Marcello Flores ha scritto una storia della conquista della parità
La battaglia dei diritti
La lunga marcia verso l’uguaglianza
Un’epopea con le donne in prima fila, da Florence Nightingale a Eleanor Roosevelt
Ancora adesso le contraddizioni tra democrazie e tutela dell’essere umano sono molte
di Simonetta Fiori (la Repubblica 1.12.2008)
Pochi simboli come Obama primo presidente nero alla Casa Bianca restituiscono il lungo e controverso cammino della cultura dei diritti umani. Il clamore della novità può essere commisurato alla lentezza del percorso. Nelle lacrime del reverendo Jesse Jackson è la denuncia d’un vergognoso ritardo.
Possibile che soltanto al principio del XXI un uomo di colore sia autorizzato a varcare la soglia della Casa Bianca, per di più tra molti timori? E’ anche questo il segno d’una storia complicata, ricca di paradossi e contraddizioni, ora raccontata per la prima volta da Marcello Flores nel suo intreccio tra elaborazione ideale e azione concreta (Storia dei diritti umani, il Mulino, pagg. 368, euro 25). «Il percorso storico dell’attuazione dei diritti umani è assai più lento e accidentato rispetto alla consapevolezza teorica. Ma questa distanza tra auspicio e concretizzazione, tra ambizioni universalistiche e capacità pratica assai parziale di realizzarle, va valutata storicamente: non può essere un pretesto per liquidare la questione dei diritti come inutile retorica».
L’incoerenza è uno dei tratti distintivi di questa lunga storia, riproposta alla vigilia del sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti, sancita dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. Un’epopea, che vede in prima linea le donne, da Olympe de Gouges a Mary Wollstonecraft, da Florence Nightingale a Emily Hobhouse fino a Eleanor Roosevelt, artefice di delicate mediazioni alla guida della Commissione che con la Dichiarazione Universale intendeva chiudere l’epoca della violenza e dell’orrore. «Non è un caso che siano figure femminili a scrivere questo racconto lungo due secoli, e che ancora oggi ne siano protagoniste, essendo esse stesse vittime di un’esclusione».
Anche alla metà del Settecento, momento fondante per la cultura dei diritti, all’interno della civiltà occidentale coesistono tensioni opposte e non poche ambiguità: da una parte la lotta contro l’arbitrio nella giustizia e nell’eguaglianza, dall’altra la perpetuazione di discriminazioni verso le donne e di pratiche spietate come la tratta degli schiavi, su cui si regge l’economia colonialista. «La storia dei diritti», spiega Flores, «non ha un risultato definitivo: è un processo a tappe, mai garantite una volta per tutte. Fin dal principio la contraddizione ne è un tratto costante. Sia la Rivoluzione francese che quella americana sanciscono l’eguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si rivolgono al "maschio", "bianco" e "proprietario". Schiavi e donne ne sono escluse. Ma fu grazie alla circolazione di quelle idee che più tardi saranno sconfitte la schiavitù e l’emarginazione femminile».
Da nuovi fermenti germogliano, pur in un paesaggio contrastato, nuove aspettative. E soprattutto piccole azioni concrete, condotte da personalità spesso ignorate dai libri di storia, ma non meno rivoluzionarie rispetto ai Beccaria, Voltaire, Montesquieu. «Mentre i philosophes diffondono idee destinate a influenzare il pensiero moderno, un gruppo di uomini e donne coraggiosi s’appresta a favorire una rivoluzione culturale e giuridica altrettanto rilevante». E’ il caso degli inglesi Grandville Sharp e Thomas Clarkson che, da una piccola stamperia vicino a Londra, mossero la loro battaglia contro la tratta degli schiavi, che solo vent’anni dopo porterà all’abolizione del commercio degli schiavi da parte del Parlamento inglese. «Risale al 1787 la loro minuscola "Società per l’abolizione del commercio di schiavi", una delle primissime associazioni affidate al volontariato. Tante ne sarebbero scaturite negli anni a venire, procedendo parallelamente alla storia delle idee».
Non sarà priva di contraddizioni anche la "svolta" successiva, alla metà del XX secolo, quando la Dichiarazione Universale estese i diritti umani a tutti, senza distinzioni e discriminazioni, rimarcando la volontà sovranazionale rispetto al potere delle singole nazioni. «Fu un fatto rivoluzionario. Ma i tre decenni successivi saranno giudicati da molti analisti un periodo di insuccesso continuo. Anche quello dei diritti divenne terreno di scontro: i diritti civili e politici dell’Occidente versus i diritti economici e sociali dell’Unione Sovietica. Bisognerà aspettare la fine della guerra fredda per poter vedere realizzati alcuni principi».
Ancora oggi, dopo rinnovate battaglie e un’accresciuta sensibilità, le incoerenze appaiono insanabili. Sorti per limitare il potere, i diritti umani lo hanno spesso legittimato attribuendogli nuove responsabilità. «I diritti non possono che essere garantiti dal potere», dice Flores, «però sappiamo quante difficoltà nascondano le stesse democrazie. L’emergenza del terrorismo internazionale ha indotto Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti a legislazioni che limitano i diritti in nome della battaglia contro i terroristi. Però tra i primi annunci di Obama figurano la chiusura del carcere di Guantanamo e il ritiro dei soldati dall’Iraq: segno che nello stesso Occidente vivono anime diverse».
Quella dell’Occidente e i diritti umani è una relazione complessa, densa di ombre dissimulate, spesso usata strumentalmente per spegnere ogni tentativo di dialogo multiculturale. «Si ritiene a torto che solo l’Occidente, per storia e tradizione, abbia un legame solido e coerente con la cultura dei diritti umani. Uno sguardo pur succinto alla storia occidentale aiuta a sgombrare il campo da questo equivoco. Le società europee del passato non hanno avuto, per la maggior parte della propria storia, alcuna tradizione fondata sui diritti umani. Discorso analogo vale per la democrazia, che diventa saldamente maggioritaria in Europa solamente nel corso del XX secolo, talvolta soccombendo a ideologie totalitarie e regimi dittatoriali fondati su disvalori anch’essi tipicamente occidentali».
Un conto è dunque rintracciare nel pensiero e nella storia occidentale i contributi più significativi per una cultura dei diritti umani, «diverso è invece ritenere che questa sia connaturata alla civiltà occidentale e ne abbia segnato in modo coerente l’evoluzione».
Palese intento strumentale è riscontrabile in chi oggi rifiuta la cultura dei diritti umani in nome del «relativismo culturale», posizione manifestata anche di recente in difesa dei «valori asiatici». «I decenni che ci separano dal 10 dicembre del 1948 hanno visto la crescente partecipazione sul tema dei diritti di personalità, organismi, gruppi, associazioni tutt’altro che riconducibili esclusivamente alla cultura dell’Occidente. A meno di non considerare "plagiato" o "egemonizzato" chiunque si dichiari in Africa, Asia o Medio Oriente a favore dei diritti umani, gran parte dei contributi innovativi su questo terreno provengono proprio da ambiti culturali non occidentali e da esperienze di sincretismo culturale che sono un risultato storico della globalizzazione».
Il terreno della tutela dei diritti umani rischia di essere abbandonato anche da quelle democrazie che, come la nostra, lo ritengono poco fruttuoso in termini elettorali e di consenso popolare. La colossale crescita dell’immigrazione è un delicato banco di prova. «Come può il sindaco di una grande città italiana come Milano negare il diritto all’istruzione primaria dei figli degli immigrati irregolari? L’educazione e la salute sono diritti sacrosanti. Se non si vuole rispettarli, si va contro la Dichiarazione Universale».
Una consapevolezza che però frequentemente manca nel dibattito pubblico, in Italia e altrove. «Le condizioni dei carcerati e la vita dei senzatetto spesso non rispettano la dignità dell’uomo, però facciamo finta di niente. Le voci più incisive provengono per la massima parte dal mondo cattolico, il più vigile verso la cultura dei diritti. Anche da noi prevale la paura di fare i conti con le nostre incoerenze. Esserne consapevoli, al contrario, è l’unico modo per non arretrare nella difesa di principi fondamentali».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Tutti gli esseri umani nascono liberi?
di Danilo Zolo (il manifesto, 09.12.2008)
La Dichiarazione universale dei diritti umani viene celebrata in questi giorni come un documento internazionale di eccezionale rilievo. Si è trattato d’un importante tentativo di fondare e rendere universali i diritti umani. Il 10 dicembre del 1948 l’Assemblea Generale dell’Onu ha proclamato solennemente che i diritti sono prerogativa assoluta di tutti gli individui, a qualsiasi nazione, cultura o civiltà appartengano. Il primo articolo della Dichiarazione si spinge sino a dichiarare che tutti gli esseri umani «nascono liberi», che sin dalla nascita sono «eguali in dignità e diritti» e che «devono agire verso gli altri in spirito di fratellanza». Si tratta di una assunzione filosofica ispirata all’idealismo etico che si è affermato nel secondo dopoguerra in Europa.
La filosofia universalistica del «diritto naturale», tipica del protestantesimo e del cattolicesimo, è prevalsa enfaticamente su ogni altra dottrina. Il risultato è stato che la Dichiarazione universale non è per nulla universale. Essa impone come doverosa una particolare visione del mondo, impregnata dell’individualismo, del liberalismo e del formalismo giuridico occidentali.
Non è un caso che su questo aspetto si siano scatenate negli anni violente polemiche internazionali. In particolare nella seconda Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani, del 1993, si sono fronteggiate due concezioni del tutto incompatibili fra loro. Da una parte c’erano le tesi della Dichiarazione universale, con la sua rivendicazione dei diritti individuali, della libertà e della privacy. Dall’altra c’era la posizione di gran parte dei paesi dell’America latina e dei paesi asiatici, con Cuba e la Cina in prima fila. Questi paesi ponevano al centro i «diritti collettivi», ignorati dalla Dichiarazione universale, e in particolare la lotta dei popoli contro la povertà e contro il dominio economico, finanziario e militare dei paesi industriali.
In realtà la Dichiarazione del 1948 ha esercitato e tutt’ora esercita un’influenza minima sulle relazioni internazionali. Essa è stata emanata da un organismo come l’Assemblea Generale che è privo di un effettivo potere normativo. Non a caso il testo della Dichiarazione è strutturato come una proclamazione etico-filosofica priva di sanzioni e di strumenti esecutivi in grado di realizzarla. Per provarne la drammatica inefficacia è sufficiente consultare i rapporti di Amnesty International: oltre due miliardi di persone oggi soffrono per la violazione sistematica dei loro diritti. Il fenomeno è di proporzioni crescenti e interessa un numero elevatissimo di Stati: oltre 150 su circa 200, inclusi tutti gli Stati occidentali. Le violazioni includono una lunga serie di atrocità e di violenze: fra le altre il genocidio, la tortura, la pena di morte, le esecuzioni sommarie, le sparizioni, gli omicidi politici, le violenze sulle donne, la schiavitù, le violenze sui bambini, le esecuzioni capitali di minorenni e di disabili, il trattamento disumano e degradante dei detenuti.
Ma le tragedie del mondo sono soprattutto le guerre di aggressione, la fame e la povertà assoluta, di cui si sono responsabili soprattutto i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti e dalla Nato. Basti pensare a Guantánamo, ad Abu Ghraib, a Bagram, alle stragi in Iraq e in Afghanistan. E basti pensare, come ha recentemente ricordato Luciano Gallino, che in India, dal 1996 al 2007, si sono suicidati 250 mila contadini, perché oppressi dalla fame e dai debiti. La ragione della loro condizione miserabile è dovuta alle monoculture imposte dalle corporations europee e statunitensi. Ma non nascono uguali tutti gli uomini?