STUDI CULTURALI
Gli schiavi dei Lumi alla presa della Bastiglia
Riproposto il volume di C.L.R. James «I giacobini neri», un classico della storiografia sociale. Pagine rigorose e avvincenti per ricostruire la rivoluzione antischiavista che portò alla cacciata dei francesi e alla fondazione della Repubblica di Haiti. Un grande sommovimento sociale che dai Caraibi si diffuse negli Usa, cambiando la storia mondiale. Per poi essere rimnosso dalla storia dei vincitori
di Alessandro Portelli *
Ci sono libri che spostano radicalmente l’idea occidentale della storia, l’immagine che l’Occidente ha di sé, che mettono il margine e la periferia al centro, in maniera talmente radicale che la nostra cultura fa praticamente finta che non esistano. Due di questi libri uscirono sul finire degli anni ’30: Black Reconstruction in America di W. E. B. DuBois, e The Black Jacobins. Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution di C.L.R. James.
I loro autori sono due giganti del ventesimo secolo, ma per la maggior parte dei nostri storici e politologi potrebbero anche non esistere. E forse non esistono veramente: dopo tutto, non erano neanche bianchi, e per di più - ciascuno a modo suo e in tempi diversi - sono stati tutti e due comunisti e partecipi con un altro comunista, George Padmore (già:«chi era costui?»), delle origini del movimento panafricano e anticolonialista.
In Black Reconstruction, tuttora mai tradotto in italiano (ne tratta una piccola e preziosa monografia di Lauso Zagato, che risale al 1975), W. E. B. DuBois spazzava via la versione etnocentrica della guerra civile americana: lungi dall’essere passivamente liberati dalla benevolenza di Lincoln e del Nord, gli afroamericani hanno avuto un ruolo decisivo nella propria liberazione e nell’esito della guerra.
È stato quello che DuBois chiamava lo «sciopero generale» degli schiavi, la loro fuga in massa verso le file dei soldati nordisti, a far crollare l’apparato produttivo del Sud ribelle e decidere una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Gli schiavi, gli afroamericani, insomma, non sono stati oggetto di una storia monopolizzata dai bianchi e dalle classi dominanti, ma protagonisti della propria liberazione e, con essa, della storia intera.
Il vento della libertà
Tre anni dopo, C. L. R. James fa un passo avanti: è la storia intera del nostro mondo che ruota attorno alle vicende di un’isola caraibica, Santo Domingo, e al protagonismo degli schiavi che conquistarono la libertà e fondarono la prima repubblica africana, Haiti. I giacobini neri era già uscito molti anni fa, e ritorna oggi nella traduzione di Raffaele Petrilli rivista e adattata da Filippo Del Lucchese, con introduzione di Sandro Chignola e una postfazione dello scrittore americano Madison Smartt Bell (Derive Approdi, pp. 363, euro 25).
Sul finire del ’700, spiega James, Santo Domingo era la «più bella colonia del mondo» e, per questo, un inferno di orrore schiavista. Grande quasi quanto l’Irlanda, divisa fra la Francia e la Spagna, Santo Domingo stava all’economia settecentesca dello zucchero e del cotone un po’ come il Bahrein e il Kuwait stanno a quella novecentesca del petrolio: una fonte apparentemente inesauribile di ricchezza, estratta con brutalità assoluta tanto nei confronti della terra quanto nei confronti di quella merce umana importata dall’Africa talmente a buon mercato che era più conveniente ammazzare uno schiavo irrispettoso e comprarne un altro che adattarsi a tollerarlo.
Ma anche su questa isola spira sul volgere del secolo il vento della libertà e della rivoluzione. Gli Stati Uniti hanno appena conquistato l’indipendenza; e la madrepatria francese è nel pieno della sua grande rivoluzione.
James segue con minuzia rabbiosa gli andirivieni, le contraddizioni, le discussioni di una Francia rivoluzionaria dove la borghesia rivendica la libertà, le masse proletarie parigine spingono per l’uguaglianza, e la questione della schiavitù è la cartina di tornasole su cui si misura la verità della rivoluzione. Dopo tutto, le navi cariche di schiavi all’andata e di zucchero al ritorno sono di proprietà dei grandi borghesi rivoluzionari di Nantes; e persino i bianchi e mulatti schiavisti di Santo Domingo si identificano con la repubblica.
Ma i veri «giacobini», suggerisce James, non stanno a Parigi, ma nelle piantagioni e nelle montagne di Haiti. Qui, come più tardi in Virginia e in Georgia, saranno proprio gli schiavi - analfabeti, appena arrivati dall’Africa, trattati da subumani e semiselvaggi - a incarnare, a portare fino in fondo e a rendere possibili quei valori di libertà che i loro padroni rivendicano per sé fingendo di ritenerli universali (subito dopo la dichiarazione d’indipendenza, in cui Thomas Jefferson e i coloni americani proclamavano che «tutti gli uomini sono creati uguali», furono inondati di lettere e petizioni dei loro schiavi e dei neri liberi che dicevano, in sostanza: benissimo, d’accordo, quando si comincia? Naturalmente, ci volle una guerra, e non bastò nemmeno).
C.L.R. James racconta una storia complicata, spesso confusa, di alleanze e rotture, tanto fra bianchi, mulatti e neri a Santo Domingo quanto fra le diverse anime di classe della rivoluzione in Francia (con in mezzo i tentativi dell’Inghilterra, patria della libertà, di inserirsi e mettere le mani sulla più ricca colonia del mondo). È una guerra senza esclusione di colpi, di massacri e tradimenti da tutte le parti, durata dodici anni finché ogni compromesso è spazzato via e ai neri ribelli non resta altra scelta che l’indipendenza e la repubblica.
Un immenso sommovimento
Al centro dell’analisi di James sta una difficile relazione: da un lato, i fattori di classe, trattati con rigore marxiano d’altri tempi, ma tuttora sostanzialmente persuasivi nel disegno generale; dall’altro, una personalità eccezionale, Toussaint L’Ouverture, un altro di quei grandi protagonisti della storia umana di cui la nostra cultura finge di ignorare l’esistenza.
Anche per questo, avrei preferito che invece del sottotitolo che gli è stato dato nell’edizione italiana La prima rivolta contro l’uomo bianco fosse stato mantenuto quello originale: Toussaint L’Ouverture e la rivoluzione di Santo Domingo. Un po’ perché questa rivoluzione ha cercato fino all’ultimo di non avere come antagonista «l’uomo bianco» (ce n’erano diversi fra i consiglieri e gli aiutanti di Toussaint) ma un’istituzione e un rapporto di classe: la schiavitù. Soprattutto, perché il nodo problematico su cui James insiste è proprio quello del rapporto fra il singolo «grande uomo» Toussaint e un immenso sommovimento sociale collettivo, una grande vicenda di masse.
«Non fu Toussaint a fare la rivoluzione - scrive infine James -, ma la rivoluzione a fare Toussaint»; c’è una copla di fandango rivoluzionario andaluso che dice, «qui ci vorrebbe un Fidel come a Cuba, ma dobbiamo sapere che un popolo che sa quello che vuole partorisce un proprio Fidel». Io aggiungerei che la rivoluzione ha fatto Toussaint perché altrimenti non poteva fare se stessa.
Toussaint aveva quarant’anni e si chiamava Toussaint Breda quando, non senza esitazioni, si unisce alla rivolta iniziata dal cimarron voodoo Boukman, prende il nome di L’Ouverture come a dire che adesso si apre un’epoca nuova, e presto ne diventa il capo carismatico indiscusso.
C’è qualcosa di doloroso quando James osserva che senza le straordinarie circostanze storiche in cui si trovarono a vivere, grandi protagonisti come Toussaint, Christophe, Dessalines avrebbero vissuto e sarebbero morti inosservati, trattati fino alla fine solo come fidati, innocui subalterni e servitori.
Nel 1821, ispirata in gran parte dalle vicende di Haiti, si prepara a Charleston, South Carolina, una rivolta di schiavi. Quando Rolla, uno dei capi, è arrestato, il suo padrone disse: non ci posso credere; era il mio schiavo più fidato, gli ho tante volte affidato la mia famiglia. Gli chiede: ma che intenzioni avevi? E Rolla: piantarti la spada nella pancia e tagliarti la testa, a te e a tutti i tuoi. Senza quel tentativo di rivolta, anche Rolla sarebbe stato ricordato solo come un fedele e fidato domestico. Quanto furore si annida nell’anima di tanti oppressi che non incontrano le circostanze adatte?).
Una personalità sociale
La Francia rivoluzionaria abolisce la schiavitù in ritardo, quasi per caso e un po’ pentendosene; Napoleone la restaura ma ormai è troppo tardi, e gli eserciti che manda per domare Santo Domingo vengono distrutti dalle febbri e dai ribelli neri (Toussaint paga con la libertà e la vita l’essersi fidato della Francia rivoluzionaria; e Dessalines completerà il lavoro senza scrupoli e senza pietà). Ed è qui che il mondo gira attorno alla centralità di Haiti.
Ricordiamoci: la Francia era allora padrona della ricca e fertile valle del Mississippi, da New Orleans (Orléans, appunto) al confine canadese (attraverso luoghi chiamati Saint Louis, Louisville, D’etroits, Sault Sainte Marie, Des Moines...) e non si era ancora rassegnata alla recente perdita del Canada.
Il recupero di Santo Domingo è allora la pietra angolare di un disegno imperiale francese dai Caraibi al circolo polare artico, attraverso la valle del Mississippi e il Canada riconquistato nella guerra contro gli inglesi. Sono gli schiavi neri di Haiti a far saltare questa visione: senza la preziosa Santo Domingo, non ne vale più la pena.
Guardate: nel 1802, Haiti è indipendente; nel 1803, Napoleone svende tutta la valle del Mississippi ai neonati Stati Uniti, per quattro centesimi l’acro. Sconfitta dai suoi schiavi, la Francia abbandona il Nord America. Il resto - la frontiera, l’espansione, l’egemonia degli Stati Uniti - è la storia dell’Occidente fino a noi. Ma attorno ad Haiti ruota una storia controfattuale che sarebbe piaciuta a Philip K. Dick: e se Haiti avesse perso, sarebbe il francese oggi la lingua egemone?
Gli schiavi fuggiaschi della Georgia, gli schiavi rivoluzionari di Santo Domingo non hanno scritto episodi marginali, magari entusiasmanti, della nostra storia. L’hanno fatta loro.
Post scriptum. Sulle pagine culturali di Repubblica del 3 novembre, un corrispondente letterario da New York commemora William Styron scrivendo che «Nelle Confessioni di Nat Turner affrontò l’abominio della schiavitù attraverso gli occhi di un personaggio immaginario di un afro-americano che tentò una ribellione nei confronti dei "padroni"».
A parte le inspiegabili virgolette (i padroni erano letteralmente tali: proprietari degli schiavi), forse vale la pena di informarlo che Nat Turner non è «immaginario» per niente: si è ribellato, ha terrorizzato il Sud, è stato sconfitto ed è stato giustiziato nel 1831 lasciando una memorabile narrazione di sé. Ma Nat Turner è altrettanto inconcepibile di Toussaint e Dessalines, e di George Padmore: semplicemente, ci rifiutiamo di accettare la loro esistenza, la loro rivolta, la loro intelligenza.
D’altronde, questo è lo stesso critico che anni fa sulle stesse pagine sbeffeggiava intellettuali neri come Henry Louis Gates, Jr. e Kwame Appiah perché la loro Encyclopaedia Africana dava troppo spazio, pensate, al «giocatore di cricket» C. L. R. James.
* il manifesto, 07.12.2006.
SUL TERREMOTO NELLA REPUBBLICA DI HAITI, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".... *
Storia delle idee.
Colonialismo, la grande rimozione dell’Europa
Il rapporto con le terre e i popoli “altri” rappresenta il lato oscuro della coscienza del Vecchio continente, con il quale né i progressisti né i conservatori seppero mai fare i conti fino in fondo
di Giuseppe Bonvegna, Avvenire, sabato 14 agosto 2021)
Più di due secoli fa, nel 1794, Robespierre, poco prima di salire sulla ghigliottina per volontà della reazione termidoriana, liberò gli schiavi della colonia francese della parte ovest dell’isola caraibica di Hispaniola/Santo Domingo: nel 1802 Napoleone Bonaparte li riportò in schiavitù, ma ormai quella emancipazione aveva provocato la prima decolonizzazione della storia, portando alla nascita della Repubblica di Haiti. Riparlare oggi di colonialismo (dopo la sua fine sotto i colpi delle due decolonizzazioni novecentesche) significa riesumare, dal cuore dell’Età moderna, un problema (il rapporto con l’altro) sul quale l’illuminismo europeo ha giocato la sua partita più importante: e, dato che noi siamo figli anche dell’epoca dei lumi, si tratta di una partita che non è ancora giunta al termine.
Il problema era (ed è) sempre quello che divide il progressismo dei liberatori da un conservatorismo che vuol lasciare le cose intatte. Strano destino della storia, verrebbe però quasi da dire: se l’inventore del terrore totalitario fu il precursore di Abramo Lincoln, mentre il generale corso, padre dei risorgimenti nazionali liberali dell’Ottocento (compreso quello italiano), vestì i panni del piantatore schiavista.
La verità, come emerge dal recente volume di Gustavo Gozzi edito dal Mulino, è che la liberazione andava, già ab origine, a braccetto col totalitarismo robespierriano, di cui Bonaparte fu figlio: perché il colonialismo rappresenta il “lato oscuro” della coscienza europea, con il quale né i progressisti alla Robespierre né i conservatori alla Bonaparte seppero mai fare i conti fino in fondo (Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il rimosso della coscienza europea; pagine 304, euro 23,00).
Infatti, nonostante la Dichiarazione universale francese dei diritti dell’uomo e del cittadino, la liberazione divenne la premessa di un suprematismo “di ritorno” in palese violazione del principio di legalità: rilanciato poi da quanti, nell’Ottocento, presero il testimone della Rivoluzione inventando il liberalismo europeo e l’imperialismo progressista statunitense (prima del partito repubblicano e poi di quello democratico) fortemente basato sul mito dell’efficienza produttiva della fabbrica gestita dall’uomo bianco.
Il melting pot euro-indigeno, che grazie a Isabella di Castiglia e a suo nipote Carlo d’Asburgo, si era realizzato nei territori della Nuova Spagna e della Nuova Castiglia in America centro-meridionale a partire dal XVI secolo sulla base del pensiero cristiano, non si ripeté nell’America settentrionale franco-inglese, né in Africa e in Estremo Oriente.
E questa mancanza pone inevitabilmente un interrogativo non certo a san Tommaso, ma a Montesquieu, Rousseau, Diderot, Adam Smith e Kant, dato che le tre Rivoluzioni politiche dell’Età moderna (inglese, americana e francese) sono figlie dell’Illuminismo: perché la teorizzazione illuministica del diritto cosmopolitico e della non inferiorità di tahitiani, ottentotti e persiani rispetto agli europei non fu sufficiente, nel secolo successivo, a impedire a Karl Marx di giustificare «i più vili interessi » del colonialismo britannico in India e in Cina come tappa necessaria del progresso storico?
La risposta è che, alla base della libertà illuministica, vive un inquietante non detto consistente in quell’illiberalismo di fondo del pensiero politico inglese della seconda metà del XVII secolo: il cui massimo esponente (John Locke) sosteneva che le regioni del Nuovo Mondo fossero terra nullius in quanto le popolazioni indigene che vi risiedevano non coltivavano la terra e non avevano scambi monetari... Questo è il motivo per cui, nei territori a nord della Florida, i pellerossa e gli schiavi neri non ebbero un loro Las Casas.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005)
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Serie tv
“Exterminate all the brutes” mostra i gesti colpevoli dell’occidente
Raoul Peck racconta come la nostra civiltà sia nata dall’esclusione e dalla soppressione dei «non bianchi»
di Gianluigi Rossini *
Nei primi minuti di Exterminate all the brutes (documentario in quattro episodi di Raoul Peck, uscito su HBO il 7 aprile) viene mostrata una scena del musical Un giorno a New York (1949) in cui Frank Sinatra, Gene Kelly e Ann Miller danzano in un museo di storia naturale sulle note di Prehistoric man, imitando movimenti scimmieschi e indossando abiti da cavernicoli e da indiani.
In alternanza appaiono foto in bianco e nero di reali nativi americani che guardano in camera, mentre la voce monocorde ma affilata di Raoul Peck parla del rapporto tra storia e potere. All’improvviso tutto il dibattito su cancel culture e indignazione social sembra un chiacchiericcio da bar, qui si va al cuore sanguinante del problema: la civiltà occidentale si fonda sullo sterminio dei non bianchi. Lo sappiamo tutti, eppure lasciamo questa consapevolezza ai margini della nostra coscienza collettiva e individuale, in un esempio lampante di bispensiero.
Sven Lindqvist
Se in I am not your negro (2016) Raoul Peck si affidava agli scritti di James Baldwin, in Exterminate all the brutes cita Sven Lindqvist e altre/i studiose/i ma parla in prima persona: non solo il commento è affidato alla sua voce, ma si parte dalla sua prospettiva personale, quella di un un haitiano che ha vissuto in Congo, in Europa, negli USA. Il materiale visivo mescola spezzoni di film hollywoodiani, di Peck stesso, animazioni, video amatoriali della famiglia Peck, fotografie e frammenti di docudrama girati appositamente, nei quali Josh Hartnett (Penny Dreadful, Pearl Harbor) interpreta “la punta della spada genocida della storia occidentale”, il volto mostruoso della colonizzazione.
Ucronie
Questi frammenti a volte sono ucronie in cui Colombo è stato massacrato dai nativi appena sbarcato ad Haiti, oppure dove ragazzini bianchi in catene vengono venduti da schiavisti neri.
È un documentario-saggio, ma non segue una progressione logica: Peck si muove associativamente tra le epoche e i continenti, accostando la secolare tratta degli schiavi allo sterminio dei nativi americani, una parata delle colonie britanniche a un raduno nazista. Per parlarne servirebbe un libro, più che una recensione: speriamo intanto di poterlo vedere presto in Italia.
* Foto: Il Sole-24 Ore, 20 aprile 2021 (ripresa parziale).
Napoleone era nero*
Ottant’anni dalla pubblicazione di "The Black Jacobins" di C.L.R. James. Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal sud del mondo, quel libro continua a influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di spaventare i padroni
di Wu Ming 1 (il manifesto, 19.11.2018)
Compie ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio storico tra i più influenti del ventesimo secolo, nonostante la sua influenza continui a suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminuita. È ancora incandescente la vicenda ricostruita - la rivoluzione haitiana guidata dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture - ed è ancora drastica la riconsiderazione della tradizione rivoluzionaria che, fin dal titolo, il libro esorta a intraprendere.
Ispirato nella struttura e nello stile alla Storia della Rivoluzione russa di Trotsky, e scritto tendendo l’orecchio alle proteste internazionali contro l’invasione italiana dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel 1938. L’anno che segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le principali democrazie borghesi d’Europa - Francia e Regno Unito - aprirono la strada al progetto imperialista di Hitler; l’anno della “Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già echeggiare nel libro. La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo.
Proprio nel Regno Unito, C.L.R. James - nero delle cosiddette «Indie occidentali», militante marxista, scrittore e drammaturgo - osava alcune «considerazioni inattuali», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte, che senza la rivolta di massa degli schiavi di Haiti, scoppiata nel 1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la Révolution che tutti conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ouverture, spinto verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose forze sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo nemico Napoleone. Un Napoleone negro!? Quello che James stava dicendo - ora in forma allegorica, ora esplicitamente - era: non può darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni nelle colonie.
Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler, sembrava una prospettiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e per una manciata d’anni la guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini di ogni discorso. In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più grandi imperi coloniali, (quello britannico e quello francese) e al tempo stesso mobilitandone in massa i sudditi «di colore», la guerra acuì proprio le contraddizioni su cui James aveva gettato luce.
Nel dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pietra di paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esempio: nella seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica britannica, ancora fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli orrori della Pipeline, il sistema di centocinquanta lager - come altro chiamarli? - aperti in Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ e stroncare l’insurrezione Mau Mau. Emersero casi di prigionieri bruciati vivi o castrati con pinze da bestiame. Lo scandalo portò all’indipendenza del Kenya, e accelerò la fine dell’impero «su cui non tramontava mai il sole».
Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler, scrisse Aimé Césaire nel 1950, «non è il crimine come tale, il crimine contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa». Una riflessione che The Black Jacobins aveva anticipato ancor prima della guerra, come aveva anticipato quelle di un altro figlio delle Indie occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra grande opera anticoloniale del XX secolo: I dannati della terra (1961).
Nel mentre, The Black Jacobins circolava, talvolta illegalmente, nei paesi dove ardevano le braci della rivolta coloniale. Diviso in dispense, copiato a mano modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi nel Sudafrica dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal massacro di Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre.
Riletta nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spartaco nero, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più attuale che mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa contenerle. In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i termini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni antirazziste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli schiavi!», «Siete complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di schiavi!», «Li portano qui per farne degli schiavi!».
Del resto, neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio drammatico... Cosa potranno mai ricordare? Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono negrieri ma passeurs, perché i migranti vogliono essere trasportati in Europa e pagano per il viaggio, cioè per avere un servizio; che lo ricevano di qualità pessima, da parte di carogne senza scrupoli, è colpa sì di quelle carogne, ma prima ancora è colpa delle leggi europee sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei viaggi molto pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi negriere.
Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare alle persone migranti ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi compie quei viaggi è descritto come mero corpo, materia bruta trasportata da un posto all’altro. Questo è il cliché razzista e coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimostrato meglio di C.L.R. James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti erano in corso, invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di coscienza, insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chiameremmo «percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni e lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per raggiungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per unirsi a ciurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto, un soggetto rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi comandanti, coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile Napoleone. Un esercito che scosse l’ordine del mondo. Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal sud del mondo, The Black Jacobins continua a influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di spaventare i padroni. Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sentono tranquilli, perché sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture».
*Questo articolo è tratto dal primo numero di Jacobin Italia, edizione italiana della rivista che ha rilanciato il dibattito nella sinistra radicale statunitense. Il progetto, edito da Alegre, è autonomo ma federato a quello d’oltreoceano e ha già raccolto 1500 abbonati (chi non ne ha sottoscritto uno può richiedere la rivista in libreria). Una redazione trasversale a differenti culture si muove, spiegano, dentro un orizzonte delimitato da due paletti. «Non ci interessano il sovranismo di ogni colore e il riformismo liberale».
Per questo debutto, Jacobin Italia mette i piedi nel piatto e si chiede cosa significhi «Vivere in un paese senza sinistra», affrontando i temi della produzione e della riproduzione sociale, smontando il falso mito dell’egemonia culturale della sinistra, osservando il doppio movimento delle emigrazioni italiane e dei migranti che arrivano da queste parti. C’è poi una sezione dedicata alle «parole contese». Nel «paese senza sinistra - spiegano i redattori - parole come cambimento, beni comuni, reddito e democrazia diretta perdono di senso e ci vengono sottratte. Siamo nati anche per riprendercele».
Il dossier tratto dall’edizione Usa si intitola «Breaking Bank». Parla dei dieci anni della crisi dei mutui subprime del 2008. Come ha cambiato l’immaginario, come ha reagito l’Europa, che fine hanno fatto gli apprendisti della finanza. Per informazioni e abbonamenti: www.jacobinitalia.it.*
Toussaint lo Spartaco di Haiti
di Antonio Carioti (Corriere della Sera - La Lettura, 15.02.2015)
La Rivoluzione francese ha anche un volto dalla pelle nera. È quello di Toussaint L’Ouverture, una sorta di Spartaco delle Antille, l’ex schiavo che capeggiò la rivolta sfociata nell’indipendenza di Haiti. Nel Settecento quel territorio era la più ricca colonia europea, ma la sua prosperità derivava soprattutto dal lavoro degli schiavi portati dall’Africa. Cyril Lionel Robert James, nel libro I giacobini neri (DeriveApprodi), descrive nei dettagli crudeltà e iniquità del sistema di sfruttamento e discriminazione razziale cui erano soggette le persone di colore, compresi neri e mulatti liberi, magari anche benestanti.
L’insurrezione scoppiò nell’agosto 1791 ed ebbe diverse fasi. Prima i ribelli neri combatterono i coloni francesi. Ma dopo l’abolizione della schiavitù, sancita a Parigi il 4 febbraio 1794, Toussaint si schierò al fianco della Repubblica giacobina, sconfiggendo spagnoli e inglesi che volevano mettere le mani sulla colonia. Si arrivò poi allo scontro con Napoleone, che fece arrestare e deportare in Francia Toussaint (morto in carcere nel 1803), ma non riuscì a evitare che il suo luogotenente Dessalines, battuto il corpo di spedizione francese, proclamasse l’indipendenza.
Dopo oltre un decennio di conflitti sanguinosi, Haiti non era più una colonia, ma si ritrovò impoverita e in macerie. James (1901-1989) era un militante nero, marxista eretico ed esperto di cricket: ovviamente esalta gli insorti. Ma per altri versi il saggio, la cui prima edizione risale al 1938, evidenzia in anticipo le difficoltà cui sarebbero andati incontro i successivi moti anticoloniali.