attacco improvviso, grossolano e violento di un presidente del Consiglio a un singolo imprenditore, che aveva osato tenergli testa anche nel sacrario della sua trasmissione prediletta «Porta a Porta», appare in tutta la sua desolante gravità: Berlusconi può farlo. Lo ha fatto. E l’imprenditore attaccato, denigrato, insultato in pubblico, si è dimesso, come se fosse lui il colpevole. In tal modo il gruppo Berlusconi ha dimostrato - costi quello che costi alla reputazione del Paese - che non c’è poi tanta differenza fra un giornalista senza protettori e un ind ustriale nel pieno del suo successo. Chi osa tenere testa paga.
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Questa oscura pagina della storia italiana continua. Adesso, in ogni occasione, intervista, talk show, dichiarazione ufficiale o confidenza al cronista, Berlusconi e il suo ministro dell’Economia Tremonti fanno sapere che «i capitali se ne vanno».
Dicono che in Italia l’eventualità della alternanza democratica tra l’imprenditore fallito come governante Berlusconi e l’economista noto nel mondo Romano Prodi, che ha già governato bene in Italia e in Europa, sta portando alla fuga dei capitali, un atteggiamento che neppure Chavez del Venezuela oserebbe adottare nelle sue colorite campagne di denigrazione degli avversari.
L’annuncio, infatti, è capace di produrre conseguenze di immenso danno che potranno continuare a lungo. I capitali fuggono dalla crescita zero di Berlusconi? In fuga per la paura dei cosacchi di Prodi? Un guasto grave al Paese è assicurato comunque. Berlusconi non sa se vincerà e teme seriamente di non farcela. Ma spacca il Paese nel punto sensibile, proclamando che gli investitori del mondo decidono di fuggire. Se un simile disastro può servire a dargli una mano, perché no? Spaccare, distruggere, lasciare macerie è diventato il suo marchio di fabbrica. Così ha fatto nella scuola, nella sanità, nelle leggi sul lavoro, nella così detta riforma della giustizia, nella amputazione della Costituzione e della legge elettorale.
Perché non dovrebbe continuare? Invece delle opere pubbliche che non sono mai cominciate, ricordiamo l’esortazione del suo ministro delle Infrastrutture «a convivere con la mafia» (cioè con gli assassini di Falcone e Borsellino). Dopo un brutto e pericoloso periodo della vita italiana, ci resteranno soltanto le scenografie di cartone di Pratica di Mare. È stato il luogo in cui Berlusconi, attraverso i sette telegiornali che controlla, ha imposto agli italiani di credere che, per merito suo, Putin era entrato nel G8, nella Nato, in Europa, e l’America era diventata il miglior amico della Russia. Subito dopo è scoppiata la «Rivoluzione Arancione», ovvero la liberazione della Ucraina, sostenuta dagli Usa contro il Gaulaiter di Putin. E oggi - sempre con l’aiuto degli Usa - si ribella la Bielorussia contro il despota Lukashenko, già collega di Putin al Kgb. I vecchi amici si ritrovano e, come dice un proverbio americano, «non si può mentire a tutti per tutto il tempo».
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Vi sembra troppo? Eppure non basta. Quello di Berlusconi è l’unico governo al mondo - democratico o non democratico - che prima delle elezioni denuncia il rischio, anzi la probabilità di brogli. Altrove sarebbe una seria offesa al ministro dell’Interno, di cui gli italiani hanno rispetto. Ma Berlusconi non si fa intimidire e, se può spaccare, spacca. Anche la fiducia, anche il rispetto. Tratta il suo Paese come una tormentata Repubblica africana. Reclama brogli che - come governo - ha il compito e il dovere, ma anche i mezzi, di impedire. E come il leader braccato di una di quelle repubbliche, l’autore del danno corre negli Stati Uniti per far sapere che l’Italia è un Paese pericoloso, in modo che gli Usa avvertano gli americani di non venire in Italia.
Che cosa importa che l’Italia non è un Paese pericoloso se non per gli ingorghi di traffico che si formano a Roma il mercoledì, giorno dell’udienza generale del Papa? Che cosa importa il turismo? Da noi provvede il capo del governo a bloccarlo.
Sembra incredibile, sembra raro che una sola persona, con un cattivo governo, possa far tanto danno al suo Paese. Eppure resta l’ansia e il dubbio che non sia tutto. Se questo è ciò che finora è accaduto - e che non si può smentire - è ragionevole l’ansia e il dubbio che nei giorni che restano da oggi al voto ci saranno altri tentativi di far male al Paese. Risorse e cattive intenzioni non gli mancano.
Previti, l’incapacità di decidere
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 05.07.2007)
Ieri La Stampa ha pubblicato, in un breve trafiletto, una notizia di cronaca apparentemente marginale, sulla quale è invece opportuno riflettere con attenzione. Qualche giorno fa il comico Beppe Grillo aveva accusato (sul suo blog) il presidente della Camera di non fare nulla per espellere dalla Camera l’on. Previti, nei cui confronti è stata pronunciata una sentenza definitiva di condanna penale che comporta, per la sua tipologia e la sua gravità, l’interdizione dai pubblici uffici e pertanto la decadenza dal mandato parlamentare.
Bertinotti ha risposto che «la Camera dei Deputati non è organizzata come una monarchia assoluta ma secondo il modello dello stato di diritto» e che «la questione dell’ineleggibilità e della decadenza è regolata dalla legge, e non è il presidente a decidere», ed ha soggiunto che «nei confronti di Previti è, comunque, aperto un procedimento, e sarà l’aula a decidere».
Questa risposta, formalmente, è ineccepibile. Peccato, però, che eluda i termini reali della questione che Grillo intendeva, evidentemente, sollevare con la sua accusa un po’ provocatoria di inerzia presidenziale. Perché è vero che il presidente della Camera poco o nulla può fare, specificamente, contro le lungaggini della Commissione parlamentare che sta occupandosi del caso Previti. Ma è altrettanto vero che, stato di diritto alla mano, se le regole devono essere rispettate, devono essere rispettate a trecentosessanta gradi.
Non si comprende infatti per quale ragione, ad oltre un anno di distanza dalla pronuncia giudiziale che ha sancito l’interdizione dalla funzione pubblica, il Parlamento non si sia ancora pronunciato sulla decadenza. Consentendo che un parlamentare, che secondo le regole stabilite dalla legge penale avrebbe già dovuto abbandonare da tempo il suo incarico, continui invece, imperterrito, a ricoprirlo. Capisco quanto il caso Previti sia complesso, quanto le garanzie difensive debbano essere salvaguardate e quanto la competente Commissione parlamentare, presieduta da un deputato di Forza Italia, possa avere trovato intoppi nel procedere con speditezza nel suo lavoro. Sono d’altronde convinto che più d’un parlamentare, regolamenti alla mano, a questo punto mi spiegherà che la trattazione della pratica è comunque proceduta nel rispetto della legalità e dell’efficienza. Per carità, avrà senz’altro ragione. Ciò non toglie che a noi cittadini comuni riesca un po’ difficile apprezzare che una questione così delicata, ma nello stesso tempo così urgente, come la decadenza di un parlamentare condannato, impieghi tanto tempo ad essere risolta. Se esiste una norma penale che stabilisce l’interdizione dai pubblici uffici per chi è condannato per determinati reati, logica vorrebbe che si decidesse in fretta, evitando la protrazione abnorme di una situazione d’incertezza sulla condizione soggettiva del parlamentare sottoposto a procedura di decadenza.
E’ pertanto comprensibile che Grillo non sia stato soddisfatto dalla risposta un po’ pilatesca di Bertinotti ed abbia reagito a muso duro, scrivendo nel suo blog che, se nessuna autorità è in grado d’impedire che chi non ne ha più diritto continui ad essere deputato, «allora, caro Fausto, le istituzioni hanno fallito». Si potrebbe soggiungere: ma allora, caro presidente, perché, per il rispetto sostanziale di quel principio di legalità al quale lei stesso fa riferimento nella sua risposta a Grillo, invece di limitarsi a menzionare le regole esistenti non si attiva per modificare i regolamenti e le prassi che consentono indebite lungaggini nell’istruttoria di pratiche come quella che concerne il condannato Previti? Se lo facesse, rafforzerebbe lo stato di diritto ed eviterebbe incomprensioni della gente nei confronti del lavoro del Parlamento e del funzionamento delle istituzioni.
Nella storia repubblicana del nostro Paese vi sono stati, sicuramente, periodi più difficili di quello che stiamo vivendo. Guerra fredda, terrorismo, servizi deviati, depistaggi, stragi, spionaggi, corruzione. Oggi c’è tuttavia un tarlo che corrode. La perdita di fiducia diffusa della gente nei confronti della politica e delle istituzioni. Il rifiuto. Il distacco. La noia per le solite facce, i soliti riti, i soliti discorsi. La rabbia nei confronti della casta e dei suoi privilegi veri o presunti. L’irrisione per l’incapacità di decidere. L’antipolitica che avanza. Se non si disinnesca la rabbia, se non si supera il rifiuto, se non si colma il distacco, le conseguenze potrebbero essere a loro volta esiziali.
Ecco perché, nel piccolo episodio di cronaca dal quale si è tratto spunto per queste brevi riflessioni, la politica, ancora una volta, sembra mostrare di non essersi accorta di ciò che sta accadendo. Grillo, ideologicamente impegnato, intelligente e giustamente irridente come si conviene ai comici, facendo riferimento ad un’ipotesi emblematica di ritardo peloso nell’espletamento di un’incombenza parlamentare chiede al presidente della Camera: ma che cosa aspetti ad intervenire? Il presidente, eludendo il problema, risponde: rispetto le regole date dello stato di diritto. Molta gente, ho l’impressione, a questo punto continuerà a pensare che la politica costituisce davvero una casa separata e avrà un po’ di fiducia in meno nell’istituzione parlamentare.
Conflitto d’interessi, il 14 maggio in aula la nuova legge
Da Bertinotti un calendario rigido e Forza Italia protesta: "Tempi ridicoli" *
ROMA - Il ministro Di Pietro fa una battuta ecclesiale: «Berlusconi», spiega, «deve decidere se essere prete oppure sacrestano, se fare il politico o l’imprenditore». Non sono parole causali. La questione del conflitto di interessi torna ai primi posti dell’agenda politica.
Dopo mesi di estenuante confronto nelle commissioni parlamentari, le nuove regole proposte dall’Unione arriveranno il 14 maggio all’esame dell’aula. Dario Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, lascia capire che la vicenda Telecom, con il possibile ingresso di Fininvest in una cordata di compratori italiani, non permette altri rinvii. Franceschini vuole anche rassicurare forze minori dell’Unione come il Pdci preoccupate che Berlusconi accetti una riforma elettorale a patto di una ritirata del centrosinistra su conflitto d’interessi e legge tv. In questo scenario, Fausto Bertinotti, presidente della Camera, stringe i bulloni e fissa tempi certi per l’approvazione del testo sul conflitto: 10 ore potranno essere spese nella discussione generale ed altre 16 ore nell’esame dei singoli articoli. E’ un tempo abbastanza ampio, visto che le misure sulle intercettazioni hanno ricevuto solo 14 ore. Ma Elio Vito, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, lo considera davvero troppo breve, anzi: «Ridicolo».
Bertinotti non gradisce, chiede a Vito di ritirare l’aggettivo e osserva che i tempi «sono ormai maturi per l’approdo in aula». Ma Forza Italia non arretra e avverte che alzerà alte barricate prima alla Camera e poi al Senato. Dice l’ex ministro La Loggia che l’Unione ha costruito un «testo illiberale, inquisitorio, lesivo degli interessi dei singoli e dei loro familiari, soprattutto concepito per colpire un solo uomo, Silvio Berlusconi». Larga parte dell’Udc è con Forza Italia. Spiega Maurizio Ronconi: «Il provvedimento non lascia scampo al Cavaliere, che dovrebbe cedere le sue aziende nel giro di poche settimane oppure affidarle ad un soggetto indipendente, a un "blind trust" che avrebbe pieni poteri, compreso quello della vendita».
* la Repubblica, 25 APRILE 2007
L’altra faccia della destra
di Furio Colombo *
Un’ombra copre le vicende italiane da quando Silvio Berlusconi, inviando una cassetta pre-registrata alle reti televisive (una cassetta, non la persona, come si fa con gli ostaggi) è «sceso in campo», ovvero ha iniziato la sua carriera politica.
È scattata in quel momento per l’Italia la grande trappola del conflitto di interessi, che funziona così: io controllo tutti, persino me stesso, dal momento che sono io ad autorizzare ciò che mi riguarda e che mi interessa (per esempio la concessione di frequenze pubbliche per le mie televisioni private, e la approvazione di una legge a beneficio esclusivo delle mie televisioni private).
Ma nessuno controlla me. Perché, da privato immensamente ricco so come vivere blindato nelle scatole cinesi. E da Capo del governo e di una vasta coalizione di maggioranza che guido di persona fino all’ultimo deputato e fino all’ultimo burocrate, posso controllare chi voglio, come voglio. E poiché il mio particolare conflitto di interessi mi consente di governare in persona tutto il mondo della comunicazione italiana, pubblico e privato, i risultati dei controlli (dello spiare) ordinati da me o da interposto dipendente, potranno essere pubblicati come «notizia», anzi come «scoop», dove e quando voglio. Per esempio nel corso di una campagna elettorale. Per esempio quando quella campagna elettorale sta per concludersi e io sono in svantaggio.
È ciò che è accaduto, durante il governo Berlusconi, contro il leader della opposizione Romano Prodi e la sua famiglia. È ciò che è accaduto con il progetto di «disarticolare e colpire» giudici e pubblici ministeri che si ostinano a dichiarare la propria indipendenza e mostrano di non avere capito. È ciò che era accaduto, con la montatura della falsa indagine Telekom Serbia.
Come dimostrano le notizie di questi giorni, Berlusconi ha perso le elezioni, ma l’ombra della sua interferenza privata in tanti settori, compresi i più delicati, della vita pubblica italiana c’è ancora.
Per questo sembra urgente, a molti cittadini, a questo giornale e a chi scrive, la istituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che si assuma la responsabilità di portare un minimo di risposte logiche e razionali, di spiegazioni e di rivelazioni su ciò che è davvero avvenuto, con certi ministri, certi burocrati e certi organi di informazione dipendenti o compiacenti o succubi, che si sono prestati al gioco con cui Berlusconi ha tentato di alterare in profondo la vita democratica italiana. L’intento non è politico o partitico. È il ripristino della Costituzione. Per questo tocca al Parlamento.
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La domanda tormenta gli analisti internazionali da quando Berlusconi è «entrato in campo». Che destra è la destra italiana? Non può essere una destra di mercato, perché la guida un monopolista che ha il controllo di tutta la parte privata della televisione italiana e di buona parte dell’editoria. Non una destra liberale, dal momento che Berlusconi è inventore, fondatore, proprietario e capo di un partito nel quale non vi sono neppure spunti apparenti o marginali di democrazia. Tutto è deciso al vertice, ciascuno è nominato, non vi sono congressi né organi di base, né percorsi dalla base al vertice. Si può solo piacere o dispiacere al capo. Non una destra liberista, visto che Berlusconi, da solo, controlla prezzi e distribuzione di buona parte della pubblicità italiana (che è il pezzo forte del suo impero privato) e si guarda bene dall’allentare il controllo su ciò che possiede.
Non una destra competitiva e meritocratica, dal momento che Berlusconi occupa le frequenze già assegnate a un altro impresario di televisione e muove e promuove solo coloro che appartengono alla sua corte.
E non è una destra tollerante, e infatti tutti ricordano la lista delle persone da lui personalmente licenziate, nonostante il prestigio, il valore, la fama. Uno di loro, Enzo Biagi, ha appena pubblicato un libro intitolato «Quello che non si doveva dire». Leggetelo e fate una piccola prova. Aprite a caso e dite se ciò che viene narrato è «fazioso» o se è semplicemente vero. Se lo è, la domanda «che destra è?» resta e diventa più allarmante.
Una di loro, Sabina Guzzanti, sulla sua cacciata dalla Tv di Stato, ha fatto un film, «Viva Zapatero». Se ne avete occasione , tornate a dargli un’occhiata. E poi decidete: ma certe cose sono accadute davvero?
I lettori de l’Unità hanno vissuto la strana e misteriosa storia dell’Italia di Berlusconi in tempo reale e in due modi: ciò che di giorno in giorno leggevano sul nostro giornale. E le minacce personali, violente e senza quartiere che il governo di Berlusconi con tutto il suo potere ha scagliato contro un giornale libero che si è preso il compito di non tacere mai. Come ricorderete noi siamo stati definiti ben presto «testata omicida». È una accusa molto forte quando viene direttamente dal presidente del Consiglio e dai suoi pezzi da novanta. È una accusa pericolosa perché è impossibile non domandarsi se un uomo tanto potente non sia in grado di creare appetiti e obbedienze spontanee da parte di chi, dentro o fuori dall’apparato dello Stato, si candida a ricevere un premio.
È bastato monitorare fin dall’inizio il governo di Berlusconi per poter usare la parola regime. Quasi ogni successo personale di Berlusconi era falso o radicalmente inventato (ricordate Pratica di Mare?) quasi ogni esercizio di potere era arbitrario, un esercizio abusivo di potere inspiegato, con totale esclusione di rendiconto o spiegazioni all’opinione pubblica. In questo senso, giorni di Genova durante il G8 del 2001, ci sono parsi sinistramente e tragicamente esemplari. Non abbiamo mai saputo nulla sui pochi e veri autori di selvagge violenze. Abbiamo visto e sentito definire pericolosi e violenti, forse anche terroristi, centinaia di migliaia di giovani, mentre le loro immense manifestazioni pacifiche erano documentate dalle riprese televisive del mondo. Abbiamo saputo di pestaggi cileni (proprio così li abbiamo definiti già allora, prima di essere confortati dall’inchiesta della magistratura) in caserme di polizia e di un raid notturno contro persone inoffensive e addormentate, un fatto che non ha precedenti nella storia democratica italiana. C’è stata la morte mai spiegata del giovane Carlo Giuliani in piazza Alimonda. Abbiamo visto crearsi una distanza allarmante fra governo e legalità, fra notizie vere e notizie false, fra democrazia e potere.
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Lo spionaggio sistematico organizzato attraverso strutture dello Stato contro personaggi politici di rilievo di questo Paese, tra cui il leader della opposizione Romano Prodi, sua moglie, i suoi figli - un fatto grave che è diventato notizia in questi giorni - mette in evidenza le condizioni di sbandamento, illegalità e disponibilità agli abusi che ha contraddistinto il governo di Berlusconi e della sua gente.
Il tono beffardo con cui ne parla Tremonti imbarazza, considerato il ruolo di personaggio pubblico che Tremonti ha nella vita italiana e internazionale. Quando strutture dei Servizi di governo si dedicano allo spionaggio dettagliato e minuto della vita privata di persone e famiglie già listate ad alta voce come «nemici», come «avversari pericolosi», come «una minaccia per l’Italia» dalla propaganda politica del blocco politico e di governo a cui Tremonti appartiene (e in cui è capo di uno dei servizi dediti allo spionaggio ora rivelato dalla magistratura) non è consigliabile trattare la materia, che sarebbe rovente in qualsiasi altro contesto nazionale e politico, con battute goliardiche. Tremonti dovrebbe imparare un minimo di buone maniere politiche dalla dichiarazione di Fini, che ha espresso almeno preoccupazione per qualcosa che non deve accadere. Ma se accade e si scopre, ovvero se è inevitabile affrontare il doppio infortunio, diventa necessario un minimo di lutto per la caduta del senso dello Stato e del prestigio di una sua istituzione.
Ma ci sono alcuni aspetti e modi di liquidare la questione che meritano attenzione. Non credo che si possa dire che la «privacy», ahimé è un colabrodo e che tutti siamo esposti a simili eventi.
Sarà anche vero, ma non è accaduto in Europa e negli Stati Uniti, in questi anni. E poiché la condizione di «privacy colabrodo» è un fatto internazionale, è inevitabile dire all’opinione pubblica italiana che bisognerà capire perché il nostro Paese è più colabrodo degli altri. E perché una parte così sensibile del sistema politico (il leader della opposizione) appare, con la sua famiglia, come la vittima principale.
Non credo neppure che si possa dire e lasciar dire, «ah, va beh, ma spiavano tutti, veline, calciatori, celebrità di passaggio e persino qualcuno di casa Berlusconi».
Santo cielo, mettetevi nei panni di un gruppo che, in risposta a ordini ricevuti oppure di propria iniziativa (ma come risposta spontanea a un clima di potere senza discussioni e senza impedimenti) organizza la sorveglianza-spionaggio di casa Prodi.
Si tratta di professionisti che, persino nel tempo libero, persino sotto la doccia sanno che, se tieni il conto dettagliato dei pagamenti e riscossioni dei Prodi genitori e figli, devi per forza far trovare nel dossier qualche altro nome, per esempio una velina e un calciatore, altrimenti che professionisti sarebbero? Oltretutto, anche se non avessero ricevuto il training che ti aspetti da un buon segugio, non puoi impedire che vadano al cinema. In qualunque film di spionaggio il più ovvio tipo di depistaggio è quello di confondere e mischiare i percorsi. La velina e il calciatore sono un ottimo materiale per poter rispondere con relativo candore al magistrato che vuole sapere perché: «Vede dottore, non c’è un perché. Il nostro servizio si occupa di tutti».
Infine circola l’argomento: ma quale spionaggio politico, se c’era dentro anche Berlusconi? Qui valgono due spiegazioni semplici. La prima è la stessa appena detta per le celebrità da Isola dei Famosi messi sotto controllo. Se «tutti» è «tutti», allora buttaci dentro anche un tabulato intestato Berlusconi e poi vediamo come fanno a formulare l’accusa.
La seconda è che al livello della ricchezza e del potere di autocontrollo (stiamo parlando del potere privato) di Berlusconi, nessuno può essere trovato impigliato nella rete degli agenti segreti fiscali. E infatti non è mai accaduto in alcun Paese, incluso il mitico sistema fiscale americano.
Dunque il nome di Berlusconi tra i dossier delle sorveglianze messe in atto dal governo Berlusconi, nel periodo in cui Tremonti controllava quella polizia, è solo un espediente.
Torniamo perciò al punto di partenza di questa riflessione: la distanza fra la legalità e il governo nei cinque anni dominati da Berlusconi.
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Quella distanza, nell’era di Berlusconi, è andata allargandosi. A dimostrarlo, in modo addirittura imbarazzante, è il caso Telekom Serbia. Una intera commissione parlamentare con poteri giudiziari è stata istituita e ha funzionato partendo da eventi mai accaduti e con falsi testimoni, false prove, ma facendo girare il tutto attraverso l’intero sistema mediatico italiano. Occorre ricordare contro chi è stata scatenata la falsa commissione Telekom Serbia: Prodi, Fassino, Dini.
So di averlo già scritto. Ma la frase «Nuovi sviluppi sul caso Telekom Serbia!!», che ha aperto per una intera estate cinquantadue telegiornali italiani, resta la prova di un grande scandalo. Un organo parlamentare istituzionale è stato lanciato contro alcune persone nel tentativo di eliminarle dalla scena politica.
E soltanto il ferreo controllo del sistema mediatico ha consentito di limitare al massimo l’umiliante sbugiardamento che quella commissione, i suoi membri più attivi e infaticabili e le loro continue dichiarazioni alla radio e alla televisione, hanno subito quando la magistratura ha posto fine - con l’arresto dei testimoni - all’incredibile farsa politicamente organizzata.
Ma lo strano percorso della legalità secondo Berlusconi ci porta allo spionaggio di Telecom-Tim, evento tuttora privo di ragionevoli spiegazioni. Anche in questo caso il controllo dei media ha fatto barriera. L’ordine è stato di spostare tutta l’attenzione sull’eventuale tentativo di Prodi di mettere le mani su Telecom attraverso un piano di "irizzazione" (o statalizzazione) della telefonia Pirelli - Olimpia - Telecom - Tronchetti Provera, con il famoso «memorandum Rovati». Il paese è stato inchiodato dal potere mediatico di Berlusconi a discutere di presente interferenze del presidente del Consiglio sulla riorganizzazione di un’azienda (fatti irrilevanti e non illegali) mentre la questione rovente delle intercettazioni telefoniche subite dal capo del Governo, ad opera di un privato, per ragioni sconosciute, veniva oscurata e opportunamente dimenticata.
* * *
È a questo punto che il lettore de l’Unità penserà di rileggere uno dei tanti articoli con cui questo giornale si è opposto a Berlusconi, guadagnandosi la sua naturale malevolenza. Infatti a questo punto torna in scena, come nel Can Can di un vecchio varietà, il conflitto di interessi.
Nessuno che non controlli, attraverso il conflitto di interessi, un vasto settore di potere sovrapposto, pubblico e privato, può recare tanto danno a un Paese e condurre una lotta così profondamente e apertamente illegale contro i suoi oppositori e allo stesso tempo restare sulla scena come il rispettato capo della opposizione.
Ecco perché occorre ripetere che la battaglia democratica per garantire il Paese dall’incubo del ritorno della illegalità di governo, e per metterlo al riparo dalle battute goliardiche e fuori posto (ma anche bugiarde) di Tremonti, comincia con una legge seria e precisa sul conflitto di interessi.
Il male italiano di questa fase non felice della nostra storia comincia lì. E da lì, se mancasse la barriera di una legge, potrebbe ancora continuare.
* www.unita.it, Pubblicato il: 29.10.06 Modificato il: 29.10.06 alle ore 11.13
STORIE DI REGIME
di Furio Colombo (www.unita.it, 01.04.2006)
Faccio una proposta. Propongo una legge che faccia finire la persecuzione contro Bernardo Provenzano. Che quest’uomo possa finalmente tornare a vivere alla luce del sole come tutti i cittadini dopo essere stato costretto a restare alla macchia per quarant’anni. Che senso ha, a questo punto, un atteggiamento di rivalsa e vendetta verso questo anziano dirigente di una vasta organizzazione, che è fuori legge se la legge si interpreta da un punto di vista formale, come fanno, per attitudine professionale i giudici, ma è un intraprendente imprenditore, se lo si valuta dal punto di vista, pur autorevole, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro. Naturalmente si leveranno i cultori della interpretazione letterale delle imputazioni ascritte al grande assente, pedanti ripetizioni di capi d’accusa, reati di mafia che, del resto, non hanno impedito ad altri imputati di assumere rilevanti funzioni istituzionali. Ma tipico della vita è passare avanti. Ed è qualificante, per una pragmatica civiltà che pensa al dopo, non lasciarsi inchiodare dalla vendetta.
I veri liberali si uniranno certamente a questa proposta che vuole sgombrare il campo da vecchi rancori e conti rimasti in sospeso col passato. Saranno - presumo - gli stessi liberali che si stanno accalcando intorno a Mediaset, per tributare a quel grande gruppo di comunicazione il sostegno dei veri cultori della libertà. Il principio guida non è quello meschino ed egoista del vecchio liberalismo secondo cui la tua libertà è sacra fino a quando non nega la mia. No, il principio è molto più alto e capace di occupare spazi larghi e nuovi che prima erano umiliati da lacci e laccioli. Sei ricco? Goditela. Hai potuto conquistare spazi esclusivi di comunicazione mai prima permessi a uno solo? Usali, chi può permettersi di impedirlo? Da quando si punisce la fortuna? Da quando ci si vendica di qualcuno solo perché è più bravo?
Si potrebbe aver voglia di rivedere le bucce del più bravo. Come lo è diventato, quando, perché, con quali leggi e regolamenti, se ha potuto crearsi qualche norma particolare che lo ha favorito, spiazzando altri.
C’è persino chi insiste nel porre una domanda pignola e ossessiva: da dove viene, meglio, da dove è venuta, all’improvviso, tutta quella ricchezza? Nel film di Nanni Moretti «Il caimano» il personaggio (uno fra molti) che interpreta Berlusconi, alla domanda risponde: «Non lo dirò mai». Questa frase è politicamente, e anche dal punto di vista narrativo, il cuore del film. Ma, diranno i liberali scattati in difesa del monopolio e del segreto professionale, si tratta di invidia e malanimo.
Infatti, più ci si addentra nel discorso e più si nota il contrasto fra il lato moderno e solare del grande perdono a Mediaset, gesto liberale se mai c’è ne è stato uno, e il lato meschino, vendicativo e rivolto al passato di coloro che sognano di confinare Mediaset nel mondo dei quiz e del Grande Fratello e di separarla dalla politica.
* * * V ediamo alcuni argomenti illuminanti proposti dalle punte alte del liberalismo italiano. «Pensare di far approvare una legge che - costringendolo a scegliere fra la propria condizione di magnate della televisione e quella di leader politico - impedisca a Berlusconi di ritentare di tornare al governo contraddice, oltre che il principio di realtà, anche il principio di libertà» (Piero Ostellino, Corriere della Sera, 26 marzo).
«Certo che Silvio è un’anomalia. È anomalo perché è un fenomeno. Quale imprenditore è riuscito a scendere in politica, fondare un partito e vincere le elezioni? Solo un accidente come lui, che è fuori del normale» (Fedele Confalonieri, Corriere della Sera, 31 marzo). Una persona volgare potrebbe suggerire che simili argomentazioni servirebbero egregiamente alla difesa di un imputato di stupro e violenza. Il principio di realtà e il tributo al fenomeno sono quel che ci vuole non solo per perdonare, ma anche per celebrare l’eccesso, al di là dell’eventuale danno inferto alla parte debole.
Qui siamo all’ammirazione del superuomo (il fenomeno) e al riconoscimento puro e semplice dello stato dei fatti («il principio di realtà») che vuol dire «se puoi farlo, fallo. Chi si lamenta è meschino e sfigato».
Ma ci sono altri argomenti, che arricchiscono anche culturalmente il dibattito. Confalonieri: «Eppoi basta con ‘ste balle. Da dodici anni non si occupa più delle sue aziende. Ora ci sono i suoi figli». Nessuna cessione o passaggio di proprietà, ma che importa? Coloro che non hanno in famiglia immense imprese di comunicazione come si permettono di discuterne? Si sente nell’aria la domanda: come osano, questi straccioni?
E poi che cosa c’entra il governo, e il fatto che chi governa è colui che assegna le licenze a chi trasmette televisione, e che male c’è se il proprietario delle televisioni, diventato capo del governo, dà le licenze a se stesso e controlla se stesso (oltre alla normale competenza sulla Televisione di Stato)? Questi sono noiosi dettagli burocratici. Invece il «principio di realtà» ci dice che da un lato c’è una costellazione di imprese con migliaia di dipendenti e dall’altra «un fenomeno della natura».
Come possono permettersi un Prodi qualunque, un Fassino qualunque, di intromettersi tra «principio di realtà» e «principio di libertà» ? Santo cielo, ma non ci sono più liberali in questo Paese?
Confalonieri, il manager, ha fiducia: «Il campo di battaglia sono le elezioni. Chi vince vince, chi perde perde. Ma le aziende restino fuori dalla contesa. Del resto anche dall’altra parte ci sono persone ragionevoli. Ma non ne faccio i nomi per non danneggiarli». Presumibilmente sono persone inclini ad accettare il «principio di realtà». Se sei un fenomeno, sei un fenomeno. E i non fenomeni, in nome del «principio di libertà» dei fenomeni, la smettano di lamentarsi.
* * *
Ostellino, il liberale, sa con precisione dove si piantano i paletti delle garanzie democratiche. Ascoltate: «Il conflitto di interessi deve essere risolto dopo e non prima del successo elettorale del suo portatore». Ovvero, la questione va discussa con il detentore di un grande potere privato, non appena assume anche un grande potere pubblico. Alla faccia del principio di realtà. Attenzione al passaggio successivo, destinato a fondare un nuovo principio liberale ma anche giuridico: «Il conflitto di interessi non si risolve ignorando la volontà popolare». Vuol dire: se mi eleggono, ogni violazione della legge è perdonata nel prima, nel dopo e per sempre. Io potrò sempre dire: «Mi ha eletto il popolo, come vi permettete di giudicarmi»?
Subito incalza Confalonieri che, dopo la sfuriata di Berlusconi alla Confindustria, l’attacco a Diego Della Valle che si è dovuto dimettere solo per avere osato tenergli testa, e dopo le minacce a Lucia Annunziata e le accuse a Floris di avere truccato Ballarò , dice senza imbarazzo: «Dà fastidio l’animo di rivincita con cui l’Unione ha caricato la sfida elettorale. È mai possibile che, per rivalsa verso il politico Berlusconi, debba attaccare le sue aziende?».
La conclusione è memorabile, una sorta di minaccia alla nostra reputazione di elettori e di eletti del centrosinistra: «Una legge punitiva contro Mediaset diverrebbe il conflitto di interessi del centrosinistra». Fantastico. È conflitto di interessi opporsi al conflitto di interessi. Ed è punitivo separare l’immensa distesa di aziende Mediaset (più la pubblicità, più le banche, più le assicurazioni) dal quasi dittatoriale ruolo del Primo ministro, a cui la Casa delle libertà, vandalizzando la Costituzione, ha attribuito, con la sua riforma, tutto il potere. Per la cronaca sono le stesse aziende in cui - ci conferma la cronaca di Repubblica del 31 marzo - il direttore del TG5 Rossella urla «mi hai rotto» al vice direttore Sposini che tenta di inserire nel corso di un Tg quasi completamente dedicato a Berlusconi, una smentita appena pervenuta dall’Unione.
Il tutto viene riassunto come segue nell’appello proposto dal Foglio e firmato anche da Piero Ostellino e Sergio Ricossa: «Obbligare Berlusconi a scegliere tra il suo status di imprenditore e la politica vorrebbe dire inaugurare un nuovo regime». Finalmente la parola regime viene usata per descrivere il saldo legame fra controllo del governo e controllo delle informazioni, con l’indotto di una potente azione intimidatoria nei confronti di coloro che in teoria restano liberi di non spaventarsi di una rettifica dell’opposizione da inserire in un telegiornale privato e di governo. Ma in pratica hanno visto che cosa è successo a Enzo Biagi, Diego Della Valle e Lucia Annunziata (forse a Sposini del TG5), e si danno una regolata.
* * *
Come vedete il piccolo Lord continua a pretendere che, per le sue violazioni di leggi e di pratiche accettate e rispettate nel mondo, vengano puniti gli altri, coloro che si oppongono e non stanno al gioco.
La grandiosità della sua pretesa trapela nel mondo. In questi giorni ne parlano a lungo il settimanale Newsweek e il quotidiano finanziario Wall Street Journal. Entrambi pubblicano articoli che fanno apparire mite e benevolo il testo che avete appena letto.
Ai liberali che firmano e sostengono l’appello sulla necessità di mantenere intatto l’attuale regime di monopolio di Berlusconi fondato su più governo per lui e più televisioni per lui (e solo per lui) avanzo una proposta di quelle “costruttive” che loro, fra un insulto, una falsità e una minaccia, invocano sempre.
Che cosa direbbero di pubblicare l’appello del “Foglio” in inglese, sul New York Times o almeno sull’ Herald Tribune? Certo, costa. Ma un piccolo sacrificio (Casini direbbe: un fioretto) forse da quella parte riescono a farlo. Il fatto è che la verità non deve avere confini. È bene che il mondo sappia che cosa vuol dire “liberale” in Italia, oggi.
Rischio eversione
di Carlo Federico Grosso
(www.lastampa.it, 28/10/2006)
UNA nube inquietante è tornata a premere sulla politica italiana. Si è appreso che a partire dall’estate 2001, poco dopo l’insediamento del governo Berlusconi, una struttura legata al Sismi aveva raccolto informazioni su alcuni politici e magistrati con l’obbiettivo di «disarticolare» un loro asserito progetto antigovernativo. Subito dopo si è saputo che verso la fine della passata legislatura politici e non politici, ma soprattutto Prodi e sua moglie, sono stati spiati con ripetute intrusioni illegittime nei loro dati tributari.
Entrambe tali vicende appaiono gravissime. Qualunque sarà il loro specifico epilogo giudiziario, esse hanno l’odore pesante della slealtà istituzionale, dell’intimidazione, del ricatto, del fango. Lo stesso odore di molte altre inquietanti vicende che hanno intossicato la democrazia italiana nel corso degli anni. Per indicare soltanto le più recenti, ricordo le calunnie emerse durante l’attività della Commissione parlamentare su Telekom Serbia, i dossier illegali Telekom reperiti nell’ufficio di un agente dei servizi, il dossier Betulla sulle asserite coperture del sequestro di Abu Omar da parte del presidente della Commissione Europea dell’epoca.
E’ peculiare che tutte queste intossicazioni abbiano riguardato fra gli altri, ma soprattutto, la persona dell’attuale presidente del Consiglio. Può darsi che si sia trattato di una circostanza casuale. In ogni caso non si può che essere molto preoccupati. Se vi fosse stato un piano per distruggere l’immagine di chi nel 2005/2006 si apprestava a diventare il leader della coalizione elettorale di centrosinistra, ci troveremmo infatti di fronte ad una vera e propria operazione di natura eversiva dell’ordine democratico che si affiancherebbe alle numerose operazioni eversive che hanno contraddistinto, negli anni, il travagliato cammino della democrazia italiana.
Oggi non possediamo elementi ai quali affidare una risposta certa. Possiamo peraltro annotare i dati di cronaca.
Con riferimento alle intrusioni negli archivi tributari, abbiamo appreso che esse sono state particolarmente numerose nei confronti di Prodi e di sua moglie e che hanno avuto due picchi, rispettivamente individuati nell’ultima decade di novembre 2005 ed a cavallo tra marzo ed aprile 2006. I cronisti hanno rilevato che il primo picco corrisponde al periodo in cui è apparso su di un quotidiano un articolo sulla sanatoria fiscale ottenuta da una società partecipata dalla moglie dell’allora presidente Ue; che il secondo è a sua volta concomitante, oltre che con la vigilia dell’ultima campagna elettorale, con la pubblicazione della notizia secondo cui i coniugi Prodi avrebbero donato a fini fiscali un alloggio ai figli. Operazioni entrambe assolutamente legittime, che sono state tuttavia descritte analiticamente ed utilizzate per cercare di gettare discredito sul presumibile, se non già certo, candidato premier dell’Unione e per danneggiare la sua campagna elettorale. Sappiamo pure che Prodi non molto tempo prima era stato falsamente accusato di avere percepito tangenti concernenti la vendita di Telekom Serbia, che nei suoi confronti era stato confezionato un falso dossier che lo coinvolgeva nel sequestro di Abu Omar, che era stato più volte menzionato nei dossier Telekom.
Tale sequenza è molto inquietante, anche se, per ora, non vi è traccia di una regia: non è provato che ci sia un movente politico, non sono dimostrati collegamenti fra le diverse vicende menzionate, non si può escludere neppure che si sia trattato, come ha sostenuto qualcuno, di mera sciatteria nell’uso delle password o di pruriginosa curiosità per i dati personali di persone famose. Non si può, tuttavia, accettare che da coloro che erano al governo quando i fatti sono stati compiuti giungano reazioni infastidite, tentativi di minimizzare, accuse di strumentalizzazione nei confronti di chi registra con allarme la degenerazione della vita istituzionale e politica italiana.
Le vicende emerse sono, infatti, di estrema gravità. Si tratta ora di sapere se esse concretano episodi scomposti di ordinaria criminalità comune o politica o se si inseriscono in un ancora più pericoloso progetto di destabilizzazione e di eversione dell’ordine democratico.
Un paese deviato
di Antonio Padellaro *
Se, poniamo, dallo spionaggio fiscale perpetrato in campagna elettorale ai danni dei coniugi Prodi fosse saltato fuori qualcosa di men che corretto - per esempio una sanzione per omessa o incompleta dichiarazione dei redditi - probabilmente l’attuale presidente del Consiglio non avrebbe le sembianze del professore. Con la fama di evasore che la Cdl gli avrebbe subito cucito addosso come avrebbe potuto egli guidare un governo che della lotta all’evasione avrebbe fatto una bandiera, come da programma? Visto però che lo spionaggio illegale non è riuscito a trovare nulla che potesse scalfire la reputazione dei Prodi, allora siamo di fronte a una «bufala pazzesca» (Berlusconi), o a un semplice fenomeno di «guardonismo fiscale sfruttato dal premier alla canna del gas» (l’elegante Tremonti). Insomma, come in certi casinò gestiti dalla mafia, il banco vince anche quando perde, soprattutto se chi dà le carte (truccate) lo fa potendo contare su una sostanziale impunità.
Eppure, siamo di fronte, allo scoperchiamento di un pentolone fetido e senza paragoni in una storia repubblicana dove non sono mancati i gangster prestati alla politica. Ecco la dimostrazione, come ha detto il segretario ds Fassino, «che per la Cdl si poteva utilizzare ogni strumento di intossicazione nella battaglia politica». Veleni sparsi a piene mani grazie a giornalisti o domestici del cavaliere o assoldati dai servizi segreti. L’obiettivo? Impedire a Prodi di tornare alla politica, ha spiegato il deputato ulivista Bressa.
Il quale ha ricordato tutte le operazioni condotte per tagliare la gambe al candidato premier del centrosinistra. Telekom Serbia e la gigantesca buffonata delle false tangenti percepite da Prodi, Dini e Fassino. Farsa orchestrata da un truffatore matricolato ma con la quale la destra ha speculato per anni, imponendo la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta i cui verbali andrebbero recitati al Bagaglino. Abbiamo poi appreso del dossier calunnioso costruito dagli spioni di Telecom Italia quando Prodi era presidente della Commissione europea. Adesso lo «spionaggio politico consapevole» (Visco). Eseguito da una nutrita banda di funzionari e finanzieri ma il cui lucro elettorale è stato percepito altrove.
Come in fondo ha confessato lo stesso Berlusconi al Tg3 a proposito della donazione di 860mila euro fatta da Romano e Flavia Prodi in favore dei figli per l’acquisto di due appartamenti. Atto passato, indovinate da chi, ai giornali della destra e da questi debitamente "sparato" in piena campagna elettorale. Prova, sostiene adesso il leader proprietario preso con il sorcio in bocca, che si voleva evitare quella tassa di successione che il centrosinistra in caso di vittoria, meditava di introdurre. Solo che quella donazione risale al 2003, quando cioé del programma di governo dell’Unione neanche si parlava.
Sono metodi delinquenziali che il nostro paese ha subíto per cinque anni con danni, temiamo, forse irreversibili. Ieri, sul Riformista, Emanuele Macaluso, colpito dal documento Sismi per «disarticolare» magistrati e politici nemici di Berlusconi, domandava come sia possibile che notizie di tale rilevanza nascano e muoiano sul giornali. E si chiedeva: «il Parlamento non dovrebbe bloccare i suoi lavori sino a quando fatti così gravi non si chiariscano fino in fondo»? In una qualunque altra nazione civile, certo che sì. Ma come si fa in un paese sfiancato, rassegnato e infine deviato dalle infinite deviazioni che i tanti poteri forti e occulti hanno imposto al corretto esercizio della democrazia?
Prendiamo i giornali dove le notizie muoiono ma non sempre vedono la luce. Solo una eclatante intervista di Prodi allo spagnolo El Pais ha costretto la cosiddetta grande stampa italiana a parlare del dossier spazzatura Telecom. Ma sempre con l’aria imbarazzata di chi si sta occupando di certe strane fissazioni di un presidente del Consiglio debole di nervi.
Poi c’è il metodo marmellata. Consiste (è il caso in questione) nel mescolare lo spionaggio ai danni di personaggi come Prodi, Napolitano, Ciampi, Fassino con le incursioni nell’anagrafe tributaria della signorina Giorgia Palmas o dei figli di Berlusconi. «Vedete ci sono anche loro, quindi non è più un complotto», ha infatti esultato il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. Ovvero: tutti spiati nessuno spiato.
Se proprio non si può fare a meno di notare che, in quanto a spionaggio, una velina e il capo del governo forse non sono la stessa cosa? Niente paura, c’è sempre la teoria dei punti di vista. Essa consiste nel bacchettare chi oggi s’indigna per l’aggressione (vera) contro Prodi mentre ieri ironizzava sulla (falsa) microspia rinvenuta nello studio di Berlusconi. La tesi è che male e bene, onestà e corruzione, non esistono come valori in sé. Tutto dipende dal punto di osservazione e dunque dall’utile che se ne ricava.
C’è un fatto positivo. Che il problema sia Prodi, che l’uomo da distruggere sia lui, adesso lo si capisce molto meglio. È l’unico che ha battuto due volte Berlusconi. E vuole approvare leggi esplosive: una per regolare lo scandaloso conflitto d’interessi e l’altra per contenere lo strapotere pubblicitario di Mediaset. Per le casse del cavaliere un danno non quantificabile. Prodi è avvertito. Non gli hanno trovato scheletri nell’armadio. Cercheranno di farlo cadere comunque.
* www.unita.it, Pubblicato il: 28.10.06 Modificato il: 28.10.06 alle ore 12.41
Questione democratica
di EZIO MAURO *
NON avevamo dunque torto, un mese fa, a parlare di "attacco alla democrazia" davanti al disvelamento di un’operazione massiccia di spionaggio di cittadini inconsapevoli, all’ombra di Telecom e dei servizi segreti. Non avevamo torto, ma non sapevamo tutto.
Dopo le illegalità del Sismi, che secondo i magistrati assoldava giornalisti-spie contro la legge e spiava senza nessuna autorizzazione i reporter di Repubblica, dopo la schedatura di massa operata dai servizi di sicurezza di un’azienda privata, ecco l’anello mancante: la politica. Romano Prodi, oggi presidente del Consiglio, è stato spiato insieme con la moglie per due anni - quand’era leader dell’opposizione - in tutti i suoi dati fiscali con una lunga serie di accessi abusivi alle banche dati del ministero dell’Economia.
Con Prodi, sono state controllate altre venti "posizioni", tra cui quelle di Silvio Berlusconi, di Piero Fassino, di Massimo D’Alema e addirittura di Giorgio Napolitano, prima di diventare Capo dello Stato.
La politica finisce dunque direttamente sotto scacco dei poteri oscuri che da qualche anno sono tornati a pesare prepotentemente sulla vita pubblica italiana, come ai tempi della P2, tra dossier, intercettazioni, disinformazioni che tendono una rete invisibile di ricatti e di abusi sotto la fragile superficie istituzionale che regge il Paese: con l’inevitabile contorno italiano di calciatori e veline, che sostituiscono i Noschese e i Costanzo dell’epoca di Licio Gelli.
Al centro di tutto, motore invisibile, naturalmente si muovono i servizi, o ciò che oggi sono diventati. E nel mirino, altrettanto naturalmente, c’è la sinistra e la magistratura. È di due giorni fa la scoperta di un dossier del Sismi che si proponeva apertamente di "disarticolare con azioni traumatiche" un gruppo di "nemici" di Berlusconi, con i nomi di Violante, Brutti, Salvi e Bruti Liberati, parlamentari dell’Unione e magistrati.
Bisogna accertare le responsabilità di questi abusi illegali, com’è ovvio, e capire intanto chi ne ha tratto un lucro politico. Ma bisogna prima ancora ridare autonomia alla politica, liberarla dal gioco di paure e di ricatti che svuota le istituzioni e falsa il gioco democratico, alle spalle dei cittadini. A cominciare da un’operazione di pulizia nei servizi, che chiuda quest’epoca inquinata e apra una fase nuova. Subito.
Si pone una questione democratica, che come tale interpella tutti, maggioranza e opposizione: e naturalmente il Quirinale, dove per fortuna abita un galantuomo. (27 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 27.10.2006
Il Sismi spiava Prodi e la sinistra come il Sifar nel ’64 con Nenni e Moro *
C’è il reato. Grave, gravissimo che non ha alcun precedente in Europa negli ultimi vent’anni. E non ce l’ha neanche in Italia. Perché i controlli su Craxi rimasero sempre “voci” mai accertate, e il Laziogate di Storace fu fermato dopo i primi tentativi di accedere ad informazioni riservate. Qui, invece, c’è molto, molto di più. Tanti, tantissimi “spioni” sono andati a spulciare dentro i file delle tasse di Romano Prodi. E di sua moglie, Flavia. L’hanno fatto per centoventotto volte. Entrando nel data base dell’anagrafe tributaria. Entrare è il verbo giusto: nessuno, insomma, ha mai violato il sistema. Gli “spioni” sono tutti andati a spulciare fra le tasse di Prodi utilizzando la propria password. Avevano accesso insomma a quei dati, che la legge invece blinda. Se proprio occorre un precedente, occorre andare indietro di quarant’anni e passa, all’epoca del Sifar, i vecchi servizi segreti, che spiavano per ricattare intera classe dirigente. Era l’epoca in cui nasceva il primo centrosinistra, e Nenni sentiva Il “tintinnare di sciabole”, e i carabinieri tramavano e spiavano, e alla fine il centrosinistra rinunciò alle riforme.
Ma lì si era nel ’64. I fatti venuti alla luce ieri, invece, sono avvenuti qualche tempo fa, meglio: fino a qualche tempo fa, quando Romano Prodi era ancora il leader dell’opposizione e al governo c’erano Berlusconi e le destre. Da qui in poi, però, si entra nel campo delle ipotesi, quelle su cui sta lavorando la magistratura (che ieri sera, a tarda ora, stava ancora facendo perquisire qualcosa come 200 fra uffici e abitazioni). Ipotesi, allora, anche se certo le coincidenze sono davvero impressionanti. Queste: gli ingressi nel data base riservato, anche se andavano avanti da due anni, si concentrano in alcune date. Abbastanza recenti: il 21 novembre del 2005, tre giorni dopo, poi il 22 gennaio di quest’anno e il 30 marzo. Appena una decina di giorni prima del voto. Giornate che a tutti diranno poco o nulla. Sono invece esattamente le giornate che segnano le tappe della campagna lanciata dalla destra - attraverso i suoi giornali - nel tentativo di screditare Romano Prodi. In quei giorni esatti, insomma, prima Il Giornale, poi Il Tempo e Libero (alla fine, comunque, seguiti da tanta stampa, anche quella indipendente) se ne uscirono con presunte rivelazioni sulle donazioni effettuate dal leader dell’opposizione a favore dei suoi figli. Utilizzando una legge votata dalla maggioranza di destra. Di più: esattamente in un giorno dove i magistrati hanno accertato si verificò un “picco” di ingressi illegali, in tv Berlusconi accusò Prodi di aver partecipazioni in società collegate alla Lega delle Coop e all’Unipol. Affermazioni seccamente smentite, sulle quali Prodi annunciò querele. Insomma, sembra proprio che gli “spioni” entrassero in azione immediatamente prima o dopo gli scoop inventati dalla destra. A caccia di che? Questo l’accerterà l’inchiesta.
Esattamente come le indagini delle Procura di Milano dovranno accertare che cosa quest’esercito di “spioni” andasse a cercare nei documenti fiscali di altre mille persone. Cifre ufficiali non se ne fanno ma sembra che le persone controllate siano molte, molte centinaia di persone. E fra di loro anche alte cariche istituzionali, attuali e passate. Più personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport, della cultura.
Ma come è venuto fuori questo scandalo? Ufficialmente si sa che Romano Prodi ha sporto una denuncia al ministero dell’economia nei mesi scorsi. Al dicastero è bastato fare un piccolo controllo e accertare le violazioni. Così, tutto l’incartamento è finito alla Procura. Anche in questo caso, ci sono comunque voci più dettagliate: secondo le quali l’attuale premier si sarebbe insospettito perché avrebbe sentito citare dai suoi avversari politici dati e fatti di cui nessuno poteva avere conoscenza.
Comunque sia, l’indagine è partita. E ieri sono scattate le perquisizioni. Nei confronti di alcuni dipendenti dell’Agenzia delle Entrate, di dirigenti dell’ufficio Dogane, del Demanio. E di molti militari della Guardia di Finanza. Particolare curioso: le perquisizioni, come detto, in queste ore sono condotte da uno speciale corpo della Guardia di Finanza di Roma.
Ma l’aspetto giudiziario è davvero quello meno rilevante nella giornata di ieri. Perché lo spionaggio contro il leader dell’opposizioni suscita domande e interrogativi inquietanti. Che hanno bisogno di una risposta immediata. E’ la richiesta, netta, precisa, che fa Fausto Bertinotti: “Ci siamo impegnati per altre violazioni della privacy e dei diritti della persona, e sarebbe curioso che non ci si indignasse per queste operazioni che hanno un risvolto così politico, così mirato". E allora, aggiunge: “E’ evidente che c’è un problema di bonifica, perchè stiamo parlando non di semplici cittadini”. Si tratta, insomma, di “capire quanto gli apparati dello Stato possano essere coinvolti in pratiche indifendibili e preoccupanti”.
Su queste due definizioni - “indifendibili e preoccupanti” - si ritrovano le dichiarazioni di molti leader. Di maggioranza ma anche d’opposizione. Da Giordano (“Dovremmo intervenire con grande determinazione per colpire i responsabili") a Fassino (“Non si può ricondurre tutto all’attività infedele di qualche funzionario, è bene allora che Berlusconi e Tremonti, da cui dipendevano i funzionari dell’Agenzia delle Entrate, rendano conto al Parlamento“), a tutti gli altri. Ma solidarietà, e parole preoccupate sono arrivate anche da leader dell’opposizione. A cominciare da Casini, che anzi ha rimproverato i suoi alleati di essere troppo tiepidi nella solidarietà a Prodi: “Qui il giudizio sul governo non c’entra, è un fatto in inaudito”. Da tutto ciò, si distacca però il leader dello schieramento di centro destra, Berlusconi. Lui parla di “polverone sollevato da un governo ormai allo sfascio” (e che secondo i suoi dati sarebbe sotto di dieci punti). Ancora più preoccupanti le parole di Tremonti: “Ma quale complotto? Chi organizza complotti non si rivolge ad un esercito di quasi trecento persone. Questo è un caso di mala aministrazione che va sanzionato ma niente di più”. E ancora: Tremonti parla di “guardonismo”, di curiosità di qualche funzionario. Niente di politico.
Stefano Bocconetti (venerdì 27 ottobre)
* www.liberazione.it, 27.10.2006
Misteri d’Italia
di Antonio Padellaro *
L’altra sera, «Anno zero» di Michele Santoro ci ha mostrato il vero volto del presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro. Non il bonario «vasa vasa» campione di elargizioni clientelari e di baci elettorali sulle guance. Bensì un personaggio dall’eloquio minaccioso con chiunque osasse ricordargli il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento della mafia. Che si definisce «uomo d’onore» e conferma colloqui e abboccamenti nel retrobottega dei negozi con pregiudicati per reati mafiosi. Che con fare obliquo parla di possibili «incidenti» rivolto all’avversario politico che gli siede accanto ben sapendo che si tratta di Claudio Fava, figlio di Giuseppe, giornalista coraggioso assassinato dai killer di Cosa Nostra. Ma vedendolo a un certo punto calarsi in testa una coppola nera in segno di dileggio verso tutti quelli che sulla mafia hanno il torto di non pensarla come lui (e incurante della presenza in studio di gente che ha visto cadere padre e fratelli sotto il fuoco della lupara) veniva da chiedersi come sia possibile che al vertice di una delle regioni più importanti della quinta o sesta potenza mondiale ci sia un politico con queste marcate caratteristiche. Perché un milione e mezzo di siciliani mi hanno confermato la loro fiducia, risponde lui orgoglioso ogni volta che lo si tocca sull’argomento. Ha ragione, ma il mistero è proprio questo.
Del resto, viviamo in uno strano Paese dove le varie forme di potere (politico, finanziario, mediatico) agiscono quasi sempre su piani diversi ma che tendono a confondersi. Quello dell’apparenza e quello della realtà. Le elezioni sono il paradigma perfetto di questa mescolanza di vero e di illusorio costituendo il risultato delle urne la parte emersa di una battaglia che si svolge in profondità, con patteggiamenti e voti di scambio spesso innominabili. Può accadere, tuttavia, che lo stesso scrutinio elettorale venga truccato in corso d’opera attraverso manipolazioni e brogli fino al punto di capovolgere il dato finale.
Ciò è accaduto nella notte dell’11 aprile, secondo Enrico Deaglio (direttore de «Il Diario») e Beppe Cremagnani, autori del dvd «Uccidete la democrazia» di prossima distribuzione. Le domande sono davvero tante ed alcune ci tornano in mente dalla famosa notte. Per esempio, come è possibile che le schede bianche e nulle siano improvvisamente crollate riducendosi a un terzo di quelle conteggiate solo cinque anni prima? E non è sorprendente che queste schede si siano fermate tutte allo stesso livello (dall’uno al due per cento), e in tutta Italia, dalle Alpi a Pantelleria? E come mai nelle ore cruciali dello spoglio il ministro dell’Interno Pisanu si allontanò improvvisamente dal Viminale per andare nella residenza di Berlusconi? Cosa è accaduto in quelle stanze che possa giustificare la lunga assenza del ministro dal luogo della istituzione garante della corretta conta dei voti, fatto grave e senza precedenti? E come mai, nei giorni successivi, mentre il premier uscente denunciava fantomatici brogli il titolare dell’Interno assicurava che il voto si era svolto regolarmente? E se si torna al pomeriggio dell’11 come si può spiegare il clamoroso tonfo degli istituti di sondaggio, tutti concordi nell’attribuire all’Unione un sostanzioso vantaggio poi polverizzatosi a quota 24mila, cioé a quasi nulla. Infine, giustamente ci si chiede come sia possibile che ancora oggi nessuna istituzione sia in grado di comunicare il risultato definitivo delle elezioni. Qualcuno ce lo dirà mai? Deaglio ipotizza una truffa telematica che avrebbe trasformato le schede bianche in consensi a Forza Italia. Ma se anche le cose fossero andate così, probabilmente nessuno potrà provarlo. E poi, a chi gioverebbe cavalcare l’eventuale scandalo? Non certo alla Cdl che di brogli, infatti, non parla più. Non all’Unione che, comunque, le elezioni le ha vinte punto e basta. Ovvero: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Resta la realtà apparente, quella di una partita vinta, poi persa, poi recuperata in fotofinish. Un esito incerto che ha prodotto una concatenazione di altre incertezze, e un governo appeso a un filo. Debolezza che fa comodo a molti. L’origine dei nostri guai.
Di un altro mistero, occorre parlare. Sta dentro il libro scritto da un bravo giornalista del «Corriere della sera», Massimo Mucchetti, che un brutto giorno scopre di essere illegalmente intercettato. Per conto di un’entità che si presume potente se arriva a piazzare le sue cimici nel cuore del più grande giornale italiano. «Il baco del Corriere», racconta una storia con due facce. Sulla prima - le scalate e i complotti azionari per impadronirsi di via Solferino - poco possiamo dire. Se non che nella sua storia il «Corriere» è stato spesso oggetto di voglie indecenti, dal fascismo alla P2. Poi ci sono le congiure e qui il racconto di Mucchetti si riunisce come un vorticoso affluente al fiume principale. Che è l’Italia dei poteri occulti, dei centomila dossier, delle morti violente. L’autore individua (forse) gli intercettatori. Ma non i mandanti. La cui identità, forse, si può intuire ma che nessuno può toccare. Proprio come nella vicenda elettorale. Qui però i fili sembrano più visibili. Perché le intercettazioni portano agli spioni di Telecom. E gli spioni di Telecom portano agli spioni del Sismi. Servizi al cui vertice continua a sedere, imperturbabile, quel Nicolò Pollari della cui giubilazione si continua a parlare da mesi. Ma nulla accade. Non è questo il mistero dei misteri?
* www.unita.itPubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.42