QUI PROSEGUE IL DISCORSO GIA’ AVVIATO IN
Per le citazioni e i riferimenti di pagine, cfr.: Giambattista Vico, Opere filosofiche, introd. di Nicola Badaloni, a c. di Paolo Cristofolini, Firenze 1971
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Alla fine della sua autobiografia, “Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725-28)”, in riferimento alla realizzazione della “Scienza nuova” (1725), così conclude: “Con la quale opera il Vico con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante i loro tre prìncipi [rispettivamente: Ugo Grozio, John Selden, Samuel Pufendorf] di questa scienza, e che in questa nostra età nel grembo della vera Chiesa si scoprissero i princìpi di tutta l’umana e divina erudizione gentilesca”(p. 38).
E nella “Aggiunta”, fatta nel 1731, egli così prosegue: “Uscita alla luce la Scienza nuova, tra gli altri ebbe cura l’autore di mandarla al signor Giovanni Clerico [Le Clerc], ed eleggé via più sicura per Livorno, ove l’inviò, con lettera e quello indiritta, in un pacchetto al signor Giuseppe Attias, con cui aveva contratto amicizia qui in Napoli [...] Ma neppure di questa il Vico ebbe alcun riscontro, forse perché il signor Clerico o fusse morto o per la vecchiezza avesse rinnonziato alle lettere e alle corrispondenze letterarie” (p. 39).
In questo raccontare di Vico, non c’è solo quel che dice e fa, ma anche quel che pensa e in quale orizzonte egli colloca se stesso e il suo lavoro. Che i suoi invii a vari studiosi della sua opera non abbiano avuto alcuna risposta, non per questo sono da sottovalutare: certamente, non sono senza senso! L’opera è stata inviata, “tra gli altri”, anche a Newton (come attesta la corrispondenza con Giuseppe Athias), ma dell’autore dei “Princìpi matematici della filosofia naturale” (prima edizione:1687; seconda edizione: 1713), nelle molteplici interpretazioni (anche recenti) dell’opera vichiana neanche l’ombra del senso della sua presenza!
Eppure c’è da ricordare (almeno!) non solo la citazione - alla fine del Libro primo, nella sez. “del metodo” sia della Scienza Nuova” del 1730 sia del 1744 - di un “libricciuolo erudito e dotto col titolo di Historia [pholosophica] de ideis [di J.J. Brucker], che ci conduce fin alle ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e il Newtone”(pp. 466-7), quanto e come Eugenio Garin, in un intervento al congresso internazionale (ideato dall’ “Institute for Vico Studies” di New York e tenutosi a Venezia nell’agosto del 1978), sottolinei con forza che “l’eredità più vitale in Vico” fosse proprio nel modo in cui egli affronta “i nodi e i problemi cruciali della cultura europea del Settecento ricuperando le discussioni umanistiche sui rapporti tra le scienze fisico-matematiche e le scienze dell’uomo” (cfr.: AA.VV, Vico oggi, Presentazione di Giorgio Tagliacozzo, a c. di Andrea Battistini, Armando Editore, Roma 1979, p. 8).
Garin, a conferma della sua linea intertrepativa, da una parte, richiama l’attenzione al riferimento strutturale che nell’opera di Vico ha lo scetticismo di Pierre Bayle: nell’opera di Vico, egli non è solo il grande provocatore che con l’ipotesi “di una repubblica di atei“ suscita l’accesa risposta “provvidenziale” della “Scienza nuova” del 1725; “è anche il pungolo costante, col suo pirronismo, a un riesame critico di tutto l’edificio del sapere umano” (cfr., Vico oggi, cit., p. 74). E, dall’altra, mette in evidenza l’importanza della conoscenza da parte di Vico (“Scienza nuova” del 1744) del “Trattato dell’incertezza delle scienze” di Thomas Baker: in quest’opera, l’autore “trova nel Newton lo scienziato del suo cuore proprio per la sua utilizzabilità teologica, con il suo finalismo aperto al provvidenzialismo e alla teologia” (op. cit., pp. 91-92).
Per Garin, infatti, “Vico, ben lungi dall’essere un solitario attardato, è collocato in pieno dentro il gran dibattito del secolo, che vede l’urgenza di una critica del conoscere, e la necessità di distinguere e ordinare l’albero delle scienze: di cogliere il rapporto fra indagine della natura e indagine dell’uomo; di fondare e costruire la nuova enciclopedia” (op. cit., pp. 74-75).
Per Garin non ci sono dubbi: “se è vero che di tanti campi di indagine Vico ha indicato solo l’avvio, è pur vero che la rivoluzione che ha inserito nella riflessione europea è vasta e profonda. Egli non si è contentato di aggiungere alle nuove scienze della natura la scienza nuova dell’uomo. Scoperte nelle meditazioni sul diritto e sulla filologia le scienze dell’uomo, vi ha premesso - precisa Garin (op. cit., p. 87) - una sorta di Discorso sul metodo (tale è la Scienza nuova) i cui motivi fanno riflettere ancora”!
BACONE, GALILEI, NEWTON. Se nel 1725, via Livorno (ove la marina inglese era presente), grazie all’aiuto dell’amico Athias, Vico invia a Newton una copia della sua "Scienza nuova", non è affatto un invio a caso! Entro l’orizzonte del suo percorso e del suo lavoro, Newton è di casa! La ragione forte è che egli ha camminato e cammina con attenzione e spirito critico sulla strada della rivoluzione scientifica.
Se - come ricorda nell’Autobiografia - "nell’anno 1708 [...] venne felicemente fatto al Vico di meditare un argomento che portasse alcuna nuova scoperta ed utile al mondo delle lettere, che sarebbe stato un desiderio degno da essere noverato tra gli altri del Bacone nel suo Nuovo organo delle scienze" (p. 24), nel 1711 mostra quanto e come sia attento al lavoro del "gran Galileo"! Nella "Risposta" alle "opposizioni" al suo "De antiquissima italorum sapientia", dopo aver citato un passo dal "primo Dialogo della scienza nuova" (vale a dire: "Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze"), egli così scrive: "Mirò Galileo la fisica con occhio di gran geometra, ma non con tutto il lume della metafisica" (p.141).
Se consideriamo, infine, che la prima edizione dei "Principi matematici della filosofia naturale" è del 1687, non è difficile pensare che Vico - da "seguace di Galilei" (come ha sostenuto con forza Nicola Badaloni: cfr.: Introduzione a Vico, Laterza, Bari 1984, p. 25) - sia in ’dialogo’ con Newton, già da tempo!
Federico La Sala
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"!
RILEGGERE VICO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Un breve lavoro (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala
Il buon maestro Eugenio Garin
di Paolo Rossi (Il Sole-24 Ore, 21 agosto 2011)
Eugenio Garin apparteneva a quella generazione di studiosi i quali (come anche Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano) si sono formati e hanno cominciato a scrivere durante gli anni del fascismo e sono diventati più tardi ‐ nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale ‐ figure di riconosciuti maestri. Dopo la metà degli anni Cinquanta, in specie dopo la recensione di Palmiro Togliatti alle Cronache di filosofia italiana del 1955, Garin, oltre a scrivere libri di storia della filosofia e di storia degli intellettuali, assunse la funzione di «grande intellettuale civile».
Il libro di Michele Ciliberto, che di Garin è stato scolaro, ha un primo e molto rilevante merito: quello di mettere in chiaro alcuni punti fondamentali:
1) L’immagine di Garin che deriva dalla sua attività posteriore alle Cronache rappresenta «una sorta di filtro, spesso insuperabile, rispetto al Garin degli anni Trenta e Quaranta» e rispetto alle tesi che egli aveva sostenuto sino al celebre libro del 1952 sull’umanesimo italiano;
2) Si ha anche l’impressione «che egli si sia quasi censurato, cancellando le tracce» rifiutando (per esempio) le molte offerte di una ristampa del suo libro su Pico della Mirandola del 1937 e di quello sui moralisti dell’illuminismo inglese del 1941 del quale disse nel 1983 che «non si riconosceva più».
3) Nella seconda metà degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta Garin era su posizioni indubbiamente definibili come esistenzialismo religioso. Gli autori che sente vicini, ai quali guarda con ammirazione, che propone come modelli, sono principalmente Lavelle, Blondel, Maritain, Jankélévitch e soprattutto Gilson.
4) L’incontro con gli scritti di Gramsci furono decisivi nel liberare Garin dalla ’tentazione religiosa’. Si trattò, per usare le sue stesse parole, di «una esperienza decisiva, che durò a lungo». Garin sceglieva con cura le parole: a lungo non vuol dire per tutta la vita.
5) Negli anni Settanta (come lucidamente mostra questo libro) il quadro cambia nuovamente «gli elementi drammatici dell’esistenza umana ritornano in primissimo piano, spingendo nel fondo del quadro la dimensione civile» che si era configurata negli anni Cinquanta e Sessanta quasi come «un’ancora di salvezza». Emergono, in quest’ultima fase, come per esempio nei fondamentali saggi sull’Alberti, toni decisamente nichilistici. Questo è, per così dire, lo scheletro del libro, che è ricco di analisi dettagliate e sottili e di non pochi riferimenti a Delio Cantimori e Cesare Luporini.
Anch’io, come Ciliberto, sono stato allievo di Garin. Lui si è laureato nel 1968, io nel 1946. Il mio primo esame aveva come testo principale le oltre seicento pagine dell’Action di Maurice Blondel e conservo ancora una lettera dove mi si consigliava una lettura della Alternative di Vladimir Jankélévitch. Garin considerava la lucidità e la chiarezza come valori, non amava le semplificazioni e a esse contrapponeva le analisi sottili.
Sono più volte mutati i suoi punti di riferimento, ma la messa in luce della coesistenza di cose contrastanti, l’amore per le sfumature, il rifiuto delle dicotomie rozze, la convinzione che il passato sia pieno di cose sconosciute non lo abbandonarono mai.
Sapeva perfettamente anche una cosa che tutti i piccoli maestri amano dimenticare. Che il sapere cresce perché ci sono maestri e soprattutto, perché ci sono scolari che si distaccano dai loro maestri. Sapeva che il rapporto tra maestri e scolari è, come quello fra padri e figli, un rapporto difficile. Sapeva che i maestri devono essere amati e rispettati, non ripetuti e che quelli che Galileo (facendo riferimento al loro maestro Aristotele) chiamava «i trombetti» non hanno mai dato contributi alla crescita del sapere.
In un mondo nel quale le lodi non venivano (come spesso oggi accade) regalate per aumentare il numero degli studenti, il massimo dei voti alla tesi equivaleva di fatto a una lettera di presentazione. Era una sorta di invito ad accogliere un novizio che veniva rivolto ai membri di una vasta comunità di studiosi: «Mi sono laureato a Firenze con Eugenio Garin». Questo è stato per me (e per moltissimi altri) un biglietto da visita straordinario.
Il modo in cui (nel 1959) fui accolto al Warburg Institute da Gertrud Bing, Otto Kurz, Ernst Gombrich, Arnaldo Momigliano, Frances Yates dipendeva dalla mia provenienza scientifica, era legato alla stima grandissima e all’ammirazione che quegli studiosi nutrivano per il mio maestro. Quella stima e quell’ammirazione non erano per nulla dipendenti dalla figura di Garin intellettuale civile. Dipendevano dalle molte pagine da lui dedicate alla storia intellettuale europea. Questo libro ci mostra che dietro quelle pagine sono nascoste molte scelte drammatiche e molta sofferenza.