Ansa» 2009-06-08 22:59
DOPO UN SOGNO CI SVEGLIAMO PIU’ CREATIVI
ROMA - I sogni sono un propulsore della creatività, del pensiero creativo che porta alla soluzione ai problemi, infatti è durante la fase REM del sonno, quella in cui si sogna appunto, che il nostro cervello massimizza le sue capacità di elaborazione creativa.
Lo dimostra uno studio coordinato da Sara Mednick della Università di San Diego che suggerisce che la fase cosiddetta dei movimenti oculari rapidi (Rapid Eye Movement - REM) aiuta a raggiungere soluzioni a problemi che richiedono l’associazione di idee, concetti e parole tra loro scollegate, più in generale che richiedono integrazione e creazione di collegamenti tra informazioni nel cervello.
I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Numerosi studi hanno dimostrato che il sonno è importantissimo per consolidare i ricordi e immagazzinare le informazioni importanti introdotte nel cervello di giorno e scartare invece quelle superflue.
Questo studio mostra qualcosa in più che non ha a che fare con la memoria: quando sogniamo ci svegliamo più creativi e capaci di risolvere problemi che richiedono collegamenti di idee e concetti. I ricercatori hanno chiesto a un gruppo di persone di eseguire un test di creatività chiamato Remote Associates Test (RAT), simile al gioco della ghigliottina nel quiz ’L’eredita": si danno tre parole e si chiede di cercarne una quarta che sia collegata a tutte e tre.
Confrontate le performance dei volontari al RAT dopo una ’pennichella’ con o senza fase REM oppure dopo un periodo di riposo senza dormire, è emerso che solo dopo il riposino con fase REM i partecipanti ottengono migliori risultati al RAT.
"Il nostro studio - concludono i ricercatori - mostra che la fase REM potenzia l’integrazione di informazioni non associate per la soluzione di problemi, un processo che, ipotizziamo, potrebbe essere facilitato dalla modulazione dei neurotrasmettitori attivi nella fase REM".
Iconografie. I due gemelli ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 26.03.2016)
Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama in gioco nella deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio Laodamia, della stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è ferito a morte da Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue, avvolgerlo nelle bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri.
Indistinguibili nell’aspetto esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari simbolici che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura iconografica: mentre Hypnos non sembra avere tratti caratteristici, suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta, simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi intrecciati, rimando alla posizione in cui venivano sepolti i morti nell’antica Grecia.
Nelle teogonie classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione intrinsecamente complementare; è questo a determinare in essenza il mitologema che li accomuna: stati speculari che trapassano l’uno nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla Tenebra infera, l’Erebo. E dunque, seppure generati della combinazione delle stesse Potenze - la notte che porta i sogni e la esiziale tenebra eterna - le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari sì, ma non per questo identici; anzi. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.
È in questo luogo inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo trae le anime, ma non permette loro di uscirne. La loro specularità è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi molteplici figli, tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o subire alcuna violenza» - come afferma Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di un’affinità evidente - ed, al contempo, permette ai corpi di uscire ed entrare in lui. Al contrario, il suo gemello senza figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece allo stato del non essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal corpo mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono indispensabili al gesto della deposizione, che dunque simboleggia il passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.
Il sonno ed il suo sognare
A differenza degli antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci vita alcuna nel «sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per poi ritornare, ed unirsi, al «corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non rappresentava che il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo del sonno profondo», imbalsamato nella mummia - involucro necrico di preservazione per questo stato particolare - non era solamente una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita immortale.
Nell’antico Egitto è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua «immensità indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su queste credenze. Per la Grecia classica, al contrario, il sonno portatore di sogni è una componente determinante della vita; possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi, incubare sogni - dormire cioè in un luogo ritenuto sacro - significava entrare in contatto diretto con il numinoso, con l’Invisibile.
Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da sogni e visioni, apparizioni oniriche di ombre che li visitano e li guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro dell’Iliade, «Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo. L’ate, lo stato d’animo che spesso domina l’agire dei guerrieri iliaci, altro non è che un temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di onirismo che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a rifarsi per la perdita della concubina portando via ad Achille la sua. D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o fare un sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma «gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà onirica di influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.
Sul Cratere di Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C., attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la scena della deposizione di Sarpedonte è magistralmente raffigurata. Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome ma, ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come se fosse riflesso nell’oggetto che, elettivamente, permette di coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio.
Qui è dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è quest’ultimo che interagisce con la vita; è la vita stessa, mentre la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia nella morte. Non basta, allora, solo il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo significato essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso su di una superfice che rimanda al vivente l’immagine della sua ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di Hypnos, cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente, un giorno passerà dal sonno alla morte.
Passano i secoli e vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino. La tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo soltanto quelli la cui anima è portata da questi particolari messaggeri.
Nella Parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso che gli attribuisce questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo” (Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura apocalittica giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes che coprono il corpo «con lini preziosi e lo ungono con olio fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una fossa scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione finale».
Il «Compianto»
E così vediamo che, nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di Eufronio, i due gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di battaglia per depositarlo nel suo sacello in Lidia. Il gesto è dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei secoli, verrà ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da questo schema e con gli stessi personaggi simbolici: il Sonno e la Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla nuova narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta figura del «Compianto», cioè nella deposizione del Cristo Morto sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella che è la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio Verginis.
In particolare il Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa immagine viene dipinta più frequentemente e con più attinenza all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie del Vangelo apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di Giorgio di Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa scena vengono però dalle miniature bizantine del IX secolo, in cui inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto: Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio che, come vedremo, altro non sono che le trasposizioni in chiave cristiana di Hypnos e Thanatos.
In più, se prendiamo le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno (329-390), Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino Basilio I - attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia - vediamo chiaramente come le posture delle figure di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos e Thantos sul Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre San Giuseppe, come Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare ordini ai due. In questa immobilità, in questa ieratica staticità delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo dell’immagine originaria presente nel canto omerico e ripresa dal ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione di un essere divino. Il cosiddetto Threnos - la figura composta dai quattro personaggi visti nel loro insieme - è dunque originato da questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa che invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio dalla vita alla morte.
Ma certo la postura delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento della Vergine e di altri personaggi di contorno, non basta a verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco, della Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo omologo bizantino. E allora, per far combaciare ulteriormente le due rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi rappresenta Thanatos e chi Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata dai Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è Thanatos mentre Nicodemo è Hypnos, perché?
Giuseppe di Arimatea e Nicodemo
Giuseppe di Arimatea è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo e così rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui abbiamo già un attributo chiaro che lo identifica con Thanatos: è lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth. Dichiarare deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della croce, non era un compito facile. Bisognava avere una certa esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel modo, poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti. E dunque chi meglio di Thanatos riconosce, per così dire, la sua opera? Ma non è tutto.
Giuseppe di Arimatea ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla morte: Anubis. Infatti gli attributi della divinità dei morti egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione», «Colui che è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le tombe, ed infine «Colui che è nelle bende» intendendo non solo le bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed è proprio Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi sia gli unguenti per lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba scavata appunto sul fianco di una montagna. Dal lato opposto troviamo invece Nicodemo-Hypnos.
Anche qui l’archetipo muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo alla sua figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti, vive, per così dire, una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la Barca. I sogni che marcano la sua figura, tutti inerenti la deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si racconta che Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine di Gesù Morto così come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne il Volto. Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la sorpresa di vedere l’opera compiuta da mano angelica.
Qui appare evidente la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura divina, come magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo studioso delle icone è il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo sguardo, che egli definisce come vero e proprio «simbolo ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare» e dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba, al «corpo del sonno profondo» del Cristo.
Dice ancora Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo visibile da quello invisibile, ed in tal modo congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si badi bene del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice riproduzione, cioè di una mera ed imperfetta maschera funeraria, diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque, attraverso il suo sonno profetico, in diretto contatto col suo stesso volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile», conclude Florenskij. Influenzato a vita dal suo primo sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a Isacar, uomo giusto e timorato di Dio.
Di generazione in generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento anni dopo, nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in sogno lo stesso angelo scultore che gliene svelò la presenza. La scultura fu collocata allora su una barca affidata alla Divina Provvidenza perché la facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono poste anche due ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe d’Arimatea con Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi era allora un Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi, al quale apparve in sogno l’angelo che gli suggerì di andare a Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E dunque la catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo protetto dove simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.
La Dormizione di Maria
Ma la figura che chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e sussume entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il Sonno e la Morte riportandole all’unità originaria, è certamente quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La Madonna altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima ipostasi della Grande Madre, della Grande Potnia mediterranea, dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica prima dell’avvento delle divinità legate al patriarcato.
È lei che crea tutto, che è tutto. Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le prime Potenze, i Titani ed Eros protogeno, la Notte ed Erebo - dai quali vengono poi generati i «gemelli veloci» - via via enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi figli e, al tempo stesso, sue manifestazioni. E dunque neanche la spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice la potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la Creazione è generata e curata da una Essere dalle qualità femminili. Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia cristiana, è certamente quello della Madonna della Misericordia che, sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il Creato, morti inclusi.
Perciò Maria non può morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e viene assunta in cielo in questo stato peculiare, unico, come si conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha generato, partorito e curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che senza il suo sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la carica resurrezionale che emana dal suo Volto intenso ed estatico, il Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo. Come la Basilinna durante le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per rigeneralo e consentirgli di riprendere il ciclo della vita indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla morte del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che la quintessenza della sua stessa definizione secondo Georges Bataille: portare la vita sin dentro la morte. «Ti sei addormentata ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano».
Così recita il testo di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che diviene madre partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era Colui che veniva generato; così nella tua Dormizione vitale, tu sola a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e di corpo» dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma della Immacolata Concezione senza per questo dover rinnegare la forza numinosa dell’archetipo precristiano. Non a caso la Festa della Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai secoli VI e VII, ed è originariamente legata alla comunità di Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio della cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della Grande Madre che tutto può perché tutto è. E così nel suo sonno eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.
il sonno ha le sue ragioni che la ragione non conosce
di Nico Pitrelli (Pagina 99 - 12/18.03.2016)
Visioni doppie, tremori, difficoltà di movimento, un bisogno irresistibile di dormire in qualsiasi momento e in quasi la metà dei casi paralisi e morte. Subito dopo la prima guerra mondiale un morbo inquietante, l’encefalite letargica, flagellò prima l’Europa e poi il resto del mondo. Decine di migliaia di persone, secondo alcune stime addirittura un milione, furono colpite da una sonnolenza persistente contro la quale all’epoca non esistevano rimedi. Durò circa dieci anni, poi praticamente più niente: la “malattia del sonno” misteriosamente tolse il disturbo così come quasi dal nulla era comparsa.
Se si escludono alcuni casi sporadici è infatti dal 1924 che non ne viene segnalata la comparsa in forme epidemiche. Eppure, come descritto in un articolo apparso su Scientific American all’inizio di questo mese, l’encefalite letargica, provocata da un virus tuttora sconosciuto, ci ha insegnato molto di quello che sappiamo oggi sul sonno, attività che riguarda indistintamente tutto il regno animale ma su cui rimane aperta la questione centrale: perché dormiamo.
Fu soprattutto l’acume di un aristocratico neurologo di origine greca, Constantin von Economo, formatosi nella tradizione culturale asburgica, a fornire in una monumentale monografia la migliore descrizione dell’encefalite come un’infiammazione del cervello. «L’impatto dei suoi studi sulla nostra disciplina», commenta a pagina99 Ugo Faraguna, neurofisiologo del sonno all’Università di Pisa, «si può paragonare a quelli di Einstein nella fisica». Così come continuiamo a trovare conferme sperimentali della teoria della relatività - vedi ad esempio la recente rilevazione delle onde gravitazionali - «decenni di lavori istologici non hanno fatto altro che confermare quanto von Economo aveva ipotizzato analizzando la sede dell’encefalite letargica, in particolare l’esistenza di interruttori del sonno e della veglia».
Nonostante siano passati circa novant’anni dai lavori del neurologo viennese, sono ancora tutt’altro che chiare le ragioni per cui dormiamo. Di sicuro sappiamo che il sonno fa bene, ma al momento attuale disponiamo solo di ipotesi riguardanti i meccanismi con cui agisce, con non poco disagio da parte degli studiosi. Nicola Cellini, ricercatore all’Università di Padova esperto del rapporto tra sonno e memoria, afferma che «per alcuni dei maggiori esperti a livello internazionale la funzione del sonno è oggi la domanda più imbarazzante per le neuroscienze».
Secondo Cellini, che interverrà la prossima settimana sia a Padova che a Trieste alla Settimana del Cervello, una ricorrenza annuale con eventi in tutto il mondo per aumentare la consapevolezza pubblica nei confronti della ricerca nel settore, «probabilmente il sonno svolge più funzioni contemporaneamente, dalla rimozione delle neurotossine accumulate nel cervello durante il giorno, alla ristrutturazione delle memorie. Questo approccio è differente rispetto al passato. Per diverso tempo si è pensato ad esempio che dormire servisse a conservare o recuperare le energie cerebrali spese durante il giorno. Nel sonno però il nostro cervello non è affatto meno impegnato. Anzi, consuma quasi le stesse risorse usate quando siamo svegli».
Negli anni il quadro della ricerca sul sonno è cambiato sensibilmente. Le ipotesi sono aumentate e diventate più complesse. Una delle possibilità accreditate più di recente è quella secondo cui il sonno funzionerebbe da “spazzino”, servirebbe cioè a liberare il cervello da scorie potenzialmente neurotossiche, in particolare certi residui di proteine, accumulate durante la veglia. La funzione di ripulitura del cervello è stata mostrata nei topi in uno studio pubblicato sulla rivista Science nel 2013 a firma di un gruppo di ricercatori dell’Università di Rochester, negli Usa, guidati dalla neuroscienziata danese Maiken Nedergaard.
Se un simile meccanismo dovesse agire anche nell’uomo si potrebbe capire meglio l’associazione tra i disturbi del sonno e malattie neuro-degenerative come il morbo d’Alzheimer, in cui l’accumulo di una proteina chiamata beta-amiloide sarebbe il principale sospettato del danneggiamento e della morte delle cellule nervose.
Una seconda tendenza molto considerata attualmente vede come protagonisti due ricercatori italiani, anche se da tempo trasferitisi negli Stati Uniti. Si tratta di Chiara Cirelli e Giulio Tononi, dell’Università del Wisconsin, che nel corso degli anni hanno messo a punto la cosiddetta ipotesi dell’ “omeostasi sinaptica”.
In un importante lavoro di rassegna della letteratura presentato sul giornale specialistico Neuron nel 2014, i due autori hanno prospettato che, diversamente da quanto affermato da teorie più tradizionali, il cervello dormiente non consolida le connessioni neurali utili ad esempio a fissare quanto di importante abbiamo imparato nella fase di veglia. Anzi, quando dormiamo le connessioni neurali si indebolirebbero, perché viceversa il cervello si affaticherebbe troppo.
Come spiega Faraguna, per diversi anni collaboratore di Tononi negli Usa, «questa ipotesi postula la necessità del sonno come momento in cui le sinapsi, vale a dire i punti di contatto tra le cellule nervose, vengono potate. Se durante la veglia le sinapsi fioriscono, durante la notte vengono tagliate. Si eliminano così le informazioni che non servono più e si liberano spazio ed energie per l’apprendimento di nuove informazioni il giorno seguente». Il sonno sarebbe il dazio necessario per lo svolgimento di questo processo. Perché dormire non è privo di inconvenienti. Anzi.
«Da un punto di vista evolutivo», continua Faraguna, «il sonno è pericolosissimo poiché espone le prede a rischi facilmente immaginabili. Ma tutti gli animali dormono, senza eccezioni. Come ha affermato Allan Rechtschaffen, uno dei pionieri della ricerca in questo campo, se il sonno non avesse alcuna funzione allora si tratterebbe del più grande errore dell’evoluzione. Ma non è così. Dormire è il prezzo da pagare per imparare. E questo è in fondo un punto che su cui diverse ipotesi possono concordare».
Il sonno della ragione non genera sempre mostri di Francesca Bolino (la Repubblica, 06.03.2016)
Pensavate di sapere tutto sui sogni e invece non è così. È passato più di un secolo da L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, decenni in cui gli scienziati hanno raccolto elementi classificati in gigantesche banche dati, alimentate dagli studi sul cervello. Grazie alle neuroscienze è ora possibile indagare i nostri meccanismi più segreti con una precisione nemmeno immaginabile ai tempi di Freud.
Il risultato di tutto questo lavoro è che i sogni sono molto di più dell’espressione dei desideri inconsci, sono «una chiave per risolvere l’enigma della nostra coscienza: essi ci permettono di riconoscere in che modo il nostro cervello produce quella che noi percepiamo come realtà».
Stefan Klein, tra i più noti saggisti scientifici tedeschi, affronta col passo del narratore uno dei grandi enigmi dell’umanità alla luce dei nuovi metodi di ricerca sul cervello: oggi non è più fantascienza leggere direttamente i sogni di un soggetto mentre dorme, i segnali che uno scanner riceve dalla mente di una persona addormentata rivelano esattamente ciò che essa sta sperimentando.
Mentre sogniamo, le nostre capacità si ampliano e il nostro cervello cambia. E la nostra personalità si sviluppa e muta. In altre parole, il sonno ha più potere su di noi di quanto abitualmente immaginiamo. Noi ci sentiamo in pieno possesso delle nostre forze mentali quando siamo svegli, e solo allora pensiamo di percepire la realtà così com’è, mentre riteniamo il sonno uno stato subordinato, una porzione di tempo sottratta alla vita attiva. Perciò guardiamo i sogni con sospetto e diffidenza: un’immagine deformata della realtà.
In realtà il sonno non è una pausa di riposo, ma una conseguenza di stati molto vari, nei quali il cervello riordina le tracce del passato, acquisisce conoscenza e si prepara alla giornata. Nel cervello tutto è in movimento e quasi tutto è collegato con tutto: senza la possibilità di sognare noi non potremmo esistere.
I “sogni dall’alto” di Cartesio e la spiegazione freudiana
di Arcangela Miceli *
Testo di Baillet negli “Olympica” cartesiani Interpretazione di Cartesio Testo di Leroy
Interpretazione di Freud
(in risposta alla lettera di Leroy)
Elementi simbolici
Primo sogno
“...credendo di camminare per le strade, era obbligato a piegarsi interamente sul fianco sinistro per poter avanzare verso il luogo dove doveva andare: avvertiva infatti una così grande mancanza di forza al fianco destro che non poteva sostenervisi....ma sentì un vento impetuoso che, trascinandolo in una specie di turbine, gli fece fare tre o quattro giri sul piede sinistro...la difficoltà che provava a trascinarsi gli faceva credere di cadere ad ogni passo, finché, visto sulla sua strada un collegio aperto, vi entrò per trovarvi rifugio e rimedio al suo male. Cercò di raggiungere la Chiesa del collegio, ché il suo primo pensiero era stato quello di andarvi a pregare; essendosi accorto però di aver oltrepassato un uomo di sua conoscenza, senza avergli rivolto il saluto, volle ritornare sui suoi passi per non mancare di cortesia, ma il vento, che soffiava verso la Chiesa, lo ricacciò violentemente indietro. Nello stesso tempo, in mezzo al cortile del collegio, vide un’altra persona che lo chiamò per nome in termini cortesi ed affabili e gli disse che il signor N... aveva qualcosa da consegnargli. Descartes immaginò si trattasse di un melone, portato da qualche paese straniero; quel che più lo sorprese fu però di vedere che quelli che insieme a quella persona lo attorniavano stavano dritti e fermi sui loro piedi, mentre lui..nonostante il vento fosse diminuito, era sempre sul punto di farlo cadere
Primo sogno
“Il melone che gli si voleva regalare significava, a suo dire, gli incanti della solitudine, presentati però con allettamenti affatto umani. Il vento che lo spingeva verso la Chiesa del collegio, quando provava dolore al fianco destro non era altro che il cattivo genio che cercava di spingerlo a forza verso un luogo ove intendeva andare volontariamente ...Per questo Dio non permise che andasse oltre e che si lasciasse trascinare, sia pure in un luogo sacro, da uno spirito che non aveva inviato, per quanto fosse convinto che era stato lo spirito di Dio che gli aveva fatto fare i primi passi verso quella Chiesa...”
e nei frammenti pubblicati da Foucher de Careil e che si presume appartenessero agli Olimpica:
“Le cose sensibili sono atte a concepire le Olimpiche: il vento significa lo spirito, il moto in rapporto con il tempo, la vita, la luce, la conoscenza, il calore, l’amore, l’attività istantanea, la creazione ...”
Primo sogno
“Allora, nella notte quando tutto è febbre, tempesta e panico, di fronte al dormiente si alzano dei fantasmi. Egli cerca di alzarsi per scacciarli ma ricade giù, vergognandosi di sé, con un gran senso di debolezza al alto destro. All’improvviso si apre una finestra della camera. Spaventato egli si sente portar via dalle folate di un vento impetuoso, che lo farà piroettare varie volte sul piede sinistro. Si trascina barcollando fin davanti agli edifici del collegio dove era stato educato. Con uno sforzo disperato tenta di entrare nella cappella per recitarvi le sue devozioni. In quel momento arrivano due passanti.
Egli vorrebbe fermarsi, parlare con loro
e osserva che uno di loro porta un melone. Ma una raffica violenta lo risospinge verso la cappella ...Mezzo sveglio, si dice che uno spirito maligno ha forse voluto tentarlo, e mormora qualche preghiera per esorcizzarlo...” Freud fa alcune precisazioni importanti:
• lavorando sui sogni senza la presenza del sognatore “porta a ben magri risultati”
• i sogni del filosofo rientrano nei cosiddetti “sogni dall’alto”
• in questo tipo di sogni rimangono alcune parti che lo stesso sognatore non può interpretare e “che appartengono all’inconscio”
Freud inoltre commenta i sogni in una visione d’insieme e conferma le spiegazioni che dà Cartesio. Gli sembra innanzitutto che si tratti della “rappresentazione onirica di un conflitto interiore “. Il lato sinistro rappresenta il male e il peccato e il vento rappresenta lo “spirito maligno” (animus) Gli elementi bizzarri rimangono invece inesplicati; per quel che riguarda il melone, scrive Freud, “ il sognatore ha avuto l’idea originale di veder raffigurato in esso le attrattive della solitudine però con allettamenti esclusivamente umani”
melone
vento
chiesa
collegio
sconosciuti
dolore al fianco destro
barcollamenti
Secondo sogno “...gli parve di udire un suono acuto ed assordante, come fosse un colpo di tuono...”
Secondo sogno
“Si svegliò e vide per tutte le stanze scintille infuocate. La cosa in passato gli era spesso accaduta ...ma in quella circostanza volle però ricorrere a ragioni tratte dalla filosofia, e poté pervenire a conclusioni favorevoli al suo ingegno...” e in seguito “il fulmine di cui aveva udito il violento rumore era il segnale dello spirito di verità che scendeva su di lui per possederlo..”
Secondo sogno
“Si riaddormenta. Lo risveglia un colpo di tuono, che riempie la camera di scintille. Si domanda di nuovo se dorme o se è sveglio, se si tratta di un sogno o di una fantasticheria, apre gli occhi e li richiude per giungere a una qualche conclusione. Poi, rassicurato, si assopisce, vinto dalla stanchezza.” “I sogni del nostro filosofo, aveva precisato all’inizio della lettera, rientrano nel tipo chiamato ‘sogni dall’alto’; sono cioè formazioni ideative che avrebbero potuto essere create sia durante lo stato di veglia, sia durante lo stato di sonno, e che soltanto in certe parti hanno tratto il loro contenuto da stati psichici abbastanza profondi..essi presentano per lo più un contenuto dalla forma astratta, poetica e simbolica”
folgore
scintille
tuono
Terzo sogno
“...trovò un libro sulla sua tavola...lo aprì e, visto che si trattava di un Dizionario, ne fu entusiasta poiché sperava che gli sarebbe tornato di grande utilità. Nello stesso istante si trovò a portata di mano un altro libro che non gli appariva meno nuovo, giacché ignorava donde venisse...si trattava di una raccolta di Poemi di autori diversi, dal titolo Corpus poetarum (1) preso dalla curiosità di leggere qualche passo, ad apertura di pagina cadde sui versi: quod vitae sectabor iter ?
Nello stesso momento s’accorse di un uomo che non conosceva, ma che gli presentò un poema che iniziava con le parole Est et non (2) e che vantava come opera eccellente. Descartes gli disse che sapeva di che si trattava e precisò che era una composizione compresa tra gli Idilli di Ausonio (3) e si mise a cercarla ..l’uomo gli chiese dove avesse preso il libro al che D. rispose di non saperlo ma che un attimo prima ne aveva avuto un altro tra le mani, poi scomparso senza che sapesse né chi lo avesse portato né chi lo avesse preso. Non aveva finito di parlare che vide il libro ricomparire all’altro capo del tavolo...e [non trovando il poema Est et non e ricordandosi dell’altro Quod vitae sectabor iter ? ] si sentì in dovere di cercarlo ma si imbatté in un gran numero di piccoli ritratti incisi...ma l’uomo e i libri scomparvero...”
Terzo sogno
Stimò che il Dizionario non volesse significar altro che tutte le Scienze riunite e che la Raccolta di poesie, intitolata Corpus poetarum, indicasse in particolare e più distintamente la Filosofia e la Saggezza poste insieme. Non credeva che ci si dovesse molto stupire di notare che i poeti...fossero pieni di sentenze più gravi, più sensate e meglio espresse di quelle che si trovano negli scritti dei filosofi. Attribuiva questo fatto meraviglioso alla natura divina dell’entusiasmo e alla forza dell’immaginazione che fa saltar fuori i semi della saggezza...con ben maggiore facilità e luminosità di quel che faccia la ragione nei filosofi (4)...stimò poi che il poema sull’incertezza del genere di vita che dobbiamo scegliere...indicasse il buon consiglio di una persona saggia e perfino la Teologia morale..con i poeti riuniti nella raccolta intendeva la rivelazione e l’entusiasmo da cui non disperava di poter essere aiutato e con il componimento Est et non la verità e la falsità nelle conoscenze umane e nelle scienze profane...(5) non cercò invece la spiegazione dei ritrattini dopo la visita che un pittore italiano gli rese il giorno dopo “
Terzo sogno
“ Col cervello in fiamme, eccitato dai rumori e dalle sorde sofferenze, Cartesio apre un dizionario, poi una raccolta di poesie. Questo intrepido viaggiatore si sofferma a fantasticare sul verso di Ausonio Quod vitae sectabor iter ? Un altro viaggio nel paese dei sogni ? Allora all’improvviso sopraggiunge un uomo ch’egli non conosce, e pretende di fargli leggere un passo di Ausonio, che comincia con le parole Est et non. Ma l’uomo scompare, ne sopravviene un altro. Poi scompare anche il libro, per ripresentarsi ornato di ritratti incisi su metallo. Alla fine torna la quiete nella notte” (7)
In un’opera del ’23 così si era espresso: “I sogni dall’alto corrispondono a pensieri e propositi diurni che, durante la notte, sono riusciti a trovare rafforzamento nel materiale rimosso e inaccessibile all’Io. In tal caso, di regola, l’analisi prescinde da questo alleato inconscio e riesce ad inserire il pensiero onirico latente nel contesto del pensiero diurno” (6)
libri
dizionario
raccolta poesie
versi
comparire
ricomparire
ritratti
(1) prima edizione dell’Opera Corpus omnium veterum poetarum latinorum A.P.B.G. Lugduni in officina Hug.A.Porta MDCIII
(2) è senz’altro il Si e No di Pitagora, a margine nai kai ou
(3) il verso è tratto dagli Ausonius Edyllia, dal II volume della prima edizione dell’opera sopra citata
(4) così nel Discorso sul metodo “E quelli che sono capaci delle invenzioni più piacevoli e sanno esprimerle con maggiore ornamento e dolcezza continuano ad essere i migliori poeti...Discorso sul metodo, parte prima in Descartes, Opere filosofiche a cura di E.Lojacono, Torino, Utet 1994
(5) mentre si trovava acquartierato ad Ulma nel novembre 1619, scoprì quelli che egli stesso definì “i fonda,menti di una scienza mirabile” e ricevette in sogno la conferma che si trattava di un dono divino; tale scoperta consisteva nella convinzione che esistano nella mente umana pochi principi dai quali è possibile ricavare tutte le scienze concatenate in modo da formare una “scienza universale” Discorso sul metodo in Cfr op.cit
(6) l’opera è Osservazioni sulla teoria e pratica dell’interpretazione dei sogni, in S.Freud Opere Bollati Boringhieri Torino 1973
(7) il testo di Leroy in cui sono riportati i sogni è Descartes, le philosophe au masque Editions Rieder, 1929 ed è riportato nella lettera a Freud, in S.Freud, Opere op. cit.
* Fonte: Caffé filosofico
Perché non possiamo più dirci cartesiani
Esce in una nuova edizione l’opera completa del filosofo che è all’origine della nostra modernità
Cosa resta di lui oggi che il suo motto è diventato "Non penso dunque sono"?
Si può sospettare che la sua filosofia sia stata un esempio di militarizzazione del pensiero
La sovranità assoluta del suo "Io penso" si è frantumata sui muri del Novecento
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 01.09.2009)
Quando alla fine degli anni venti Edmund Husserl tenne le sue lezioni parigine su Descartes (che poco dopo sarebbero state raccolte con il titolo Meditazioni cartesiane), sembrava che la partita, giocata nel nome di un legame fondamentale tra filosofia e scienza, potesse avere la meglio sulle inquietudini e le incertezze speculative che negli stessi anni cominciavano a serpeggiare nella filosofia europea.
Perfino un acuto poeta aperto al pensiero scientifico, come Paul Valèry, nel ricostruire le algide movenze mentali di Monsieur Teste, rivendicava l’assoluta autonomia cartesiana del pensiero dalle faccende del mondo, lasciando al lettore la sensazione che una efficace macchina solipsistica potesse in qualche modo ristabilire la supremazia del cogito su tutto il resto. Ma quella vicenda, ammantata di razionalismo, andò come è noto in tutt’altro modo.
Del resto, quando René Descartes mise mano a quei due o tre capolavori filosofici che avrebbero segnato i secoli successivi - e tra questi Il discorso sul metodo e le varie Meditazioni - non poteva immaginare che proprio il Novecento avrebbe lasciato esplodere le grandi questioni da lui così efficacemente poste. È probabile perciò che egli stenterebbe a orientarsi tra le tumultuose trasformazioni che il pensiero filosofico ha subìto, allineando accanto alle celebri idee chiare e distinte quelle oscure e complicate di molti altri filosofi, e perfino semplicistiche, come si rileva attraverso il più efficace General Intellect che ci sia rimasto, ossia la televisione.
Ora, chi voglia in qualche modo rendersi conto di che cosa sia stato questo genio che seppe con eguale acutezza misurarsi con i grandi problemi della matematica e della filosofia, lo può fare grazie alla nuova edizione delle Opere che Bompiani pubblica in tre volumi a cura di Giulia Belgioso, studiosa che ha al suo attivo anche la cura di tutte le Lettere apparse sempre da Bompiani nel 2005. Grazie a questo programma meritorio di pubblicazione dei grandi testi della filosofia classica (e il merito è qui soprattutto di Giovanni Reale), abbiamo a disposizione, con testo a fronte, l’intero corpus cartesiano, vero e proprio monumento filosofico che è alle origini di tutte le possibili considerazioni sul moderno.
Ma chi è stato Descartes? Le poche immagini a disposizione lo ritraggono in pose che suggeriscono solidità di vedute e insieme qualcosa di sfuggente. Il capello fluente e mosso fin sulle spalle, la frangia irregolare che gli scende sulla fronte, il baffo e il pizzo à la mode secentesca, l’occhio di un pesce abituato alle profondità marine, restituiscono i tratti di un signore che avrebbe potuto intraprendere la professione del soldato, o quella del borghese se non proprio quella del filosofo. In effetti, non disdegnò le armate. Si arruolò nel reggimento del principe Maurizio di Nassau. Si conosce la sua passione per il gioco d’azzardo, la scherma e l’arte della fortificazione. E a volte si può anche sospettare che sia stato il primo vero esempio di una militarizzazione del pensiero filosofico.
Del resto erano anni in cui le guerre, i dissidi, le imboscate esplodevano improvvisi. L’urto delle armature, il rumore dei primi cannoni, lo spostamento delle truppe, gli assedi, rappresentavano uno spettacolo violento e prolungato nel tempo. Mostravano i segni che l’uomo lasciava sulla terra. Ma l’uomo era questo o anche altro? Il mondo nel quale Descartes si trovò a vivere si era improvvisamente svegliato da un profondo letargo. Il lungo dominio esercitato dalla teologia era minacciato dalle scoperte geografiche e scientifiche. Costruzioni del pensiero ritenute fino ad allora saldissime rischiavano di crollare sotto il peso delle insidie che la scienza, con Galileo, Harvey e poi Newton, aveva scatenato.
La mente prensile di Descartes si muoveva con estrema agilità in quella nuova visione del mondo. Il suo talento per le scienze non era da meno del suo genio filosofico. La sua ambizione era di riuscire a unire saldamente i due saperi: la filosofia non avrebbe dovuto fare a meno della scienza, che a sua volta si sarebbe dovuta servire delle conoscenze filosofiche per dar vita a quel sistema di regole certe senza il quale l’uomo avrebbe continuato a vivere nel disorientamento e nell’oscurità. Quella tensione fu il lascito che Descartes trasmise ai secoli successivi.
Anche nel merchandising filosofico Descartes eccelleva: fu un genio della formula breve. Coniò con tre parole una sentenza il cui successo sarebbe giunto indenne fino ai giorni nostri: Penso dunque sono. Icastica, evidente, esplosiva come un messaggio pubblicitario. Ma davvero pensare equivaleva ad essere? E poi pensare a cosa? Possiamo immaginare il filosofo mentre con cura esamina il dettato della mente e lo separa dal corpo; vederlo chino su quella macchina prodigiosa che è l’uomo, destinata a corrompersi; osservarlo davanti al sorprendente spettacolo che il mondo consegna al suo sguardo, colmo di ammirazione ma non fino al punto da trarlo in inganno. Troppe cose che vi accadono sono soggette alla contraddizione, alle incertezze.
Nasce qui il famoso dualismo cartesiano: separare e dubitare sono le sue armi conoscitive. Il dubbio in lui non ha una portata scettica. È un’arma metodologica per dirimere il vero dal falso, il reale dal sogno, il ragionevole dal folle. In genere queste partite filosofiche finivano ancor prima di cominciare. Prima di René la filosofia armeggiava con le sue certezze, le sue gerarchie, i suoi modi scolastici. Se si scrutava il cielo lo si faceva con gli occhi di Aristotele e guai a sgarrare, guai a controvertire idee e processi stabiliti e saldamente nelle mani dei dotti. Pensare in modo non retto poteva essere molto pericoloso. Descartes, così incline al nuovo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro nel sostenere certe tesi. L’accusa di ateismo avrebbe potuto distruggergli la carriera, buttarlo nello sconforto o peggio in qualche buia galera.
Quest’uomo accorto - in corrispondenza con mezza Europa, mentre con l’altra metà litigava - era conscio di ciò che rischiava. Memore delle disavventure accadute a Galileo, della censura e poi dell’abiura nelle quali il grande scienziato era incappato, Descartes agì con cautela. Rinunciò a pubblicare alcuni libri. Il che non gli impedì di imbattersi in lunghe e asfissianti polemiche con chi vedeva nella sua filosofia una temibile rivoluzione, una cancellazione di Dio, un insulto ai grandi e stabili precetti della Chiesa. Il nichilismo, su cui oggi molto si discetta, incubava involontariamente nei pensieri di Descartes, prima che in quelli di Nietzsche.
Eppure egli non voleva sbarazzarsi di Dio. Anzi la sua ambizione era di dare a questa entità somma la dignità ontologica che le spettava. Ma dopo aver sentenziato cogito ergo sum, come poteva credere che i lupi della scolastica lo avrebbero risparmiato?
Proviamo a scendere per un momento nel dettaglio. Al penso dunque sono Cartesio vi giunge dopo un esame che libera il pensiero dalle insidie che la realtà può riservargli. D’altra parte, posso io dubitare di quest’ultima? Certo che sì, dal momento che potrei sognare ciò che ritengo di aver vissuto, o perfino posso essere ingannato da qualche diavolo, per non parlare del folle che ritiene che il suo corpo sia di vetro. La sola cosa che gli appare dotata di inoppugnabile certezza è l’idea stessa del pensare. Anche se sognassi, o fossi ingannato o finissi nei fumi dell’allucinazione, non potrei mettere in dubbio il fatto stesso che quelle cose le ho pensate.
Questa lezioncina di filosofia non sgomenti, perché l’aspetto interessante non è tanto l’argomentazione cartesiana, quanto quello che la celebre frasetta poté produrre sul piano delle conseguenze. Si può sospettare, per esempio, che penso dunque sono sia un duplicato della potenza divina, traducibile in Dio pensa, dunque è, dunque crea.
Ma il fatto di aver ricondotto questa potenza alla natura umana suggerisce questioni ulteriori. Che cosa accade se l’uomo si sostituisce a Dio? Descartes non era del tutto ignaro dei rischi ai quali sarebbe incorso dando all’Io penso lo statuto della sovranità assoluta. Tutte le avventure moderne del Soggetto nascono lì e si sviluppano fino a infrangersi sui muri del Novecento che frantuma quell’Io diventato impensabile.
È dunque un passaggio obbligato chiederci che cosa resta del nostro magnifico filosofo, espropriato di quell’Io sul quale tanta filosofia successiva ha provato in modi diversi a fondarsi. Oggi - che lo slogan è "non penso dunque sono" - oggi che il pensiero è diventato il più futile tra gli strumenti del conoscere, e che pensare equivale a quell’apparire sempre miracolosamente in bilico tra una certa idea di successo e l’essere ricacciati nell’anonimato, oggi che il corpo ha spostato in modo sensibile le argomentazioni filosofiche, non avrebbe molto senso definirsi cartesiani.
La monumentale iniziativa di Bompiani ci restituisce nella sua integrità filologica un’incantevole figura metafisica, dalla quale tutto ci divide tranne il desiderio di misurarsi con la sua intelligenza. Che fu aspra e scevra da pregiudizi, e in ultima analisi egocentrica e introspettiva come poche. Descartes morì nel 1650 a 54 anni per una polmonite. In spregio al medico curante che Cristina di Svezia gli aveva mandato, tentò di curarsi da solo. La leggenda vuole che sia stato avvelenato.
Piccoli sogni crescono assenti nei bimbi si formano con l’età
Scoperta in Usa: la vera attività onirica inizia a 5 anni
Solo nel 20% dei piccoli il sonno è animato da qualche scena. Quasi mai d’azione. Le prime storie interessanti arrivano dopo
di Elena Dusi (la Repubblica, 25.01.2010)
ROMA - Anche a sognare si impara. Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che si immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d’acqua senza vento. E ai genitori svegliati da pianti o resoconti di incubi i neuroscienziati spiegano che non dal sonno quelle paure scaturiscono, ma da stati incompleti di veglia in cui i piccoli si ritrovano confusi e disorientati.
Allo sviluppo dell’attività onirica nei bambini dedicano un capitolo Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell’università del Wisconsin a Madison, in uno studio più generale sulla natura dei sogni pubblicato dalla rivista Trends in cognitive sciences. Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai 7 anni di età.
Il pioniere degli studi sui sogni nell’infanzia fu lo psicologo americano David Foulkes che con infinita pazienza passò gli anni ’80 e ’90 a svegliare bimbi in piena notte nel suo laboratorio per farsi raccontare tra uno stropicciamento di occhi e un mugugno cosa stavano sognando. Fu lui il primo a stupirsi del fatto che, mentre gli adulti hanno quasi sempre una scena bizzarra da ricordare se svegliati durante la fase Rem (quella in cui si concentra l’attività onirica), solo il 20 per cento dei bambini riferiva di aver avuto un sogno in corso fino a un attimo prima.
«La natura statica dei sogni prima dell’età scolare - scrivono Tononi e Nir - si accorda con la difficoltà di pensare gli oggetti durante le rotazioni o le trasformazioni in genere» e con «lo sviluppo incompleto della facoltà di immaginazione, in particolare di quella visuale e spaziale». La mancanza di un vocabolario adatto a descrivere la bizzarria dei sogni o la scarsa voglia di collaborare con quel signore col camice bianco che li ha svegliati sul più bello del riposo non bastano a spiegare, secondo i ricercatori di Madison, perché i più piccoli non abbiano quasi mai sogni da raccontare.
I sogni piuttosto crescono insieme ai bambini. Fino a 5 anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. Nel sogno appare magari un animale, o si ha desiderio di mangiare. Le emozioni sono assenti, come pure le interazioni fra i personaggi. I ricordi delle giornate trascorse non bussano alle porte della notte e i bambini non riferiscono mai scene di aggressione, situazioni spiacevoli, paura o altre emozioni.
È a partire dai 5 anni che i sogni cominciano ad avere una trama, ancora molto banale. I protagonisti si muovono e scambiano qualche parola. Ma la frequenza degli episodi onirici è ancora bassa, lontana da quell’80-90 per cento registrata negli adulti svegliati durante il sonno Rem, anche fra coloro che sono convinti di non sognare mai semplicemente perché al mattino la memoria ha perso ogni traccia della movimentata vita notturna del cervello.
L’incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi. E che la loro attività onirica si limiti piuttosto a scene semplici e prive di azione. Nelle persone che hanno perso la vista invece (purché questo sia avvenuto dopo i 5-7 anni di età) le immagini e gli oggetti registrati durante l’infanzia tornano per tutte le notti della vita a riproporsi nella corteccia visiva, come se gli occhi non avessero perso la loro funzione.
I piccoli sognatori cominciano ad avere storie interessanti da raccontare a partire dai 7 anni. Ecco allora affacciarsi le emozioni nelle loro notti. I bambini in sogno si ritrovano a pensare, provano gioie o paure. Rivivono episodi avvenuti durante la giornata o ripescati dalla memoria autobiografica. E diventano finalmente protagonisti di trame sempre più colorate, complicate e - come in ogni sogno che si rispetti - bizzarre e divertentissime da raccontare.
Giulio Tononi, neuroscienziato dell’Università del Wisconsin
"Di notte il film d’un regista maldestro che ci saccheggia il fondo del cervello"
La corteccia cerebrale "suggerisce" un tema, per esempio la paura, e lì parte un’elaborazione piuttosto disorganizzata
di e. d.
ROMA - Dai tempi di Aristotele l’uomo scrive e si interroga sulla natura dei sogni. E per Giulio Tononi, neuroscienziato dell’università del Wisconsin, oggi disponiamo dei mezzi tecnici per svelare molti dei suoi misteri. «Mi occupo di sonno e di studi sulla coscienza» spiega. «E il sogno si trova esattamente all’incrocio fra questi due mondi».
Qual è il nesso fra sonno e coscienza?
«Prendiamo la fase del sonno a onde lente all’inizio della notte. Se qualcuno ci sveglia non abbiamo nulla da dire, da ricordare. Non c’eravamo, avevamo perso coscienza. Durante l’attività onirica invece, tipica ma non esclusiva del sonno Rem, il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E tutto questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna».
Il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona.
«Esatto, e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché? Quale interruttore entra in funzione? È uno dei misteri più affascinanti del sonno, e speriamo di potervi rispondere presto».
L’altra domanda che affrontate è quale sia la sorgente dei sogni.
«Esistono due idee generali. La prima è che dalla parte profonda del cervello partano degli stimoli sensoriali piuttosto disordinati verso la corteccia, e che questa faccia il possibile per dare un’interpretazione a questi segnali. La seconda ipotesi, per la quale io propendo e che nasce dalle teorie di Freud, prevede che sia la corteccia a "suggerire" un tema che le sta molto a cuore. La paura, per esempio. E da lì un regista piuttosto disorganizzato cerchi di mettere insieme un film con gli elementi più disparati presi dalle aree profonde del cervello».
Da Chagall a Fellini, l’immaginazione come conoscenza
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 24.12.2010)
I sogni aiutano a capire il presente e ad immaginare il futuro. Basta prestare loro attenzione. Ma non tutte le epoche riconoscono il valore dell’irrazionale e il coraggio di affidarsi alla fantasia traducendo l’ispirarsi alle immagini oniriche anche in suggerimenti per l’agire pratico. Si va da momenti in cui progetti vengono annunciati nel nome di un sogno (vedi Kandinsky, padre dell’astrattismo: «Ogni opera nasce dall’inconscio» , o l’ «I have a dream» di Martin Luther King) a tempi nei quali invece individuo e sociale optano per riferimenti sicuri; temendo ciò che è nuovo o diverso, si pongono sulla difensiva, non levano lo sguardo oltre l’uscio di casa preoccupati di preservare le conquiste acquisite. Si può dire che da sempre compagna della vita è un’oscillazione fra due tendenze della psiche: una che punta su utilità e immediatezza e ha bisogno del controllo d’una coscienza che tende a irrigidirsi e finisce per essere un po’ persecutoria; l’altra curiosa del nuovo, fiduciosa in quel che viene, disponibile ad aprirsi anche al mistero e all’ignoto.
La mostra «Teatro del sogno, da Chagall a Fellini» , in corso a Perugia sino al 9 gennaio 2011, ha un significato che va oltre l’evento, in quanto entra nel vivo della dialettica tra propensione raziocinante/conservativa e aspirazione a traguardare gli orizzonti. Rappresenta uno sprone importante a prendere sul serio i sogni. A partire dal titolo, che contrasta i luoghi comuni, secondo cui il sogno sarebbe esperienza privata, elusiva, rifugio di desideri improbabili e di conflitti celati, immagini che si dissolvono al risveglio, lasciando magari l’amaro in bocca o il senso frustrante dell’evanescenza quando si torna a ciò che per la mentalità corrente conta: la concretezza del quotidiano.
Ricorrendo al teatro, invece, si evocano le funzioni della dinamica drammaturgica, si mettono in luce conflitti interni ed esterni al sognatore e il suo ruolo, si aiuta la trasformazione interiore del soggetto, che nel racconto dell’avventura onirica si confessa (con effetti catartici), e di chi ascolta la narrazione del sogno. Col dialogo tra le parti e lo scambio di vissuti la coscienza comune cresce: lo sa chi frequenta teatri. Un’idea del ruolo responsabilizzante del sogno viene da Jung che per primo applicò alla scena onirica la metafora drammaturgica e scrisse nel 1916: «Chi sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme» . E il freudiano Fausto Petrella in anni più recenti ha potuto teorizzare la «mente come teatro» .
È un percorso naturale il confronto che la mostra fa con il «secolo sognatore» , quel Novecento che si inaugura con L’interpretazione dei sogni di Freud e sviluppa nel pensiero, nelle arti, nella letteratura l’affrancamento dalla visione positivista e dalla ripetitività dei linguaggi, sovvertendo modelli sperimentati. Le avanguardie che spalancano le porte all’irruzione dei contenuti inconsci e cercano forme originali in cui plasmarli sono poi anche alimento e riflesso di utopie e «grandi sogni» collettivi, fra rivoluzioni, palingenesi sociali, tragedie. Anche le parole non sono più sufficienti a star dietro ai sogni; l’avanguardia stessa diventa «neo» , poi «trans» e altro ancora.
Lo si vede nelle opere esposte a Perugia, che sarebbero potute essere più rappresentative nella scelta, ma che comunque offrono l’esempio di autori che si sono misurati con le atmosfere dell’inconscio: Chagall, innanzi tutto; poi, tra gli altri, Boccioni, Böcklin, Dalí, de Chirico, Ernst, Klee, Klinger, Magritte, Miró, Nomellini, Previati; per arrivare a Chia, Paladino, Schnabel, Salle. Il cinema, a sua volta, offre in mostra i riferimenti a Buñuel, Beckett, Hitchcock e in particolare a Fellini, di cui scorre un corto che monta straordinarie sequenze d’antologia. Per suggestioni più che per argomentazioni esplicite il «Teatro del sogno» segnala un’inversione di rotta nel panorama di un diffuso sentire civile povero, ripiegato, senza slanci.
Da Perugia cioè esce una forte spinta a mollare i particolarismi, a volare alto, rivalutare fantasia e universo immaginale, a un pensare per simboli aggreganti che può riconciliare l’individuo con se stesso e rendere solidali gli uomini tra loro. Conferma di un possibile nuovo corso viene da Pisa, dove, sino al 23 gennaio, si tiene un’altra mostra di grande suggestione: «Joan Mirò. I miti del Mediterraneo» che andrebbe visitata insieme a quella perugina.
Dalle opere e dalle frasi murali che le accompagnano spicca l’idea che Miró ha della ricerca artistica come «opera aperta» . Anche il sogno è così: nessuna interpretazione può esaurirne i significati. E il quadro- le parole di Miró suonano epigrafe per entrambe le realtà- «deve fecondare l’immaginazione».
La scienza è un teatro
Due saggi di Feyerabend contro l’autonomia dei saperi
Secondo il filosofo viennese non esiste nessuna demarcazione tra il sapere scientifico e l’arte:
si tratta di punti di vista diversi sulla realtà che possono integrarsi
di Teresa Numerico ( l’Unità, 16.1.13)
ROMA. SE C’È UN TESTO CHE INDIRETTAMENTE SEGNALA L’INSENSATEZZA DI CERTE PRATICHE DI VALUTAZIONE TECNOCRATICA E SETTORIALE DEL SAPERE SCIENTIFICO, MOLTO IN VOGA ATTUALMENTE IN ITALIA, questo è il volume di Paul Feyerabend (1924-1994) Contro l’autonomia (a cura di Antonio Sparzani, pp. 113, euro 12, Mimesis), che unisce due interventi di questo imprevedibile filosofo della scienza. Esso costituisce un vero e proprio J’accuse contro la tesi dell’autonomia delle discipline, da lui considerata solo una chimera convocata a difesa della presunta integrità e oggettività dei metodi adottati dalle scienze. Feyerabend argomenta invece appassionatamente in favore dell’impossibilità di valutare un oggetto di ricerca senza metterlo in rapporto con l’esterno della disciplina che se ne occupa: «Nel suggerire un’argomentazione scientifica non conosciamo mai completamente il suo significato».
Nonostante le differenze di stile e di epoca dei due testi raccolti (il primo scritto a metà degli anni ’60 del secolo scorso, l’altro un’intervista rilasciata alla sua ultima moglie Grazia Borrini, circa venti anno dopo), l’operazione editoriale è di grande raffinatezza intellettuale e dimostra la stringente attualità dell’opera del filosofo viennese, ferito durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre militava, suo malgrado, nelle fila dei tedeschi. L’incidente, del resto, lasciò un segno indelebile sul suo corpo, costringendolo a zoppicare vistosamente per tutta la vita. L’autore di Contro il metodo si scaglia contro l’autonomia e la specializzazione delle scienze mostrando l’irrazionalità e l’ideologia dei fautori della coerenza e della rigidità interpretativa delle pratiche scientifiche per eccellenza, gli esperimenti. La sua posizione serve a segnalare il carattere di totale astrattezza e di vera e propria religiosità della presunta «scientificità». Feyerabend sostiene che aver rifiutato l’autorità, la tradizione e la riflessione metafisica non abbia condotto ad un aumento di capacità critica nella scienza, ma ne abbia anzi irrigidito i confini impendendo un confronto vero con ciò che è esterno ad essa.
Uno sguardo critico sulla scienza, al di fuori del dogma empiristico di baconiana memoria, mostrerebbe che non c’è nessuna sostanziale differenza tra scienza e arte perché «si sovrappongono in molti casi (...) se vi è una scoperta è che le suddivisioni non hanno senso e se guardi alle attività umane queste si fondano una sull’altra in quello che alcuni chiamano scienza, e da lì nelle arti». Insomma secondo il filosofo non esisterebbe alcuna precisa linea di demarcazione capace di separare sensatamente la scienza dall’arte. Il teatro dalla fisica e così via. Ciò che esiste, invece, è piuttosto una grande discrepanza tra i percorsi reali degli scienziati per arrivare alle proprie scoperte e i modi in cui essi sono disposti a parlarne. Solo se gli scienziati fossero onesti si potrebbe davvero agire un processo critico, mettendo in discussione le ipotesi di partenza delle ricerche analogamente a come si interrogano le osservazioni sulla poetica di un autore a partire dalla sua opera.
Il caso del teatro è, per Feyerabend, emblematico. Il palcoscenico offre la possibilità di provare in modo simultaneo diverse ipotesi sulla realtà, attraverso l’uso di un dispositivo complesso come la messa in scena, nella quale oltre alle parole contano i gesti, i volti, le luci, il tono della voce, e molto altro ancora. La macchina teatrale consente di dare conto della molteplicità e della compresenza dei punti di vista dei personaggi. Essa rende possibile il cambiamento, non come una conseguenza delle precedenti premesse, ma come uno dei tanti, caleidoscopici esiti immaginabili a partire dal confronto, dalla rappresentazione multipla, teorizzata da Bertolt Brecht, con il quale il filosofo aveva collaborato da giovane. Prima di dedicarsi agli studi, subito dopo la II Guerra Mondiale, Feyerabend, infatti, aveva lavorato per il teatro.
La scienza dunque come teatro delle ipotesi che si sfidano tra loro sul terreno dell’esperienza, degli esperimenti, ma anche su quello del benessere della società al quale gli scienziati non dovrebbero mai smettere di fare riferimento quando valutano i propri risultati. Studi umanistici e scientifici troverebbero in questo caso la loro piena integrazione.
Il discorso sul metodo come un autoritratto che spiega chi siamo
Cartesio: «Il dubbio conduce alla verità»
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 19.01.2011)
«Sarò ben lieto di illustrare in questo discorso quali sono le strade che ho seguito e di rappresentarvi la mia vita come in un quadro» : René Descartes, in latino Cartesius, esordisce nelle vesti di pittore nella sua prima opera, pubblicata nel 1637, che passerà alla storia come uno dei testi fondamentali della filosofia moderna. Ne Il discorso del metodo (o sul metodo seguendo la traduzione più diffusa) i fondamenti dei suoi principi filosofici, che hanno condizionato il dibattito filosofico scientifico per oltre due secoli, vengono dipinti come un autoritratto.
In queste splendide pagine, racconto della vita e racconto della ricerca filosofica si fondono a un punto tale da essere entrambi necessari per spiegare l’avventura della conoscenza. E per raggiungere un pubblico più vasto, non solo degli addetti ai lavori, l’autore sceglie di esprimersi non in latino ma in volgare, scrivendo, secondo De Gourmont, uno dei capolavori della lingua francese.
Cartesio parte dalla sua esperienza di giovane studente per prendere coscienza del fatto che, dopo molti anni di studio, «mi trovai gravato da tanti dubbi ed errori che mi sembrava di non aver tratto altro beneficio, cercando di istruirmi, se non la consapevolezza sempre più chiara della mia ignoranza» . Così decide di intraprendere una serie di viaggi alla ricerca di un sapere «che avrei potuto trovare in me stesso o nel gran libro del mondo» .
E, nel prendere atto della varietà delle usanze e della diversità delle opinioni, «nutrivo sempre un estremo desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni e camminare con sicurezza in questa vita».
Cartesio, insomma, è convinto che solo l’esercizio del dubbio può condurre alla verità. Di un dubbio radicale che deve investire ogni tipo di conoscenza. Bisogna smontare mattone per mattone la casa del sapere, rifiutando qualsiasi autorità e passando al vaglio tutte le conoscenze ereditate. Ma smontare la casa - le metafore architettoniche ricorrono spesso nel Discorso - non significa lasciare il vuoto al suo posto.
Al contrario: il «dubbio metodico» è il mezzo di cui ci si serve per ricostruire un’altra casa più solida, le cui fondamenta sono costituite da un’affermazione che non dà adito a nessun tipo di dubbio: «Penso, dunque sono» . Perché proprio nell’atto di pensare che ogni cosa è falsa non posso negare di essere qualcosa: «Per pensare è necessario esistere» . Ma c’è di più: il dubitare ci fa capire che noi siamo comunque esseri imperfetti e che la nostra idea di perfezione non potendo appartenerci è stata immessa in noi dall’esterno, da un essere perfetto, da Dio (su questo tema però non sono mancate le critiche: si dimostra l’esistenza di Dio attraverso idee chiare e poi si chiama Dio come garante di queste stesse idee).
La complicata ricerca della verità presuppone quindi un metodo che si fonda esclusivamente sull’uso della ragione. E di questo metodo esistono le prime quattro regole importanti: l’evidenza («non accettare mai per vera nessuna cosa che io non accettassi per evidenza» ), l’analisi («dividere ciascuna delle difficoltà che avrei esaminato... per risolverle meglio» ), la sintesi (iniziare «dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere» fino a risalire «alla conoscenza dei più complessi» ) e l’enumerazione (ripercorrere le verità conosciute per ricostruire la catena dei collegamenti).
Ma in questa opera Cartesio non vuole essere prescrittivo: «Il mio progetto non è quello di insegnare in questa sede il metodo che ciascuno deve seguire per guidare rettamente la propria ragione, ma solo di far vedere in quale modo ho guidato la mia» . Ecco perché la sua esperienza filosofica non si traduce in un trattato, ma in un discorso, in un racconto, in una «favola». Perché i viaggi, le riflessioni solitarie, i dialoghi con i classici del passato servono soprattutto a capire noi stessi e il mondo che ci circonda. Non si studia per avere «onore o guadagno» , ma per arricchirsi di sapere. Pensieri edificanti, lontani ormai anni luce dalla rozza mentalità di chi oggi predica che la «cultura non si mangia» e che «le quattro pietre di Pompei» non meritano nessuna attenzione.
Odilon Redon
In quello spazio tra veglia e sonno il suo «io» diviso incontrò Freud
Così esplora la mente tenendo ben salda la bussola della coscienza
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 31.03.2011)
Scrive Odilon Redon nel 1898, quando è già un pittore famoso: «Tutto si crea per la sottomissione docile alla venuta dell’inconscio» . La data coincide con la pubblicazione della «Interpretazione dei sogni» , che Freud volle datare 1900 per sottolinearne il significato inaugurale.
Entrambi, seguendo i labirinti del sogno, dischiudono all’investigazione uno spazio intermedio tra veglia e sonno, ragione e passione, giorno e notte, senza tuttavia smarrirsi nei suoi meandri. Pur affidandosi alla deriva delle libere associazioni, l’artista e lo psicoanalista tengono ben saldi la bussola della coscienza e gli strumenti della competenza.
Sin dall’inizio Redon, soprannominato il Principe dei sogni, abbandona la luce vibrante dell’impressionismo, la natura dispiegata alla ricezione dei sensi, in auge in quel momento, per calarsi nelle tenebre impersonali delle fantasie e dei sogni che animano l’inconscio. Benché costituisca un enigma per i contemporanei, Redon non sarà mai un personaggio emarginato, un artista maledetto. Lo salvaguardano una vasta cultura, una straordinaria versatilità tecnica, l’intima adesione alla morale tradizionale, nonché una solida appartenenza borghese.
I contenuti della sua arte sono visionari, ma il linguaggio è classico, talora straniante, ironico e dissacrante. L’intento non è di suggestionare, ma di predisporre a pensare. Le fonti d’ispirazione sono innumerevoli: la storia dell’arte, la letteratura, l’evoluzionismo scientifico, la botanica, l’entomologia, la mitologia europea e indiana, il misticismo e l’esoterismo. Da qualunque parte giungano, le immagini che lo colpiscono vengono estrapolate dal contesto, spezzate e gettate nel crogiuolo onirico da dove riemergono assemblate dalla stravagante a-logica dei sogni, che ignora il tempo, lo spazio, il principio di non contraddizione.
Eppure nell’indeterminazione fluttuante della sua pittura si scorgono alcune, significative linee evolutive. La prima conduce dal nero ai colori. Gli anni 80 sono contraddistinti dai Noirs e da soggetti drammatici come «La paura» , «La battaglia delle ossa» , «Nel sogno» , «Ragno» , «Pegaso prigioniero» , «La Nuit» e dall’incontro con le opere oniriche di Goya, Poe, Flaubert.
Successivamente, però, con «Occhi chiusi» del 1890, la sua tavolozza si arricchisce di un’ampia gamma di tinte, la pennellata si fa luminosa, plastica e vibrante come se avesse ritrovato entro di sé il mondo esterno. Per una ulteriore metamorfosi, il suo processo creativo ascende dall’infimo al sublime, dalle creature primitive e grottesche, come i ragni con teste umane, alla bellezza ideale, ispirata dall’arte italiana delle origini, culminante in un profilo neutro, dipinto in blu cobalto su sfondo d’oro. Quell’idolo immobile, astratto e impersonale, conclude una faustiana «discesa all’inferno» con l’idea platonica del bello, cui Redon ha votato la vita e la ricerca, come rivela nell’autobiografia «À Soi-même» .
Dall’archeologia di un immaginario caotico e frammentato, Redon, ormai vecchio, porta alla luce una piccola cosa, una conchiglia che lo connette a Mallarmé, il poeta a lui più caro. Entrambi scorgono, in quel guscio cavo, un simbolo del grembo materno. Nel suo vuoto risuona, come la voce del mare, il desiderio inconscio, reso dal divieto dell’incesto tanto impossibile quanto insistente. È significativo che Redon non volle mai esporre quel quadro, come se appartenesse alla sua più segreta intimità.
Infine, nell’ultimo autoritratto del 1910, Redon, che ha attraversato l’immaginario apocalittico del Romanticismo conservando la fiducia nella ragione illuminista, ricompone nel suo volto l’ambiguità, l’ambivalenza, le contraddizioni dell’esistenza. La parte destra, in piena luce, scruta lo spettatore mentre quella sinistra, oscurata dall’ombra, sfuma nell’indeterminato. L’Io diviso che costituisce la nostra identità, suggerisce Redon, deve e può essere ricomposto dal soggetto che si «disegna» secondo un desiderio, conscio e inconscio, che ne delinea le possibilità e i limiti.
Achille sogna Patroclo
Il sonno più bello della storia dell’Occidente
Pensiero cosciente e immagini emerse dal nulla: dall’epica di Omero all’interpretazione di Freud
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 15.04.2013)
I sogni dei tempi omerici hanno una qualità straordinaria. Quelli dei tempi moderni nascono dalla psicologia: fioriscono nell’ombra che ci accompagna, rivelano le nostre ansie e i nostri dolori, rispecchiano la tumultuosa complessità del nostro passato: mentre i sogni omerici posseggono una vita autonoma, preesistono e sono estranei alla esistenza dei sognatori.
Così scrive Giulio Guidorizzi nella prima parte del suo bel libro Il compagno dell’anima. I Greci e il sogno (Raffaello Cortina). Abitano molto lontano da noi, presso la «rupe bianca» e le «porte del sole», all’estremo occidente della terra, non lontano dall’Ade. Il loro signore è il dio Ermes, che guida sia i morti sia i sogni. Li conduce con la sua bacchetta d’oro, con la quale, quando vuole, chiude gli occhi degli uomini, o li desta dal sonno. Guidati da Ermes, essi sciamano, percorrono il mare e la terra e si introducono, non sappiamo come, nelle menti degli uomini.
Chi legge l’Iliade o l’Odissea conosce la seconda qualità dei sogni omerici. Sono compatti, fluidi, narrativi: si organizzano naturalmente come racconti; a differenza dei sogni moderni, che sono un complesso di frammenti suddivisi, spezzettati, disordinati, ai quali soltanto l’interpretazione dello psicoanalista conferisce una architettura. Qualcuno potrebbe obiettare che questa compattezza dipende dal fatto che Omero li costruisce sapientemente con la ragione e quindi appartengono alla coscienza.
In realtà, la luce dei sogni omerici non ha niente a che fare con quella della ragione: è una forza molto più misteriosa, che opera nell’ombra, ha tutte le proprietà elusive e ambigue dell’ombra, e una qualità luminosa e divina, che ci rende chiari i particolari e i significati.
Credo che il sogno più bello della letteratura greca e occidentale sia quello di Achille, nel ventitreesimo libro dell’Iliade. Achille stava disteso sulla riva del mare, in un punto sgombro da navi, e gemeva dal profondo del petto. Quando il sonno lo prese, lo avvolse dolcemente, sciogliendo le pene del suo cuore e delle sue membra. All’improvviso, gli apparve l’ombra di Patroclo: simile a lui in tutte le cose, la statura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti. Come fanno i sogni, gli rimase sospeso sopra la testa.
Poi prese a parlargli: «Tu dormi, Achille, e ti dimentichi di me. Non ti scordavi di me quando ero vivo, ma ora che sono morto ti scordi di me. Sono disteso fuori dal portale dell’Ade e le altre ombre non mi permettono di unirmi a loro oltre il fiume. Dammi sepoltura al più presto, in modo che anch’io possa passare. Quando mi avrai onorato col fuoco, non tornerò più dall’Ade. Mi ha ghermito la morte odiosa e non staremo mai più insieme, appartandoci dai nostri compagni, a discutere piani e progetti, come quello di conquistare Troia da soli. Presto la morte afferrerà anche te, per mano di un dio e di un troiano».
«Ma ti prego di un’altra cosa» continuò l’ombra di Patroclo. «Siamo cresciuti fin da bambini nella stessa casa, dove mi ospitò tuo padre, Peleo: e tu non mettere le tue ossa divise dalle mie; la stessa anfora d’oro, quella che ti ha dato tua madre, accolga insieme le nostre ossa». Di rimando gli disse Achille. «Certo io farò tutto per te e mi comporterò come desideri. Ma avvicinati a me. Abbracciati almeno per un istante, gustiamo insieme il piacere del pianto amaro».
Achille distese le braccia attorno all’ombra di Patroclo: ma non poté stringerla al petto: il mondo dei vivi è totalmente diverso da quello dei morti; noi non possiamo abbracciare le persone morte che amiamo, come apprenderà anche Ulisse nell’Ade, cercando inutilmente di abbracciare la madre. Stridendo, l’ombra di Patroclo discese come fumo sotto la terra.
Achille si svegliò stupito, batté le mani una contro l’altra, e disse: «Ah, esiste anche nell’Ade l’ombra e la parvenza. Ma non è vita. Tutta la notte mi è stata accanto l’ombra di Patroclo, in tutto simile a lui: piangeva e gemeva e mi ha comandato molte cose, una per una». Così finiscono spesso i sogni, osserva Guidorizzi: nel momento culminante, con un desiderio incompiuto, nel passaggio dal sonno alla veglia.
La immagine di Patroclo è certo un sogno: ma è al tempo stesso una realtà oggettiva, un’ombra insepolta presso le porte dell’Ade, che viene risospinta dalla realtà dei vivi a quella dei morti. Non possiamo dire se l’immagine di Patroclo svanisca perché Achille si risveglia o fugga via perché l’apertura che connette i vivi e i morti si è improvvisamente chiusa per qualche misteriosa ragione.
* * *
Questi sogni, che provenivano da lontano, guidati da Ermes, non erano visioni isolate, ma facevano parte di uno stesso sistema di segni. Come diceva Sinesio, un tardo neoplatonico, essi erano connessi tra loro in un grande libro: una catena di significati legava tra loro tutte le manifestazioni del cosmo secondo leggi ignote ai più, ma non per questo meno esatte. «Tutte le cose - scriveva Sinesio - sono collegate per parentela le une alle altre, affratellate in quell’unico organismo vivente che è l’universo».
Grazie alla rivelazione onirica possiamo scavalcare le barriere che separano l’alto e il basso, il mondo divino e quello umano, quello passato e quello futuro: le anime che popolano il giardino del mondo si avvicinano: possiamo sognare per conto di altri, sognare insieme a un altro lo stesso sogno; e vedere in sogno ciò che un altro vede nella veglia.
A questo punto la rivelazione onirica è un punto d’incrocio tra realtà differenti. Ma chi promuove questi incontri? La stessa fittissima e foltissima realtà dell’universo? O c’è un meraviglioso burattinaio - un dio o un demone - che gioca con i nostri sogni, si diverte a tessere tele vaste e incomprensibili?
Nella Grecia del tardo arcaismo si sviluppò l’idea che qualsiasi rappresentazione mentale - non solo quelle oniriche, ma tutte le altre forme di emozione e di riflessione - fossero il prodotto di una entità invisibile, racchiusa dentro ogni essere umano, chiamata anima (psyché). L’anima diventò così il vero io, e Socrate diceva che «bisogna prendersi cura di lei più di ogni altra cosa».
Da quel momento il sogno diventò il compagno dell’anima, come scrive Giulio Guidorizzi: un compagno segreto ma inseparabile. La sua esperienza era quella dell’anima in sé stessa e per sé stessa, senza che il corpo ne fosse coinvolto; ed era la prova certa che essa ha in sé «qualcosa di divino». Quando il corpo giaceva come morto nel sonno, l’anima si ridestava. La rivelazione onirica non aveva dunque nulla a che fare con la coscienza.
Durante il sonno si attivava una parte profonda dell’essere umano: ciò che l’anima vedeva mentre il corpo era addormentato, appariva come un ritorno alle origini: alle sue origini. «Quando dorme - scrisse Eschilo - la mente scintilla di mille occhi, mentre di giorno gli uomini sono di vista corta». Se il corpo riposava - disse un medico del sesto secolo a.C. - l’anima sveglia conosceva tutto, vedeva ciò che va visto, udiva ciò che va udito, camminava, provava dolore, provava ira, ricordo e amore.
Allora l’anima ascoltava voci prodigiose: un’aura amena circondava il suo letto: percepiva odori soavi: scorgeva una luce meravigliosa; le figure sacre apparivano maestose e benevole, perfette nella loro bellezza. Poi, all’improvviso, il corpo si risvegliava: l’anima si addormentava; e l’epifania divina si dissolveva, lasciando dietro di sé la delusione dell’abbandono.
* * *
Passarono molti secoli. Alla fine del diciannovesimo secolo e al principio del ventesimo, Freud e Jung tornarono, come i greci, a occuparsi sopratutto dei sogni, come se fossero l’unica strada per scoprire la verità. Nel 1897 Freud cominciò a scrivere L’interpretazione dei sogni, con una passione, un furore e un invasamento poetico, che uno scienziato non ha mai conosciuto. Lavorava dieci ore al giorno. Poi, nelle ore notturne, dalle undici alle due, restava nello studio, al pianterreno della sua casa, a fantasticare, congetturare e interpretare.
L’interpretazione dei sogni è percorsa da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l’immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni - non i discorsi e le definizioni intellettuali - hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell’inconscio.
Freud scese nelle tenebre, nell’abisso, negli inferi, nel regno dell’Acheronte, dove abitavano gli dei della notte. Erano gli unici dei che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l’indimenticabile e l’indistruttibile, verso il quale provava un’infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l’archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all’ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacra dell’inconscio resta confinata nelle allusione letterarie dell’Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso e gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval o Jung.
I sogni di Freud sono composti di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l’inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così leggendo L’interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato il dio della notte scompare o viene modificato.
Il dio dell’inconscio assomiglia a delle figure che incontriamo continuamente nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici o tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria: mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta... Che il tremendo dio dell’Acheronte si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al secolo che inaugurava.
* * *
La rappresentazione greca del sogno, anche quella dei tempi più tardi, che Guidorizzi analizza con grande intelligenza, è molto più vasta, libera, mobile e polimorfa di quella degli psicologi moderni. Sia Freud sia Jung hanno consumato, sia pure in modi diversi od opposti, un’immensa quantità di inconscio: ma alla fine questo inconscio è stato trasformato, razionalizzato, spesso falsificato; e nei loro scritti resta pochissimo inconscio autentico. Per fortuna, la mente umana è stata salvata dai grandi scrittori, come Proust e Kafka, che percorsero la strada opposta a quella di Freud e di Jung.
Tutte le profondità della terra, le città sotterranee, le caverne incalcolabili, tutto il regno dell’ombra deve essere portato, Proust lo ripete mille volte, alla «piena luce». Quando era giovane aveva scritto: «Se il poeta percorre la notte, che sia come l’angelo delle tenebre, portandovi la luce». Ma qualsiasi illuminazione dell’inconscio, Proust lo sa egualmente bene, è estremamente rischiosa, perché l’intelligenza può cancellare e disseccare l’ombra, che dà profondità e vastità alla letteratura e all’esistenza. Quando viene alla luce, l’ombra deve riconoscere la sua vita, il suo abisso, il suo velluto, il suo setoso geranio.
In un brano abolito della Recherche, Proust espose il proprio programma: era necessario che le parti inconsce dell’io conoscessero direttamente sé stesse, senza passare attraverso la coscienza, diventando riflettenti, «come ha fatto la nostra carne sotto la fronte, là dove si è trasformata in occhio».
Dove nascono le storie
Dalla realtà o dall’inconscio? Dall’esperienza o dall’infanzia? Dalla paura o dal piacere? Viaggio alla ricerca dell’origine dell’ispirazione
di Zadie Smith (la Repubblica, 22.06.2014)
SPESSO, i miei soggetti sono le cose più semplici del mondo: la gioia, la famiglia, il clima, le case, le strade. Niente di fantastico. E quando mi siedo al tavolo con questi soggetti, il mio obiettivo è la chiarezza. Cerco di eliminare un po’ della confusione che ho in testa (in effetti, c’è un grande disordine nella mia testa). A volte penso che tutta la mia vita professionale si sia basata su questa intuizione che ebbi all’inizio, e cioè che molte persone si sentono confuse come me, e potrebbero essere felici di seguirmi in questa ricerca della chiarezza, della precisione. È un aspetto che amo della scrittura.
Niente mi rende più felice di sentire un lettore che mi dice: «È proprio quello che ho sempre provato anch’io, ma tu lo hai detto in un modo chiaro». Sento, allora, di aver fatto qualcosa di utile. Spesso, però, tutto ciò mi è sembrato lontano dalla vera narrativa e, a dire la verità, ci sono stati dei momenti, negli ultimi dieci anni, in cui mi sono sentita piuttosto distante dalle storie, e incerta su come raccontarle.
Avevo dimenticato (come i rapper amano dire) che cosa mi avesse spinto a cominciare. Poi ho avuto dei figli. Che storia noiosa “poi ho avuto dei figli”! Però, devo essere sincera. E la verità è che è accaduto qualcosa quando ho avuto dei figli. Sono passata dal non riuscire a inventare una sola storia, al non riuscire più a smettere di vedere delle storie praticamente ovunque mi girassi. Ora, io non sono un’essenzialista biologica, né una di quelle persone convinte che, con la placenta, ci arrivi anche il dono dell’empatia.
La spiegazione, a mio parere, è più semplice, e sono i libri di favole. Per la prima volta dalla mia infanzia, sono tornata nel regno delle storie e dei libri che raccontano storie (tre storie lette ad alta voce a un bambino di quattro anni, ogni sera, pena la morte) e questa pratica ha risvegliato in me qualcosa che credevo di aver smarrito molto tempo fa, forse durante la presentazione di un libro, o nell’ultima fila di un’aula universitaria.
Questa sensazione delle possibilità narrative e dello stupore, questa idea che ogni persona è un mondo. Come avevo potuto dimenticarla? Ero davvero quasi scivolata in quell’anemico percorso intellettuale in cui narrare una storia è considerato volgare e i personaggi macchie sulla purezza di una frase? Quasi, per fortuna.
Oggi sono così grata di poter rientrare in contatto con storie come Il dito magico di Roald Dahl. Mi sdraio sul letto con mia figlia, le leggo ad alta voce questo racconto kafkiano di una famiglia di cacciatori di anatre, che si svegliano una mattina con le ali al posto delle braccia, e torno alla mia scrivania con una facilità e fluidità che non avevo più provato da quando ero bambina.
La storia più inverosimile della mia vita è quella di una ragazza di Willesden, (un quartiere operaio nel distretto londinese di Brent, ndt). C’era una volta, che avevo nove anni. Era estate in Inghilterra, il cielo era blu, ma anche pieno di nuvole. Non ero - come dire - stracarica di amici. Faceva caldo, ma la scuola non era ancora finita, e questo ripresentava l’irrisolto problema della ricreazione, perché non puoi aggirati all’infinito per il cortile facendo finta di cercare i tuoi compagni.
Per nascondere la mia solitudine, passavo un sacco di tempo a guardare le nuvole, e una strana torre coperta di edera che si trovava accanto alla nostra scuola. Decisi che, in cima a quella torre, una giovane donna viveva la sua tragedia, prigioniera di un dio che voleva impedirle di sposare il suo vero amore, Superman. Non aveva senso, ma era una storia e diventai brava a raccontarla. Per attirare l’attenzione su di me, cominciai a raccontarla ai bambini nel cortile. Diventava più complessa ogni volta che la raccontavo, e finivo sempre col giurare sulla testa di mia madre che era tutto vero. Ve lo giuro! Vi giuro che c’è una giovane donna lassù, e manda in cielo segnali di fumo, sotto forma di nuvole: se ne vedi una che assomiglia a Superman, mettiti una puntina sotto la scarpa.
Più persone avranno delle puntine sotto le scarpe, più rumore faranno camminando, e più rumore faranno camminando... oh, non mi ricordo! Doveva avere una sua logica, ma non ricordo più quale. In ogni caso, il messaggio era: puntina sotto la scarpa. Devi metterti una puntina sotto la scarpa o quella poveretta morirà! È vero! Lo giuro su mia madre! È un miracolo che mia madre sia sopravvissuta a quell’estate.
Bene, la gente sembrava appassionarsi alla mia storia, sembrava che tutti ci si appassionassero, davvero; tutti tranne una bambina - si chiamava Anupma - che si mostrò scettica. Era molto intelligente, Anupma, il che era parte del problema. La retorica non la commuoveva. Aveva un problema logico fondamentale con la tripletta segnali di fumo/nuvole/Superman. E un giorno, di punto in bianco, venne verso di me, in cortile, e mi disse: «La tua storia non è vera. È una bugia. Lo voglio dire a tutti». E si mise a correre verso le aule.
Mentre la guardavo correre, provai la versione per bambine di 10 anni di una disperazione profonda. Tutto ciò che avevo costruito, tutti i miei nuovi amici, e la mia stessa autostima, tutto sembrava dipendere da questa storia ridicola. E ora lei minacciava di rivelare quello che era: una bugia. Dovevo impedirle di raggiungere l’aula. Le corsi dietro. Era veloce, non era facile. Ma proprio vicino al recinto della sabbia, misi una gamba davanti alle sue come un calciatore italiano e la feci cadere violentemente: subito, il suo ginocchio lacerato insanguinò il cemento.
Giaceva a terra piangente, sporca, sconfitta, e mi rivolse uno sguardo che non ho mai dimenticato. Vi era una domanda inorridita: che razza di persona è questa? Arrivò l’infermiera; portarono Anupma nell’ambulatorio scolastico per medicarla, e per quanto ne so non disse nulla contro di me, né riguardo alle mie bugie, né alla mia noncurante brutalità. Almeno, mi lasciarono andare via indisturbata perché rientrassi in classe. Raggiunsi i miei compagni nell’atrio. «Che cos’è questo rumore?», chiese l’insegnante mentre entravamo nell’aula. Tap tap tap. Ci misi poco a riconoscerlo. Puntine sotto tutte le scarpe.
Narrare storie è una disciplina magica, spietata. Chi racconta storie è spesso tentato di creare una gerarchia nella sua vita, in cui le storie vengono prima di ogni altra cosa, comprese le persone. Parte della mia ansia, rispetto alla narrazione, sta nella consapevolezza di quella parte monomaniacale di me che è disposta a bloccare a terra una bambina pur di preservare l’integrità di una storia. So che questa parte di me esiste, ma cerco davvero di sopprimerla, perché voglio trovare un compromesso tra il raccontare storie sulla vita e viverla bene.
The Independent Newspaper 2014 (Traduzione di Luis E. Moriones)
Il grande mistero dai sogni di Stevenson ai giornali di Flaubert
di Alberto Manguel (la Repubblica, 22.06.2014)
UNA notte, una delle tante notti in cui giacque nel letto sputando sangue, febbricitante e senza fiato, Robert Louis Stevenson, aveva allora 38 anni, sognò una terrificante tonalità di marrone. Fin dalla sua prima infanzia, Stevenson aveva definito i suoi frequenti terrori notturni come «le visite dell’Arpia della Notte», che solo la voce della sua bambinaia poteva calmare con fiabe e canti scozzesi. Le apparizioni dell’Arpia della Notte, tuttavia, continuarono a ripetersi, e Stevenson scoprì che poteva trarle a suo vantaggio esorcizzandole con le parole. L’orrendo colore marrone del suo incubo si trasformò dunque in un racconto. E fu così, ci dice, che nacque la storia del Dr. Jekyll e del signor Hyde.
Gli scrittori si stupiscono quanto i loro lettori dell’esistenza di creazioni letterarie di successo. Dante, riconoscendosi colpevole del peccato di superbia, implora prima le muse e poi Apollo di ispirarlo, ma sebbene ponga queste invocazioni all’inizio del Purgatorio e del Paradiso, il lettore sente che si tratta di riflessioni successive, che i primi barlumi di quel viaggio prodigioso vengono da qualcosa di meno elevato e di molto più banale, forse dal primo giorno in cui si rese conto che non avrebbe mai più rivisto la sua amata Firenze, forse dal primo momento in cui mandò papa Bonifacio all’inferno.
La storia del cavaliere errante in cerca di giustizia venne in mente a Cervantes, come egli racconta, mentre l’autore languiva ingiustamente in prigione; il racconto delle tragiche conseguenze, per Madame Bovary, del sogno di una vita diversa fu ispirato a Flaubert, si dice, dalla lettura di un articolo di giornale.
Bradbury spiega che i primi indizi dello spaventoso mondo di Fahrenheit 4-51 si affacciarono nella sua mente nei primi anni Cinquanta, dopo aver visto una coppia camminare mano nella mano su un marciapiede di Los Angeles, ciascuno intento ad ascoltare la sua radiolina con l’auricolare.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il momento della creazione letteraria ci è sconosciuto quanto quello dell’universo. Siamo in grado di studiare ogni istante dopo il Big Bang perché possiamo leggere (gli scrittori una volta le conservavano) ogni stesura di un libro come A la recherche du temps perdu o le varie versioni dell’ Amleto , ma il momento della nascita della maggior parte dei nostri libri più amati è ancor più misterioso. Che cosa fece balenare la prima idea dell’ Odissea o dell’ Iliade nella mente del poeta o dei poeti che noi chiamiamo Omero? Come ha fatto un narratore, incurante di metterci il suo nome, a ideare l’atroce storia di Edipo che avrebbe poi ispirato Sofocle e Cocteau? Quale triste amante in carne e ossa ha prestato il suo carattere all’irresistibile figura di Don Giovanni, dannato per l’eternità?
Dovremmo leggere la dichiarazione dell’evangelista Giovanni, «in principio era il Verbo », come una confessione d’autore? E se sì, quale era quella magica parola iniziale?
Le confessioni degli autori raramente suonano veritiere. Edgar Allan Poe spiegò, in un lungo saggio, che Il corvo nacque dall’intenzione di scrivere una poesia su quello che lui giudicava «senza dubbio, l’argomento più poetico del mondo», la morte di una bella donna, utilizzando per il suo ritornello le sillabe più risonanti della lingua inglese, ere ore. Le parole never e more (“ mai - più”) si suggerirono subito per il ritornello e, per fare in modo che potessero essere ripetute, scelse non una persona, ma un uccello in grado di pronunciarle: non un pappagallo, poco poetico ai suoi occhi, ma un corvo, più consono al suo cupo immaginario. La spiegazione di Poe è logica, presentata in modo brillante e del tutto incredibile.
Forse dovremmo accontentarci di ammettere che i miracoli sono possibili, senza chiederci come. E poiché crediamo ancora nella relazione di causa ed effetto, pretendiamo una spiegazione per ogni cosa: vogliamo sapere come sia avvenuta, che cosa abbia permesso che accadesse, quale fu il primo battito del cuore che mise in movimento la bestia, da dove venga questa cosa che ora abbiamo davanti.
Fortunatamente per noi, fortunatamente per la sopravvivenza dell’intelligenza umana, gli abomini si possono spiegare, anche se forse troppo tardi per porvi rimedio, attraverso l’analisi storica e psicologica. Altrettanto fortunatamente, per le creazioni letterarie non è così. Possiamo venire a sapere ciò che un autore ci dice sulle circostanze che circondano l’atto della creazione, che libri ha letto, quali fossero le minuzie quotidiane della sua vita, il suo stato di salute, il colore dei suoi sogni. Tutto, tranne l’istante in cui le parole apparvero, luminose e distinte, nella mente del poeta, e la sua mano cominciò a scrivere: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...» (Traduzione di Luis E. Moriones)