E Dio disse: «Non ho sempre ragione»
Una lettura originale di Levinas, Rosenzweig, Buber e Wittgenstein. La morale si lega a un’interpretazione del Talmud che pone al centro l’autonomia e la libertà umana.
di Hilary Putnam (Il Sole-24 Ore, 20 marzo 2011) *
Emmanuel Levinas è famoso per l’affermazione secondo cui l’etica è filosofia prima; con questo intende non solo che l’etica non deve essere ricavata da una qualche metafisica, nemmeno una metafisica "ontica" (ossia "anti-ontologica") come quella di Heidegger, ma anche che l’intera riflessione su ciò che vuol dire essere un essere umano deve iniziare con una simile etica "non fondata". Ciò non significa che Levinas vuole negare la validità, per esempio, dell’«imperativo categorico»: quel che rifiuta è ogni formula come «comportati in questo e quest’altro modo perché...». In molti e diversi modi egli ci dice che è disastroso affermare «Tratta l’altro come un fine e non come un mezzo perché...».
Eppure alla maggior parte delle persone sembra che ci sia un ovvio "perché". Se si chiede a qualcuno: «Perché dovremmo agire in modo da volere che le massime delle nostre azioni siano leggi universali?», oppure: «Perché dovremmo trattare sempre l’umanità negli altri come un fine e mai come un mezzo puro e semplice?», o ancora: «Perché dovremmo cercare di alleviare la sofferenza degli altri?», novantanove volte su cento la risposta sarà: «Perché fondamentalmente l’altro è uguale a noi». L’idea - o piuttosto il luogo comune - è che se capissi in che misura l’altro è come me, sentirei automaticamente il desiderio di dare una mano. Ciò nonostante, basta anche solo accennare ai limiti di una tale "fondazione" dell’etica affinché questi diventino ovvi.
Il pericolo di fondare l’etica sull’idea che noi siamo tutti «fondamentalmente uguali» è di aprire una porta all’Olocausto: basta solo pensare che alcune persone non sono "davvero" uguali per distruggere tutta la forza di una simile costruzione. Non c’è solo il pericolo di una negazione della nostra comune umanità (i nazisti affermavano che gli ebrei erano animali ripugnanti dotati di una forma umana apparente!): ogni buon romanziere ci fa calare nella vastità della diversità umana, e molti romanzi pongono la domanda: «Se tu sapessi davvero come sono le altre persone, proveresti mai compassione per loro?».
I kantiani faranno tuttavia notare che Kant si era reso conto di ciò, e per questo ha fondato l’etica non sulla "simpatia" ma sulla nostra comune razionalità; ma allora che ne è dei nostri obblighi nei confronti di coloro la cui razionalità possiamo, più o meno plausibilmente, negare?
Queste sono ragioni etiche per rifiutarsi di basare l’etica su un "perché" metafisico o psicologico. Levinas considera la metafisica un tentativo di vedere il mondo come una totalità, dall’"esterno", per così dire, e al pari di Rosenzweig, che cita, ritiene che in una tale prospettiva si perda il significato che la vita ha per il soggetto umano. Ecco cosa dice a Philippe Nemo: «Nella storia della filosofia ci sono state poche proteste contro questa totalizzazione. Per quanto mi riguarda, ho incontrato per la prima volta una critica radicale della totalità nella filosofia di Franz Rosenzweig, la quale rappresenta essenzialmente una discussione di Hegel (...) In Rosenzweig si ha dunque una disgregazione della totalità, e l’apertura di una via completamente diversa nella ricerca del sensato».
L’audace mossa di Levinas è di sostenere che l’impossibilità di una fondazione metafisica dell’etica mostra che c’è qualcosa di sbagliato nella metafisica, non nell’etica. (...)
Per comprendere questo pensatore profondamente originale è essenziale capire due fatti: che (1) Levinas attinge a temi e fonti ebraici, e (2) Levinas universalizza l’ebraismo (paradossalmente, perché è un ebreo ortodosso).
A ogni modo, è necessario tenere a mente che il suo ebraismo mostra una diffidenza "lituana" nei confronti del carismatico. Se il cristianesimo conferisce valore al momento in cui un individuo sente la presenza carismatica del Salvatore che entra nella sua vita, l’ebraismo, come lo presenta Levinas, diffida del carismatico. Scrive perciò in Una religione da adulti: -«Ma tutto il suo sforzo - dalla Bibbia alla chiusura del Talmud nel VI secolo e attraverso la maggior parte dei commenti della grande epoca della scienza rabbinica - consiste nel comprendere tale santità di Dio in un senso che rompe con il significato numinoso del termine. Il giudaismo rimane estraneo a ogni ritorno offensivo di tali forme di elevazione umana, le denuncia come l’essenza dell’idolatria. Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà si offende di questi surplus incontrollabili. Tale potenza in certo modo sacramentale del divino appare al giudaismo come qualcosa che ferisce la libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che rimane azione su un essere libero. Non che la libertà sia un fine in se stessa. Ma essa rimane la condizione di qualunque valore l’uomo possa raggiungere. Il sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza.
E in Per un umanismo ebraico Levinas scrive: «Il no opposto dagli ebrei (e in modo tanto pericoloso nel corso dei secoli) agli appelli della Chiesa non esprime un’assurda testardaggine, quanto la certezza che importanti verità umane dell’Antico Testamento si perdono nella teologia del Nuovo».
Quali sono queste «importanti verità umane» che Levinas universalizza? Evidentemente la sua nozione di "ebraismo" è sia selettiva sia idiosincratica, ma non è priva di una base. L’ebraismo rabbinico si è trasformato completamente dopo la caduta del Tempio: tale trasformazione ha comportato sottoporre tutti i testi religiosi, Bibbia ebraica inclusa, a un processo di interpretazione letteralmente senza fine (David Hartmann ha descritto il popolo ebraico come una «comunità di interpretazione»).
La generazione fondatrice dell’ebraismo rabbinico, la generazione che vide la distruzione di Gerusalemme e cominciò a Jamnia la costruzione di una nuova modalità di culto, non basata sul Tempio, includeva figure come il rabbino Johanan ben Zakkai, il rabbino Gamaliel, il rabbino Joshua ben Hananiah e l’immensamente erudito rabbino Eliezer ben Hyrcanus.
Un racconto del Talmud (Baba Metzia 59a-b) riferisce che in una disputa con alcuni degli altri membri del gruppo di Jamnia, Eliezer ben Hyrcanus sollecitò una serie di miracoli (che poi accaddero), inclusa una "voce celestiale" (bat kol), per provare che aveva ragione, ma perse il dibattito nonostante la voce celestiale e i miracoli. «Non teniamo conto di una voce celestiale», dissero i rabbini a Dio, «perché al Monte Sinai hai scritto nella Torah "di seguire la maggioranza"».
Il Talmud continua dandoci la reazione di Dio: narra che il rabbino Nathan, «imbattendosi» nel profeta Elia, chiese cosa avesse fatto allora Dio; «Ha sorriso», rispose Elia, «dicendo: i miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto!». Quantunque alcuni dei commentatori dello stesso Talmud affermino che i miracoli erano solo immaginati e non accadevano effettivamente, non c’è alcun dubbio che in questa riunione cruciale a Jamnia l’ebraismo si allontanò da ciò che Levinas chiama il "numinoso": da allora in poi l’autonomia umana doveva avere una voce nel determinare il significato del Comandamento divino.
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Saggezza ebraica come guida per la vita
Online potete trovare l’articolo «Fatti e valori della conoscenza» che Hilary Putnam, vecchia conoscenza di queste pagine, ha scritto espressamente per noi proprio sui rapporti tra Scienza e filosofia (vedi Il Sole 24 Ore - Domenica del 9 gennaio). E mentre in Svezia gli viene assegnata quella sorta di Nobel per la filosofia che è il Rolf Schock Prize, in Italia esce uno dei suoi libri più sorprendenti, Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, a cura di Massimo Dell’Utri e con un saggio dello stesso Dell’Utri con Pierfrancesco Fiorato, in libreria il 31 marzo (Carocci, pagg. 144, € 15,00) e di cui proponiamo uno stralcio.
Può un filosofo della scienza coltivare uno spirito religioso senza tradire i propri assunti di fondo? Putnam si è accorto che è possibile fin dalla metà degli anni 70, quando "scoprì" l’ebraismo e si accinse a studiare figure di spicco come Franz Rosenzweig, Martin Buber ed Emmanuel Levinas. A esse aggiunge Ludwig Wittgenstein, che, sebbene ebreo non praticante, ha sviluppato una concezione della religione a loro affine, che Putnam aveva già analizzzato in uno splendido capitolo di Rinnovare la filosofia (1992). Rinnovare la filosofia, appunto, per trasformarla in un’utile guida per la vita.Ar.M. [Armando Massarenti]
Intelligenza e Umanismo. La filosofia di Reza Negarestani
Reza Negarestani si è imposto negli ultimi anni come una delle figure più inclassificabili e originali della filosofia contemporanea. In “Intelligence and Spirit” (Urbanomic, 2018) propone una definizione non sostanziale e funzionalista dell’intelligenza: qualcosa “che si fa” e che può essere riprodotta anche da agenti non-umani, e il cui funzionamento non può che essere sociale, immersa nello spazio semantico-computazionale del linguaggio
di Gioele P. Cima (DinamoPress, 6 Agosto 2020)
Quando il suo nome ha iniziato a circolare tra le frange più esoteriche del realismo speculativo e delle avanguardie della filosofia contemporanea, non si aveva nemmeno la certezza che Reza Negarestani esistesse realmente, un po’ come ebbe provocatoriamente a dire alcuni anni fa Robin Mackay, il suo editore, quando durante un simposio proclamò che “Reza Negarestani non esiste!”. Dopo gli esordi tra le pagine di Collapse (una rivista filosofica indipendente nata nel Regno Unito nel 2006 sotto la direzione dello stesso Mackay) e la rapida diffusione dei suoi scritti nella blogosfera anglofona, nel 2008 Negarestani pubblica il suo primo acclamato libro, Cyclonopedia (Melbourne, Re.press, 2008), inaugurando secondo molti il genere della theory-fiction. Ibrido quasi ossessivo di teologia speculativa, demonologia islamica, horror lovercraftiano e molto altro ancora, Cyclonopedia condensa a tutti gli effetti la prima decade del lavoro di Negarestani, presentandolo come una delle voci più stravolgenti del XXI secolo.
Nonostante si tratti di un autore estremamente prolifico e impegnato in una sorprendente varietà di fronti (per appurarlo basta dare un’occhiata al suo bizzarro blog, Toy Philosophy ), per leggere il suo secondo libro occorre attendere fino al 2018. Il titolo di questo imponente tomo di circa seicento pagine è tutto un programma: Intelligence and Spirit. Così come è decisamente significativa la clamorosa virata che Negarestani sembra compiere rispetto alla cruda galassia di Cyclonopedia.
Se i referenti del “primo” Negarestani sono principalmente Deleuze e Guattari, Nietzsche, la numerologia mediorientale e il new-materialism, con Intelligence and Spirit il focus si sposta sull’idealismo tedesco, il pragmatismo brandomiano, il realismo critico di Wilfrid Sellars e la filosofia del linguaggio di Rudolf Carnap e Hilary Putnam.
Questa sterzata ha suscitato non poche perplessità tra i lettori di Negarestani, tanto che alcuni di loro sono persino arrivati a considerare Intelligence and Spirit come una clamorosa abiura dei primi lavori del filosofo iraniano, un ripudio dell’orrore e della misantropia del reale in favore di una specie di umanismo illuminato, universalista e iperbolico. A dispetto di tali sensibili differenze di fonti e di contenuti però, sembrerebbe che questi due “volti” di Negarestani continuino a condividere tra loro un’ineliminabile affinità tematica, individuabile nell’incessante interrogativo sulla questione dell’umano e delle sue sorti.
Benché la filosofia di Negarestani possa essere complessivamente inscritta sotto il segno dell’inumanismo, un programma che mira a bonificare il pensiero occidentale dalle scorie dell’antropocentrismo e del relativismo, la sua personale elaborazione dell’argomento è decisamente originale, e si muove in una direzione del tutto differente da quella di altri promulgatori di tale corrente di pensiero (si pensi, ad esempio, alle spietate tesi sul Capitalismo di Nick Land o, più in generale, ai promotori della cosiddetta weird-philosophy e del materialismo goth).
Per Negarestani infatti, il dibattito filosofico contemporaneo sarebbe viziato in tutte le sue forme e diramazioni da un caotico invischiamento delle categorie dell’umano e dell’antiumano, confusione che avrebbe condotto nel tempo ad una vera e propria paralisi ideologica.
Da una parte, vi sarebbero coloro che si appellano ad un razionalismo ormai insostenibile, che tentano di preservare a tutti i costi una concezione acritica dell’umano celebrandola come un’essenza tanto preziosa quanto insondabile. Dall’altro, vi sono i fautori di un antiumanismo selvaggio, incondizionato, che rigettano frettolosamente questa categoria precipitandola nel brodo di un’alterità radicale e aliena. Pur percorrendo traiettorie diverse e apparentemente opposte, ciascuna di queste posizioni cadrebbe nella stessa aporia, che Negarestani chiama “umanismo conservativo” (p. 57), una trappola ideologica, epistemologica e politica che precluderebbe qualsiasi possibilità di esplorazione e revisione di tale concetto.
Se gli umanisti fraintendono gli attributi accidentali e contingenti dell’umano assumendoli come caratteristiche universali e necessarie, gli antiumanisti scartano aprioristicamente l’umano, abbracciando un “grande fuori” altrettanto dogmatico e imperscrutabilmente occluso all’indagine razionale. Il risultato è che, mentre il primo approccio proferirebbe una conservazione esplicita dell’umano, il secondo cadrebbe preda di questa impasse indirettamente, avvinghiandosi ad un umanismo subdolo, di secondo grado, tacitamente reintrodotto dalle proprie impasse speculative. La persistenza di un simile sincretismo avrebbe condotto la filosofia verso quella che Paul Boghossian ha opportunamente definito la “paura di conoscere” (P.A. Boghossian, Paura di conoscere, Roma, Carocci, 2006), una condizione falsamente emancipativa che, illudendo di offrire un maggior rispetto per la molteplicità dei punti di vista e delle “letterature minori” della contemporaneità, avrebbe finito per neutralizzare ogni concreta possibilità di confronto razionale. Presi in questa distorsione comune, umanismo e antiumanismo si rivelano le due facce della stessa medaglia, due espressioni di un medesimo riflesso di chiusura nei confronti di una concreta possibilità di cambiamento e di ripensamento della realtà dei fatti.
Da parte sua, Negarestani sostiene che l’inumanismo sia oggi l’unica filosofia programmatica realmente praticabile, ma a differenza di altri sedicenti filosofi “inumani”, egli ritiene che questo programma cada più dal lato dell’umano, che di quello dell’antiumano. Un autentico inumanismo non deve essere affetto dalla fobia dell’umano, ma deve porsi come il prodotto di un tenace e ragionato attraversamento dell’umanismo, un protratto impegno nella rinegoziazione dei suoi limiti e dei suoi vincoli. Come scrive proprio Negarestani, “la verità del valore umano [...] è rigorosamente inumana” (N. Reganestani, Labor of the Inhuman, in R. Mackay, A. Avanessian, #Accelerate, Falmouth, 2014, pp. 428-429).
In questo senso, Intelligence and Spirit oppone alla trappola relativista individuata da Boghossian un tipo di approccio che si potrebbe definire neo-razionalista, e che funge da vera e propria spina dorsale del libro (per una sintetica introduzione al neo-razionalismo si veda qui). Rispetto al razionalismo tradizionale, il neo-razionalismo emerge dalla svolta computazionale dell’inizio del XX secolo e, più che di Cartesio, Leibniz e Spinoza, è un razionalismo di Goedel, di Russell e di Turing. La ragione viene qui intesa come qualcosa che si fa, anziché come un’essenza immediatamente razionale, una funzione che non appartiene solo all’umano, ma che è estraibile e riproducibile in forme di intelligenza decisamente diverse dalla nostra.
Integrando il dibattito sull’inumanismo con le prospettive aperte dal neo-razionalismo, Intelligence and Spirit propone un nuovo approccio alla filosofia dell’intelligenza che si pone come una delle risposte più forti e articolate dinnanzi all’urgente necessità di ridiscutere la condizione della nostra specie, del mondo da essa abitato e del futuro tout court.
Il risultato è un approccio complesso, multidisciplinare, che spazia dai fondamenti del pragmatismo e della filosofia analitica e si dirama sino alle scienze cognitive, alla filosofia del linguaggio e all’epistemologia antifondazionalista. Ma, soprattutto, Intelligence and Spirit è anche un manifesto per ripensare la possibilità di transitare dalla AI (l’Artificial Intelligence, un’intelligenza “debole”, dedicata all’uso di programmi per studiare o risolvere specifici problemi) all’AGI (l’Artificial General Intelligence, e cioè una concezione di intelligenza “forte”, postumana, completamente autonoma e in grado di migliorarsi attraverso l’esperienza), un proposito che negli ultimi decenni non ha compiuto i progressi auspicati e che, come rimarca il fisico britannico David Deutsch, ha spesso suscitato clamorosi “fraintendimenti filosofici”.
Per Negarestani, l’intelligenza costituisce un concetto cruciale sia per risolvere le controversie sull’umanismo e articolare una concezione non ideologica dell’inumanismo, sia per affrontare concretamente e nuovamente il discorso sull’intelligenza artificiale. Il primo passo per articolare una consistente filosofia dell’intelligenza passa proprio per la rielaborazione critica dell’umano, abbandonando cioè la pretesa di intendere questa categoria come un’entità biologica fissa o come un semplice fatto naturale.
L’umano è piuttosto un “titolo trasferibile” (p. 62) in grado di reinventare e rielaborare continuativamente il proprio concetto di sé, una “forma” che indica la “profonda corrispondenza tra l’intelligenza e l’intellegibile, l’essere e la struttura” (p. 57), e la cui costituzione è costantemente aperta alla revisione. Questo modo di guardare all’umano rappresenterebbe per Negarestani il tallone d’Achille di ciascun approccio all’intelligenza emerso sino ad oggi, il grande rimosso di un problema che più che ideologico o culturale si rivela essere metodologico e filosofico.
Che propini il mito di un’intelligenza sovrannaturale e sconfinata, o che schiacci quest’ultima sulla semplice estensione delle nostre attuali facoltà razionali infatti, ciascuna di queste proposte manca inesorabilmente il nocciolo della faccenda: “spiegare cosa significa definire qualcosa come intelligenza” (p. 15). Come ha precedentemente dimostrato il biologo americano Stephen Jay Gould, l’attaccamento a forme di intelligenza votate alla supremazia umana è un sintomo tipico del capitalismo neoliberale, una distorsione cognitiva che neutralizza qualsiasi ambizione di razionalità collettiva. Sulla scia del determinismo biologico del XX secolo, il ripresentarsi di intelligenze costruite sul riduzionismo statistico o su di un umanismo acritico sono sempre andate di pari passo con aspre forme di trinceramento politico, l’abolizione della solidarietà sociale e, nei casi peggiori, il razzismo (si veda S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio, Milano, Il Saggiatore, 2016, pp. 20-25).
D’altro canto, anche la spinta nella direzione opposta si è dimostrata ugualmente infruttuosa, incagliando il discorso sull’intelligenza in ingenue elucubrazioni sul tramonto dell’umanità o in entusiastiche fenomenologie della “fine” del mondo. È il caso, ad esempio, della tesi recentemente proposta da Murray Shanahan nel suo Technological Singularity, in cui il rapido avanzamento tecnologico del XXI secolo viene equiparato all’avvento della cosiddetta Singolarità, una super-intelligenza artificiale opaca e inumana, che sarà presto in grado di sbarazzarsi dell’“ostacolo” sempre più obsoleto dell’homo sapiens (si veda M. Shanahan, The Technological Singularity, London, MIT Press, 2015). Se nell’umanismo oppressivo e razziale denunciato da Gould l’egemonia dell’intelligenza è preservata solo a prezzo della sua immunizzazione critica (si pensi agli usi disastrosi delle scale di intelligenza di Stanford-Binet, quantitative e reazionarie), in questo secondo caso lo sviluppo dell’intelligenza coincide inesorabilmente con una minaccia esistenziale, un aut-aut in cui l’unica alternativa alla conservazione è l’imminenza dell’estinzione.
Ovviando a questo duplice (ma dopotutto equivalente) blocco, Intelligence and Spirit strappa l’intelligenza al suo smembramento evoluzionista, statistico, neuroscientifico e pseudo-robotico, riconsegnandola prima di tutto alla filosofia, intesa da Negarestani proprio come “un programma per la costruzione di una nuova forma di intelligenza” (p. 465). In questo senso, afferma il filosofo iraniano, non si tratta tanto di definire cosa sia l’intelligenza, ma di formulare ciò che essa può fare.
Abbracciando un approccio drasticamente funzionalista, l’impresa di Negarestani esordisce con una dissacrazione pratica e teorica dell’intelligenza, in cui quest’ultima viene ripresentata non più come totalità (un quoziente, un insieme definito di pratiche di problem solving, un tratto costante), ma come un’entità formale che “non deve mai riposare” (p. 483).
L’intelligenza è quell’unità discorsiva e appercettiva che non prende mai nulla per essenziale, che anziché assecondare passivamente un qualche principio pregresso o precipitarsi in una Singolarità apocalittica opera esclusivamente attraverso la costante rielaborazione del proprio concetto di sé. Essa è un “artefatto”, un circuito a feedback positivo tra la concezione e la trasformazione, che individua e sorpassa costantemente i propri vincoli e, così facendo, assume di volta in volta il risultato di questa trasformazione come una nuova norma.
Ma analizzare l’intelligenza descrivendo ciò che essa può fare significa anche assumere il suo operato come un’ennesima funzione, elevare l’asintotico processo di individuazione e sospensione dei propri vincoli ad un vettore di riorganizzazione che riformuli puntualmente le condizioni e le capacità del pensiero. Studiando ciò che l’intelligenza può fare, seguendo cioè le sue ramificazioni pratico-cognitive e il cammino delle sue trasformazioni, si acquista anche la coscienza di ciò che essa può diventare.
Tuttavia, le intelligenze non sono dei compartimenti stagni, delle moltitudini autoconsistenti che non hanno alcun contatto tra loro. Piuttosto, il loro funzionamento è necessariamente sociale: attingendo dal Geist hegeliano, Negarestani concepisce quello dell’intelligenza come un lavoro comunitario, immerso nello spazio semantico-computazionale del linguaggio.
Separando il linguaggio dalla sua versione habermasiana di mero strumento comunicativo, Negarestani intende questa funzione come uno spazio di convergenza formale tra la logica (l’organon che arricchisce la ragione e la realtà costruendo nuovi e impensabili mondi) e la computazione (un inestimabile strumento di riprogrammazione ed espansione delle facoltà razionali).
Come dimostrato nei cinque densi capitoli di Intelligence and Spirit dedicati alla costruzione di Kanzi, un automa giocattolo che acquisisce progressivamente delle proprie capacità intellegibili, nessuna intelligenza matura nella solitudine: essa ha bisogno di una cornice di interazione stabile e inseparabile dalla reciproca socialità delle diverse intelligenze. Riconoscendo le sue abilità come proprie, comprendendo di volta in volta ciò che essa può fare e integrando questa forma di consapevolezza in una nuova e più inglobante cornice semantica, l’intelligenza acquisisce la potenzialità di indagare e modificare le stesse condizioni che presiedono alla sua realizzazione.
Questo inquadramento dell’intelligenza è cruciale per riaprire il dibattito sull’AGI in un modo che non scarti aprioristicamente l’umano (cedendo alle narrazioni sulla superintelligenza antiumana) né si limiti ad offrire una semplice estensione del modello ristretto dell’homo sapiens (preservandone le caratteristiche puramente locali e contingenti).
Ma per evitare queste due secche del pensiero è necessario integrare la prospettiva umana con una ponderata critica della sua struttura trascendentale, e cioè dei vincoli e delle norme che regolano e catalizzano la nostra esperienza. Qualsiasi concezione dell’intelligenza decideremo di adottare, rimarca Negarestani, essa sarà sempre e inesorabilmente circoscritta dalle soglie implicite dell’apparato trascendentale umano.
In questo senso, la linea dettata da Intelligence and Spirit è quanto mai chiara: non è possibile sottrarsi ai limiti della ragione, ma si possono utilizzare questi stessi limiti per approdare ad una nuova fase dell’autocoscienza critica. Corredata con una rigorosa critica del soggetto trascendentale, l’AGI diventa un’“estensione naturale” (p. 122) del processo di rinnovamento dell’umano, un soggetto pensante dotato di un sostrato fisico non biologico e in grado di utilizzare un tipo di linguaggio artificiale che sorpassi i limiti sintattico-semantici di quello naturale.
Ciò che emerge da un così lungo e meticoloso lavoro di rielaborazione, revisione e riprogettazione delle capacità della mente è un concetto di umanità sconvolgente, che potrebbe non rassomigliare più per nulla al nostro precario ritratto disegnato sull’orlo del mare di cui parlava Foucault, ma la cui mediazione è un momento necessario per qualunque approccio all’intelligenza che non degeneri in una pura “illusione” (p. 116). È solo reinventando continuamente se stesso, coltivando la propria naturale propensione all’alienazione che l’umano potrà farsi inumano, e cioè approdare ad un’Intelligenza Artificiale Generale concretamente in grado di sorpassarlo.
Ecco perché, come tiene a puntualizzare Negarestani, il termine “artificiale” non deve essere letto nel suo senso più “parrocchiale”, di pervertimento o deviazione dal naturale, ma come la costitutiva autonomia della logica e del linguaggio rispetto al contenuto dell’esperienza. Artificiale è ciò che veicola la possibilità di liberare il formale, e dunque di costruire e abitare nuovi mondi emersi dalla revisione di quelli già esistenti.
Nel complesso, il merito della proposta di Negarestani, che come lui stesso afferma si propone di superare il problematico divario tra filosofia analitica e continentale (p. 5), è anche quello di riuscire ad attribuire al proprio approccio all’intelligenza una precisa direzione politica. Da questo punto di vista, Intelligence and Spirit è anche un originale programma critico per ripensare la possibilità dell’emancipazione in chiave filosofica.
Come scrive lo stesso Negarestani, la realizzazione dell’intelligenza si basa su un presupposto radicalmente comunitario, che è “l’uguaglianza di tutte le menti” (p. 410). Coltivare l’intelligenza significa aderire ad un progetto di emancipazione cosmo-politica, egalitaria, la cui realizzazione - similmente al “cammino” dell’intelligenza - non si effettua tramite una brutale negazione astratta, un rovesciamento immediato dello stato di cose, ma si pone come un faticoso lavoro collettivo.
L’intelligenza è “libertà” ma è anche “rischio” (p. 488), perché il suo lavoro si dispiega soltanto sullo sfondo di una alienazione senza fine: diventare liberi è “diventare nessuno”, sospendere di volta in volta le contingenze di cui siamo prigionieri, ed istituire questo stesso vettore di alienazione come nostra autentica “dimora” (p. 247). Erodendo ciò che vi è di patologicamente individuale nell’uomo, rompendo la passività dei suoi vincoli trascendentali, il lavoro dell’intelligenza si mantiene fedele al principale e più oneroso compito dell’umano, “compiere qualcosa di migliore di sé” (p. 476), al di là di sé.
Ringraziare Kripke
Qual è stata l’importanza di Kripke? Il grande filosofo e logico statunitense è morto pochi giorni fa, e la sua eredità è enorme.
di Andrea Raimondi ((L’Indiscreto, 23/09/2022)
La morte del logico e filosofo statunitense Saul Aaron Kripke (13 novembre 1940 - 15 settembre 2022) è passata quasi inosservata in Italia. Che io sappia, solo due articoli hanno riportato la notizia. Ciò non è sorprendente: il nome di Saul Kripke è perlopiù sconosciuto al di fuori di certi circoli filosofici. La qualificazione ‘certi’ (ahimè) non è accidentale: filosofi e filosofe lontani dall’orientamento analitico potrebbero non essersi mai imbattuti nei suoi scritti.
Saul Kripke è stato un ragazzo prodigio. Cresciuto in Nebraska, figlio di un padre rabbino e una madre scrittrice di libri per bambini, ancora liceale iniziò a occuparsi di logica matematica, e nel 1959 pubblicò un articolo epocale che conteneva una prova di completezza della logica modale (attesa da decenni). Più tardi, dopo una laurea in matematica a Harvard e dopo aver insegnato al MIT, a Harvard e alla Rockefeller University (senza aver mai preso un dottorato, cosa rarissima al giorno d’oggi), in una serie di conferenze rivoluzionò almeno due aree fondamentali della ricerca filosofica: la filosofia del linguaggio e la metafisica. Eppure, sembra che il panorama culturale dell’Italia contemporanea ignori l’esistenza di questo incredibile filosofo, che ha convinto la comunità filosofica internazionale che certe teorie difese da giganti del calibro di Kant e Russell contenevano gravi errori.
È vero, è difficile capire Kripke quando parla di logica. Ma nei suoi lavori di filosofia, primo tra tutti il capolavoro Nome e necessità, la prosa di Kripke è semplicemente cristallina e ricca di argomentazioni lucidissime. Non solo tutti i suoi lettori glielo riconoscono, ma il suo esempio ha avuto una profonda influenza sul modo di fare filosofia nell’ambiente analitico. Ahimè, forse è proprio l’estrema chiarezza della prosa di Kripke a spiazzare il lettore abituato a un linguaggio dotto, esoterico, oracolare e opaco, dove la metafora è regina - il linguaggio di una certa filosofia sapienziale, che ha molti estimatori in Italia. Kripke non è stato un oracolo: la sua grande rivoluzione l’ha condotta con le sole armi del buon ragionamento - armi democratiche, che possiamo usare tutti e tutte. Oggi, dopo la scomparsa del suo eroe, questa rivoluzione merita di essere celebrata.
Il termine ‘rivoluzione’ non è un’iperbole: negli anni ’70 Kripke ha dimostrato che certe posizioni filosofiche fino ad allora indiscusse erano insostenibili. A dir la verità, Kripke aveva già cominciato qualche anno prima a farlo vedere, con una serie di articoli che hanno contribuito alla nascita della tradizione moderna in logica modale (A Completeness Thoery in Modal Logic, 1959; Semantical Analysis of Modal Logic I. Normal Modal Propositional Calculi, 1963; Semantical Considerations on Modal Logic, 1963; Semantical Analysis of Modal Logic II. Non-Normal Modal Propositional Calculi, 1965). Questi lavori riabilitano la nozione leibniziana di mondo possibile. La rivoluzione di Kripke comincia proprio da qui.
Con ‘mondo possibile’ s’intende un modo in cui l’intero universo avrebbe potuto essere. Possiamo costruire mondi possibili immaginando di modificare alcuni aspetti dell’universo così com’è. Ad esempio, pensiamo a un mondo in cui ciascuno di noi ha un numero di capelli diverso da quello reale, un altro in cui il 1945 è stato l’anno della vittoria della Germania nazista, uno in cui Aristotele non si è dedicato alla filosofia, o addirittura non è mai esistito. Naturalmente, ci sono alcuni vincoli su ciò che può accadere in un mondo possibile: ad esempio, nessun mondo conterrà triangoli quadrati, numeri primi con tre divisori o scapoli sposati. Questi sono esempi di impossibilità.
Il concetto di mondo possibile è utile per chiarire due nozioni chiave della tradizione filosofica occidentale: la nozione di verità necessaria e quella di verità contingente. Una proposizione è necessariamente vera se e solo se è vera in ogni mondo possibile. Le verità matematiche sono il paradigma delle proposizioni necessariamente vere. Ad esempio, consideriamo la proposizione che 5 è la somma di 3 più 2: anche il mondo possibile più diverso da quello reale è un mondo in cui questa proposizione è vera. D’altro canto, la proposizione che l’Italia oggi ha 60 milioni di abitanti è solo contingentemente, non necessariamente vera: se, ad esempio, ci fossero state molte meno nascite negli ultimi anni, il numero di abitanti sarebbe diverso. Dunque, c’è almeno un mondo in cui è falsa la proposizione che l’Italia oggi ha 60 milioni di abitanti.
Le nozioni di verità necessaria e verità contingente non sono novità del XX secolo. Molti nomi della storia della filosofia sono collegati a queste nozioni. Tra di essi spicca indubbiamente il nome di Immanuel Kant, che nella Critica della ragion pura sviluppa una sofisticata riflessione su questi temi. Una nozione centrale della sua riflessione - così centrale che nelle mie memorie liceali risuona come un mantra minaccioso per noi studenti intimiditi - è l’abbinamento del concetto modale di necessità con quello epistemologico di a priori. Questo punto merita la nostra attenzione, dato che, come vedremo, è proprio qui che Kripke fa la sua rivoluzione.
Secondo Kant, possiamo conoscere le verità necessarie prima di esaminare il mondo, ossia prima di ricorrere all’esperienza sensibile: la conoscenza di verità necessarie è conoscenza a priori. Consideriamo nuovamente la proposizione che 5 è la somma di 3 più 2: anche senza alcuna conoscenza sensibile, siamo in grado di conoscere la verità necessaria di questa proposizione. Basta il puro ragionamento. Ciò non vale per la verità contingente della proposizione che oggi l’Italia ha 60 milioni di abitanti: tale verità ci è nota a posteriori, poiché è richiesta una qualche esperienza per conoscerla (ad esempio, un conteggio delle persone che abitano in Italia).
L’idea che la conoscenza di tutte le verità necessarie è a priori ha costituito una certezza della filosofia occidentale fino al 1972. È questo l’anno in cui, in una serie di conferenze tenute a Princeton, pubblicate in seguito col titolo Nome e necessità, Kripke dimostrò la scorrettezza di questa idea. (Per inciso: io ho frequentato il liceo ben dopo il 1972, eppure nessuno allora mi rivelò che il mantra kantiano era stato messo in discussione. Per noi studenti sarebbe stato interessante, forse divertente e indubbiamente utile, sapere che qualcuno, a solo qualche ora di volo, aveva osato contraddire Kant!)
Sorprendentemente, le conclusioni anti-kantiane che animano Nome e necessità sono conseguenze di alcune posizioni difese da Kripke su problemi apparentemente lontani dalle tematiche care a Kant. In particolare, la discussione di Kripke ruota attorno al funzionamento dei nomi propri e dei cosiddetti termini di genere naturale. Vediamo ora le coordinate generali di questa discussione, concentrandoci sui nomi propri, per poi tornare all’attacco di Kripke nei confronti di Kant.
In Nome e necessità, Kripke sostiene che un nome proprio, come ‘Aristotele’ e ‘Roma’, funziona come un’etichetta per un individuo o oggetto: si riferisce al suo portatore senza caratterizzarlo in alcun modo. In questo senso, un nome funziona in maniera molto diversa da una descrizione definita, come ‘il maestro di Alessandro Magno’ e ‘la capitale italiana’. Sebbene, ad esempio, ‘Aristotele’ e ‘il maestro di Alessandro Magno’ si riferiscano allo stesso individuo, i due termini differiscono nel modo in cui lo fanno. Il secondo si riferisce all’individuo menzionando una proprietà, essere maestro di Alessandro Magno, che è esemplificata unicamente da quell’individuo. Invece, il primo vi si riferisce senza menzionare alcuna proprietà. Si tratta di una mera etichetta per quell’individuo, introdotta alla sua nascita e associata all’individuo attraverso un qualche tipo di battesimo.
Ho aperto la discussione sull’opera di Kripke menzionando la nozione di mondo possibile. Ma cosa hanno a che vedere i nomi coi mondi possibili? Secondo Kripke, una delle caratteristiche centrali di un nome è il suo riferirsi allo stesso oggetto o individuo in ogni mondo possibile (in cui tale oggetto o individuo esiste, ma questa specificazione è dibattuta). Nel gergo kripkeano, un nome è un designatore rigido. Cerchiamo di capire cosa significa tornando al confronto tra nomi e descrizioni.
La descrizione ‘il maestro di Alessandro Magno’ si riferisce a individui diversi in mondi diversi. Nel mondo reale si riferisce ad Aristotele. Ma in un mondo simile a quello reale a eccezione del fatto che Alessandro Magno ha avuto come maestro Senocrate, ‘il maestro di Alessandro Magno’ si riferisce a Senocrate. Ciò riflette l’idea intuitiva secondo cui il maestro di Alessandro Magno avrebbe potuto non essere Aristotele, bensì Senocrate - o qualcun altro ancora.
D’altra parte, il nome ‘Aristotele’ si riferisce ad Aristotele quando lo impieghiamo non soltanto in affermazioni su come le cose stanno di fatto, cioè sul mondo reale, ma anche in affermazioni su come le cose avrebbero potuto stare, cioè su mondi possibili diversi dal mondo reale. Ad esempio, quando affermiamo che Aristotele avrebbe potuto non dedicarsi alla filosofia, stiamo evidentemente affermando qualcosa sul particolare individuo che nel mondo reale chiamiamo ‘Aristotele’. In questo senso, il nome ‘Aristotele’ si riferisce allo stesso individuo in ogni mondo possibile (in cui tale individuo esiste).
È proprio questa differenza tra nomi e descrizioni che porta Kripke a concludere che, in generale, un nome non è sinonimo di una qualche descrizione. In ciò, Kripke si oppone a una tradizione filosofica che annovera tra i suoi difensori importantissimi filosofi e logici, come Gottlob Frege e Bertrand Russell.
Inoltre, l’idea che i nomi propri siano designatori rigidi è alla base dell’attacco di Kripke all’abbinamento kantiano del concetto modale di necessità con quello epistemologico di a priori. È giunto il momento di affrontare la questione.
Kripke contro Kant
Ci sono cose che hanno due nomi, o anche più di due. Ad esempio, il pianeta Venere è sempre stato chiamato con due nomi: ‘Espero’ e ‘Fosforo’. Nell’antichità, il primo nome era usato per riferirsi al corpo celeste quando compariva al tramonto; il secondo invece era usato per riferirsi al corpo celeste quando compariva all’alba. Per molto tempo si è creduto che fossero due corpi celesti distinti. In realtà è uno solo: Espero è identico a Fosforo. Kripke ha qualcosa di interessante da dirci su questo esempio.
Di fatto, i nomi ‘Espero’ e ‘Fosforo’ si riferiscono allo stesso pianeta nel mondo reale. Di conseguenza, essendo per Kripke dei designatori rigidi, i due nomi si riferiscono allo stesso pianeta in ogni mondo possibile. Da ciò segue che in ogni mondo possibile sussiste l’identità di Espero e Fosforo. Perciò, la proposizione che Espero è identico a Fosforo è necessariamente vera. Se Kant avesse ragione, e dunque in generale la conoscenza di verità necessarie fosse a priori, cioè non richiedesse l’ausilio dell’esperienza sensibile, dovremmo concludere che la verità della proposizione che Espero è identico a Fosforo è nota a priori. Ma ciò è decisamente sbagliato. Come menzionato sopra, per tanto tempo si è creduto che Espero non fosse identico a Fosforo; furono i babilonesi a scoprire che il corpo celeste che veniva chiamato col primo nome è lo stesso corpo celeste che veniva chiamato col secondo. Si trattò, insomma, di una scoperta astronomica, avvenuta grazie all’esperienza sensibile. Dunque, possiamo dire che la verità della proposizione che Espero è identico a Fosforo è nota a posteriori, al contrario di quanto previsto da Kant. Kripke dimostra così che la conoscenza di certe verità necessarie è a posteriori: Kant aveva torto.
L’attacco di Kripke non si ferma qui. Per tracciare una distinzione ancora più netta tra le nozioni di necessità e a priori, Kripke argomenta che possiamo conoscere a priori alcune verità contingenti. Uno degli esempi più celebri proposti da Kripke riguarda il metro. Supponiamo d’introdurre il termine ‘metro’ con una definizione di questo tipo: ‘Sia un metro la lunghezza attuale di questa sbarra’, detto indicando una certa sbarra, che chiamiamo ‘S’, a un certo tempo t. Secondo Kripke, per chi abbia fissato il riferimento del termine ‘metro’ in questa maniera, la verità della proposizione che S è lunga un metro a t è nota a priori: se ha usato la procedura descritta per introdurre il termine ‘metro’, sa automaticamente che Sè lunga un metro a t. Inoltre, Kripke osserva che sotto opportune tensioni o riscaldamenti, S avrebbe potuto avere una lunghezza diversa a t, il che implica che quella proposizione avrebbe potuto essere falsa. Dunque, la proposizione che S è lunga un metro a t è solo contingentemente vera, nonostante la sua verità sia nota a priori.
Non posso soffermarmi oltre sugli esempi di verità contingenti a priori. Occorre invece insistere sulla portata filosofica della conclusione di Kripke a proposito delle verità necessarie a posteriori. La tradizione pre-kripkeana ha spesso ritenuto che le scienze empiriche svelassero verità meramente contingenti e che il regno delle verità necessarie fosse riservato all’indagine filosofica e alla matematica. Con le sue sottili argomentazioni sul funzionamento dei nomi propri, Kripke ha mostrato che questa immagine è inadeguata: alcune scoperte scientifiche sono scoperte di verità necessarie - tra queste, la scoperta astronomica dell’identità di Espero e Fosforo. Così, Kripke ha sfruttato gli strumenti della filosofia per nobilitare il senso dell’impresa conoscitiva delle scienze empiriche.
Tra le verità scientifiche di cui Kripke ha illuminato la natura non figurano solo verità formulate con l’ausilio di nomi propri. Molti esempi coinvolgono i cosiddetti termini di genere naturale, come ‘oro’, ‘acqua’ e ‘tigre’. A parere di Kripke, questi termini funzionano in maniera simile ai nomi propri. In primo luogo, non sono sinonimi di descrizioni che menzionano proprietà superficiali delle sostanze o specie animali rilevanti (ad esempio, nel caso di ‘oro’, la proprietà di essere giallo - qualcuno ricorderà che Kant aveva definito l’oro come ‘metallo giallo’). In secondo luogo, il loro riferimento è fissato da un gesto che indica un campione della sostanza o della specie animale. Idealizzando un po’, possiamo immaginare un battesimo simile a quello con cui è introdotto un nome per un individuo. Infine, un termine di genere naturale è un designatore rigido: si riferisce alla stessa sostanza o specie animale in ogni mondo possibile.
A quale sostanza si riferisce il termine ‘oro’? Cioè: quale sostanza conta come oro? Secondo Kripke, per rispondere a questa domanda non basta il ragionamento filosofico; bisogna esaminare empiricamente la natura dell’oro. Oggi la chimica suggerisce che la composizione atomica dell’oro - il suo avere numero atomico 79 - ci dice quel che c’è da sapere sulla sua natura. Dunque, una sostanza conta come oro a patto che abbia numero atomico 79. Di qui, Kripke argomenta che è necessariamente vero che l’oro ha quel numero atomico. Quindi, la scoperta che l’oro ha numero atomico 79 è una scoperta di una verità necessaria. Ancora una volta, abbiamo a che fare con un caso in cui la nozione modale di necessità è anti-kantianamente distinta dalla nozione epistemologica di a priori.
A questo punto, è doveroso fare una precisazione. Forse chi legge ha pensato fra sé e sé qualcosa di questo tipo: “Se l’identità di Espero e Fosforo e il fatto che l’oro ha numero atomico 79 sono verità scoperte empiricamente, non potrebbe un giorno accadere che vengano smentite? In fondo, è proprio così che procede il sapere scientifico: un nuovo esperimento o una nuova osservazione può smentire una presunta verità frutto di precedenti esperimenti o osservazioni. Ma allora sembra che, secondo Kripke, alcune verità necessarie possano essere smentite: questo è veramente strano!”. Questo ragionamento non è corretto. O meglio: è corretta solo la sua prima parte, quella che asserisce che può essere smentita tanto la scoperta che Espero è identico a Fosforo quanto la scoperta che l’oro ha numero atomico 79. Ma da ciò segue soltanto che, nel caso di una tale smentita, quelle che consideravamo verità necessarie si rivelerebbero essere falsità- più precisamente, falsità necessarie (lascio al lettore il piacere di capire il perché di questa precisazione). Pertanto, una formulazione più cauta della posizione di Kripke potrebbe avere la forma di un condizionale: se gli astronomi e i chimici hanno ragione ad affermare che Espero è identico a Fosforo e che l’oro ha numero atomico 79, allora è necessariamente vero (e non suscettibile di smentita!) che Espero è identico a Fosforo e che l’oro ha numero atomico 79.
Desidero ora brevemente accennare a come Kripke sfrutta le sue posizioni su necessità e identità per affrontare un celebre problema di filosofia della mente.
Kripke e la mente
Il problema è noto a qualsiasi studente liceale: la mente e il cervello sono la stessa cosa o sono entità distinte, come riteneva Cartesio? Kripke dà un elegante argomento contro la tesi che mente e cervello coincidono. L’argomento può essere ricostruito nel modo seguente.
Supponiamo che qualcuno mi punga un dito con un ago e che io provi un forte dolore. Chiamiamo ‘A’ la mia sensazione di dolore. Secondo la tesi dell’identità di mente e cervello, A coincide con un mio particolare stato cerebrale - supponiamo, la stimolazione di certe fibre nervose. Chiamiamo questo particolare stato cerebrale ‘B’. Quindi, la tesi dell’identità di mente e cervello dice che A è identico a B.
Come abbiamo visto, Kripke sostiene che se effettivamente Espero è identico a Fosforo, allora è necessariamente vero che Espero è identico a Fosforo. Applicando lo stesso ragionamento, Kripke osserva che se la tesi dell’identità di mente e cervello è corretta, e dunque A è identico a B, allora è necessariamente vero che A è identico a B (Kripke è legittimato ad applicare lo stesso ragionamento perché ‘A’ e ‘B’ sono nomi propri, come ‘Espero’ e ‘Fosforo’).
Ora domandiamoci: è necessariamente vero che A è identico a B? Kripke risponde di no: a suo parere, B avrebbe potuto esistere senza alcun dolore corrispondente, e dunque in assenza di A e, viceversa, A avrebbe potuto esistere in assenza del corrispondente stato cerebrale, cioè B. La seconda situazione è, credo, più facile da concepire. Immaginiamo che io abbia un corpo un po’ diverso da quello che di fatto ho; in particolare, un corpo in cui le fibre nervose responsabili delle mie sensazioni di dolore sono leggermente diverse. In una tale situazione, B non esiste. Ma, dice Kripke, ciò non preclude ad A di esistere: se, nella situazione descritta, venissi punto sullo stesso dito su cui sono stato punto nel mondo reale, allo stesso istante e con la stessa intensità, esperirei la stessa particolare sensazione di dolore che ho esperito nel mondo reale. Cioè esperirei A: quindi A esisterebbe in assenza di B.
Ora, ricordiamo che se la tesi dell’identità di mente e cervello è corretta, allora è necessariamente vero che A è identico a B. Ma le considerazioni del paragrafo precedente dimostrano che non è necessariamente vero che A è identico a B. Quindi, Kripke può concludere che la tesi dell’identità di mente e cervello non è corretta.
Al di là di Nome e necessità
Vorrei concludere accennando ad altri aspetti dell’opera kripkeana. Anzitutto, Kripke si è premurato di discutere alcune obiezioni alle sue posizioni, in particolare all’idea secondo cui un nome è una sorta di etichetta, uno strumento per riferirsi a un individuo senza la mediazione di proprietà. Ora, si potrebbe osservare che un’etichetta ha bisogno di qualcosa cui essere applicata, e ci sono nomi, come ‘Amleto’ e ‘Zeus’, che non sembrano applicarsi a un bel niente. Cosa dire di questi nomi? Kripke ha affrontato questo tema in una serie di lezioni tenute a Oxford nel 1973 (pubblicate successivamente come Riferimento ed esistenza). Un altro problema riguarda le credenze. Consideriamo un esempio ipotetico. Un tizio, Gianni, è convinto che Espero e Fosforo siano corpi celesti distinti e che solo il primo sia visibile al tramonto. Possiamo dire che Gianni crede che Espero, ma non Fosforo, sia visibile al tramonto. Ma se ‘Espero’ e ‘Fosforo’ sono mere etichette per lo stesso oggetto, attribuire a Gianni la credenza che Espero è visibile al tramonto dovrebbe essere equivalente ad attribuirgli la credenza che Fosforo lo è. Eppure, le cose non sembrano stare così. Kripke ha risposto in un celebre articolo del 1979 (Un rompicapo sulla credenza).
Dovrei ricordare anche i suoi lavori sulla verità (Outline of a Theory of Truth, 1975), sulla distinzione tra riferimento semantico e riferimento del parlante (Speaker’s Reference and Semantic Reference, 1977), e naturalmente l’originalissima discussione del ‘paradosso del seguire una regola’, che Kripke dice di aver scoperto in alcuni paragrafi delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Il paradosso, esposto in Wittgenstein su regole e linguaggio privato (1982), mette in discussione l’idea, apparentemente banale, che si possa intendere qualcosa con una certa parola o un certo segno, e ha conseguenze importanti nei più disparati settori filosofici, dall’epistemologia alla filosofia della mente. Ha generato un dibattito tuttora molto vivace tra coloro che abbracciano le conclusioni paradossali del ragionamento ‘kripkensteiniano’ e coloro che cercano di bloccare il paradosso.
Questo fugace sguardo sull’opera di Kripke non rende giustizia a ciò che una figura così importante del Novecento rappresenta e rappresenterà per il mondo della cultura. Il tempo futuro è d’obbligo, poiché una parte del lavoro di Kripke deve ancora essere pubblicata: al Saul Kripke Center, nella City University of New York, esperti ed esperte lavorano per organizzare e pubblicare il materiale che Kripke ha accumulato nel corso della sua vita, talvolta spargendolo per il mondo. A tal proposito, Romina Padró, direttrice del centro, mi ha raccontato che parte del materiale proviene da registrazioni di conferenze e lezioni che negli ultimi sessant’anni Kripke ha tenuto in varie università. Come un moderno Socrate, ha davvero creduto nel potere della parola orale.
È molto triste pensare che non ci sarà più occasione di assistere a un intervento di Kripke. Mi consola però l’idea che la sua opera, così ricca e stratificata, è il luogo di una meravigliosa discussione filosofica senza fine.
ANDREA RAIMONDI È DOTTORANDO DI RICERCA ALLA UNIVERSITY OF NOTTINGHAM E VISITING RESEARCHER ALL’INSTITUTE FOR LOGIC, COGNITION, LANGUAGE AND INFORMATION (UNIVERSIDAD DEL PAÍS VASCO). IL SUO PRINCIPALE AMBITO DI RICERCA È LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO, IN PARTICOLARE CONTESTI CITAZIONALI E NOMI PROPRI. SI È ANCHE OCCUPATO DEL TEMA DELL’INTENZIONALITÀ IN FILOSOFIA DELLA MENTE.
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
di ARNOLD I. DAVIDSON *
Sono americano, quindi comincio in italiano.
Magnifico Rettore, egregi colleghi, gentili studenti, carissimo Hilary Putnam: sono commosso per l’onore di pronunciare questa laudatio. Devo subito dirvi che per me Hilary Putnam non è soltanto un grandissimo filosofo, ma anche un maestro, poi un collega e un amico. La laudatio è indirizzata a voi e allo stesso tempo a Hilary Putnam.
La pronuncio in inglese.
Non credo che ricada fra le competenze dei filosofi fare predizioni sul futuro, quindi mi dovrete scusare se comincio col fare una predizione. Quando gli storici della filosofia cercheranno di scrivere la storia della filosofia contemporanea, non sapranno come classificare Hilary Putnam. Iniziando a esaminare le sue prime opere scopriranno un filosofo che ha dato contributi decisivi alla logica e ai fondamenti della matematica, così come alla filosofia della scienza, della matematica e della logica, tutte aree della filosofia che richiedono una conoscenza tecnica, altamente specialistica. Continuando a leggere si imbatteranno nei suoi contributi, altrettanto importanti, alla filosofia del linguaggio, della mente e delle scienze cognitive. E certamente arriveranno alla conclusione che nessun altro filosofo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha avuto un impatto così profondo sul modo in cui i problemi concernenti la filosofia in un’epoca di scienza (per usare il titolo del suo ultimo libro) sono stati formulati, discussi e ri-elaborati nella storia della filosofia analitica. Arrivati proprio al punto in cui cominciano a intravedere un modo per classificare il contributo di Hilary Putnam alla filosofia, saranno colti da una perplessità e un disorientamento intellettuali. Avranno ormai riconosciuto che, diversamente da molti filosofi della tradizione della filosofia analitica, gli scritti di Hilary Putnam sono permeati da riferimenti alla storia della filosofia, in un dialogo costante con Aristotele, Descartes, Hume e Kant, John Stuart Mill e John Dewey, Ludwig Wittgenstein. Forse interpreteranno questo fatto come una mera idiosincrasia da parte di Putnam, un gusto per la storia congiunto a un interesse per la scienza. Di fatto, questi interessi storici non sono superficiali e non dovrebbero essere sottovalutati. Essi riflettono l’autentico ideale di ciò che per Hilary Putnam significa essere un filosofo, un ideale che risulterà sempre più esplicitamente chiaro più questi storici della filosofia avanzeranno nello studio dell’opera di Putnam. Si confronteranno infatti con profondi e dettagliati contributi ad aree della filosofia che difficilmente sono stati mai neppure sfiorati dalla maggioranza dei filosofi della scienza e della matematica - la filosofia morale e politica, l’estetica, la filosofia della letteratura, la filosofia della religione. Anche in questo caso gli scritti di Putnam hanno rimodellato l’ampio spettro dei problemi avvicinati: per esempio, i modi in cui la pervasiva, e presumibilmente chiara, distinzione tra fatti e valori si è infiltrata in quasi tutte le dimensioni del nostro pensiero devono essere completamente riesaminati alla luce della critica di Putnam rivolta alla rigida dicotomia fatto-valore, ossia alla luce delle sue dimostrazioni delle molteplici sovrapposizioni fra fatti e valori. Il modo in cui comprendiamo l’esperienza religiosa e il suo ruolo nella nostra vita quotidiana, la nostra incessante domanda filosofica per una teoria della conoscenza religiosa, invece che per un certo modo di vivere, non possono più essere considerate nello stesso modo dopo aver letto Putnam. Il valore della letteratura e dell’arte come fonti di conoscenza di noi stessi, degli altri e del mondo è presente nell’opera di Putnam tanto quanto il valore della meccanica quantistica e della teoria degli insiemi. Chi è dunque questo Hilary Putnam che, nello spazio di qualche pagina, può passare da un discussione su Henry James a un confronto con Kurt Gödel? Molto semplicemente è qualcuno che sa che la filosofia, come tutte le discipline, richiede una conoscenza specialistica, ma che lotta contro l’idea che la filosofia stessa sia una forma di specializzazione. Tuttavia, questo è soltanto l’inizio dell’inclassificabilità di Hilary Putnam. È risaputo da tutti i filosofi, compreso Hilary Putnam stesso, che Putnam si caratterizza tipicamente come un filosofo che cambia sempre opinione. Non c’è stato un critico più penetrante delle idee di Putnam - idee che sono state ampiamente accettate nella filosofia contemporanea - di Putnam stesso. Tutti i famosi cambiamenti di opinione di Putnam hanno una caratteristica in comune. Sono motivati dall’aver trovato nuovi argomenti, nuove prospettive, nuovi problemi che altri filosofi non sono riusciti a vedere perché credono che Putnam abbia definitivamente risolto tali questioni filosofiche, e che, pertanto, non ci sia più niente da pensare al riguardo e che si possa passare ad affrontare una nuova questione. È così che questi filosofi sono diventati “putnamiani” convinti. Hilary Putnam decisamente non è un putnamiano. Ciò che altri prendono per soluzioni sicure e definitive, e che dunque diventa per loro un dogma della filosofia, per Hilary Putnam stesso è sempre un punto di partenza per un’ulteriore ricerca filosofica.
Personalmente, spero che Hilary Putnam continui a cambiare idea. Invece che manifestare instabilità filosofica, questi cambiamenti mostrano che cosa significhi continuare a pensare filosoficamente i problemi ̶ problemi della scienza, della matematica, dell’etica, della politica, della religione, della vita umana. Quando Hilary Putnam smetterà di cambiare idea staremo tutti peggio, filosoficamente più poveri, perché saremo privati di argomenti, intuizioni e prospettive inaudite, di nuove fonti di creatività filosofica. Infatti, le straordinarie abilità analitiche di Hilary Putnam sono così evidenti che è fin troppo facile trascurare la sua ugualmente potente immaginazione filosofica. Inoltre, il modo che Hilary Putnam ha di cambiare idea dà anche voce a un costante tratto etico del suo carattere - il suo anti-dogmatismo, la sua incessante ricerca di maggiore imparzialità e obiettività.
Hilary Putnam esemplifica un’attitudine splendidamente descritta dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot, un filosofo caro sia a Hilary sia a me. Discutendo di obiettività scientifica ed esercizi spirituali, Hadot scrive, e io cito, «Da Aristotele in poi, si è ammesso che la scienza deve essere disinteressata. Chi studia un testo o i microbi o le stelle deve liberarsi dalla sua soggettività. [Alcuni diranno che] è impossibile, ma io penso che si tratti comunque di un ideale che bisogna cercare di raggiungere con una certa pratica. Così gli studiosi che hanno il raro coraggio di riconoscere che si sono sbagliati in un caso particolare, o che cercano di non lasciarsi influenzare dai propri pregiudizi personali, compiono un esercizio spirituale di distacco da se stessi.». «Diciamo», afferma Hadot, «che l’obiettività è una virtù, per altro molto ardua da praticare. Bisogna sbarazzarsi della parzialità dell’io individuale e passionale per elevarsi all’universalità dell’io razionale. Ho sempre pensato che l’esercizio della politica democratica, come dovrebbe essere praticato, dovrebbe corrispondere anch’esso a questo atteggiamento. Il distacco da sé è un atteggiamento morale che si dovrebbe esigere dal politico come dallo studioso». I cambiamenti di idea di Hilary Putnam non sono che l’aspetto esterno del suo coraggio morale e intellettuale, della sua ricerca di obiettività.
Parlando di Pierre Hadot, mi sono ricordato della sua insistenza sul fatto che Socrate stesso fu spesso descritto come inclassificabile, atopos. Il disorientamento provocato da questa inclassificabilità, antica o moderna non importa, nasce dall’interminabile, mai sopita, rigorosa dialettica filosofica praticata da Hilary Putnam nei suoi scritti, proprio come esso derivò dalla vigilanza e attenzione filosofica, dalla mancanza di auto-compiacimento, praticate da Socrate nei suoi dialoghi. Socrate non si è mai ritirato, né Hilary Putnam.
Hilary Putnam ha ricevuto, certo, molti onori nella sua eminente, e ancora straordinariamente attiva, carriera filosofica. Nel preparare questa laudatio, sono rimasto davvero stupito di scoprire che nell’elenco dei molti paesi che gli hanno conferito una Laurea honoris causa non troviamo l’Italia. Questo è tanto più sorprendente perché l’opera di Putnam è stata profondamente presente e influente fra i filosofi italiani, e per lungo tempo. Di fatto, non è raro scoprire che la prima traduzione in lingua straniera di un nuovo libro di Hilary Putnam sia quella italiana. Forse non ha ancora ricevuto una Laurea honoris causa in Italia perché si è ritenuto che ne abbia già ricevute così tante. Quale che sia la spiegazione di questa omissione, ha creato una situazione di ingiustizia filosofica, culturale e storica. Grazie alla visione del Rettore, Carlo Carraro, che sta trasformando Ca’ Foscari in una università veramente internazionale, e grazie alla saggezza dei miei colleghi del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali e al nostro Direttore, Luigi Perissinotto, sono di fronte a voi, oggi, con grande gioia per partecipare alla rettifica di questa ingiustizia. Lasciatemi concludere la mia laudatio con questo pensiero: come membri di una comunità accademica abbiamo spesso l’abitudine di dire che siamo legati a una vita di ragione. Concretamente, tuttavia, non sappiamo sempre che cosa queste parole significhino. Vi propongo che se volete comprendere concretamente e in profondità che cosa significhi essere impegnati in una vita di ragione, non c’è miglior luogo da cui iniziare che leggere Hilary Putnam.
© Arnold Davidson, tutti i diritti riservati
Arnold I. Davidson è Robert O. Anderson Distinguished Service Professor all’Università di Chicago. In Italia ha insegnato all’Università di Pisa e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È l’autore di “L’emergenza della sessualità” e co-autore del libro di conversazioni con Pierre Hadot “La filosofia come modo di vivere”. Ha curato testi di Michel Foucault e di Pierre Hadot in francese e inglese, ed è il co-direttore della collana “Philosophie du présent”, Vrin. Il suo libro più recente è “Religión, razón y espiritualidad”. Attualmente sta lavorando sulla filosofia ebraica contemporanea.
* MICROMEGA - IL RASOIO DI OCCAM, 16.05.2016 (ripresa parziale).
Hilary Putnam (1926-2016)
Il realismo non ammette miracoli
È morto il più grande filosofo della scienza del nostro tempo. Matematico, logico, un analitico che amava la storia della filosofia
di Mario De Caro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.3.16
Ho incontrato Hilary Putnam per l’ultima volta lo scorso febbraio. A differenza di quando l’avevo visto alla fine dello scorso anno, camminava con grande difficoltà e il suo stato fisico era molto deteriorato; ma la mente era ancora lucidissima e lo spirito niente affatto rassegnato. In quell’occasione Putnam mi ha ribadito quanto fosse in disaccordo con i filosofi che si disinteressano di scienza, o peggio la denigrano, ma anche con quelli che pensano che la scienza possa risolvere da sola i problemi filosofici.
Soprattutto, però, abbiamo discusso della scoperta delle onde gravitazionali, le curvature dello spazio-tempo previste un secolo fa dalla teoria della relatività generale di Einstein. Putnam era entusiasta di questa scoperta e, con lo sguardo felice di un bambino, mi ha raccontato di quando a Princeton fece visita a Einstein e discusse con lui a lungo di quel tema. Ma la scoperta delle onde gravitazionali lo rallegrava anche perché offre una spettacolare conferma del suo famoso No-miracles argument. Con questo argomento Putman aveva difeso l’interpretazione realistica delle teorie che fanno riferimento a entità inosservabili (come gli elettroni o i buchi neri) contro i suoi molti detrattori, secondo i quali queste teorie sono meri strumenti di calcolo e nulla ci dicono sulla realtà del mondo inosservabile.
Secondo l’argomento di Putnam, le migliori teorie scientifiche sono in grado di offrire predizioni sorprendentemente precise (per esempio, appunto, rispetto all’esistenza delle onde gravitazionali) perché si basano su una descrizione vera, o almeno approssimativamente vera, del mondo degli inosservabili. Per chi invece pensa che la scienza sia un mero strumento di calcolo, e che non descriva correttamente il mondo degli inosservabili, l’accuratezza delle predizioni di queste teorie diventa un inesplicabile miracolo; e questa, notava Putnam, è una conclusione razionalmente insostenibile.
Il No-miracles argument è però soltanto uno degli innumerevoli contributi che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, Putnam ha offerto alla maggior parte dei campi filosofici. In filosofia della mente è stato uno dei fondatori del “funzionalismo”, la fortunatissima concezione basata sull’analogia tra mente-cervello, da una parte, e software-hardware, dall’altra (una concezione di cui, in seguito, Putnam è divenuto parzialmente critico).
In filosofia del linguaggio ha utilizzato il famoso esperimento mentale della “Terra gemella” per difendere, insieme a Saul Kripke, il cosiddetto “esternismo semantico”: la concezione secondo cui il significato delle nostre espressioni linguistiche e il contenuto dei nostri pensieri non è “solo nelle nostre teste”, ma è determinato anche dai nostri rapporti causali con il mondo.
Putnam ha inoltre elaborato proposte ormai classiche in filosofia della matematica e della fisica; ha scritto lavori fondamentali sul pragmatismo, di cui è stato forse il massimo esperto contemporaneo; ha offerto acute e influenti ricostruzioni del pensiero di Aristotele, dei neopositivisti e di Wittgenstein; ha brillantemente difeso l’idea che tra fatti e valori non esista una rigida dicotomia, come invece sostenuto da gran parte della tradizione filosofica.
Infine ha superato barriere che per decenni si sono pensate invalicabili: filosofo analitico di prima grandezza, conosceva però bene anche la storia della filosofia e amava riflettere sulle proposte di filosofi continentali come Habermas, di cui era amico personale, Buber e Lévinas. Dell’ampiezza e della profondità delle conoscenze filosofiche di Putnam è testimonianza il suo ultimo libro, appena uscito, Naturalism, Realism, and Normativity, da me curato per Harvard University Press.
In generale, Putnam aveva capacità intellettuali straordinarie. Dopo essersi laureato in filosofia, linguistica e letteratura tedesca, prese a studiare matematica da autodidatta, raggiungendo un livello tale che il suo nome figura ora nelle storie di questa disciplina (contribuì, tra l’altro, a risolvere il decimo dei famosi “23 problemi di Hilbert”, quello relativo alle equazioni diofantee).
A proposito della rilevanza dei risultati matematici di Putnam ho un’esperienza personale da raccontare. Qualche anno fa, tra gli studenti di un corso che insegnavo alla Tufts University, c’era un dottorando in computer science del MIT: seguiva il corso perché era incuriosito dalla filosofia, ma la considerava un semplice divertissement, come gli scacchi o i manga giapponesi (parole sue).
A suo giudizio, infatti, nessun filosofo era in grado di produrre nulla di veramente rilevante dal punto di vista intellettuale. Un giorno, però, durante una lezione dedicata allo scetticismo, menzionai un famoso esperimento mentale di Putnam: quello in cui argomentava l’impossibilità di uno scenario scettico neocartesiano secondo cui noi potremmo essere cervelli in una vasca, collegati a un computer che ci induce a credere di avere un corpo e di vivere in un mondo molto diverso da quello vero (un po’ come accade nel film Matrix che, d’altra parte, all’esperimento mentale di Putnam direttamente si ispira).
Il dottorando del MIT era divertito dal tema, ma manteneva il suo programmatico atteggiamento di sufficienza, finché en passant non menzionai il fatto che Putnam aveva sviluppato, insieme a Martin Davis, l’algoritmo detto appunto “Davis-Putnam”. A quella notizia il dottorando ebbe un moto di incredulità che quasi lo fece cadere dalla sedia e tutto concitato gridò: «Hilary Putnam è QUEL Putnam?! Santo cielo, al mio laboratorio utilizziamo il suo algoritmo tutti i giorni: è uno dei miei eroi!». Nel resto del corso, il dottorando del MIT si gettò a capofitto nello studio della questione dei cervelli nella vasca, di cui in breve tempo divenne il massimo esperto galattico. E quando, poche settimane dopo, ebbe modo di incontrare Putnam, era così eccitato che temetti svenisse dall’emozione.
Le conoscenze di Putnam non si limitavano però alla filosofia e alle scienze naturali. Aveva una conoscenza profonda della letteratura (suo padre era stato un famoso traduttore), della storia, dell’arte, delle scienze sociali e della politica (nelle ultime settimane era molto preoccupato dall’ascesa di Trump). Inoltre leggeva e studiava l’ebraico, si interessava di sport (era molto tifoso dei Red Sox, la squadra bostoniana di baseball) e cucinava in modo spettacoloso.
Hilary Putnam avrebbe potuto riferire a sé le celebri parole del Cremete di Terenzio: Homo sum. Humani nihil a me alienum puto. Quanti altri oggi potrebbero fare altrettanto?
L’oggettività di fatti e valori
Contro la presunta neutralità dei giudizi morali, basata su una visione unitaria e assoluta, sostenne l’idea di basare l’etica su processi pubblici e condivisi
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.03.2016)
Della straordinaria attività filosofica di Hilary Putnam non colpisce solo la varietà, ma anche la grande forza innovativa. Alla metà degli anni Novanta ho partecipato a due seminari tenuti da Putnam a Harvard University. Uno riguardava il realismo e l’altro il pensiero ebraico: iniziava con Maimonide, toccava Wittgenstein, e si concludeva proprio con lui, Putnam. Non si trattava di lezioni fatte per essere “seguite”; piuttosto, si aveva l’impressione di partecipare a una conversazione senza tempo. A ripensarci, quelle lezioni mi sembrano motivate da una stessa preoccupazione, direi di tipo etico.
Secondo Putnam, l’ebraismo ha dato un contribuito fondamentale alla cultura occidentale, offrendo una prima formulazione del principio di eguaglianza. Attraverso un percorso dai forti accenti kantiani, Putnam conclude che l’eguaglianza si fonda sulla capacità di pensare autonomamente a come si debba vivere. L’eguaglianza è un valore fondamentale per Putnam, fin dagli anni giovanili della militanza politica nella sinistra radicale.
Sensibile ai temi di giustizia sociale, Putnam è sempre stato molto interessato all’etica, che non considerava una scienza minore, né un ambito speciale in cui si applicano argomenti elaborati dai filosofi del linguaggio. In etica si avverte più che altrove «il peso soffocante delle dicotomie», come quella tra oggettivo e soggettivo. L’intenzione di liberare il pensiero da queste strettoie, senza per questo rinunciare al rigore dell’argomentazione e al dialogo con la scienza, è un filo rosso che attraversa tutta la produzione filosofica di Putnam.
Forse, la giusta misura della rilevanza che Putnam riconosceva alle questioni etiche si ricava dalle sue riflessioni sulla presunta dicotomia fatti/valori. La tesi empirista della separazione tra questioni di fatto e questioni di valore domina incontrastata fino agli anni Cinquanta, condizionando pesantemente il dibattito sui criteri di oggettività della seconda metà del secolo. L’oggettività è generalmente associata alla neutralità rispetto al valore e all’indipendenza rispetto agli interessi e atteggiamenti del soggetto.
Putnam fa sua la posizione di minoranza di una filosofa pressoché ignorata, Iris Murdoch, ma sulla base di argomenti ben più solidi. Il realista che propone una realtà neutra e non contaminata dalla soggettività, è il “perfido seduttore” che conferma le aspettative di un interlocutore ingenuo, il portavoce del senso comune. Sebbene attraente, il realismo è ingannevole perché si basa su un falso presupposto, quello della neutralità del ragionamento e del metodo scientifico. Il ragionamento, sia pratico che teoretico, è guidato da valori ma è anche orientato all’oggettività. Il vero motivo per credere che il metodo scientifico non poggi su presupposizioni etiche è che si suppone che sia un metodo formale. Crollando l’ideale di neutralità, crolla anche la tesi secondo la quale l’oggettività è garantita dal metodo formale.
Si tratta di considerazioni che hanno avuto un impatto decisivo non solo in etica ma anche nella filosofia dell’economia, nell’argomentazione giuridica e, in generale, nell’epistemologia e metodologia delle scienze sociali. Ci costringono a sondare i limiti del ragionamento, a farci domande nuove sulla sua natura e sulla possibilità di trattare in modo formale i problemi che sorgono a proposito della decisione razionale. Per fare un esempio, secondo Putnam, la trasformazione dell’economia classica è una conseguenza diretta del collasso della distinzione tra fatti e valori.
Sotto questo aspetto, la proposta di Putnam è in sintonia con quelle di altri filosofi di Harvard, da Nelson Goodman a John Rawls. La convinzione di questi filosofi è che il marchio di garanzia della conoscenza e dell’oggettività etica consista nella giustificazione razionale. Si tratta di giustificare sulla base di ragioni condivisibili dagli altri in quanto nostri pari. È la pratica della giustificazione che ci restituisce una visione oggettiva del mondo, piuttosto che la fiducia in valori ultimi e assoluti. L’oggettività è dunque il risultato di un processo pubblico e condiviso, ma che non conduce alla convergenza su una visione morale unitaria e assoluta. Anzi, arriva sempre il momento in cui si deve dire «qui è dove la mia vanga si piega».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CIELO PURO E LIBERO MARE....
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
La Terra gemella di Hilary Putnam
Addio al filosofo e matematico statunitense che smantellò il dubbio cartesiano e scrisse «The Meaning of ‘Meaning’»
di Giovanni Iorio Giannoli (il manifesto 16.03.2016)
Quando l’hacker-eroe del film Matrix si risveglia nel mondo reale (dominato da macchine, che traggono energia dal metabolismo degli esseri umani), arriva ad accorgersi che tutto quello che aveva fino allora pensato, agito, goduto e patito nella sua vita era soltanto una realtà simulata, trasmessa al cervello da un cordone di cavi.
Il film dei fratelli Wachowski uscì in sala nel 1999; riproponeva, dopo oltre tre secoli e mezzo, l’esperimento mentale suggerito da Descartes, nella sua Prima meditazione: «Io supporrò, dunque, che vi sia (...) un certo cattivo genio (...) che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose».
Nel 1981, quasi vent’anni prima di Matrix, il filosofo Hilary Putnam aveva discusso estesamente una eventualità del genere, con intenti affatto diversi da quelli suggeriti da Descartes (che erano, in sintesi: l’ineluttabilità del dubbio; l’intuizione dell’esistenza del pensiero e, dunque, della materia pensante; la bontà di Dio, come garanzia della verità). Accogliendo (per demolirla) l’ipotesi che noi tutti potremmo essere «cervelli in una vasca», Putnam si proponeva tre obiettivi: mostrare l’incoerenza del dubbio cartesiano; ribadire che i contenuti mentali dipendono dall’esperienza; polemizzare contro il realismo metafisico. Infatti, per Putnam, noi non possiamo pensarci come «cervelli in una vasca», perché un pensiero del genere è logicamente incoerente, e si distrugge da solo.
Del resto: ogni parola/concetto (compresa la parola «cervello») si riferisce per Putnam a qualcosa che ha determinato l’introduzione di quella parola; e, dunque, noi non possiamo avere alcuna esperienza del nostro cervello come di un «cervello nella vasca», sì da poterlo pensare/designare in quel modo. Infine: se lo scenario dei «cervelli nella vasca» è logicamente impossibile (perché i cervelli non possono guardarsi da «fuori», scoprendosi in una vasca), non c’è alcun modo di guardare al mondo con gli «occhi di Dio»: la nostra visione della realtà è limitata dai nostri schemi concettuali, anche se questi dipendono dalla nostra esperienza. Qualsiasi realtà metafisica, che prescinda dai nostri schemi concettuali e dalla nostra esperienza, è una vacuità filosofica.
Non era la prima volta, del resto, che Putnam utilizzava suggestioni mutuate dalla fantascienza, per argomentare filosoficamente. Lo aveva già fatto nel 1975, in quello che molti considerano il suo capolavoro, nell’ambito della semantica: Il significato di ‘significato’ («The Meaning of ‘Meaning’»). In questo saggio, Putnam si proponeva di reagire a una tradizione millenaria sulla natura dei concetti, in particolare all’idea che questi siano completamente contenuti nella mente, richiamabili dunque da una sorta di teatro interno, privato, isolato dagli altri esseri umani e dal «mondo esterno».
Putnam immaginò una «Terra gemella», nella quale l’acqua non fosse composta da due molecole di idrogeno e da una di ossigeno, ma da una combinazione degli elementi X, Y e Z, non meglio specificati, ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’acqua nostrana. In un contesto del genere, il significato della parola «acqua» - nelle due Terre gemelle - sarebbe diverso, perché diverso sarebbe il loro riferimento fisico. Ipotizziamo dunque che due individui gemelli - identici in tutto - pronuncino nelle due Terre la parola «acqua».
Essendo identici tra loro, lo saranno anche i loro stati mentali interni, quando pronunciano quella parola; ma se i significati sono diversi, mentre gli stati mentali sono identici, questo implica il fatto che il significato dei termini non può essere ridotto ai soli stati interni. Naturalmente, possono essere avanzate diverse obiezioni, rispetto a questo argomento; ed infatti, la letteratura in materia è davvero impressionante. Ma pochi mettono in dubbio che l’anti-soggettivismo di Putnam, implicito nella sua semantica, costituisca una pietra miliare del pensiero contemporaneo, una rottura di carattere rivoluzionario, rispetto all’idea che le basi della conoscenza siano tutte racchiuse nell’intimità della mente.
Ancor prima di questi risultati, Putnam aveva avuto modo di farsi conoscere per un’altra idea stravagante: la tesi secondo la quale uno stesso stato psicologico (per esempio, il fatto di avvertire un certo dolore, ben localizzato e caratteristico) potesse essere legato a diversi stati fisici. Questa tesi - nota come quella della «realizzabilità multipla» - è in qualche modo alla base del funzionalismo contemporaneo, cioè all’idea che sia per esempio possibile costruire macchine intelligenti o forme di vita non organiche (non basate, cioè sulla chimica del carbonio) le quali risultino funzionalmente isomorfe alla mente e al corpo degli esseri umani, comportandosi alla stessa maniera e, anzi, sperimentando gli stessi stati interni.
Una tesi del genere, in verità, doveva essere confutata dallo stesso Putnam qualche anno dopo, proprio sulla base della sua stessa semantica esternalista: gli stati e le configurazioni interne di una macchina non sono sufficienti, per garantire circa il significato delle rappresentazioni che quella macchina è in grado di farsi; così come non si dà una corrispondenza biunivoca tra tipi di stati fisici e tipi di stati mentali, non si dà nemmeno una corrispondenza tra tipi di stati mentali e tipi di stati funzionali.
Già questo tipo di svolta, circa la consistenza teorica del funzionalismo e il suo valore esplicativo, dà qualche indizio su inclinazione ricorrente di Putnam: quella di ritornare sui suoi stessi risultati, per rimetterli in gioco. Qualcuno, tra i suoi colleghi più brillanti, ha addirittura proposto di numerare le fasi teoriche di Putnam, come le ere geologiche: «due Putnam fa, Putnam pensava che...».
Ma nel suo necrologio, Martha Nussbaum ha voluto così ricordarlo: «La gloria maggiore del modo di filosofare di Putnam stava nella sua totale vulnerabilità. Continuando ad inseguire ogni argomento fino alle estreme conseguenze, ovunque lo avesse portato, cambiava spesso le sue opinioni; e il fatto di aver cambiato idea non era per lui un disappunto, ma piuttosto un piacere; la prova che era abbastanza umile da essere degno della sua razionalità».
Era stato un acceso militante: attivista contro la guerra nel Vietnam, per qualche tempo fu membro di un partito maoista statunitense alla fine degli anni ’60. Questo non gli impedì restare ad Harvard, dove il corpo accademico volle difendere la libertà delle sue scelte; a quei tempi, era noto per i suoi lavori nel campo della logica e della filosofia della matematica, ma - proprio ad Harvard - tenne anche corsi di marxismo.
La sua forza teorica ed intellettuale lo portò a diventare poco dopo presidente della American Philosophical Association. E, dopo i fondamentali contributi in logica, matematica, filosofia della scienza e filosofia della mente, i suoi interessi si allargarono all’etica, alla filosofia politica, all’economia, alla letteratura. Un gigante, insomma.
E’ morto Hilary Putnam, "patriarca" della filosofia
Americano, 89 anni, era tra i più grandi pensatori a cavallo del millennio. I suoi studi hanno spaziato in diversi campi della filosofia, della logica, delle scienze informatiche. Con un tocco di "fantascienza" e un blog di "commenti sarcastici" sull’attualità
di MAURIZIO FERRARIS (la Repubblica, 14 marzo 2016)
Meno di un mese dopo il suo amico Umberto Eco se ne è andato l’altroieri Hilary Putnam. Aveva fatto in tempo a vedere le bozze del suo ultimo libro Naturalism, Realism, and Normativity, in uscita da Harvard University Press, a cura e con una illuminante introduzione del suo allievo e amico Mario De Caro. Nato a Chicago il 31 luglio 1926, avrebbe compiuto tra pochi mesi novant’anni, una età da patriarca della filosofia, che stabilisce un parallelo con un patriarca della letteratura anche lui di Chicago, Saul Bellow, morto dieci anni fa. Professore emerito all’Università di Harvard, dopo aver studiato all’Università della Pennsylvania, essersi addottorato a Los Angeles, e aver insegnato alla Northwestern University, a Princeton e all’MIT, il 2 novembre 2011 a Stoccolma gli era stato conferito il Rolf Schock Prize, l’equivalente del Nobel per la filosofia e la logica.
Putnam era un filosofo analitico, ma non aveva niente dell’angustia culturale che talvolta caratterizza questa disciplina soprattutto in Europa, dove essere filosofi analitici significa spesso parlare in inglese, ostentare indifferenza per la storia della filosofia e per la letteratura, e occuparsi di minuzie di scarso interesse. Tanto per incominciare, per Putnam, come ricorda lui stesso, c’era stato un momento in cui, bambino a Parigi, si chiamava "Hilaire Poot-nomm". A Parigi era arrivato con la famiglia e vivendoci sino all’età di otto anni, perché suo padre, Samuel, studioso di letteratura, traduttore e attivista politico (era collaboratore del Daily Worker, un organo del Partito Comunista Americano), ci si era trasferito con un gesto che ricorda Hemingway e Fitzgerald. È probabilmente a questa formazione mai dimenticata che si devono aperture inconsuete per un filosofo analitico, e per un filosofo americano, per esempio la condivisione della critica di Derrida all’amministrazione Bush e alle sue guerre. Di questa apertura sull’attualità resta il blog aperto due anni fa, "Commenti sarcastici", in memoria di quanto gli aveva detto quarant’anni fa il grande filosofo analitico inglese Peter Strawson: "Di certo metà del piacere della vita sono i commenti sarcastici sull’operetta che si svolge sotto i nostri occhi".
Inoltre, di origini ebraiche ma educato in forma laica e secolare, negli ultimi anni si era avvicinato alla filosofia di Rosenzweig, Buber, Levinas, quanto dire alla quintessenza della filosofia continentale. Non con un cambio di appartenenza, come avvenne nel caso del suo amico e rivale Richard Rorty, ma con una operazione molto più interessante, che consistette nel guardare dall’alto, per così dire con uno sguardo d’aquila, le tradizioni filosofiche, lavorando per un’unica filosofia, al di là di distinzioni che non hanno ragione di esistere, o meglio esistono solo per i minori e i minimi. Nella prospettiva di Putnam la filosofia analitica serve per evitare l’irrazionalità (dunque vale, direbbe Kant, come "catartico", come purificatore), e una buona filosofia non può mai essere in contrasto con la scienza, ma filosofi come Kierkegaard, Thoreau, Emerson, Marx e Sartre, riflettono su come viviamo e suggeriscono come dovremmo vivere, con una vocazione filosofica in cui Putnam intreccia il pragmatismo americano con l’illuminismo europeo.
Poi, mentre spesso i filosofi analitici amano pensarsi come dei tecnici, degli specialisti di un piccolo campo tanto più accademicamente pregiato quanto meno culturalmente influente e interessante, Putnam non ha accettato limiti, e ha esercitato la sua creatività filosofica in ambiti come la logica, la filosofia della matematica, la filosofia ebraica, la filosofia della mente, la filosofia della scienza, la metafisica, la filosofia del linguaggio, la filosofia morale e da ultimo anche la filosofia della percezione: una versatilità degna di Hegel. Più di venti libri, che vanno dalla teoria al commento alla discussione tecnica e alla prospettiva metafilosofica.
Infine, non aveva esitato a cambiare idea moltissime volte, al punto che il filosofo della mente Daniel Dennett aveva definito "Putnam" "l’unità minima del cambiamento delle idee". Dopo un primo periodo di realismo metafisico, era approdato, tra la metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, a un "realismo interno" (cioè a un antirealismo di stampo kantiano), per poi tornare a un ben temperato "realismo del senso comune", sottolineando la differenza tra ontologia (quello che c’è) ed epistemologia (quello che sappiamo o crediamo di sapere): "Confondere la costruzione della nozione di bosone, che è qualcosa che la comunità scientifica ha messo a punto nel corso del tempo, con la costruzione dei sistemi quantistici reali significa, mi pare, scivolare nell’idealismo". Il che non è bene, ma non è nemmeno necessario. L’ontologia è indipendente dalla epistemologia, ma questo non significa che sia inconoscibile: esistono, al contrario, molte descrizioni corrette della realtà, proprio come una sedia può essere descritta in modo altrettanto corretto nel linguaggio della fisica, in quello della falegnameria o in quello del design. È in veste di realista del senso comune che Putnam aveva sostenuto che nessuna teoria della conoscenza può dirsi completa se non è in grado di rendere conto della percezione, e aveva partecipato, in dialogo con Umberto Eco, al convegno di New York sul Nuovo Realismo (il suo contributo si può leggere in Bentornata Realtà, uscito da Einaudi l’anno dopo).
Un ultimo punto. In tutte le fasi della sua filosofia, Putnam si è caratterizzato per una vivida immaginazione, che conferma la validità del detto di Borges secondo cui la metafisica è la branca più illustre della letteratura fantastica. Invece che con formule pseudo-scientifiche o con prolisse refutazioni di tesi altrui, Putnam si è spesso spiegato con esperimenti mentali degni della migliore fantascienza. Come quello delle "Terre Gemelle" (due terre parallele in cui esistono due liquidi fenomenicamente identici, solo che uno ha la formula chimica H2O, il secondo no: si può parlare di acqua? Per Putnam, no). O come quello del "Cervello in una vasca" (uno scienziato pazzo mette un cervello in un bagno organico e lo stimola elettricamente facendogli credere di avere esperienze nel mondo: sono vere esperienze? Anche in questo caso, no). A proposito, quest’ultimo esperimento non vi ricorda un celeberrimo film, tra i più famosi degli ultimi decenni? Ovvio che sì, ma - in un mondo in cui molti filosofi si servono dei film per illustrare le loro teorie - qui il filosofo ha preceduto il regista.
Scomparso Hilary Putnam il filosofo americano sostenitore del realismo *
Il percorso del filosofo americano Hilary Putnam, scomparso a 89 anni, era stato complesso e variegato, difficile da inquadrare, anche perché lui stesso aveva spesso preso le distanze dalle sue posizioni precedenti.
Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Putnam aveva esordito come studioso di matematica e di filosofia della scienza, per poi estendere i suoi interessi al linguaggio, alla filosofia della mente, all’estetica e all’etica, muovendosi tra le correnti analitiche neopositiviste e la tradizione del pragmatismo americano.
Aveva insegnato alla Northwestern University, a Princeton, al Mit di Boston e ad Harvard, dove aveva concluso la carriera accademica nel 2001.
Negli anni Sessanta si era schierato su posizioni politiche radicali, che poi aveva abbandonato.
Considerato uno dei più importanti filosofi viventi, nel dibattito sul relativismo Putnam si era espresso a favore della razionalità scientifica e di un realismo «interno» di derivazione kantiana.
Tra le sue opere tradotte in italiano: Mente, linguaggio e realtà (Adelphi, 1987), Ragione, verità e storia (Il saggiatore, 1985), Matematica, materia e metodo (Adelphi, 1993), Realismo dal volto umano (Il Mulino, 1995), Etica senza ontologia (Bruno Mondadori, 2005).
* Corriere della Sera, 14.03.2016
Nei giorni scorsi La Stampa ha ospitato su questo tema il confronto tra Vattimo e De Caro
Ecco cosa ne pensa il grande filosofo americano
È importante spiegare come la percezione ci dia l’accesso alla realtà
Per Russell si percepisce un oggetto rimanendo sempre all’interno della propria mente
di Hilary Putnam (La Stampa, 04.12.12)
Quel che c’è di nuovo nel realismo che difendo oggi rispetto al realismo cui aderii negli Anni Settanta è che esso riguarda un numero molto più ampio di aree filosofiche, mentre l’altro riguardava solo la scienza. Nel mio caso, tuttavia, l’aggettivo «nuovo» nel termine «nuovo realismo» non significa affatto che io non accetti più il realismo scientifico che difendevo negli Anni Settanta (per esempio nel mio libro Verità e etica, del 1978), ma che in quella versione di realismo c’erano insite varie difficoltà che, attorno al 1980 e per una decina d’anni, mi indussero ad abbandonare del tutto il realismo.
In seguito sono tornato su posizioni realiste, ma rendendomi conto che mi sarei dovuto occupare di molte altre aree della filosofia oltre a quelle di cui mi ero occupato in Verità e etica: in particolare, avrei dovuto affrontare questioni che concernono la teoria della percezione e la filosofia della mente. Per fare un esempio: se non spieghiamo come la percezione ci dia l’accesso alla realtà, qualunque forma di realismo è necessariamente incompleta. E poi ci sono problemi anche sul versante della filosofia della scienza: non sempre, infatti, la scienza autorizza una forma molto semplice di realismo, secondo cui ogni fenomeno ha una e una sola descrizione, e tutte le altre descrizioni sono ad essa equivalenti. Le cose non sono così semplici.
Ma consideriamo più da vicino la filosofia della percezione e un grande cambiamento che l’ha riguardata. Per molti anni Bertrand Russell, probabilmente il più grande filosofo analitico del secolo scorso, contestò duramente il «realismo diretto», o «realismo ingenuo», ovvero la concezione comune secondo cui noi generalmente percepiamo le cose come esse effettivamente sono (e dunque i tavoli e le sedie che percepiamo sono veramente là fuori). L’opinione di Russell era che questa concezione fosse grossolanamente erronea. A suo giudizio, infatti, quando percepiamo gli oggetti, noi rimaniamo sempre all’interno del nostro «spazio privato», nella nostra mente: e dunque l’esistenza dei veri oggetti può essere da noi soltanto inferita.
Negli ultimi tempi però c’è stata un’ampia reazione contro questa posizione di Russell e molti filosofi della percezione oggi vogliono tornare a una qualche versione del realismo diretto. Ma se questa concezione possa essere veramente ripresa, ed eventualmente come debba essere articolata, è una questione assai complessa e io stesso me ne sto sempre più attivamente (ora sto anche lavorando a un libro di filosofia della percezione).
Un altro punto che mi sembra importante notare rispetto a questi temi riguarda una tesi sostenuta dai positivisti logici, ma anche da molti altri filosofi che non si consideravano affatto positivisti logici. Si tratta della distinzione tra due tipi di giudizi: i giudizi di fatto e i giudizi di valore. I giudizi di fatto sarebbero quelli di cui fanno uso le discipline scientifiche, mentre i giudizi di valore sarebbero quelli che riguardano discipline come l’etica e l’estetica.
A mio giudizio, però, questa distinzione è completamente insostenibile, perché la stessa scienza presuppone costantemente giudizi di valore. Con ciò non intendo sostenere che la scienza presupponga costantemente valori etici o politici, ma che essa presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità.
Per esempio, quando la comunità scientifica fa propria una determinata teoria fisica, ciò non accade soltanto perché quella teoria offre predizioni migliori delle teorie concorrenti, ma anche perché essa perviene a quelle predizioni nel modo più semplice e coerente.
Non molte persone sono consapevoli di quanto numerose siano le teorie, potenzialmente alternative a quelle che accettiamo, che sin dall’inizio vengono respinte non perché non abbiano buone provesperimentali a proprio sostegno, ma per considerazioni di puro ordine metodologico: ovvero per considerazioni basate su giudizi di valore epistemico.
Un mio amico scienziato mi ha raccontato di una conversazione che ebbe una volta con Karl Popper. «Caro Karl - il mio amico disse a Popper tu non penseresti mai che la scienza testi veramente ogni teoria falsificabile, se ogni settimana ti ritrovassi sulla scrivania tutte le bizzarrissime teorie che arrivano sulla mia!».
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11.12.2012)
Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip. Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.
Come si diventa un ateo credente
Putman: "Io studioso di scienza vi spiego l’importanza della vita spirituale"
"Non scherzo quando dico che pregare Dio, cosa che faccio ogni giorno, non è rivolgersi a un essere fittizio"
"Molte persone hanno bisogno di confidare nell’eternità e in una ricompensa dopo la morte. Io no"
È il più celebre filosofo analitico e in un saggio racconta il suo rapporto con la religione: "Non penso esista il soprannaturale ma certi ideali sono validi"
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 31.05.2011)
Dopo aver letto il libro - bello e intenso come un appassionato esame di coscienza - verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam - che per sessant’anni ha scritto di "fatti e valori" e di filosofia della scienza, con l’autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale - abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un’adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico.
Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si occupato di filosofia del linguaggio e della mente.
Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».
Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».
Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?
«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d’accordo nell’affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».
Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D’altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio - cosa che faccio ogni giorno - , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un credente. Ma ciò in cui credo quando dico: "credo in Dio" non è affatto quello che l’ateo nega quando dice: "Dio non esiste". Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».
Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi - morali, epistemologici ecc. - presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull’idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».
Nella sua visione filosofica lei viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?
«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l’autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l’evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale - il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti - non dipende dalla religione che professiamo».
Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definzione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».
La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: "potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo". Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell’individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».
Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L’autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l’individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».
Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?
«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull’attesa di una qualche ricompensa. E d’altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all’intolleranza».
LACAN CON FREUD E "KANT CON SADE": "Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti". Così inizia il testo di J. Lacan, Kant con Sade, (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla "kantizzazione" di Sade e sulla "sadizzazione" di Kant da parte di Lacan, cfr.: E, Fachinelli, "Lacan e la Cosa", La Mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale "hitlerizzazione" di Kant, si cfr.: F. La Sala, Sigmund Freud, i diritti umani, e il problema dell’"Uno")
LACAN E "L’ORIGINE DEL MONDO" (G. Courbet, 1866): "(...) Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur" (Sergio Luzzatto).
E’ morto il filosofo Saul Kripke, il logico della teoria causale del riferimento
Una delle figure più importanti del XX secolo nel campo della filosofia del linguaggio e della logica *
Il filosofo statunitense Saul Kripke, una delle figure più importanti del XX secolo nel campo della filosofia del linguaggio e della logica, autore della teoria causale del riferimento, è morto all’età di 81 anni a New York. L’annuncio della scomparsa, avvenuta giovedì 15 settembre, è stato dato sui social dal Saul Kripke Center, il centro studi a lui intitolato dal Graduate Center della City University of New York, dove ha insegnato negli ultimi vent’anni.
Nato a Bay Shore, nello stato di New York, il 13 novembre 1940, dopo una doppia laurea in filosofia e matematica all’Università di Harvard, Kripke iniziò la carriera accademica come docente della Rockefeller University di New York, dove ha insegnato dal 1968 al 1976, per passare poi nel 1977 alla Princeton University, di cui era professore emerito. Tra i suoi scritti apparsi in italiano figurano "Esistenza e necessità. Saggi scelti" (Ponte alle Grazie, 1992), "Nome e necessità" (Bollati Boringhieri, 1999) e "Wittgenstein su regole e linguaggio privato" (Bollati Boringhieri, 2000).
Accompagnata fin dal precoce esordio accademico da un’aura di genialità, la figura di Saul Kripke è una delle più aneddotiche, affascinanti e discusse della filosofia contemporanea di orientamento analitico. A partire dai primi anni sessanta, le sue idee hanno segnato una svolta, portando alla ribalta nuovi temi e problemi. Allo stesso tempo, l’opera di Kripke risulta spesso ostica per i non addetti ai lavori perché si avvale di argomenti mirati sottili e profondi, contenuti in un numero esiguo di testi, e si snoda lungo alcuni passaggi tecnici. Il filosofo ha elaborato una semantica formale per la logica intuizionistica e per quella modale, estendendo successivamente i risultati di quest’ultima all’analisi filosofica del riferimento dei termini del linguaggio naturale.
Di qui è nata la teoria causale del riferimento, secondo cui il riferimento di un termine ’t’ è determinato da un nesso causale che collega ogni possibile uso di ’t’ all’oggetto che gli è stato associato al momento della sua introduzione nel linguaggio. Un nome proprio è inoltre concepito come un "designatore rigido", ossia un termine che designa lo stesso individuo in ogni "mondo possibile" in cui ha un referente, e le asserzioni d’identità in cui compare sono considerate "metafisicamente necessarie", ossia vere in ogni mondo possibile.
Kripke ha anche proposto un’originale teoria della verità che riesce a eliminare alcuni inconvenienti della teoria del matematico e logico Alfred Tarski relativi a paradossi. Il filosofo era socio dell’American Academy of Arts and Sciences, della British Academy, dell’Academia Scientiarum et Artium Europaea, della Norwegian Academy of Sciences e dell’American Philosophical Society. Tra i numerosi riconoscimenti, le lauree honoris causa della Johns Hopkins University, dell’Università di Haifa, dell’University of Pennsylvania e dell’University of Nebraska.
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