Appena conclusa la mappatura del genoma. Ecco le sorprese dell’animale più strano
L’ornitorinco sconfigge Darwin
«Il suo patrimonio genetico mette in crisi l’evoluzionismo»
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 11.05.08).
L’ornitorinco è la dimostrazione che perfino il Padreterno ha un sense of humour. Tra tutte le strane creature che si incontrano in natura, questo mammifero australiano semiacquatico, palmato, potentemente velenoso, con il becco, che depone uova, ma poi allatta i piccoli, e che ha una temperatura corporea piuttosto bassa, è forse la più strana di tutte.
È sintomatico che, quando il capitano John Hunter inviò alla Royal Society di Londra, nel 1798, una pelliccia di ornitorinco e un disegno accurato dell’intera bestia, gli scienziati pensarono si trattasse di uno scherzo. Non a caso, sia il filosofo americano Jerry Fodor che Umberto Eco, in un suo magistrale saggio (Kant e l’Ornitorinco), sostengono che, in un mondo in cui esiste tale creatura, forse tutto è possibile. Adesso, interi laboratori di biologi australiani, tedeschi ed americani ne hanno sequenziato il genoma ed è di questi giorni la pubblicazione congiunta su Nature e su Genome Research di una serie di scoperte microscopiche non meno sbalorditive di quelle macroscopiche, quelle date dalla semplice, superficiale vista dell’animale intero.
I mammiferi normali, come è noto, hanno una coppia di cromosomi sessuali, XX nelle femmine, XY nei maschi. Ebbene l’ornitorinco ha ben 10 cromosomi sessuali, cinque paia di X nelle femmine, cinque X e cinque Y nei maschi. E ha in tutto la bellezza di 52 cromosomi, contro i nostri 46. Anche al livello genetico fine, si identifica un misto di discendenze, da altri mammiferi, certo, ma anche dai rettili e dagli uccelli. I cromosomi sessuali, per esempio, sono derivati evolutivamente dagli uccelli, mentre il feroce veleno dell’ornitorinco, iniettato da due speroni posti dietro ai gomiti posteriori, contro il quale non esistono per ora antidoti, replica l’evoluzione del veleno dei serpenti. Derivati entrambi originariamente da sostanze anti-batteriche, questi veleni offrono un caso esemplare di evoluzione convergente, cioè di come rami divergenti dell’albero evolutivo abbiano trovato, per così dire, una stessa soluzione dopo essersi separati.
Scendendo veramente all’interno dei geni, fino a pescare delle importanti molecole di regolazione fine dell’attività dei geni (chiamate micro-Rna), Gregory Hannon dei laboratori di Cold Spring Harbor (Stato di New York) e Jurgen Schmidtz dell’Università di Münster (Germania) hanno scoperto strette somiglianze con i mammiferi, ma anche con i rettili e con gli uccelli. Inoltre, mentre nei mammiferi una particolare varietà di queste molecole regolatrici resta prigioniera nel nucleo delle cellule, nell’ornitorinco migra e si moltiplica fino a quarantamila volte.
Questi scienziati non esitano a parlare di «una biologia diversa» da quella fino ad adesso nota. Sembrerà strano che i pediatri di Stanford si siano interessati da presso all’ornitorinco, ma bisogna pensare che circa un terzo dei bimbi maschi che nascono prematuramente hanno il difetto che i loro testicoli non scendono normalmente nello scroto. Ebbene, l’ornitorinco ha permesso di individuare due geni responsabili di questa discesa, tipica dei mammiferi, ma assente negli uccelli e nei rettili e, potevate scommetterci, nell’ornitorinco. L’esperto delle malattie del sistema riproduttivo, Sheau Yu Teddy Hsu, di Stanford, autore di uno degli studi appena pubblicati su Genome Research, ha dichiarato che l’ornitorinco è un eccellente «ponte» tra i mammiferi, gli uccelli e i rettili. Le peripezie dei testicoli e i geni che le pilotano non hanno adesso più segreti, perché i geni «rilassinici» responsabili sono stati sequenziati in varie specie.
Una considerazione su questo punto ci interessa tutti, però, perché depone contro l’idea darwiniana classica che l’evoluzione biologica proceda sempre e solo per piccoli cambiamenti cumulativi. Hsu ha, infatti, scoperto, che il gene ancestrale della famiglia dei «rilassinici» si è scisso in due famiglie distinte, una famiglia presiede alla discesa dei testicoli nei maschi, mentre l’altra famiglia presiede alla formazione della placenta, delle mammelle, delle ghiandole lattee e dei capezzoli nelle femmine. Questi tessuti molli, ovviamente, non lasciano testimonianze fossili, ma la ricostruzione dei geni ha rivelato che c’è stato, milioni di anni fa, uno sdoppiamento: una famiglia di geni, d’un tratto, ha prodotto due famiglie di geni che potevano pilotare due tipi di eventi. In sostanza, potevano permettere la comparsa dei mammiferi dotati di placenta.
L’ornitorinco, mammifero privo di placenta e di mammelle, ma con la femmina dotata di latte che viene secreto attraverso la pelle, era l’anello mancante, il ponte evolutivo che adesso connette tutti questi remoti e subitanei eventi evolutivi. Hsu dichiara testualmente: «È difficile immaginare che processi fisiologici tanto complessi e tra loro intimamente compenetrati (discesa dei testicoli nei maschi, placenta, mammelle, capezzoli e ghiandole lattee nelle femmine) possano avere avuto un’evoluzione per piccoli passi, attraverso molti cambiamenti scoordinati». Come dire, ma questo Hsu non lo dice in queste parole: ornitorinco uno, Darwin zero.
Ma allarghiamo l’orizzonte oltre l’Australia e l’ornitorinco. Da molti anni ormai i genetisti e gli studiosi dell’evoluzione dei sistemi genetici hanno scoperto svariati casi di moltiplicazione dei geni, cioè si constata che, mentre in un remoto antenato esiste una copia di un gene, o di una famiglia di geni, nelle specie più recenti se ne hanno due copie, poi quattro. Una regoletta generale facile facile, che ha le sue eccezioni, dice uno, due, quattro.
Queste moltiplicazioni genetiche sono, sulla lunghissima scala dell’evoluzione, eventi subitanei. Pilotati dai meccanismi microscopici che presiedono alla replicazione dei geni, avvengono per conto loro, prima che i loro effetti sbattano la faccia contro la selezione naturale, e non procedono per piccoli passi. Non si hanno due copie e mezzo, o tre copie e un decimo. Il gradualismo, cioè i piccoli passi fatti a casaccio, uno dopo l’altro, della teoria darwiniana classica vanno a farsi benedire. Il macchinario genetico fa i suoi salti, e poi altri fattori di sviluppo decidono quali di questi salti producono una specie capace di sopravvivere e moltiplicarsi.
Tra queste e solo tra queste, la selezione naturale porterà ulteriori cambiamenti. Ma sono dettagli, non il motore della produzione di specie nuove. L’ornitorinco fa parte di una piccolissima famiglia, quella dei monotremi (un solo canale per escrementi e deposizione delle uova).
Il compianto Stephen Jay Gould fece notare, giustamente, che differenti ordini di animali hanno un potenziale interno molto diverso di produrre specie nuove. Ottocentomila specie di scarafaggi, qualche decina di specie di fringuelli, poche specie di ippopotami, elefanti, monotremi e, sì, ammettiamolo, di scimmie antropomorfe come noi.
Sono tutti «ottimi» animali, cioè sono tutte ottime riuscite dei processi biologici, ma per alcune soluzioni la porta è aperta a tante varianti, a tante specie, per altri, invece, no. Il segreto, ancora largamente misterioso, risiede senz’altro in proprietà interne, nell’organizzazione dei sistemi genetici, non nella selezione naturale. La selezione naturale della teoria darwiniana classica può agire solo su quello che le complesse interazioni della fisica, la chimica, l’organizzazione interna dei sistemi genetici e le leggi dello sviluppo corporeo possono offrire. Perfino in un mondo in cui esiste l’ornitorinco non proprio tutto è possibile.
Sul tema, in rete, si cfr.:
ORNITORINCO (Wikipedia).
EVOLUZIONE. UN FUTURO COMPLICATO
Un dibattito fra scienza e storia
La natura promuove lo sviluppo degli esseri umani ma non lo guida
Moltissimi fattori intervengono nel processo.
Fattori sociali e politici, scelte economiche e ambientali, strategie -internazionali
Si procede con una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita
La cultura ha sopravanzato in molti modi e da tempo la nostra biologia
Emergono nuove contraddizioni
L’agricoltura produce sia cibo che inquinamento
di Luca e Francesco Cavalli Sforza( la Repubblica, 16.07.2008)
Qual è il futuro dell’evoluzione umana? Dove stiamo andando? Alcuni lettori ce lo hanno chiesto, dopo che in una serie di articoli pubblicati su queste pagine l’anno passato abbiamo parlato dei fattori che hanno determinato il nostro presente. Poche domande sono più difficili, ma vale la pena di capire perché è così impegnativo rispondere.
La natura promuove l’evoluzione degli esseri viventi, ma non la guida. Una guida precede e mostra la strada, mentre la natura non mostra nessuna strada: semplicemente, pone le condizioni che rendono inevitabile quell’aumento di varietà e quel cambiamento progressivo che chiamiamo evoluzione.
L’evoluzione procede attraverso una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita. Evolvere è un fatto squisitamente biologico: le piante che crescono in ambiente arido sono costrette a sviluppare una strategia che consenta loro di trattenere l’acqua disponibile, o comunque di utilizzare al meglio la poca acqua che c’è, quando arriva. Le piante che vivono in climi piovosi hanno altre opzioni, ed evolvono di conseguenza.
Anche la nostra evoluzione è soggetta ai requisiti della nostra biologia. Le nostre cellule si procurano energia bruciando ossigeno, non zolfo o ferro, per cui non possiamo vivere in assenza di ossigeno. Siamo in grado di abitare climi più o meno caldi o freddi, ma se la temperatura si avvicina a zero assideriamo, se sale oltre i 40ºC rischiamo un colpo di calore. La nostra specie però ha sviluppato più di qualunque altra strumenti culturali che estendono i confini della sua biologia e modificano a suo vantaggio l’ambiente circostante. Come una bombola di ossigeno ci permette di spingerci al di là dell’atmosfera o nelle profondità marine, così vestiti e abitazioni adatte permettono di risiedere nei climi più freddi e una tuta in tessuto antincendio può sfidare la fiamma viva.
La cultura ha sopravanzato in molti modi la nostra biologia. Non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi due secoli ha raggiunto le straordinarie dimensioni odierne. Basti un’osservazione a rendersene conto: la vita media oggi sfiora o supera gli 80 anni nei Paesi più avanzati, dopo essere stata fra i 20 e 30 anni - simile a quella degli scimpanzé - per la quasi totalità della storia dell’uomo. Questa triplicazione della durata media della vita (che vale solo per i Paesi più sviluppati: in Swaziland è intorno a 33,5 anni nel 2008) dimostra con eloquenza il potere della cultura. Ma questo non significa che ora sia la cultura a guidare l’evoluzione umana. Di nuovo, possiamo dire che la sospinge, non certo che la dirige, perché l’umanità non è mai stata consapevole delle conseguenze a cui avrebbero portato le sue scelte, le sue azioni e le sue tecnologie.
Prendiamo ad esempio la più importante delle invenzioni umane: quella che ci ha permesso di produrre, con l’agricoltura e l’allevamento, il nostro cibo. Grazie ad essa, l’umanità ha potuto aumentare di numero ben mille volte in diecimila anni: da qualche milione a qualche miliardo di individui. Al tempo stesso, agricoltura e allevamento hanno dato il via a quei processi di inquinamento, desertificazione, degrado ambientale, di cui oggi abbiamo cominciato a pagare il prezzo su scala planetaria. Ogni invenzione è a doppio taglio, ha un beneficio ma anche un costo: può produrre grandi vantaggi come conseguenze indesiderate. La scoperta dell’energia atomica ha fatto fare progressi senza precedenti tanto alle nostre conoscenze quanto alle nostre tecnologie, ma i benefici che ha portato sono stati finora limitati, per quanto riguarda la produzione di energia, mentre il pericolo rappresentato dalle migliaia di testate nucleari disponibili negli arsenali grava come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità.
Dove ci porta questo grande sviluppo culturale? La nostra capacità di fare uso di conoscenze e di tecnologie avanzate in vista di un bene comune è tutt’altro che sviluppata. Negli ultimi anni, per esempio, la quantità di cibo prodotta sul pianeta è stata spesso superiore alle necessità della popolazione umana, su scala globale. Ma cosa significa questo, nel momento in cui un individuo su tre è malnutrito e quasi un miliardo di persone è destinato a morire di fame? L’eccedenza alimentare non raggiunge i miliardi che hanno bisogno di cibo, né mai li raggiungerà, per ragioni squisitamente strutturali, inerenti ai meccanismi di produzione e distribuzione caratteristici delle nostre società. Non sono i Paesi più ricchi a raggiungere i più poveri portando i benefici derivanti dallo sviluppo, sono piuttosto gli affamati a cercare di raggiungere i Paesi più ricchi.
Qualunque essere vivente si riproduce senza limiti se trova nutrimento bastante. Un singolo batterio, dividendosi in due ogni venti minuti, produrrebbe in poco più di un giorno una massa di batteri grande quanto l’intero pianeta, se trovasse cibo sufficiente per farlo. Ogni pianta, ogni animale, tende a riprodursi e ad aumentare di numero quanto più possibile: è l’ambiente a porre dei limiti, ed è la disponibilità di cibo a frenare la crescita di qualsiasi popolazione. Una popolazione di insetti che si nutre di chicchi di grano conosce uno sviluppo immenso quando un campo di grano matura. Quando tutto il grano sarà stato mangiato, o mietuto, il numero degli insetti crollerà.
Lo stesso discorso vale per la nostra specie. Abbiamo avuto molto successo e abbiamo continuato a crescere dal momento in cui siamo comparsi sul pianeta, sfruttando la nostra capacità di creare strumenti per trarre dall’ambiente il massimo vantaggio. Ogni volta che una popolazione umana è aumentata al di là delle risorse disponibili sono scattati meccanismi di regolazione: carestie, epidemie, guerre, che hanno ridotto il numero di individui fino a renderlo nuovamente compatibile con le risorse.
Questo è successo innumerevoli volte nel corso della storia. Poi, ogni volta, la crescita è ripresa, assistita dalla potenza della riproduzione e dall’innovazione tecnologica. Se la nostra cultura guidasse la nostra evoluzione, potremmo aspettarci che ci avrebbe suggerito di limitare la crescita numerica, sconsigliandoci di spingere la pressione umana sull’ambiente fino a vedere profilarsi all’orizzonte l’esaurimento delle risorse fossili, minerarie e financo ecologiche su cui sono state costruite le nostre società. Ma non è andata così. Al contrario, ideologie politiche e religiose hanno continuato (e continuano) a propugnare la proliferazione degli esseri umani, per conquistare potenza e acquistare fedeli tramite l’aumento dei numeri. In modo analogo, l’ideologia economica dominante spinge per una crescita illimitata di produzione e consumi, quasi questi potessero moltiplicarsi all’infinito.
Dotati di conoscenze e mezzi tecnologici che ci hanno dato di fatto il controllo del pianeta, continuiamo a procedere come gli animali e i Primati che siamo (e che per tanto tempo abbiamo voluto considerare inferiori a noi): ci appropriamo di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, come se ogni risorsa fosse disponibile in quantità illimitate, senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire.
Diamo grande importanza al pensiero umano, alle nostre convinzioni, moralità e filosofie. Ma a cosa sono servite, se non riescono ad evitare le guerre? Se i nostri sistemi economici mantengono in povertà e in miseria metà dell’umanità? Se dobbiamo prendere sul serio l’alta considerazione in cui abbiamo sempre tenuto la nostra specie, dobbiamo concludere che viviamo sempre nella preistoria: la storia umana non è ancora cominciata.
Quando usciremo dalle caverne? Quando cominceremo a combattere contro le guerre con la stessa forza con cui combattiamo le malattie e con cui ci dedichiamo alla produzione del cibo? Quando ci renderemo conto che la nostra stessa vita è possibile solo in equilibrio con le altre forme di vita e con l’ambiente non vivente? Quando arriveremo a rispettare le convinzioni e gli stili di vita altrui? E la vita non umana?
C’è almeno un segnale positivo, per quanto riguarda la nostra crescita numerica: è la cosiddetta «transizione demografica», che si è verificata in Europa, a partire dall’Inghilterra e dalla Scandinavia, fra la metà dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Dopo un periodo iniziale durato circa una generazione in cui le popolazioni sono cresciute di numero perché è diminuita la mortalità, ma le nascite sono continuate indisturbate, si è cominciato a fare meno figli. Grazie alla migliore sopravvivenza dei nuovi nati e a vite più lunghe, la popolazione europea ha continuato a crescere per vari decenni, poi la crescita ha cominciato a diminuire, grazie alla minore natalità, fino a raggiungere un indice vicino a zero. Oggi l’aumento numerico, in Europa, è determinato solo dall’arrivo di immigrati provenienti da altri Paesi.
Dopo l’ultima guerra mondiale questo stesso fenomeno ha iniziato a estendersi al resto del mondo. La caduta della mortalità infantile e la maggior durata della vita hanno determinato un’esplosione demografica globale, che ha portato la popolazione umana da circa 3 a oltre 6,4 miliardi di individui (nel 2006). Di questo passo, si prevede che la popolazione mondiale smetterà di crescere fra il 2040 e il 2050. Quanti saremo diventati a quel punto? Il Nord non aumenterà forse più, ma il Sud aumenta ancora. Sono state fatte molte previsioni ma sono difficili, anche perché le crisi ecologiche ed economiche, la fame, le epidemie e le guerre potrebbero diminuire il numero degli esseri umani.
Dipenderà, evidentemente, dalle risposte collettive che sapremo dare ai problemi che abbiamo davanti. Il futuro della nostra evoluzione dipende in larga misura dalla consapevolezza collettiva. Il controllo della natalità è un bell’esempio della sfida che l’umanità si trova ad affrontare: dare un indirizzo alla propria evoluzione, così che ogni persona che nasce abbia la possibilità di una vita che valga la pena di essere vissuta e che la specie umana divenga una risorsa per il pianeta, non la sua rovina.
La vita genera incessantemente se stessa e ha dato forma a tutto l’ambiente naturale. Non sa dove va, ma percorre ogni strada che riesce a praticare. Anche la cultura umana esplora ogni possibilità, e il mondo in cui viviamo è il risultato delle nostre passate azioni e dell’uso che abbiamo fatto delle nostre tecnologie. La nostra salvezza, qualunque cosa sia, non sta in un altro mondo, ma in ciò che sapremo fare di questo. E’ incoraggiante che sia così, ed è la speranza migliore. Per quanto sia importante il numero degli esseri umani, il lettore potrà però chiedersi: come saranno fatte le donne e gli uomini di domani? Questo, naturalmente, è tutto un altro discorso.
Caro/a CHRY
Il lavoro scientifico non si fonda sul "tutto è relativo" e nemmeno "tutto è assoluto". Non perdere la bussola e leggi bene l’articolo.... Perfino in un mondo in cui esiste l’ornitorinco non proprio tutto è possibile!!!
Grazie per l’intervento.
Buona giornata.
Per la redazione
Federico La Sala
Basta leggere bene l’articolo per capire sia la lezione di R. Dawkins sia dell’ornitorinco sia di Massimo Piattelli Palmarini. O no?!
M. saluti,
Federico La Sala
Dibattito
Il presidente della Società italiana di biologia evoluzionistica replica a Piattelli Palmarini Ma l’ornitorinco non contraddice le teorie di Darwin
di Giorgio Bertorelle (Corriere della Sera, 21.05.2008)
Ci mancava l’ornitorinco! Al variegato mondo degli anti-Darwin all’italiana si è aggiunta nei giorni scorsi questa fantastica e velenosa specie australiana, reclutata dalle pagine del Corriere dell’11 maggio scorso da Massimo Piattelli Palmarini: «Ornitorinco uno, Darwin zero», scrive in un articolo facendo credere che i recenti dati pubblicati dalla rivista Nature sul genoma dell’ornitorinco contraddicano la teoria dell’evoluzione per selezione naturale.
Piattelli Palmarini sembra non conoscere gli studi che hanno integrato negli ultimi decenni la teoria darwiniana, ancora valida nelle sue fondamenta. L’articolo che descrive parla di duplicazioni geniche, di convergenza evolutiva, di evoluzione di cromosomi sessuali e di molti altri processi noti da tempo a tutti e interamente compatibili con la moderna teoria dell’evoluzione. Processi che sono avvenuti a partire dai nostri antenati simili ai rettili e dopo l’antica separazione, più di 150 milioni di anni fa, dei mammiferi monotremi (ornitorinco ed echidna) da tutti gli altri mammiferi.
Curiosamente, a nessuno degli oltre 100 autori di questo studio è venuto in mente che, come dice Piattelli Palmarini, «il patrimonio genetico dell’ornitorinco mette in crisi l’evoluzionismo». Di più, lo stesso Piattelli Palmarini cita a supporto delle sue idee un secondo articolo uscito in questi giorni sempre sull’ornitorinco, senza far riferimento al fatto che gli autori dello studio sostengono invece, testualmente: «L’evoluzione a passi successivi di queste vie indipendenti di segnale attraverso la duplicazione genica e la seguente divergenza è consistente con la teoria darwiniana di selezione e adattamento ». È possibile che questa frase, ben in evidenza nell’articolo originale, sia sfuggita a Piattelli Palmarini?
La teoria dell’evoluzione, come insegna il metodo scientifico, è quotidianamente esposta al vaglio e alla verifica dei fatti e dei dati sperimentali. Ed è un peccato che a volte non prove e fatti, ma parole in libertà, si trasformino in pericolosa disinformazione sotto un titolo perentorio che recitava «L’ornitorinco sconfigge Darwin». Gli sconfitti, in questo caso, sono la cultura scientifica e la sua diffusione.
L’eccezionalità genetica dell’ornitorinco.
Massimo Piattelli Palmarini replica a Giorgio Bertorelle
La teoria dell’evoluzione e il (defunto) darwinismo
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 23.05.2008)
Il Presidente della Società italiana di biologia evoluzionistica, Giorgio Bertorelle, («Corriere» del 21 maggio) usa nei miei riguardi un veleno non molto meno acre di quello degli speroni dell’ornitorinco, la specie australiana di mammiferi monotremi oggetto del nostro contendere. Uno solo dei suoi molti veleni merita un antidoto, per cortesia verso i lettori.
Definisce la mia posizione un anti-darwinismo «all’italiana », evidentemente ignaro del mio ventennale, e ancora perdurante, soggiorno accademico negli Stati Uniti e delle svariate critiche al darwinismo ortodosso espresse, tra altri, da eminenti evoluzionisti americani, inglesi e tedeschi come Richard Lewontin, Gregory C. Gibson, Andreas Wagner, Gabriel Dover, Eric Davidson, Stuart Newman, Michael Sherman, Gerd Mueller, Marc Kirschner e la lista potrebbe continuare. Sono tutti biologi con credenziali scientifiche inattaccabili, tutti perfettamente materialisti, tutti indefettibilmente tesi allo sviluppo di una teoria dell’evoluzione biologica naturalistica.
«All’italiana», detto da Bertorelle, penso significhi qualcosa come provinciale, di seconda mano, più di un tantino becero. Di questo dovrebbe scusarsi non con me, che poco mi importa, ma con la scienza italiana, se non addirittura con tutti gli italiani. Sostiene che i processi biologici da me citati nell’articolo (duplicazioni geniche, mutazioni di geni maestri con effetti subitanei su molti tratti distinti, moltiplicazioni di cromosomi sessuali) sono «noti da tempo a tutti e interamente compatibili con la moderna teoria dell’evoluzione ». Auspico siano noti a lui da tempo e certo lo sono a molti biologi, ma il grande pubblico non ne sa niente, mi creda, e non solo in Italia. Certo che sono «interamente compatibili con la moderna teoria dell’evoluzione » perché sono essi stessi la moderna teoria dell’evoluzione, come da me esplicitamente sostenuto in quell’articolo.
L’errore di Bertorelle, grave, è confondere e generare confusione nei lettori tra la moderna teoria dell’evoluzione, sacrosanta, e il darwinismo, ormai largamente defunto. Sarebbe come far credere che qualsiasi analisi delle cause economiche profonde dei fenomeni sociali sia ipso facto un’analisi marxista. L’economista e storico francese Florin Aftalion, per esempio, è un anti marxista, che ha recentemente pubblicato un esauriente studio delle cause economiche della rivoluzione francese.
La teoria darwiniana dell’evoluzione è perfettamente naturalistica, ma non ogni teoria perfettamente naturalistica dell’evoluzione è darwiniana. Lascio la parola a Darwin stesso: «Se si potesse dimostrare l’esistenza di un qualsiasi organo complesso e l’impossibilità che esso sia stato formato da piccoli, numerosi, successivi cambiamenti, allora la mia teoria collasserebbe assolutamente». I Bertorelle di questa terra non prendono sul serio il loro eroe. Lui non anticipava, come invece fanno loro, che le molte meraviglie della biologia degli ultimi venti anni potevano venire «integrate » nella sua teoria, che la sua teoria sarebbe stata confermata nell’essenziale da quanto oggi sappiamo.
Sono molti anni che le scoperte della genetica e della biologia dello sviluppo hanno fatto «collassare assolutamente » la teoria darwiniana, proprio nei termini precisati dallo stesso Darwin. Sarebbe l’ora di prenderne atto, aprire la mente a teorie naturalistiche più interessanti smettendo di agitare il vieto vessillo darwiniano per proteggersi da immaginari assalti alla razionalità scientifica.