Crisi, il dramma del Mezzogiorno:
persi 47,7 miliardi di Pil e 32mila imprese *
MILANO - Pil in calo di 47,7 miliardi di euro; quasi 32mila imprese in meno; oltre 600mila posti di lavoro perduti; 114mila persone in cassa integrazione; quasi 2 giovani meridionali su 3 disoccupati: questa la drammatica fotografia della crisi dal 2007 ad oggi, secondo il Check Up Mezzogiorno elaborato da Confindustria e Srm sullo stato di salute dell’economia meridionale.
"Servono interventi robusti per amplificare i timidi segnali positivi", dicono gli economisti di viale dell’Astronomia che chiedono "la decisa attuazione delle riforme istituzionali e strutturali", dal fisco all’energia, dalla semplificazione alla riduzione dei tempi di pagamento Pa, perchè "la partita decisiva per il Sud si gioca attorno ad un pieno ed efficace impiego delle risorse della politica di coesione".
A segnare vistosamente il passo e a deprimere il territorio soprattutto il dato sugli investimenti pubblici e privati, diminuiti di quasi 28 miliardi tra il 2007 e il 2013: un calo di oltre il 34%, con punte di quasi il 47% nell’industria in senso stretto e del 34% nell’agricoltura e nella pesca, che pure sono settori in cui è forte la specificità del Mezzogiorno, si legge ancora nel Report di Confindustria. In particolare frenano gli investimenti pubblici: tra il 2009 e il 2013, infatti, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno si è ridotta di oltre 5 miliardi di euro, tornando ai valori del 1996, contribuendo alla riduzione del numero e del valore degli appalti pubblici. In calo di numero, ma soprattutto di valore, da 8,6 miliardi a poco più di 5 miliardi, sono anche le gare di partenariato pubblico-private bandite nel Mezzogiorno.
"Si realizzano, dunque, sempre meno investimenti pubblici, sia che lo Stato li finanzi direttamente sia che li promuova indirettamente. E ciò è paradossale, se si considerano le difficoltà economiche che suggerirebbero l’opportunità di un’azione pubblica decisamente anticiclica".
Parzialmente in controtendenza invece i dati sulle esportazioni meridionali: l’export, infatti, dice ancora Viale dell’Astronomia, è l’unica variabile il cui valore al 2013 è superiore (+2,4%) a quello del 2007. Un recupero però che " sembra essersi fermato nel 2013 e nei primi mesi del 2014", o meglio differenziato: scende l’export di idrocarburi, oscilla l’export di acciaio, si rafforzano settori come l’aeronautico/automotive, la meccanica, la gomma/plastica, l’agroalimentare.
Tra i dati flebilmente positivi Confindustria annovera l’aumento delle società di capitali (+3,2% rispetto a un anno fa), delle imprese aderenti a contratti di rete (oltre 1.600), delle nuove imprese condotte da giovani (50mila nel solo 2013); e dalla crescita in alcune regioni meridionali, dei turisti stranieri. Segnali contradditori invece quelli che arrivano dal settore credito: gli impieghi scendono (8,4 miliardi di euro in meno rispetto al 2012), mentre i crediti in sofferenza hanno ormai raggiunto i 35 miliardi di euro.Nessuna inversione di tendenza invece nella dinamica dei prestiti, "ma la riduzione sembra accennare a frenare".
* la Repubblica, 25 luglio 2014
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete):
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra la "Ditta Renzi" di ieri (1935-1936) e la "Ditta Renzi" di oggi (1994-2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978).
A mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno anche "Paura della libertà", scritto in Francia nel 1939 - dopo il confino in Basilicata - e pubblicato nel 1946, dopo la scrittura nel 1942-1943 e la pubblicazione nel 1945 del suo capolavoro) di Carlo Levi, è ancora tutto da leggere e da rimeditare - assolutamente; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjamin*.
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, con grande consapevolezza filosofica e teologico-politica, in un passaggio sul nodo della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia", così scrive, contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli (come di Torino):
"La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino"; e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (C. Levi, Cristo..., cit., pp. 123-125).
Detto diversamente, egli ha ben compreso - come scrive all’editore Einaudi nel 1963 - non solo "la Lucania che è in ciascuno di noi", ma anche "tutte le Lucanie di ogni angolo della terra". Nato a Torino (29 novembre 1902) e morto a Roma (4 gennaio 1975), ora riposa nel cimitero di Aliano, nella sua Terra. A suo onore e memoria, possono valere (in un senso molto prossimo) le stesse parole del "Finnegans Wake" di Joyce, riferite a Giambattista Vico (che pure aveva vissuto molti anni, a Vatolla, ai margini della grande foresta lucana, dell’"ingens sylva"): "Prima che vi fosse un uomo in Irlanda, c’era un lord in Lucania".
Come Vico e con Vico, Carlo Levi aveva capito da dove ripartire, per affrontare da esseri umani la "Paura della libertà" (cfr. Carlo Levi, Scritti politici, cit., pp. 132-209). Una lettura meditata e criticamente assimilata della vichiana "Scienza Nuova" (a partire da quella del 1725, "che tutta incominciammo - come scrive lo stesso Vico - da quel motto: A Iove principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia plena") è alla base di questo suo primo lavoro (ripetiamo: scritto dopo il confino a Grassano e ad Aliano, e prima della scrittura - cinque anni dopo - di "Cristo si è fermato ad Eboli").
Il suo omaggio a Vico non si riduce e non è riducibile solo alle allusioni già evidenti nei titoli dei capitoli (Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia sacra):
Come vincere la paura della libertà, come convivere con la ingens sylva? L’incredibile è che, nel 1939, quando "un vento di morte e di oscura religione sconvolgeva gli antichi stati d’Europa" e "la bandiera tedesca fu alzata sulla torre Eiffel", Giambattista Vico è a fianco di Carlo Levi, come nel 1944, nel Lager di Wietzendorf, è a fianco di Enzo Paci - e ha aiutato entrambi a non perdere la strada e a riprendere il cammino della giustizia e della libertà.
Nel gennaio 1946, nella "Prefazione alla prima edizione" di Paura della libertà, Carlo Levi così parla (cfr. Scritti politici, cit ., pp. 218-219) della sua "confessione" (definita poi "breve poema", nel 1964, e "poema filosofico" nel 1971): "Quello che avevo scritto era all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, la prefazione: ma tutti gli svolgimenti particolari che avevo avuto in animo di fare vi erano impliciti (...) mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato, ecc. Il libro rimase qual era, senza seguito. Lo portai con me nel ’41, di nascosto in Italia; e molti amici mi consigliarono di stamparlo subito (...) non ho cambiato neppure una parola della stesura primitiva (...) mi è parso che convenisse lasciare a questo piccolo libro (Così diverso dal mio Cristo si è fermato a Eboli, scritto cinque anni dopo) il suo tempo, che è forse il suo valore di espressione".
Federico La Sala (07.09.2014)
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SUL PROBLEMA VICO, NEL SITO, SI cfr.:
SU WALTER BENJAMIN, NEL SITO, SI cfr.:
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione del banditismo in Italia (Laterza)
Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 06.09.2018)
«C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione».
Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato».
«Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri...».Tutti sordi.
E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?»
Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde... Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».
Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito...».
Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione...». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».
L’incidente sulla Corato-Andria e le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese
Morire perché si è preso un treno
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 14.07.2016) *
Ogni tragedia ha la sua dose di imponderabilità, di fatalità, di specifica responsabilità o di errore umano. Ma l’azione collettiva ha, fra i suoi scopi più importanti, proprio il compito di ridurre il peso di questi fattori nelle vite dei cittadini; di consentirci di fruire in sicurezza di beni e servizi pubblici. Un Paese avanzato lo è anche perchè riesce a garantire vita e salute dei suoi cittadini, con norme, decisioni, investimenti.
Questo non è stato evidentemente possibile per i poveri operatori e viaggiatori dei treni sulla linea Corato-Andria. La loro terribile sorte è stata causata da circostanze e responsabilità specifiche che toccherà stabilire a chi è a ciò preposto. Ma, in senso più generale, è collegata all’insufficiente capacità collettiva di garantire loro migliore servizio, maggiore sicurezza. A scelte e a condizioni che hanno interessato le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese.
Tre elementi sembrano di particolare rilievo.
Da tempo, l’Italia ha concentrato i suoi investimenti ferroviari sulla rete ad alta velocità. Investimenti consistenti in un servizio molto importante, che riduce fortemente i tempi di percorrenza, sposta viaggiatori dall’aereo al treno, garantisce un ricco mercato per la società pubblica e il concorrente privato che gestiscono il servizio. Molto bene. Ma molto male che ciò sia avvenuto a danno dei trasporti regionali e pendolari, che interessano ogni giorno cinque milioni e mezzo di italiani, e le cui condizioni sono assai misere, in carenza di investimenti e attenzione per i servizi. Un giornale come «Il Mattino», ad esempio, da tempo documenta il fortissimo peggioramento del trasporto pubblico locale campano. Purtroppo non è un caso unico: l’eccellente rapporto Pendolaria, realizzato da diversi anni da Legambiente e disponibile sul web, lo documenta con grande precisione e ricchezza di dati; mostrando, uno fra mille esempi, che l’offerta sulla Circumvesuviana si è ridotta del 30%. In misura rilevante vi è carenza di miglioramenti proprio sulla qualità e la sicurezza della circolazione. Nel caso di ieri colpisce la circostanza che in un mondo nel quale sensoristica e connettività hanno fatto passi da gigante, abbattendo il loro costi, e si sperimentano da anni automobili in grado di circolare senza guidatore, vi siano linee ferroviarie nelle quali non vi sono dispositivi in grado di verificare se i binari da percorrere sono liberi e tali da impedire automaticamente, magari con un semplice semaforo, le possibilità di questi assurdi incidenti.
In secondo luogo, infrastrutture e servizi ferroviari sono nettamente peggiori nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. Ad esempio, la percentuale di linee a doppio binario rispetto alla lunghezza della rete totale, è ancora oggi, stando agli indicatori Istat, del 24% al Sud, la metà del Centro Nord. Questo è frutto di divari storici mai colmati; ma anche di una distribuzione degli investimenti assai sperequata da molti anni a questa parte: nel Sud dovrebbe esserci uno sforzo aggiuntivo per compensare progressivamente dotazioni e servizi assai inferiori rispetto al Centro Nord. Non è assolutamente così. Ad esempio il gruppo Ferrovie dello Stato (che non gestisce la Corato-Andria, ma a cui fa capo la stragrande maggioranza degli investimenti ferroviari) ha investito nel triennio 2012-14 al Sud 701 milioni l’anno, che rappresentano solo il 21% del totale nazionale. Il quadro è in netto peggioramento. Gli investimenti di Fs al Sud sono scesi rispetto al triennio precedente (2009-11) del 34% (erano in media 1062 milioni l’anno), con una contrazione assai più forte della media nazionale (-20%). Sulle ferrovie al Sud si investe pochissimo; interi tratti della rete sono in abbandono.
Infine, la circostanza più negativa di tutte: il raddoppio di quella linea ferroviaria era finanziato, e le procedure in corso, ma con tempi lunghissimi. Non un caso eccezionale: la maledizione italiana per cui la realizzazione delle opere pubbliche ha tempi lunghissimi. Stando al pregevole monitoraggio che realizza una struttura governativa (Uver), per portare a termine una grande opera pubblica (più di 100 milioni), ci vogliono 14 anni e mezzo: un dato in aumento rispetto al passato e solo leggermente superiore al Sud rispetto alla media nazionale. La filiera del ritardo, acquisito il finanziamento, comprende tutte le fasi (progettazioni, affidamenti, esecuzioni, collaudi), ciascuna delle quali contribuisce ai ritardi.
Questi tre elementi (disattenzione al trasporto locale/pendolare; limitatissimi investimenti ferroviari al Sud; tempi lunghissimi per realizzare le opere pubbliche) disegnano il contesto di un Paese nel quale, purtroppo, tragedie del genere possono accadere. Indicano con chiarezza le strade da seguire per «cambiare verso», se si ha la volontà di farlo. Per diventare un Paese (tutto, da Nord a Sud), nel quale non si possa morire solo perchè si è preso un treno.
Questo articolo è stato pubblicato su «Il Mattino» del 13 luglio 2016
Un Paese che invecchia, si ferma, ripiegato su se stesso
Un’Italia ingiusta
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 11 luglio 2016)
Gli effetti della grande crisi sul lavoro degli italiani sono stati estremamente forti. È bene ricordarlo. Non per deprimersi, ma per rendersi conto che è necessario un progresso potente per tornare a una quantità e qualità dell’occupazione almeno paragonabile a quella del 2008. Per rendersene conto, possono essere d’aiuto alcune interessanti tabelle pubblicate dall’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale (in particolare alle pp. 107-109), nelle quali sono comparate la dimensione e la struttura (per settore, professione, età, nazionalità e territorio) degli occupati in Italia del 2008 e del 2015; queste tabelle tengono poi già conto del discreto recupero che si è realizzato nell’ultimo anno.
Nell’insieme, gli occupati sono 626 mila in meno. Tantissimi. Ma le informazioni più interessanti vengono, più che dal saldo netto, dalla composizione delle variazioni. A livello di settore, perdono moltissimi occupati le costruzioni (484 mila), per la crisi dell’edilizia e il crollo degli investimenti infrastrutturali, e l’industria (421 mila); ma anche il commercio (258 mila), a causa della caduta dei consumi interni; e la pubblica amministrazione/istruzione (228 mila) a causa dell’austerità. Gli occupati aumentano in pochi ambiti. Innanzitutto nel settore dei servizi alle famiglie (370 mila), quindi negli alberghi e ristoranti (174 mila), grazie alle buone dinamiche del turismo. Guardando alle professioni, la trasformazione è profonda: perdiamo operai e artigiani (più di un milione) e tecnici e professionisti ad alta qualifica (642 mila); guadagniamo addetti alle professioni esecutive (814 mila) e non qualificate (428 mila).
Netto anche il cambiamento nella composizione per età: abbiamo quasi due milioni di occupati giovani (nella fascia 15-34 anni) in meno (anche - ma certo non solo - per motivi demografici) e oltre un milione e 800 mila occupati anziani (di oltre 50 anni) in più. Se guardiamo alla nazionalità scopriamo che gli occupati italiani sono ben un milione e 300 mila di meno, e che invece gli stranieri aumentano di quasi 700 mila.
Infine, la riduzione degli occupati è un fenomeno prevalentemente meridionale: al Sud ci sono 482 mila lavoratori in meno. Sono dati che preoccupano molto, specie se letti con una prospettiva d’insieme. Scopriamo che il problema non è solo la riduzione quantitativa dell’occupazione, ma anche e soprattutto la sua trasformazione qualitativa: che va in direzione opposta a quanto sarebbe auspicabile. Si riducono gli occupati giovani, italiani, a maggiore qualifica, nel pubblico e nel privato; si riducono i tecnici, gli artigiani, gli operai nell’industria e nelle costruzioni. Aumentano i lavoratori a qualifica più bassa, e in particolare gli immigrati che lavorano nel Centro Nord come collaboratori domestici e badanti. Meno tecnici e più camerieri. Restano al lavoro gli occupati più anziani.
Descrivono una fase terribile di un Paese che invecchia, si ferma, che ripiega su se stesso. Suggeriscono che non basta monitorare gli andamenti d’insieme del mercato del lavoro, ma che occorre studiarne anche le trasformazioni; che non basta accontentarsi di un occupato in più se costui lavora prevalentemente con mansioni (e stipendi) più basse (e precarie). È l’occupazione qualificata, pubblica e privata, e a maggiore retribuzione, che ci serve: per restare un Paese avanzato (e civile); per dare un futuro ai più giovani che hanno investito su se stessi; per aumentare la qualità dei servizi, pubblici e privati, ai cittadini e la capacità competitiva delle imprese. Non è certo facile crearla: ma saperlo e provarci sarebbe un buon inizio.
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
Uomini senza onore per tutte le stagioni
di Mimmo Gangemi (La Stampa, 10.07.2016)
Al procuratore Nicola Gratteri io credo per fede, come succede ai devoti riguardo i dogmi religiosi. Come me, crede in lui il popolo calabrese, quello sano. E non si potrebbe diversamente, c’è l’efficienza dei suoi lunghi anni di trincea, c’è la visione realistica del fenomeno ’ndrangheta, c’è la faticosa dedizione di chi bada al sodo e non ha bisogno d’inventarsi bufale con cui costruire meriti. E c’è la nascita aspromontana, nella splendida Gerace.
Solo chi è nato in questa terra martoriata da uomini d’onore che l’onore non sanno nemmeno cosa sia - ché di sicuro non c’è nel sangue versato a piene mani, nei sequestri di persona, nel traffico di droga, di armi, persino di scorie radioattive seppellite negli stessi luoghi dove loro vivono con le famiglie! - ha imparato certi meccanismi, certe logiche distorte, sa cogliere sfumature e dettagli, sa decifrare, è capace di intuizioni risolutive. Perché ha, suo malgrado, respirato ’ndrangheta, nel senso che ha avuto occasione di osservarli gli ’ndranghetisti, di coglierne i modi, le mosse, gli atteggiamenti, di assistere alle parate, di sentir rimbalzare il gergo e parole con lo stampo, di attingere fiati dalla stessa aria che quelli infettano, di distinguerli dentro una maggioranza che è perbene e che spesso ha il solo torto d’esercitare il diritto d’avere paura.
Ora Gratteri individua un altro nervo scoperto nella macchina amministrativa della cosa pubblica. Ed è ancora una volta credibile. È indubbio che c’è una parte non irrilevante di essa che non funziona a dovere, si rivela spesso incompetente e inadatta, fraudolenta, non “muore” mai - è sempre la continuazione di se stessa - uomini per tutte le stagioni, chiunque sia tenere il bastone della bandiera che svetta più in alto, uomini utili a chi si succede nel potere, loro stessi potere a fronte d’una politica troppo spesso inetta o che esprime pochezza, che è debole e si fa condurre docile, senza produrre idee, progresso, valori di cultura.
Questa macchina amministrativa taroccata è in qualche misura ’ndrangheta essa stessa, ne è la propaggine, molti la ’ndrangheta li ha agevolati ad accedere ai ruoli chiave, perché ne diventassero strumento, con politici per decenni solleciti a elargire i posti a cassetta su richiesta di un amico o, peggio, di un amico degli amici a cui non poter opporre un no.
Ad andare a spulciare nei quadri dirigenziali della Regione, degli enti pubblici, della sanità troveremmo tanti a cui ha messo il pennacchio il merito ’ndranghetista e non quello professionale, tanti diventati dirigenti senza aver vinto il concorso previsto dalla Legge e magari senza possedere la laurea, o primari ospedalieri cui non ci affideremmo per un’unghia incarnita. Chiaro che si tratta di favori a rendere: in qualche maniera dovranno sdebitarsi con chi ha consentito che succedesse, “dovranno togliersi l’obbligazione”, per dirla in gergo. A discapito della collettività.
Politica
Il Sud dimenticato dai governi degli ultimi 40 anni. L’ultimo ad occuparsene fu Moro
di Alessandro Cannavale *
Il 9 maggio ricorreva l’anniversario triste dell’assassinio dell’on Aldo Moro. Forse, pochi sanno che il politico di Maglie, assai più di tanti altri, seppe tradurre il proprio meridionalismo in azione politica concreta. Con continuità, lungo gli anni dell’impegno di Governo: è stato ministro e presidente del Consiglio. Furono anni di proficuo impiego dei fondi straordinari della Cassa del Mezzogiorno. Nel 1959 Moro diceva: “Si può ben dire che la soluzione che noi daremo a ogni nostro problema economico rischia di risultare una pseudo soluzione se disoccupazione e mezzogiorno continueranno a presentarsi come problemi largamente irrisolti”. E sempre nello stesso discorso, a Firenze: “Noi siamo riusciti a portare il saggio di sviluppo del sud al livello di quello del nord, non a farlo superare nella misura necessaria per ottenere una sostanziale riduzione dell’attuale divario”.
La questione del divario evidentissimo che attraversava il paese alla fine del fascismo impose la necessità di una programmazione di lungo respiro, per risollevare le sorti del Mezzogiorno. Moro ne era uno dei propugnatori, stante l’indissolubile interdipendenza tra le due aree del paese. L’idea morotea era chiaramente orientata a favorire un riequilibrio interno, per scongiurare l’ampliamento dei divari. Forse molti decisori di oggi dovrebbero rileggere queste pagine, ricche di senso di responsabilità e di consapevolezza del ruolo rivestito, con serietà e preparazione. E di amore verso il paese tutto. Quello di Moro fu un meridionalismo che non scadde mai nel regionalismo. La rivendicazione di dignità ed eguaglianza del Sud era percepita come un’urgenza inderogabile. Prioritaria. E proprio i discorsi inaugurali della Fiera del Levante, ormai declassati nelle agende dei recenti governi, erano invece momenti programmatici rilevantissimi per il Sud e il paese tutto.
Gli interventi statali in economia, nella visione morotea, erano pensati in funzione di un innesco di virtuose evoluzioni, mai come sporadiche precipitazioni di fondi, atte a tamponare emergenze contingenti, prive di auspicabili riflessi sul medio e lungo periodo. “L’incentivo non ha un valore in sé, ma in quanto istituisca una condizione differenziale nei riguardi di tutte le altre parti del sistema”. Le industrie di stato al Sud, secondo Moro, costituivano un mezzo e non fine: uno strumento per frenare l’emorragia di manodopera che in quegli anni imperversava al Sud, prevalentemente. L’obiettivo era, essenzialmente, quello di far sorgere un autonomo ceto imprenditoriale al sud. Chissà cosa avrebbe detto, oggi, considerando che, secondo il recentissimo rapporto Anvur, cresce la quota di diplomati del Mezzogiorno che si iscrivono in un ateneo del Centro-Nord (da circa il 18% dello scorso decennio al 24%)?
Il politico pugliese coglieva in quel titanico flusso di persone un impoverimento quasi sempre irreversibile del Mezzogiorno. Per tale ragione, Moro sosteneva fermamente la necessità di far sorgere l’industria anche al Sud ma, anche, che tale sforzo a nulla sarebbe valso senza una opportuna modernizzazione del settore agricolo meridionale o l’attivazione dell’imprenditoria privata. Nel dopoguerra, sottolinea Moro, l’Italia ha scelto un’economia di mercato, pur perseguendo “una risoluta azione di sostegno e di propulsione nei riguardi delle situazioni economicamente in ritardo oppure in crisi”: una “duplice linea”. Oggi sembra latitare l’equilibrio sano di questa duplicità di intenti.
Il Sud veniva percepito come un banco di prova per la generazione di Moro. Occorreva “redistruibuire tra regioni (nord e sud e in generale zone depresse” e tra settori (industria e agricoltura) il capitale di nuova formazione”. E se da un lato egli auspicava la nascita di robuste autonomie locali, dall’altro ribadiva la necessità di abbattere i divari interni per affrontare in modo ottimale la sfida competitiva dell’Italia in un contesto europeo. Da Bari, dove teneva i suoi corsi universitari, guardava all’Europa, non all’inasprimento strumentale dei conflitti in seno al paese. Qui sta il respiro ampio del meridionalismo moroteo.
Era, indiscutibilmente, la capacità di programmare a lungo termine il punto di forza della classe dirigente alla quale Moro appartenne. Lo segnano distintamente queste parole: “I problemi connessi con l’azione di governo non possono essere affrontati singolarmente ed episodicamente, ma in una visione di insieme, secondo precise priorità d’importanza e di urgenza, in relazione cioè ad una politica di programmazione economica, che consenta, sulla base indispensabile di un adeguato sviluppo del reddito, il superamento degli squilibri territoriali, settoriali e distributivi ancora esistenti, nonché la eliminazione delle maggiori deficienze nel campo delle dotazioni civili del nostro paese”. Correva l’anno 1963.
Cito, infine, queste memorabili parole di Aldo Moro sulla libertà: “Vi chiediamo dunque di volere la vostra libertà e la libertà di tutti con la stessa forza e convinzione; di volere il vostro progresso ed insieme il progresso di tutti. Vi chiediamo di rinunciare all’egoismo e di non consentire, al di là di questa, a nessun’altra rinuncia. Vi chiediamo di credere che ragionevoli limitazioni e temporanei sacrifici portano ad un vero sviluppo; che una libertà misurata e rispettosa è una vera libertà ed una libertà garantita. Vi chiediamo di credere che la libertà non di uno solo, ma di tutti, esalta necessariamente la dignità umana e rinnova la società. Vi chiediamo perciò di custodire la libertà politica come un bene supremo che apre largamente il varco alla giustizia che avanza”.
*
Fonte delle citazioni: “il meridionalismo di Aldo Moro”, idee e programmi per il sud riproposti da Giovanni Di Capua e presentati da Dino De Poli - Centro studi e iniziative per il mezzogiorno Aldo Moro, 1978
* Il Fatto, 26 maggio 2016 (ripresa parziale).
La questione meridionale dell’università: il sud è già condannato alla resa
di Alberto Baccini *
Articolo pubblicato sulla prima pagina de Il Mattino di Napoli il 7 dicembre 2015.
C’è una questione meridionale nell’università italiana? Se lo chiede Mauro Fiorentino in un libro La questione meridionale dell’Università, appena pubblicato per ESI, Napoli. La questione c’è. Ed è il risultato di una complicata combinazione di fattori che stanno svuotando le università del Sud di studenti, professori e finanziamenti. Una combinazione di fattori che non è stata decisa esplicitamente dai governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni; né tantomeno dal parlamento. Ma è il risultato dell’adozione generalizzata di strumenti premiali adottati in un contesto di progressiva e continua riduzione dei finanziamenti, che hanno spostato risorse dalle università del Sud a quelle del Nord.
Pochi giorni fa sul sito www.roars.it è uscita la notizia che finalmente l’Italia ce l’ha fatta: siamo ultimi nella classifica per la quota di laureati nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Si è realizzato l’obiettivo di quanti in questi anni hanno sostenuto sulla grande stampa nazionale che i laureati non servono, che con un miliardo e quattrocento milioni di cinesi che vogliono venire in Italia a fare le vacanze non abbiamo bisogno delle università, che in effetti di università l’Italia ne ha anche troppe. L’OCSE (Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica) ha calcolato che in Italia ci sono 24 laureati ogni cento giovani, contro i 41 della media OCSE, certificando così la nostra ultima posizione in classifica. Fino all’anno scorso eravamo penultimi a pari merito col Cile e davanti alla Turchia, due nazioni che quest’anno ci hanno superato.
E’ da sottolineare che non è a causa dell’inefficienza del sistema universitario o dello spreco di risorse che abbiamo ottenuto questo risultato. Almalaurea stima, sulla base di dati OCSE, che in Italia far laureare uno studente costa in media la metà che in Germania; il 60% che in Francia e Spagna. Questo risultato lo abbiamo ottenuto perché in questi anni abbiamo ridotto le risorse destinate all’università. Siamo infatti al penultimo posto nella classifica della spesa pubblica per istruzione universitaria in rapporto al PIL. Spendiamo lo 0,9% contro una media OCSE dell’1,6%; peggio di noi percentualmente fa solo il Lussemburgo.
L’università e la ricerca (con la scuola) sono i settori che pagato il prezzo più alto in termini di riduzione della spesa pubblica. Ed il taglio è stato fortemente selettivo dal punto di vista territoriale. Secondo i calcoli di Fiorentino, la riduzione del fondo complessivo per il funzionamento delle università nel periodo 2009-2014 è stata a carico per il 50% degli atenei del mezzogiorno, lasciando in media invariato il finanziamento delle università del Nord.
Veniamo ora alla questione degli studenti. L’Italia ha perso tra il 2010, anno dell’entrata in vigore della legge Gelmini, ed il 2015, oltre 27mila immatricolati, pari ad una riduzione media del 9%. Nel 2010, ogni 10 studenti che avevano conseguito la maturità, se ne iscrivevano all’università circa 7; Dopo cinque anni il loro numero si è ridotto a 6. Anche in questo caso i dati OCSE danno all’Italia un triste primato: solo Messico e Sud-Africa hanno una quota di iscrizioni all’università più basse di quelle fatte registrare dall’Italia. Ed anche in questo caso le diversità territoriali sono impressionanti: perdono oltre un quarto degli immatricolati Basilicata (-33%), Abruzzo (-30%), Sicilia (-25%), Molise (-25%), Calabria (-23%). Solo le università campane si attestano sulla perdita media nazionale. Perché sta accadendo questo?
Principalmente per due ragioni. La prima è che l’università italiana costa troppo agli studenti: nella classifica OCSE, dopo Regno Unito e Olanda, l’Italia è terza in Europa per costo delle tasse universitarie. La seconda è che abbiamo un problema enorme per quanto riguarda gli interventi per il diritto allo studio. Una cosa di cui non dovremmo meravigliarci, visto che ascoltati consiglieri dei governi di centro destra e di centro sinistra hanno sostenuto esplicitamente che il diritto allo studio non riguarda l’università, perché “l’università pubblica dovrebbe essere pagata autonomamente da chi la frequenta (così come ogni cittadino si paga il ristorante, il cinema e l’automobile)”. Ed infatti l’Italia ha un altro primato di cui non dovremmo vantarci: siamo gli unici ad avere la figura dello studente che ha diritto alla borsa di studio, ma che non la riceve, il cosiddetto “idoneo non beneficiario”. Nel 2013/14, erano 46mila studenti su 186mila aventi diritto: in media in Italia uno studente su quattro ha diritto alla borsa, ma non la riceve. La disparità territoriale è impressionante: nelle regioni del Sud uno studente idoneo su due è nella condizione di “idoneo non beneficiario”. Questo significa che circa l’80% degli idonei non beneficiari è concentrato nelle regini del Sud, con la Sicilia che ha da sola quasi un terzo degli idonei non beneficiari italiani.
Sarebbe troppo lungo e tecnicamente complesso mostrare che questo rapido e progressivo abbandono delle università e degli studenti del sud dell’Italia è il risultato non solo della riduzione delle risorse, ma dell’adozione di meccanismi premiali distorti per la loro distribuzione. E’ utile però notare che su un punto non si sono risparmiate risorse, costituendo una costosissima agenzia, l’ANVUR, cui è stato dato il compito di produrre “dati oggettivi” al fine di premiare la didattica e la ricerca. Questo ha permesso ai governi di nascondere dietro la presunta oggettività dei numeri scelte politiche che, se fossero state esplicitate, non avrebbero trovato un facile consenso nell’opinione pubblica. La retorica del merito e dei parametri oggettivi sta realizzando il piano che proprio uno dei membri dell’ANVUR dichiarò ad un giornale nel febbraio 2012: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra research university (università di Serie A, ndr) e teaching university (università di serie B, ndr). Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.” Quello che l’ANVUR non disse - ma era così difficile capirlo? - era che le università di serie B e le chiusure si sarebbero concentrate selettivamente proprio nelle regioni meridionali.
* http://www.roars.it/online/la-questione-meridionale-delluniversita-il-sud-e-gia-condannato-alla-resa/, 14 dicembre 2015 (ri presa parziale).
La Questione Meridionale ridotta a fattore M
di Carlo Formenti *
Perché il Sud occupa così poco spazio nei media? O, volendo allargare la prospettiva, perché la Questione Meridionale non è sopravvissuta al cambio di secolo? Questi gli interrogativi da cui prende le mosse una ricerca firmata da due docenti dell’Università del Salento (Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo”, Mimesis editore). La ricerca, alla quale hanno contribuito altri studiosi, prende in esame un trentennio di edizioni del TG1 e dei due maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, oltre ad alcune fiction televisive e pellicole cinematografiche e siti web arrivando alla conclusione che, negli ultimi vent’anni, in particolare in quelli successivi al 2000, il racconto del Sud ha occupato sempre meno spazio nell’agenda dei media e si è progressivamente appiattito su una serie di luoghi comuni negativi: criminalità organizzata, arretratezza economica e culturale, corruzione, malgoverno, parassitismo, ecc.
Nel saggio introduttivo i due autori prendono le mosse dall’analisi gramsciana della Questione Meridionale e dal suo tentativo di mobilitare le energie del neonato Partito Comunista per costruire un blocco storico fondato sull’alleanza fra proletariato settentrionale e contadini meridionali. Tuttavia, visto che il libro si occupa soprattutto, anche se non esclusivamente, dell’immaginario mediatico sul Sud, la loro attenzione si concentra soprattutto sul Gramsci teorico dell’egemonia, dei processi che consentono di costruire senso comune. Una lezione metodologica che attraversa sottotraccia altre parti del libro e rimbalza anche da alcune (non da tutte) delle sedici interviste ad altrettanti intellettuali meridionali (giornalisti, registi cinematografici e televisivi, scrittori) chiamati a rispondere alle stesse domande formulate in apertura.
Dalle ricerche dedicate ai singoli media e dalle interviste emerge uno scenario complesso, a volte contraddittorio, ma dal quale si possono enucleare alcuni punti fermi. La transizione dalla Questione Meridionale al fattore M, cioè a una rappresentazione negativa e “tipizzata” di un Sud su cui non vale più la pena di interrogarsi, in quanto inchiodato a uno stato permanente e sostanzialmente immodificabile di degrado economico, politico, sociale e culturale, è il prodotto di una serie di processi intrecciati e complessi. In particolare: la transizione a una nuova fase dell’economia mondiale associata all’avvento di politiche neoliberiste e antistataliste ha delegittimato i discorsi sulla necessità di dirottare risorse pubbliche verso il Sud per agevolarne sviluppo e crescita; la perdita di posizioni che l’intero Paese ha subito nel corso di tale mutazione (anche il Centro e il Nord hanno subito processi di “meridionalizzazione”) ha progressivamente spostato l’attenzione sulla Questione Settentrionale (paradossalmente il Sud, grazie alle sue tradizionali strutture di welfare familiare, sembra avere assorbito meglio l’impatto della crisi).
Nessun elemento in controtendenza? In effetti, qualche considerazione positiva emerge. Da un lato, l’irruzione sulla scena delle masse dei migranti ha “relativizzato” e parzialmente neutralizzato il fattore M, innescando una riflessione sulla relazione fra Meridione d’Italia e Paesi dell’area mediterranea (riflessione che ha avuto il suo picco nel “pensiero meridiano” di Franco Cassano). Dall’altro i destini del Sud sono sempre più venuti articolandosi secondo diverse traiettorie regionali, un fattore che emerge con particolare evidenza dalle interviste a registi, scrittori e film maker, i quali richiamano l’attenzione sui Sud (al plurale) che si rispecchiano nella più recente fiction letteraria, cinematografica e televisiva.
Tuttavia è proprio su quest’ultimo fattore che si divaricano le opinioni, anche perché questa evoluzione culturale si accompagna al venire meno della funzione e del ruolo dell’intellettuale impegnato (una specie in via di estinzione non solo al Sud) e alla sua sostituzione da parte di uno strato di operatori culturali variamente occupati nella produzione di immaginario. Per alcuni degli intervistati questo è un fattore positivo, in quanto aiuta a convogliare le energie verso nuove forme di progettualità locale, autonoma dalle vecchie logiche assistenziali, per altri (Goffredo Fofi su tutti) siano invece di fronte al degrado di un patrimonio culturale folclorizzato e devitalizzato che viene riciclato a fini di marketing territoriale (come ti vendo la Puglia ai milanesi). Il dibattito è aperto.
Carlo Formenti
Il ponte
Se torna il trasformismo, antica piaga della storia italiana
Saltano fuori progetti che si speravano sepolti come il Ponte sullo Stretto
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 5.11.2015)
La politica dovrebbe essere l’arte del necessario, non del possibile, com’è luogo comune dire. Una chimera, oggi più che mai. La mediazione, essa sì, è utile se esercitata pulitamente per metter d’accordo opinioni e bisogni differenti di una comunità. Adesso? Par di vivere in un garbuglio autoritario dove la cancellazione delle regole è diventata la norma.
L’ultimo episodio riguarda la bagarre sul sindaco Marino, probabilmente indifendibile, anche se bisognerebbe approfondire il disturbo che ha dato agli speculatori la sua politica urbanistica. Le modalità con cui è stato tolto di mezzo non fanno onore a una democrazia. Il notaio che ha raccolto le adesioni dei 26 consiglieri richiamati alle armi per evitare, con la loro firma, una libera discussione in aula rammenta una commedia con Peppino De Filippo più che il V° secolo di Pericle. Di che cosa si è avuto paura?
Si avverte un senso di disagio. In un solo giorno si aggrovigliano senza imbarazzo dichiarazioni e smentite. Via le tasse, ripristinate le tasse; i castelli non pagheranno l’Imu, la pagheranno. Il canone della Rai-Tv verrà inserito nella bolletta dell’energia elettrica? Lo dovrà pagare anche chi non possiede il televisore? Non è chiaro. Si aprono i tavoli.
Tutti parlano, parlano. Che bisogno ha avuto Raffaele Cantone, il presidente dell’Anticorruzione, una persona seria, di definire Milano «capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere gli anticorpi necessari»? Non si pretende che conosca il torbido passato prossimo milanese, Sindona, Calvi, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, Don Verzé, Ligresti, ma ha dimenticato che il vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani è a San Vittore? Ha cancellato dalla mente il gran giro di mazzette sugli appalti scoperto pochi mesi prima dell’inaugurazione dell’Expo e le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa? Anche il presidente Giuseppe Sala non si accorse di nulla. Chissà che sia più vigile se sarà eletto sindaco di Milano come desidererebbe Renzi.
Poi ci sono i problemi più gravi di cui si preferisce parlar poco. Come quello che riguarda la soglia per l’uso dei contanti salita a 3000 euro. Le proteste motivate sono state e sono numerose. Si sono detti contrari, tra gli altri, il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti: «Favorisce l’evasione fiscale, la circolazione del “nero” e danneggia la lotta al riciclaggio frutto di reato». Anche il senatore a vita Mario Monti che da presidente del Consiglio portò la soglia del contante da 2500 a 1000 euro è dissenziente. Ed è in corso una campagna digitale - Riparte il futuro - promossa da Libera e dal Gruppo Abele che ha già superato le 35 mila adesioni.
Nessuna retromarcia, i 3000 euro non si toccano, guai ai gufi, ai rosiconi, ai moralisti: Renzi si è impuntato come un bambino cui viene tolta la nutella.
Ci fu in passato un suo predecessore che mostrava «stizza e insofferenza verso chi lo criticava o anche solo non condivideva le sue valutazioni e le sue decisioni e le voleva discutere». (Fonte ineccepibile, Renzo De Felice, Mussolini il duce . Lo Stato totalitario, pag.284)
È d’obbligo il consenso, la fiducia nella crescita, l’ottimismo, sullo sfondo di campane a festa e di trombe squillanti. È tornata di moda la parola disfattismo, residuo di tempi tristi, viene considerato nemico chi vuole semplicemente dire la sua, discutere le inadeguatezze della politica governante, sottolinearne l’incompetenza, la presunzione, il dilettantismo giovanilistico, smascherare le bugie quotidiane.
Saltano fuori come misirizzi antichi progetti che si speravano sepolti. È rispuntata l’idea del Ponte sullo Stretto, per la letizia delle imprese d’appalto e di subappalto in mano alla mafia. L’opera stava molto a cuore a Berlusconi: fu la prima cosa che disse - promise - quando nel 2008 ridivenne presidente del Consiglio. Non c’è ora un ispettore fuori dai giochi del potere che vada in Sicilia a vedere come, tra crolli, frane e smottamenti, (non) funzionano strade e ferrovie che vanno messe in ordine prima di pensare al ponte faraonico di dubbia utilità?
Il ponte è un favore che Renzi deve rendere all’alleato Angelino Alfano, nativo della Trinacria, o a Denis Verdini, il plurinquisito alleato di riserva? Non teme i giudizi degli elettori o ex elettori del Pd? Crede davvero che distruggendo valori e principi della sinistra, o di quella che fu tale, di guadagnare consensi a destra? Non sembra, con qualche eccezione. Continua invece a perdere parlamentari del suo partito e ha sul collo i fiati dei Cinque Stelle.
Di nuovo protagonista il trasformismo, antica piaga. Padrino Agostino Depretis (1883), tutore Benedetto Croce che nella sua Storia d’Italia (1927) lo definì un semplice strumento di azione politica, nient’altro che un processo fisiologico, non certo patologico.
E oggi? Che cosa può succedere nel gran pastone dei trasformisti quotidiani?
Quel fantomatico ponte sullo Stretto
di Lorenzo Mondo (La Stampa, 8.11.2015)
Si torna a parlare del ponte sullo Stretto tra Messina e Reggio Calabria, con proclami e polemiche che sembrano paritariamente immuni dal senso del grottesco. Non si poteva scegliere momento peggiore per riaprire il discorso su un’opera immane mentre gli abitanti di Messina da quindici giorni mancano di acqua, vivono nelle condizioni di un Paese sottosviluppato. E’ saltata la condotta che rifornisce la città, ma si è guastata anche la valvola del bypass che avrebbe dovuto tamponare il danno. All’origine di tutto, è una successione di frane che non favoriscono una soluzione definitiva del problema e rappresentano soltanto una ulteriore, vistosa testimonianza del dissesto idrogeologico della Penisola. E si affaccia con prepotenza una immagine surreale che mette a contrasto la possanza di architettonici piloni con un terreno che si sbriciola.
L’idea di rimettere mano al progetto del ponte aveva trovato supporto in una mozione del Ncd votata a maggioranza alla Camera. Ad un Alfano esultante per il riguardo prestato alla sua Sicilia, si era contrapposto il ministro alle Infrastrutture Delrio, sostenendo che altre erano le priorità. Poi, quasi per tagliare corto alle fibrillazioni in materia è arrivato Matteo Renzi, a dire che il ponte si farà e diventerà «un altro bellissimo simbolo dell’Italia».
Ma, a parte il piglio ottimistico di cui il premier ha fatto la sua divisa, a parte la dichiarazione irrituale rilasciata a un libro di Bruno Vespa, non si può ignorare la sua premessa. Che suona frenante se non raggelante: «Prima di discuterne sistemiamo l’acqua di Messina, i depuratori e le bonifiche. Poi faremo anche il ponte, portando l’alta velocità finalmente anche in Sicilia e investendo anche su Reggio Calabria, che è una città chiave per il Sud». Non sono progetti di poco conto, prevedono, ad occhio, tempi generazionali. Tant’è che Delrio, pacato ragionatore, anziché ricredersi ha potuto manifestare piena convergenza con Renzi.
In effetti, è difficile anche solo pensare ad una impresa di per sé legittima, magari utile e prestigiosa, quando ci si perde da anni nella realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, quando in Sicilia crollano viadotti, franano autostrade e si impiega più tempo a percorrere il tratto Catania-Palermo che volare a New York. In attesa che si risolvano più umili, meno ambiziosi problemi, interessanti il qui e ora, sentiremo parlare ancora a lungo di questo fantomatico ponte. Assisteremo ai ricorrenti e strumentali balletti della politica, al dire e non dire, alle puntigliose decifrazioni e rettifiche, avulse dalla vita reale, dal comune sentire.
Allarme Svimez: il Sud rischia "sottosviluppo permanente" *
(AGI) - Roma, 30 lug. - Il Sud corre il rischio di non agganciare la ripresa e di vedersi condannato a un ’sottosviluppo permanente’. L’ennesimo allarme sul futuro del Mezzogiorno d’Italia arriva dal Rapporto Svimez 2015, che fotografa un Paese ’diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre piu’ nell’arretramento’. Un Paese dove ’dal 2000 al 2013 il Meridione e’ cresciuto la meta’ della Grecia’. I dati che il rapporto mette nero su bianco sono preoccupanti: nel 2014, per il settimo anno consecutivo, il Pil del Mezzogiorno e’ negativo (-1,3%), il divario del Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud e’ tornato ai livelli di 15 anni fa, il 62% dei meridionali guadagna meno di 12 mila euro annui (contro il 28,5% del Centro-Nord) e ’una persona su tre’ e’ a rischio poverta’, a fronte di un rapporto di ’una su dieci al Nord’. Numeri allarmanti anche sul fronte dell’occupazione. ’Nel 2014 i posti di lavoro in Italia sono cresciuti di 88.400 unita’, tutti concentrati nel Centro-Nord (133 mila).
Il Sud, invece, ne ha persi 45 mila. Il numero degli occupati nel Mezzogiorno torna cosi’ a 5,8 milioni; il livello piu’ basso almeno dal 1977’. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, secondo lo studio ’al Sud lavora solo una giovane su cinque’. Il capitolo ’giovani e lavoro’ mostra una ’frattura’ senza paragoni in Europa: continua, infatti, ’l’andamento contrapposto dell’occupazione tra i giovani e i meno giovani’.
Non vanno meglio le cose sul fronte della domanda di beni e servizi. ’I consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2014 dello 0,4%, a fronte di un aumento del +0,6% nelle regioni del Centro-Nord.
In generale nel 2014 i consumi pro capite delle famiglie del Mezzogiorno sono stati pari al 67% di quelli del Centro-Nord’. Continua la caduta degli investimenti. ’Anche nel 2014 gli investimenti fissi lordi hanno segnato una caduta maggiore al Sud rispetto al Centro-Nord: -4% rispetto a -3,1%. Dal 2008 al 2014 sono crollati del 38% nel Mezzogiorno e del 27% nel Centro-Nord’. Parlando della crisi economica, il centro studi osserva che tra il 2008 e il 2014 ’la riduzione del valore aggiunto e’ stata piu’ intensa al Sud in tutti i settori produttivi. Peggio di tutti l’industria: qui il valore aggiunto e’ crollato al Sud cumulativamente del -35%, a fronte del -17,2% nel resto del Paese’.
In questo scenario lo Svimez avverte che ’Il Sud e’ ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente’. Non stupisce che nel 2014 nel Meridione si siano registrate solo 174 mila nascite, un livello che ci riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa’. .
* http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/allarme-svimez-il-sud-rischia-sottosviluppo-permanente/news-dettaglio/4593778
LE IDEE. Lettera a Renzi: lei ha il dovere di intervenire e ancora prima di ammettere che nulla è stato fatto. Ci sono tante persone che resistono: le ringrazi una a una. Liberi gli imprenditori capaci da burocrazia e corruzione.
Caro premier, il Sud sta morendo. Se ne vanno tutti, persino le mafie
di Roberto Saviano (la Repubblica, 01.08.2015)
Caro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, torno a scriverle dopo quasi due anni e lo faccio nella speranza di poter ottenere una risposta anche questa volta. La prima volta Le scrissi quando il suo governo aveva appena iniziato la propria azione di "riforma radicale della società italiana". Oggi non si può certo pretendere dal Suo esecutivo la soluzione di problemi endemici come la "questione meridionale": ma non ci si può neppure esimere dal valutare le linee guida della sua azione.
Game Over. Questa è la scritta immaginaria che appare leggendo il rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno. Game Over. Per giorni i media di tutti il mondo sono stati con il fiato sospeso in attesa di un accordo che scongiurasse l’uscita della Grecia dalla zona euro: oggi apprendiamo che il Sud Italia negli ultimi quindici anni ha avuto un tasso di crescita dimezzato rispetto a quello greco. La crisi è ben peggiore: ed è nel cuore dell’Italia. Il lavoro come nel 1977, nascite come nel 1860.
Tra i fattori di grave impoverimento della società meridionale ci sono il decremento del tasso di natalità e l’aumento esponenziale della emigrazione che coinvolge sopratutto i giovani più brillanti: quelli formati a caro prezzo, nelle tante Università meridionali, funzionali più agli interessi dei docenti che a quelli degli studenti.
Ci sono meno nascite perché un figlio è diventato un lusso e averne due, di figli, è ormai una follia. Chi nasce, poi, cresce con l’idea di scappare: via dalla umiliazione di non vedere riconosciute le proprie capacità. Questo è diventato il meridione d’Italia: spolpato dai tanti don Calogero Sedara che non si rassegnano ad abbandonare il banchetto dell’assistenzialismo.
Ed è in questo contesto che si ripopongono nostalgie borboniche: l’incapacità del governo e la non linearità della sua azione resuscitano bassi istinti già protagonisti della nostra storia.
"Fate Presto" era il titolo de Il Mattino all’indomani del terremoto del 1980. Andy Wharol ne fece un’opera d’arte. E oggi quella prima pagina si trova a Casal di Principe, in un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ospita una esposizione patrocinata dal Museo degli Uffizi di Firenze. Le consiglio di andarci, caro premier: Le farebbe bene camminare per le strade del paese, Le farebbe bene vedere con i suoi occhi quanto c’è ancora da fare e come il tempo, qui, sia oramai scaduto. Per com’è messo, oggi, il Sud Italia, anche quel "Fate Presto" è ormai sintesi del ritardo.
Potrei dunque dirLe che agire domani sarebbe già tardi: ma sarebbe inutile retorica. Le dico invece che - nonostante il tempo sia scaduto e la deindustrializzazione abbia del tutto desertificato l’economia e la cultura del lavoro del Mezzogiorno - Lei ha il dovere di agire. E ancora prima di ammettere che ad oggi nulla è stato fatto. Solo così potremo ritrovare la speranza che qualcosa possa essere davvero fatto.
Le istituzioni italiane devono infatti chiedere scusa a quei milioni di persone che sono state considerate una palla al piede e, allo stesso tempo, sfruttati come un serbatoio di energie da svuotare. Sì, qualche tempo fa c’è stato pure chi ha pensato di tenere il consiglio dei ministri a Caserta, a Napoli. Ma di che s’è trattato? Di pura comunicazione: nient’altro. Che cosa ha invece opposto la politica italiana al dissanguamento generato dalla crisi? Dal 2008 a oggi contiamo 700mila i disoccupati in più. Sono certo che Lei mi risponderà che la Sua riforma del mercato del lavoro va in questa direzione: vuole fermare il dissanguamento. Ma a me corre l’obbligo di dirLe che anche una buona riforma - e se quella attuale lo è lo capiremo solo negli anni - può generare effetti perversi se calata in un sistema-Paese claudicante.
Nel frattempo, la retorica del Paese più bello del mondo ha ridotto il Mezzogiorno a una spiaggia sulla quale cuocere al sole di agosto: per poi scappar via. Ammesso che ci si riesca ad arrivare, su quella spiaggia, dato che - come è accaduto alla Salerno-Reggio Calabria - si può incapparei interruzioni sine die (secondo le indagini, tra l’altro, frutto ancora una volta della brama di denaro da parte di funzionari infedeli). Non creda che nelle mie parole ci sia rancore da meridionalista fuori tempo: ma, mi scusi, che cosa crede che sarebbe successo se le interruzioni avessero riguardato un’arteria cruciale del nord Italia?
Troppe volte ho sentito dire che è ormai inutile intervenire. Che il paziente è già morto. Ma non è così. Il paziente è ancora vivo. Ci sono tantissime persone che resistono attivamente a questo stato di cose e Lei ha il dovere di ringraziarle una ad una. Sono tante davvero. E tutte assieme costituiscono una speranza per l’economia meridionale. E Lei che ha l’ingrato ma nobile compito di mostrare che è dalla loro parte: e non da quella dei malversatori. Tra i quali, purtroppo, si annidano anche coloro che dovrebbero rigenerare l’economia.
Massimiliano Capalbo si definisce imprenditore "eretico" e legge nella desertificazione industriale un elemento positivo. Se desertificazione significa che impianti come l’Ilva di Taranto o la Pertusola di Crotone o l’Italsider di Bagnoli scompariranno dalle terre del Sud, questa - argomenta gente come Capalbo - può essere anche una buona notizia: vuol dire che il Sud potrà crescere diversamente. Aiutare il Sud non vuol dire continuare ad "assisterlo" ma lasciarlo libero di diventare laboratorio, permettergli di crescere diversamente: con i suoi ritmi, le sue possibilità, le sue particolarità. Non dare al Sud prebende, non riaprire Casse del Mezzogiorno, ma permettere agli imprenditori con capacità e talenti di assumere, di non essere mangiati dalla burocrzia, dalle tasse, dalla corruzione. La corruzione più grave non è quella del disonesto che vuole rubare: la vergogna è quella dell’onesto che - se vuole un documento, se vuole un legittimo diritto, se vuole fare impresa o attività - deve ricorrere appunto alla corruzione per ottenere ciò che gli spetta. A sud i diritti si comprano da sempre: e Lei non può non ricordarlo.
No, non mi consideri alla stregua del radicalismo ciarliero tipico dei figli dei ricchi meridionali, i ribelli a spese degli altri. Il vittimismo meridionale, quello che osserva gli altri per attendere (e sperare) il loro fallimento e giustificare quindi la propria immobilità è storia vecchia. Va disinnescato dando ai talenti la possibilità di realizzarsi. Provi a cogliere le mie parole come la "rappresentanza" di una terra che smette di essere al centro dell’attenzione qundo non si parla di maxiblitz o sparatorie (tra parentesi, perché non è questo l’oggetto di della discussione: tanti studi ormai spiegano che certi exploit della violenza criminale al Sud siano anche l’"effetto" di "cause" dall’origine geografica ben più lontana).
Caro Presidente del Consiglio, parli al Paese e spieghi che cosa pensa di fare per il Sud. Lei deve dimostrare di saper comprendere la sofferenza di un territorio disseccato: solo allora avrà tutto il diritto di chiedere alla gente del Sud di smetterla con la retorica della bellezza per farsi davvero protagonista di una storia nuova - costruita camminando sulle proprie gambe. A Lei, quale più alto rappresentante della politica italiana, spetterà dunque il compito di levare ogni intralcio a questo cammino. E i progetti dovranno naturalmente essere concreti. Permette un paradosso? E’ un tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione. Dal Sud stanno scappando perfino le mafie: che qui non "investono" ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Sì, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insaguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare...
Il Sud è scomparso da ogni dibattito per una semplice ragione: perché tutti, ma proprio tutti, vanno via. Quando milioni di italiani partirono da Napoli per le Americhe. Lei lo sa che cosa succedeva al molo dell’Immacolatella? Le famiglie si presentavano con un gomitolo di lana: le donne davano un filo al marito, al figlio, alla figlia che partiva. E mentre la nave si allontanava, il gomitolo si scioglieva, girando nelle mani di chi restava. Era un modo per sentirsi più vicini nel momento del distacco. Ma anche per dare un simbolo al dolore: al distacco immediato. La speranza era che quel filo che i migranti conservavano nelle tasche potesse continuare a essere mantenuto dai due capi così lontani.
Faccia presto, caro Presidente del Consiglio, ci faccia capire che intenzioni ha: qui ormai s’è rotto anche il filo della speranza.
Il messaggio del regista: torniamo all’essenziale, basta con gli inganni
Ermano Olmi e l’Expo: «Ci salverà il mondo contadino»
Dobbiamo proteggere le piante, dosare l’acqua, rispettare la terra. «Prima viene l’onestà di chi produce, poi c’è il mercato», dice leggendo l’Apocalisse
di Giangiacomo Schiavi *
Ermanno Olmi dice che l’unica speranza per il futuro è il ritorno alla terra. Ai contadini. Anche per questo ha difeso Expo quando tutti l’attaccavano. Il cibo, l’acqua, il rispetto della natura, l’onesta relazione tra chi produce e chi consuma sono l’occasione unica per un cambio di passo, forse un nuovo inizio, la capacità di dare senso a ciò che conta veramente separandolo dal superfluo, dall’inutile che condiziona la vita oggi.
L’esposizione di Milano è carica di significati simbolici ma anche di contraddizioni: si parla di valori e spuntano favori, appalti sporchi, collusioni. Olmi vorrebbe picchiare un pugno sul tavolo per scoraggiare ogni misero e spregevole interesse davanti a un tema così grande: nutrire il pianeta, lotta alle diseguaglianze, onesto utilizzo delle risorse. Nella sua casa di Asiago monta e rimonta il filmato che di Expo dovrà essere il filo conduttore, un vademecum anche morale per una società senza squilibri e ingiustizie alimentari. E si interroga su quello che il mondo si aspetta da noi, da Milano, dall’Italia, su quell’anima di Expo che si fatica ancora a trovare: «Siamo nella fase in cui dopo aver consultato le mappe si mollano gli ormeggi e bisogna avere una rotta. O sai dove andare o vai verso un dove in cui il dove non sai dov’è...».
La rotta di Olmi è chiara, nitida, anche se intorno c’è un grande buio: è la civiltà contadina che abbiamo perso, l’onesta relazione tra chi produce e chi consuma, la sacralità del cibo che non si deve alterare, perché da lì discende la correttezza dei nostri comportamenti, il rapporto di fiducia tra produttore e consumatore, l’equilibrio e l’armonia del creato. «La priorità dell’Expo deve essere la sincerità del prodotto», spiega il grande regista, «bisogna salvaguardare il rapporto naturale tra l’uomo e la terra e fare di questo la garanzia della qualità. Dobbiamo imparare dai contadini a proteggere le piante, a dosare l’acqua, a rispettare la terra per garantire un futuro a chi verrà dopo di noi». A Olmi non piace chi bara sulle risorse e specula sui prodotti, la fame e la malnutrizione sono questioni che l’Expo deve porre senza spot ingannevoli, «perché prima viene l’onestà di chi produce, poi c’è il mercato», dice mentre legge le parole dell’Apocalisse di San Giovanni («...Fuori i cani, gli impostori, gli immondi, i depravati, gli omicidi, gli idolatri e tutti coloro che praticano la menzogna...»).
Ad Asiago con la neve e il tempo che sembra immobile, Olmi dice che si ritrova l’esatto trascorrere del giorno e della notte e ogni alba porta una speranza. Si sente un profumo d’infanzia e di sogno nelle sue parole. «I bambini ci regalano le emozioni più belle davanti alla natura, ma purtroppo noi abbiamo sostituito lo spazio della loro fantasia con qualcosa di predefinito, di artificiale... Ma possiamo ancora riscattarci, tornando all’essenziale, a quel che vale veramente e rischiamo di perdere». È quasi un testamento spirituale il suo contributo alla discussione sulla Carta di Milano, un videoframmento di poche parole sussurrate e registrate in questi giorni di lunga convalescenza: «...Se potessi ricominciare da capo/cercherei di capire meglio gli animali/gli alberi/le stagioni/il giorno e la notte/perché gli uomini resteranno sempre un enigma...». La sacralità del cibo non si può indagare né definire, dice ancora Olmi, mentre sullo schermo appare una pagnotta, il pane di ieri che ci riporta a quel che bastava un tempo per sfamare, alla giusta misura che il mondo oggi non ha.
Ai protagonisti dei tavoli tematici di Expo che si ritrovano il 7 febbraio a Milano ricorda che non è ammesso l’inganno: «I posteri ci giudicheranno e vedranno quel poco di buono o meno buono che abbiamo fatto, ma non ci perdoneranno di non aver fatto quello che potevamo fare». Al premier Renzi («che ha dei meriti ma a volte non lo vedi più, era qui e adesso dove va?...») suggerisce di insistere con la scuola, pietra angolare di tutto: «È lì che si formano gli uomini, che si diventa compratori consapevoli». E al commissario Sala («che stimo perché tiene il timone dritto con coraggio») offre leale collaborazione, mettendolo in guardia dalle derive, che sono business, predazioni ed egoismi.
Credibilità è una parola che Olmi usa spesso per Expo, credibilità, qualità e contagio dell’esempio, insieme ai valori calpestati della condivisione e della saggezza, possono fare miracoli. Se poi si mette anche papa Francesco dalla sua parte, c’è un motivo in più per avere fiducia nella battaglia per ridurre le disparità e le ingiustizie legate all’alimentazione: «Per me lo sviluppo è quando tutti ricevono quel che gli spetta, mentre spreco è quello che nasce dall’interesse di qualcuno a vendere di più». È difficile dire se la spinta di sognatori come lui accenderà qualche passione nuova attorno a un evento che è apparso troppo a lungo freddo e lontano dai cittadini, ma certamente se Expo deve avere un’anima non può che essere quella indicata da Olmi e Carlin Petrini, l’ideatore di Slow food: l’anima calda della creatività, del vivere solidale, del buon uso delle risorse, l’anima dei contadini, degli artigiani, di chi tiene viva la creazione e rispetta la natura. Possono farcela l’Expo, Milano e l’Italia a determinare un cambiamento in questa direzione? Olmi concede un credito: «Nonostante i nostri difetti e i nostri inganni io non ho perso la speranza: sarà la terra a salvarci».
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Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)
Da Cetri Staff (cetri-tires.org/ - 23/03/2016)
Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)
Il governo italiano, con una scelta discutibile, ha fissato al 17 aprile la data del referendum abrogativo sulle piattaforme petrolifere promosso da 9 regioni italiane.
L’oggetto del referendum è la norma introdotta con l’ultima finanziaria che consente alle società concessionarie del diritto di coltivazione dei giacimenti petroliferi a mare entro le 12 miglia marine di poter sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento, anche se entro le 12 miglia resta vietata la concessione di nuove concessioni di ricerca e coltivazione.
Per i fautori del no questa norma è logica in quanto per loro non ha senso “tappare” il foro mentre c’è ancora gas e petrolio da estrarre e inoltre dicono che una vittoria dei si sarebbe pericolosa in quanto bloccherebbe un settore in cui siamo all’avanguardia e si creerebbero migliaia di disoccupati. Insomma nulla di nuovo. Quando si tratta delle fonti fossili, ogni modifica che non piace ai signori del petrolio viene immediatamente bloccato un settore in cui siamo all’avanguardia, produce migliaia di disoccupati, genera piaghe bibliche e catastrofi galattiche.... Il solito ricatto contro lavoro, ambiente e salute.
Altri argomenti citati dai fautori del no riguardano l’aumento delle importazioni dall’estero con il conseguente incremento del numero di petroliere che circolano sui nostri mari e approdano sui nostri porti. In pratica sostengono che gli effetti sull’ambiente provocati dallo stop alle piattaforme entro le 12 miglia marine sarebbero peggiori di quelli che produrrebbero delle piattaforme vecchie di 40 o 50 anni che pompano gas e petrolio dal fondo del mare.
Inoltre i fautori del no ricordano che la vittoria del si al referendum non comporterebbe un divieto alle trivelle e nemmeno alle piattaforme oltre le 12 miglia marine. Per questo accusano i comitati No Triv di truffare gli elettori.
Ma è veramente così?
Assolutamente NO!
Intanto i signori del no devono mettersi d’accordo con loro stessi. Infatti da una parte sostengono che questo referendum è inutile e non produrrà uno stop alle piattaforme e alle trivelle e che quindi presentarlo in questo modo è falso e truffaldino, mentre dall’altra parte dicono che una vittoria dei SI produrrebbe una catastrofe nazionale. Insomma devono spiegare come può essere che un referendum inutile e che non stoppa affatto piattaforme e trivelle, possa bloccare l’intero settore, far scappare tutte le società petrolifere dall’Italia, far perdere miliardi di investimenti, migliaia di posti di lavoro, aumentare le importazioni di petrolio e gas dall’estero e produrre un incremento dei costi della bolletta energetica?Kerkenna1
In pratica è come se dicessero che un moscerino che si posa su un grattacielo ne provoca il crollo.
Inoltre i signori del no sostengono che dalle piattaforme si estrae prevalentemente gas, ma poi dicono che la vittoria del si producendo uno stop immediato alle estrazioni, farebbe si che aumenti il traffico di petroliere. Tutto questo è puro allarmismo verbale. Innanzitutto vorrei ricordare che il gas non arriva con le petroliere, ma con i gasdotti, e (in rarissimi casi) con le navi gasiere in forma di Gas Naturale Liquido (LNG). Quindi non si vede che ci azzeccano le petroliere. Diciamo che i fautori del no sono un tantino confusi. In secondo luogo in caso di vittoria dei SI gli impianti non verrebbero bloccati immediatamente ma a termine, con l’arrivo a scadenza delle concessioni.
Ma allora perché i signori del no raccontano queste falsità? E cosa si nasconde veramente sotto il loro desiderio di procrastinare le concessioni?
Intanto è bene chiarire subito che il referendum interesserà in modo diretto solo diciassette concessioni da cui si estrae il 2,1 % dei consumi nazionali di gas e lo 0,8 % dei consumi nazionali di petrolio gas. Bruscolini che anche se dovessero venire a mancare da un giorno all’altro, come sostengono i signori del no, (ma, ripetiamo, NON è così) non succederebbe nulla di grave e al calo di estrazioni si potrebbe benissimo fare fronte con un minimo di risparmio energetico (quindi incentivando un comportamento virtuoso. Certo se invece vogliamo continuare a sprecare energia prodotta con fonti fossili, allora non basteranno tutti i giacimenti del mondo a coprire il fabbisogno.
milazzoMa, come detto, la vittoria del si non comporterà uno stop immediato delle piattaforme che, purtroppo, continueranno a restare al loro posto fino alla scadenza della concessione e quindi non c’è alcun pericolo per il fabbisogno nazionale e nessuna perdita di posti di lavoro, che sono pochissimi, spesso di tecnici specializzati stranieri, e che scadrebbero al termine del contratto.
Quindi si ritorna alla domanda posta in precedenza: cosa temono i fautori del no?
Temono due cose.
Primo, che passi il messaggio che possiamo fare a meno del petrolio e che possiamo produrci l’energia di cui abbiamo bisogno in altro modo senza continuare a dare soldi ai petrolieri.
Secondo, che passi un altro principio, ben più importante per loro, quello per cui le concessioni scadono.
Infatti ci sono alcune cose che i signori del no ci tengono nascoste tentando di distogliere l’attenzione da esse per puntarla verso la catastrofe prodotta dalla vittoria del si e la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Le paroline magiche che non pronunciano mai i signori del no sono due: royalty e franchigia.
Cosa sono le royalty?
Sono delle quote in denaro che le compagnie petrolifere versano ogni anno allo stato, alle regioni e ai comuni per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Infatti in Italia le risorse petrolifere sono un bene indisponibile dello Stato, questo vuol dire che il petrolio e il gas dei giacimenti è di proprietà pubblica: tutti noi siamo proprietari di una quota di petrolio e di gas stoccati nei giacimenti.
Lo stato però non si occupa direttamente di estrarre queste risorse e “concede” dei titoli di sfruttamento di tali risorse a dei soggetti privati, i quali sostengono i costi per la ricerca e per la costruzione delle infrastruture necessarie alla loro estrazione. In cambio pagano ai “proprietari” delle risorse, noi tutti, una quota percentuale del valore di quanto estratto.
Il problema riguarda la percentuale che viene pagata. Tale percentuale, come si può vedere dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, è pari al 7% per l’estrazione di gas e di olio a terra e del 4% per l’estrazione di olio in mare, a cui sommare una quota del 3% da destinare al fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi se la risorsa è estratta sulla terraferma o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare. (http://unmig.mise.gov.it/dgsaie/royalties/indicazioni_destinazione.asp)
Se si pensa che in altri Paesi le royalty difficilmente scendono al di sotto del 30%, si capisce benissimo il grande regalo che noi facciamo ogni anno ai petrolieri.
La seconda parolina magica, come detto, è franchigia.
Che cos’è?
La franchigia è una quota annua di gas e petrolio estratti da ogni giacimento sulla quale non si calcolano royalty.
Sempre dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico si evince che le franchigie sono pari a:
20.000 t di petrolio estratto a terra
50.000 t di petrolio estratto in mare
25 Milioni di mc di gas estratto a terra
80 Milioni di mc di gas estratto in mare
Questo significa che se i titolari delle concessioni ogni anno e da ogni giacimento estraggono un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie non versano nessuna royalty allo stato.
E naturalmente l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile. Ecco perché dando loro la possibilità di prorogare la durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti, non si fa altro che dir loro: “estraete meno che potete e non versate nemmeno un Euro di royalty, tanto avete tutto il tempo che volete per sfruttare il giacimento”.
A tutto questo, come se non bastasse, bisogna aggiungere il fatto che in pratica a comunicare le quantità di petrolio e gas estratte sono gli stessi concessionari con un’autocertificazione che nessuno controlla.
Non a caso nel 2010 la Cygam Energy, una società petrolifera canadese, in un suo dossier raccomandava di investire in Italia perché “la struttura italiana delle royalty è una delle migliori al mondo”. Tradotto: “Andiamo a trivellare in Italia perché gli italiani sono degli idioti!”
golfo-del-messico-HalliburtonDa quanto detto si capisce come questa norma sia tutta a favore dei titolari delle concessioni e poco della collettività che oltre a incassare poco o nulla dallo sfruttamento di un bene indisponibile dovrà subire tutte le conseguenze derivanti dalle attività di estrazione, incidenti compresi.
Altro che benessere per la collettività.
Ecco cosa si nasconde veramente sotto le trivelle ed ecco il motivo per cui il 17 aprile bisogna andare a votare e votare SI!
L’ITALIA, LA "DITTA RENZI - TORINO", E "CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI"
In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 14.09.2014)
L’INCONTRO informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l’Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l’opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d’un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.
È insomma accaduto l’opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.
La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l’Italia dovrà avviare alcune riforme che l’Europa ritiene indispensabili. Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d’ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell’autunno del 2015.
SE l’Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale. Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l’obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d’inflazione verso l’1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro verso l’1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni. Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l’approvazione delle riforme concordate con la Commissione.
Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.
Come si vede, tutto ciò è esattamente l’opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l’Europa e non come Renzi sperava.
Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: «La strada dell’integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L’introduzione dell’euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento.
L’euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l’Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro. Per l’Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto».
Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.
* * *
Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un’altissima percentuale di consensi e molta forza all’interno e all’estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.
Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d’Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento. Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d’ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce.
L’obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l’equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c’è perfino l’ipotesi di abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch’esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.
Non sarà un’impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all’epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall’Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all’evasione senza sconti.
* * *
Ma che cos’è oggi il Pd? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell’Europa mediterranea è rientrata di fronte all’accordo della Germania con la Spagna, all’enigma scozzese che, se vincessero i «sì» alla separazione, metterebbe a rischio l’adesione alla Gran Bretagna all’Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall’Italia.
Che cos’è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico. Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell’ideologia. Dai tempi dell’Urss e del comunismo staliniano per i liberali l’ideologia era una peste da cui liberarsi. Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l’ideologia.
Personalmente credo che l’ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l’ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un’ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l’ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un’esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.
Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l’ideologia cattolico- liberale; Fanfani aveva un’ideologia cattolico-sociale; Moro un’ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.
Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul “Foglio” di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell’articolo intitolato (non a caso) “L’erede”, Ferrara scrive: «Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boyscout della provvidenza e non trovi mesta l’aura che circonda il nuovo caro leader?».
Mi pare molto significativo quest’entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul “Foglio” dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.
Non c’è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.
Fischi e striscioni
Ilva di Taranto, Matteo accolto a bottigliate
di Francesco Casula (il Fatto, 14.09.2014)
Taranto Dagli applausi del Gargano agli insulti di Taranto e le proteste a Bari. La giornata di Matteo Renzi in Puglia è il racconto di popolazioni della stessa regione che guardano alle istituzioni con animo opposto. A Peschici, dopo l’alluvione che ha causato due morti e oltre 70 milioni di euro di danni, c’è chi crede davvero nell’aiuto del Governo. Nella città dell’Ilva, invece, vince la rabbia di un centinaio tra operai dell’Ilva e ambientalisti. Nel Gargano, l’ex rottamatore si è fermato a parlare con i cittadini: “Non vi lascerò soli” e “il governo farà la sua parte com’è doveroso”.
I cittadini di Taranto, invece, sono rimasti fuori dalla prefettura, dove il primo ministro ha incontrato il sindaco, il presidente di Confindustria e i sindacati metalmeccanici. Renzi non ha trovato tempo per parlare con i manifestanti che al suo arrivo gli hanno dedicato il coro “Buffone! Buffone! ” e alla sua partenza hanno rincarato la dose con insulti e il lancio di qualche bottiglietta. “Se questo Matteo Renzi è il nuovo che avanza - ha commentato il comitato dei Liberi e pensanti - permetteteci di dire che assomiglia terribilmente al vecchio; a quella vecchia politica che ha immolato la città di Taranto a vittima sacrificale, sull’altare degli interessi dei grandi gruppi industriali e dello Stato”.
PER RENZI non c’è stato nemmeno il tempo per incontrare i pediatri tarantini che avevano chiesto un incontro per approfondire la drammatica situazione ambientale e sanitaria: “Mi sono fatto dare il numero di telefono della pediatra - ha detto ai giornalisti - la chiamerò. L’Ilva è una questione nazionale, la scommessa di come si può fare impresa rispettando la salute”. Una scommessa, tuttavia, che nonostante una valanga di decreti varati da tre diversi governi, lo Stato non sembra aver vinto.
Inoltre, sul progetto “Tempa Rossa” che prevede l’espansione della raffineria Eni di Taranto e l’aumento del 12 per cento delle emissioni, Renzi è stato evasivo: “È uno dei grandi temi che suscitano grandi dibattiti nella popolazione, sono questioni su cui talvolta c’è un elemento di tensione slegata dalla reale portata dei problemi”. Un progetto contro cui anche il comune di Taranto ha detto ufficialmente “no”, mentre il governo, incurante, sta procedendo speditamente.
Poco prima di partire per la Fiera del Levante, infine, il presidente del Consiglio ha annunciato che tornerà “nel periodo di Natale, alla fine dell’anno a fare il punto della situazione”. Ma le proteste lo hanno accompagnato anche nella successiva parte della giornata pugliese. A Bari, in risposta alla “buffonata” del gelato a Palazzo Chigi, studenti e giovani precari con un carretto di gelati davanti alla stazione centrale di Bari hanno contestato Renzi spiegando che “non abbiamo bisogno delle buffonate del governo, ma di un nuovo welfare, un reddito minimo garantito che consenta continuità di reddito per chi non ha continuità di lavoro, serve dire basta alla precarietà che contribuisce all’aggravarsi della crisi e all’aumento delle diseguaglianze”.
MA AL SUO arrivo alla fiera del Levante, Renzi ha dovuto fare i conti anche con i sindaci e i cittadini del Salento contrari al gasdotto Tap. “Noi siamo pronti a rispettare chi dice ‘No’ - ha risposto il premier - ma chi dice ‘no’ non può dire ‘stop’. Parliamo di tutto senza problemi ma non si può dire ‘no’ a un’opera così”. La Tap nel Salento come Tempa Rossa a Taranto quindi: non importa cosa dicano istituzioni locali e cittadini, il premier va avanti perché “ha la testa dura” e, secondo lui, “c’è la gente che fa il tifo”.
Renzi paga i conti con 4 miliardi destinati al Sud
3,5 coprono lo sgravio Irap, 500 milioni fanno contenta la Ue sul deficit
di Marco Palombi (il Fatto, 31.10.2014)
Ora che la manovra di Matteo Renzi è in Parlamento e comincia a essere analizzata nel dettaglio, si scoprono una serie di cosette non proprio commendevoli. Lo Svimez, per dire, ha appena parlato del deserto industriale e persino della natalità che è il volto della crisi nel Mezzogiorno e dalla legge di Stabilità viene fuori che il governo ha appena scippato al Sud 4 miliardi di euro per pagare i suoi conti: “Si rispettano le regole di bilancio Ue coi soldi del Mezzogiorno - ha dichiarato ieri Francesco Boccia, deputato Pd pugliese che siede nella non secondaria poltrona di presidente della commissione Bilancio - Dicevano che il Sud non avrebbe perso un euro, invece sono saltati 4 miliardi: difendo le misure redistributive con i denti, dalla diminuzione dell’Irap agli 80 euro, ma dobbiamo capire chi paga che cosa e come”.
ECCO, IL TAGLIO dell’Irap sulla componente lavoro - di cui beneficeranno per ovvie ragioni soprattutto le imprese del Centro-Nord - lo paga il Sud: 3,5 miliardi in tre anni, infatti, sono “distratti” proprio dai fondi destinati alle aree svantaggiate. Un altro mezzo miliardo, invece, servirà a placare la sete di austerità del commissario europeo Jyrki Katainen: fa parte di quei 4 miliardi e mezzo che dovranno portare il rapporto deficit-Pil al 2,6% dal 2,9 inizialmente previsto. Ancora Boccia: “Mi pare un’idea creativa, nella migliore delle ipotesi, della redistribuzione delle risorse necessarie al rilancio degli investimenti pubblici”. Tutto questo al netto della decisione di ridurre dal 50 al 25% la quota di cofinanziamento dello Stato rispetto ai fondi comunitari, che decurta a monte la cifra disponibile per il prossimo ciclo di programmazione. Curioso, infine, che in questo contesto si tenti di infilare nella manovra il contributo da 100 milioni per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo: la classica mancia per tenere sotto controllo i territori (meglio, la loro rabbia), che però è stata stralciata ieri alla Camera perché incompatibile con l’impostazione macro che dovrebbe avere una legge di Bilancio.
Oltre allo scippo, peraltro, bisogna registrare pure una sorta di beffa. Dai fondi europei 2007-2014, che vanno spesi entrol’anno prossimo, ai tempi dei governi Berlusconi-Monti si decise di dirottare la bellezza di 12 miliardi (su 60 totali programmati) verso una cosa chiamata “Piano di azione coesione”. L’idea era che, se regioni e enti locali erano troppo lente o incapaci di spendere bene i soldi, sarebbe stata l’amministrazione centrale ad aiutarli e indirizzarli. Ottima idea, ma i risultati sono pessimi: secondo la Ragioneria generale dello Stato, a oggi, di questi 12 miliardi sono stati effettivamente spesi solo 656 mila euro. È appena il caso di ricordare che negli ultimi due governi, compreso questo, la delega sulla materia è stata dell’attuale sottosegretario Graziano Delrio. Questo, però, non ha impedito la sottrazione di risorse. Torniamo al deputato pd Boccia: “La favola per la quale si dice che è colpa delle Regioni incapaci non regge più. Servono nomi e cognomi. Sanzioni e azioni conseguenti. Ma i soldi devono andare a quei territori. Qui utilizzando l’incapacità di alcune classi dirigenti, si nasconde la sottrazione di risorse al Sud”.
IERI, PERÒ, è stata anche la giornata in cui ha cominciato a scricchiolare una delle colonne propagandistiche che Renzi e il Pd (tranne rare eccezioni) hanno eretto a difesa della legge di Stabilità: questa manovra è espansiva, cioè dà ai cittadini più di quanto gli tolga (poi chi paga e chi prende, dentro il corpo sociale, è un’altra questione). Falso. Lo dice, con le cautele del caso, una fonte assai autorevole: Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di autorità di controllo sui conti pubblici. Così Pisauro, in audizione in commissione Bilancio, ha risposto a una domanda sul tema: “Dal punto di vista economico questa manovra è restrittiva perché migliora il saldo strutturale. Convenzionalmente stiamo ragionando rispetto al tendenziale e rispetto a quello è espansiva”. Tradotto: di fatto il deficit scende (dal 3 di quest’anno al 2,6% del 2015), quindi la manovra è recessiva; il governo parla di manovra espansiva rispetto agli impegni che aveva assunto Enrico Letta in Europa e confermati da Renzi in aprile (cioè un deficit-Pil al 2,2% l’anno prossimo). La verità, dunque, è che questa manovra è recessiva, ma meno di quanto avrebbe dovuto essere se avessimo dato retta a Bruxelles. Ricorda quella vecchia battuta su Achille Occhetto: “Lei non sa chi sarei stato io”.
CARLO LEVI E LA QUESTIONE MERIDIONALE
di Nicola Tranfaglia *
1. Formazione e giovinezza
Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell’autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.
Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso l’ordine nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell’ex capitale subalpina negli anni venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell’industria meccanica e automobilistica.
Puntarono, insomma, su Piero Gobetti come un riferimento Levi e i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia, sia agraria che urbana, che secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere.
“Dovremo diventare una generazione di storici” scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto una controrivoluzione preventiva rispetto a una rivoluzione proletaria che non ci fu.
In un articolo apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti , nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione liberale e dedicato ai “Torinesi di Carlo Felice”, possiamo verificare .il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà.
O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti che riguarda la figura dell’ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua mentalità conservatrice, l’assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini.
Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino “Voci di officina “ che esce nel 1930 e nei “Quaderni di G. e L.” pubblicati a Parigi da Carlo Rosselli che il giovane medico- pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell’Italia e dell’Europa.
In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall’altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento.
C’è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di Giustizia e Libertà che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l’oppressione fascista.
Tra il 1939 e il 1940, durante la fase ambigua della sospensione della guerra , prima della grande avanzata nazista in Occidente, Carlo Levi scrive un saggio di grande impegno e originalità intitolato PAURA DELLA LIBERTA’ pubblicato da Einaudi nel 1945 e ristampato l’anno scorso negli “Scritti politici” a cura di David Bidussa sempre editi da Einaudi che a me pare decisivo per capire la maturazione politica del torinese e gli scritti del periodo successivo tra cui è centrale il romanzo -saggio CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI uscito nello stesso anno e destinato a un grande e duraturo successo tra i lettori di tutto il mondo.
In “ PAURA DELLA LIBERTA’”, Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Battaille, dei grandi autori della psicoanalisi Freud e Jung, interpreta l’oppressione totalitaria degli anni trenta e quaranta come l’espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal passato dell’uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società.
Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive pagine di grande lucidità sulle difficoltà mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell’espressione.
Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere.
2. CRISTO e il suo significato
Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura.
Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo,il “CRISTO” segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale .
Soprattutto perché guarda alla società contadina del mezzogiorno , e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista.
Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza.
Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che non immaginava potesse esistere nell’Italia del Novecento.
Occhi che assomigliano a quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato.
Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la lotta democratica.
Il “CRISTO” è un classico nella misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori, anche quelli non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale.
Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l’opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo .
Egli ha un’altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come “Le parole sono Pietre” ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo.
Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell’opera di Carlo Levi, ed è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti.
Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche negli ultimi anni della sua vita la vedrà sempre di più come il simbolo di una questione destinata a rimanere tale nell’era della globalizzazione economica e culturale.
Nicola Tranfaglia
* Fonte: http://www.proteofaresapere.it/contributi/questione.htm
LACRIME E SANGUE
di David Maria Turoldo *
La più amara inondazione della terra
Sono le lacrime della povera gente,
lacrime silenziose e segrete:
acqua e sangue che gonfiano i fiumi
di tutti i paesi:
impossibile che non succeda l’evento
impossibile che non debba accadere!
Fede è ribellarsi
Fede è rompere le catene
Credere è fare giustizia
* Testo segnalato da don Aldo Antonelli
In Sardegna avanza il deserto. A rischio un comune su cinque
di SANDRO ROGGIO (La Nuova Sardegna, 8 agosto 2014) *
Se facessimo oggi una fotografia per sapere com’è distribuita la popolazione nell’isola, risalterebbe quella grande area centrale spopolata. Perché in questi giorni siamo quasi tutti - abitanti e turisti - concentrati ai bordi. E stanotte a Semestene, a Soddì o a Baradili - tra i piccoli comuni sempre più piccoli - si conteranno meno presenze di quelle registrate in un medio albergo vista mare.
Poco cambierà nelle altre stagioni: per Semestene - 160 abitanti, circa 650 alla fine dell’Ottocento - non ci sono speranze di lunga vita nonostante l’orgoglio civico esibito nel sito del Comune. Secondo la diagnosi del demografo stanno male almeno 70 paesi sardi, tutti in aree interne, la metà dei quali si svuoterà nell’arco di un trentennio (fonte RAS 2013). Elementare: se non ci nasce nessuno e qualcuno ogni tanto ci muore o se ne va, saranno le case vuote a documentare la magica secolare resistenza di quel centro, abitato da chissà quante generazioni.
Ormai più che un trend circoscritto a qualche caso disgraziato, è il ribaltamento dell’antico ordine che ancora nel secolo scorso sembrava congenito. Motivo di sconforto per Vittorio Amedeo II che fantasticava sulla Sardegna militarizzata prima di sapere dei suoi lidi sguarniti, dai quali si tenevano alla larga i 300mila abitanti.
La bassa densità di popolazione (67 ab/km²) cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l’estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c’erano ancora energie. Ma sembrava tempo perso assistere contadini e pastori disarmati, meglio investire ingenti risorse nei programmi di poli industriali (Il Sole24ore ha stimato che per Ottana si sono spesi 6 miliardi di euro). Sembrava tanto facile, la palingenesi della chimica che ci avrebbe fatto dimenticare la grama vita nei campi.
È andata così. E cosa c’è di più tragico della scomparsa di un comune su cinque, in una regione con indici di disagio altissimi? Non è imminente come quando si annuncia la chiusura di una fabbrica. Quindi nessun corteo o scalate di campanili, e neppure l’onore di una task force che si invoca per ogni contrattempo.
Ci aspetteremmo un piano adatto all’ emergenza: un terzo del territorio regionale è a rischio di tenuta e non basta dire che occorre “fare sistema” - l’auspicio molto evasivo in voga da un po’ di anni. C’è, evviva, il progetto di Fabrizio Barca (presentato a Ales e a Teti) e vedremo se ce la farà ad atterrare prima che sia tardi.
Per tenere su il morale si sovrastimano suggestive previsioni (immigrati che prima o poi si compreranno le case vuote in Goceano o in Marmilla, flussi di vacanzieri a caccia di conferme dei pittoreschi racconti sulla “Sardegna vera”, o sedotti, in caso di disfatta, dallo spettacolo delle ghost town).
Vista dalle spiagge questa rarefazione è incomprensibile. Difficile spiegarsi il deserto che avanza da chi, immerso nella sfrenata densità di cose e persone, combatte per trovare posto a un ombrellone o un tavolo in pizzeria. In fondo la disgrazia sta pure in questo divorzio, nella doppia faccia dell’isola, come la spiegano i valori di mercato: due metri quadri di veranda nelle riviere vip costano quanto una casa a una quarantina di chilometri.
Un insostenibile squilibrio, la Sardegna che balla per due mesi divorando paesaggi, e la Sardegna che stenta a sopravvivere. E non potrà farcela da sé, senza un progetto speciale e molte risorse, (più di quelle previste nel Programma di sviluppo rurale finanziato dall’Europa). Serve una “grande opera” finalizzata a rinnovare le ragioni per abitarle quelle terre in crisi, moltiplicando il sostegno al lavoro di agricoltori e allevatori industriosi, potenziando i servizi, non eliminandoli. È il presupposto per mantenere e attrarre abitanti. Ci conviene e non ci sono scorciatoie.
*
http://www.eddyburg.it/2014/08/in-sardegna-avanza-il-deserto-rischio.html
Dalla Puglia nasce (di nuovo) il New Deal italiano?
di GIORGIO NEBBIA *
In questa calda e bizzarra estate fa piacere leggere che il sindaco di Bari ha deciso di stanziare dei fondi per assicurare un piccolo reddito mensile a disoccupati che si impegnino in lavori in cooperative; l’hanno chiamato “reddito di cantiere” ed ha un precedente illustre, ottanta anni fa.
Siamo nel 1933, in piena crisi economica mondiale; negli Stati Uniti ci sono milioni di disoccupati, vaste terre rese sterili dall’erosione e dalle alluvioni; il 14 marzo di quell’anno, dieci giorni dopo essere stato eletto, il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) predispose un progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati in lavori di difesa ambientale, in cambio di alloggio e di un piccolo compenso. Il 31 marzo 1933 il parlamento americano approvò l’istituzione dei Civilian Conservation Corps (CCC) e, nell’estate del 1933, 300.000 giovani americani disoccupati, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, erano nei boschi impegnati in opere di difesa del suolo, che da molti anni erano state trascurate. Piantarono alberi, scavarono canali per l’irrigazione, costruirono torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e greti dei fiumi. Più di due milioni e mezzo di giovani americani prestarono servizio nei CCC; nel 1935 fu raggiunto il massimo numero di 500.000 presenze. Durante il periodo di funzionamento dei CCC furono piantati 200 milioni di alberi e furono gettate le basi di quello che sarebbe diventato il servizio di difesa del suolo del Dipartimento dell’Agricoltura.
Una simile iniziativa si ebbe in Italia a partire dagli anni cinquanta del Novecento con i cantieri di rimboschimento organizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno e con la legge del 1952, voluta dal Ministro dell’agricoltura Amintore Fanfani (1908-1999) che era un colto professore di storia dell’economia. Soprattutto nel centro sud vennero piantati milioni di alberi che contribuirono a rallentare il dissesto idrogeologico. Mi auguro che anche i “cantieri” dei disoccupati pugliesi siano dedicati ad alleviare i molti problemi di Bari e della Regione, dalla regolazione del flusso delle acque alla sistemazione delle coste.
Una seconda buona notizia viene dalla Puglia settentrionale; la Regione ha stanziato fondi per assicurare alloggi agli immigrati che svolgono lavori saltuari nei campi e che finora sono stati soggetti al caporalato e allo sfruttamento in alloggi vergognosi. Anche in questo caso c’è un precedente, ancora nell’”Età di Roosevelt” quando milioni di piccoli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare le terre che avevano in affitto, rese sterili per il vento e le piogge, per migrare verso un qualche lavoro nei campi della fertile California. La storia di una di queste famiglie, ispirata ad eventi reali, è raccontata nel libro “Furore” di Steinbeck e nel film omonimo del registra John Ford. La famiglia dei Toad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti, è possibile trovare occupazione in agricoltura.
Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è i Joad arrivano mentre è in corso uno sciopero; i padroni, attraverso ”caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri. Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata, anche questa, dal presidente Roosevelt e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Nel film i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare, senza successo, di smantellare il campo di accoglienza che sottrae al loro sfruttamento la mano d’opera.
Una simile iniziativa si ebbe in Italia, dopo la Liberazione, negli anni cinquanta. Il “Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS, col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento pubblico di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità.
Che proprio dalla Puglia stia partendo un “New Deal” come quello rooseveltiano con iniziative saldamente ancorate alla soluzione di concreti problemi, insieme, di occupazione e umani e ambientali ? Molti governanti, per accattare voti promettono di diminuire le tasse; io sono contento di pagare le tasse se in parte servono a rendere un po’ più decente la vita di coloro che si sfiancano nei campi, sotto il sole, per pochi soldi, per assicurare frutta e verdura fresche sulla nostra tavola.
* EDDYBURG, 17 Agosto 2014
http://www.eddyburg.it/2014/08/dalla-puglia-nasce-di-nuovo-il-new-deal.html
Giuseppe Di Vittorio e il New Deal per l’Italia
Con una breve premessa pubblichiamo un testo che abbiamo pescato nel sito della CGIL, lì inserito il 24 gennaio 2013. Il “piano del lavoro” proposto dal bracciante pugliese divenuto, dopo anni di antifascismo militante, segretario generale del sindacato dei lavoratori italiani è un atto culturale e politico che va ricordato oggi, che al Lavoro si vogliono continuare a faro pagare i prezzi della crisi provocata dai servi sciocchi del Capitale.
Premessa
Due circostanze ci hanno spinti a cercare e riprendere proprio in questi giorni agostani questo testo, pubblicato sul sito della CGIL .
1. Integrare l’articolo che l’amico Giorgio Nebbia ci ha inviato e che abbiamo, come al solito, pubblicato nelle “opinioni”;
2. ricordare il bracciante pugliese di cui ricorreva recentemente l’anniversario della nascita (13 agosto 1898) proprio nei giorni in cui i quotidiani ci raccontano degli ulteriori tentativi delle forze che sorreggono il governo Renzi di far pagare ancora più duramente al lavoro la crisi provocata dalla più recente (e letale) incarnazione del capitalismo.
Non è la prima volta che ricordiamo su eddyburg il significato che ebbe quella proposta scaturita dal mondo del lavoro. Che essa non sia stata riaccolta in quegli anni e rapidamente dimenticata dalla stessa politica e cultura della sinistra italiana è un triste segno dei tempi. Che essa sia stata ripresa dalla lista “l’altra Europa con Tsipras” e sia al centro del dibattito per una nuova sinistra italiana ed europea è un segno di speranza per il futuro.
IL PIANO DEL LAVORO 1949-50
Nel 1949, anno in cui, in ottobre, al Congresso nazionale di Genova Giuseppe Di Vittorio presenta la proposta di un “piano economico e costruttivo per la rinascita dell’economia nazionale”, l’Italia è ancora tutta alle prese con gli effetti disastrosi della Seconda Guerra mondiale. I senza lavoro sono due milioni, concentrati per gran parte al Sud, un milione di lavoratori sono ad orario ridotto e più di un milione di braccianti è occupato solo saltuariamente. Anche le infrastrutture sono ai minimi termini, il tasso di scolarizzazione è tra i più bassi d’Europa, moltissimi italiani sono costretti a emigrare, le diseguaglianze sono fortissime, la fame e la malnutrizione sono realtà tangibili.
Ma il 1949 è anche un anno di mobilitazioni e di lotte di massa per il lavoro, per il salario, per il riscatto del Mezzogiorno che vedono la CGIL in prima fila. E a proposito del Mezzogiorno, Di Vittorio a Genova afferma “che l’unica spedizione militare che potrebbe riuscire a eliminare il banditismo e la mafia dovrebbe essere una spedizione di ingegneri e di tecnici”. Il Piano del lavoro nasce con un’ispirazione keynesiana e con l’idea di raccogliere e unire tutte le energie produttive per far sì che la fase delle ricostruzione coincida con un nuovo sviluppo del Paese. Non una trasformazione radicale dei rapporti di classe, dunque, ma un deciso intervento pubblico per correggere gli squilibri sociali ed economici. E, per la CGIL, un modo di affermarsi come sindacato di proposta e di lotta anche su questioni di carattere generale.
Il Piano, che dopo il Congresso di Genova viene presentato l’anno successivo a Roma, può essere sintetizzato in tre direttrici di intervento: nazionalizzazione dell’energia elettrica con la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici laddove erano più necessari, soprattutto al Sud; avvio di un vasto programma di bonifica e irrigazione dei terreni per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura, specialmente nel Mezzogiorno; un piano edilizio nazionale per la costruzione di case, scuole e ospedali.
La realizzazione del Piano prevedeva la creazione di 700 mila posti di lavoro e i finanziamenti sarebbero arrivati da una tassazione progressiva “da richiedere alle classi più abbienti, in modo particolare ai grandi gruppi monopolistici e alle società per azioni”; dal risparmio nazionale e da prestiti esteri che non mettessero in discussione “l’indipendenza economica e politica della nazione”.
Anche se il Piano non diede nell’immediato i risultati voluti, indicò tuttavia alcune direttrici di politica economica che sarebbero poi state avviate avviate e realizzate dai governi dei decenni successivi (la nazionalizzazione dell’energia elettrica, le bonifiche, il piano edilizio, ecc, per esempio). E produsse, inoltre, una straordinaria mobilitazione civile, “un movimento - come ha sottolineato Bruno Trentin - che liberò immense energie potenziali, che suscitò l’insorgere di nuovi fatti associativi e organizzativi, di nuove forme di partecipazione dal basso”.
Riferimenti
Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.
Editoriale
L’alternativa radicale alla globalizzazione
di Guido Viale (il manifesto, 02.09.2014) *
Molte delle minacce che incombono sul nostro pianeta - e di cui poco si parla - sono già fatti. Innanzitutto la data che renderà irreversibile un cambiamento climatico radicale e devastante si avvicina. A questo vanno aggiunte tutte le altre forme di inquinamento e di devastazione, sia a livello globale che locale, che lasceranno a figli e nipoti un debito ambientale ben più gravoso dei debiti pubblici su cui politici ed economisti si stracciano le vesti.
Governi e manager hanno per lo più cancellato il problema dalla loro agenda: la green economy promossa a quei livelli non è un’alternativa al trend in atto, ma una serie scollegata di misure, spesso dannose, che ne occupano gli interstizi. L’Italia, che ha una strategia energetica (Sen) recepita dal governo Renzi, ne è un esempio: ha impegnato cifre astronomiche nelle fonti rinnovabili a beneficio quasi solo di grandi speculazioni che devastano il territorio, ma dentro un piano energetico incentrato su trivellazioni e trasporto di metano in conto terzi. È una visione miope che distrugge, insieme all’ambiente, anche l’agognata competitività, e chiude gli occhi di fronte al futuro.
Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia - ma non è certo un’eccezione - è già impegnata con diverse modalità, tutte contrabbandate come «missioni di pace», su una decina di fronti. Ma questi interventi, che non sono mai guerre dichiarate, alimentano un meccanismo irreversibile: si armano o sostengono Stati o fazioni per combatterne altri o altre, che poi si rivoltano contro chi le ha armate in un alternarsi continuo dei fronti che non fa che allargarli. Dal conflitto israelo-palestinese alla guerra tra Iraq e Iran, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dalle due guerre contro l’Iraq all’Afghanistan, e poi all’Algeria, alla Libia, alla Siria e di nuovo all’Iraq, e poi in Ucraina, l’establishment dell’Occidente ha ormai perso il controllo delle forze che ha scatenato.
È difficile riconoscere coerenza a scelte (ciascuna delle quali ha o ha avuto una sua «logica») che messe in fila testimoniano la mancanza di una visione strategica. Il soffocamento o la degenerazione di molti processi nati da rivolte popolari contro miseria e dittature sono il risultato di una mancanza di alternative alla diffusione del caos che la «democrazia occidentale» - ormai identificata con il dominio feroce dei «mercati», cioè con una competitività universale - non è più in grado di prospettare e che le forze antagoniste non sono ancora capaci di proporre.
Entrambi quei trend sono destinati a produrre un crescendo continuo di profughi, sia ambientali che in fuga da guerre e miseria, destinati a sconvolgere la geopolitica planetaria. Già ora, e da anni, paesi come Pakistan, Siria, Giordania, Libano, Iraq, Turchia, Tunisia, sono costretti a ospitare milioni di profughi, molti dei quali si riversano poi - e si riverseranno sempre più, a milioni e non a decine di migliaia - in Europa. Pensare di affrontare questi flussi con politiche di respingimento è non solo criminale, ma del tutto irrealistico. Ma avere milioni di nuovi arrivati da «ospitare», con cui convivere per molto tempo o per sempre, a cui trovare un’occupazione, evitando di innescare in tutto il paese focolai di infezione razzista (e di reclutamento per milizie del terrore) rende addirittura risibili le politiche economiche e sociali di cui dibattono i nostri governi, tutte calibrate sui decimi di punto di Pil. È un dato che dovrebbe in realtà ridefinire in tutta Europa le politiche relative a scuola, sanità, abitazione, lavoro e cultura: i temi su cui noi stiamo riflettendo, mobilitandoci o cercando di lottare.
Molti di quei focolai accesi dalle strategie, o dalla mancanza di strategia, dell’Occidente nel corso degli ultimi decenni (Ucraina, Medio Oriente e Maghreb), poi trasformatisi in incendi, rischiano anche di interrompere l’approvvigionamento energetico dell’economia europea. Le conseguenze potrebbero essere deflagranti sia per la produzione che per le condizioni di vita e la mobilità. Ma anche in questo caso la governance europea non va più in là del giorno per giorno.
Di fronte a scenari come questi si evidenzia tutta la miopia delle politiche dell’Unione messe in atto con l’austerity, il fiscal compact, gli accordi come TTIP e TISA, l’eterna melina sul coordinamento delle politiche degli Stati membri. Qui tuttavia una strategia chiaramente perseguita c’è: mettere la finanza pubblica con le spalle al muro: non per «liberalizzare», ma per privatizzare tutto l’esistente: imprese e servizi pubblici, beni comuni, territorio, ma anche esistenze individuali e percorsi di vita; mettere con le spalle al muro il lavoro, per privarlo di tutti i diritti acquisiti in due secoli di lotta di classe; instaurare il dominio di una competitività universale: non, ovviamente, tra pari, ma dove i più forti siano liberi di schiacciare i più deboli.
Tuttavia anche in questo caso gli effetti vanno al di là del previsto: sono le stesse «teste pensanti» dell’establishment ad ammettere, anno dopo anno, che i risultati non sono quelli che si attendevano. Soprattutto ora che vengono al pettine contemporaneamente molti di quei nodi: deflazione, deindustrializzazione, disoccupazione, dipendenza energetica, guerre senza sbocco, disastri climatici, profughi. Ma non hanno vere alternative; e mettere toppe da una parte - cosa in cui Mario Draghi è maestro - non fa che aprire falle da un’altra.
Dunque un «piano B» non esiste. Dobbiamo lavorarci noi e questo deve essere l’orizzonte politico, e prima ancora culturale, di qualsiasi iniziativa, anche la più minuta, di cui ci occupiamo.
Non lasciamoci scoraggiare dalla sproporzione delle forze e delle risorse: in sintonia con noi ci sono altre migliaia di organizzazioni sparse per il mondo (e forse un passo importante per cominciare a coordinarci a livello europeo è stato fatto con la lista L’altra Europa; e non è né il primo né l’unico); e poi, ci sono milioni o miliardi di esseri umani che hanno bisogno di trovare in nuove pratiche e nuove elaborazioni un punto di riferimento per sottrarsi a quel «caos prossimo venturo» di cui già sono vittime. La radicalità di un movimento, di un programma, di un’organizzazione, cioè la loro capacità di misurarsi con lo stato di cose in essere, si misura su questo sfondo: si tratta di sviluppare a trecentosessanta gradi il conflitto con il pensiero unico e con la cultura e la pratica della competitività universale e le sue molteplici applicazioni, per promuovere al loro posto le condizioni di una convivenza pacifica, egualitaria, democratica e solidale tra gli umani e con la natura.
È stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale. Noi dobbiamo pensare e praticare nell’agire quotidiano alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività, ma in condizioni che non facciano più dipendere la sopravvivenza di alcuni dalla morte di altri, il reddito di alcuni dalla miseria altrui, il successo di un’azienda dalla rovina dei concorrenti, il mantenimento o la «conquista» di un lavoro dall’espulsione di chi ne resta escluso, la «ricchezza delle nazioni» (il Pil!) dalla miseria delle rispettive popolazioni.
Queste alternative riconducono tutte alla riterritorializzazione dei processi economici: non al protezionismo, che non è più praticabile; non al confino in ambiti economici chiusi con il ritorno a valute nazionali in competizione tra loro; non alla ferocia di identità etniche e culturali fittizie che ci mettono in guerra con chiunque non le condivida; bensì alla promozione ovunque possibile - e certamente non in tutti i campi e per tutti i bisogni - di rapporti quanto più stretti, diretti e programmati tra produttori e consumatori di uno stesso territorio, ridimensionando a misura dei territori di riferimento, ovunque possibile, impianti, aziende, reti commerciali e il loro governo.
La trasferibilità del know-how a livello planetario ormai lo consente per molti processi, a partire dalla generazione energetica; il recupero dei materiali di scarto ci può rendere più indipendenti dall’approvvigionamento di materie prime; i servizi pubblici locali riportati alla loro missione originaria possono connettere un governo democratico e partecipato della domanda (di energia, alimenti, trasporto, di gestione del territorio, di cura delle persone, di promozione della cultura, dell’istruzione, dell’integrazione sociale) con misure di sostegno all’occupazione, di conversione ecologica delle attività produttive, di risanamento del territorio e del costruito. Si può così costruire, dentro il villaggio globale creato dalla circolazione dell’informazione e dall’interconnessione delle esistenze di tutti, le basi materiali di una vita di comunità ricca di relazioni.
Una strada che è la base irrinunciabile di un progetto politico alternativo per Europa e per il mondo intero; che va imboccata e seguita in ogni situazione in forme differenti e specifiche; ma tutte insieme possono fornire dei modelli a chi decide di imboccarla.
di Franco Arminio (Comune-info, 20 settembre 2015)
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di Franco Arminio*
La religione della festa
La luce è in ogni luogo e sopra ogni luogo c’è il cielo. Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro. Questo abbiamo fatto ad Aliano, passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo.
La luna e i calanchi è una festa religiosa. La questione teologica è più importante della questione meridionale, il cuore della vicenda è il tentativo di resistere alla miseria spirituale dilagante.
Le lacrime delle cuoche non me le aspettavo. E i genitori dei ragazzi dello staff, preoccupati di non poter offrire ai loro figli la gioia che ha offerto la festa. Le lacrime delle cuoche appartengono alla religione più che alla cultura. Le lacrime per un legame che si spezza. Noi che ce ne andiamo e loro che restano. Due fragilità che si dividono, si piegano sotto il peso del vuoto bagaglio della vita.
Che nome posso dare a questa religione che arriva fuori tempo massimo? Gli uomini e le donne sono animali superati. Forse il filo che ci legava agli altri esseri e alle cose si è spezzato per sempre. Siamo animali postumi e la mia è una religione per i postumi. Gigio Borriello, uno degli ospiti più intensi, in una sua canzone dice che è morto e dunque non può più morire.
Una visione improvvisa nella mia testa: La luna e i calanchi è un gioioso funerale, proviamo a fare il funerale a una salma che possiamo chiamare modernità. La gioia di un funerale liberatorio.
Ad Aliano c’erano moltissimi ragazzi, di certo attratti dalla musica, ma non solo. Ci sono vari focolai di ragazzi che si sono messi a fare qualcosa per restare nei luoghi dove sono nati o per tornarci dopo aver studiato fuori. Mi pare una notizia che non è contenuta nei rapporti sul Sud basati sulle cifre.
Adesso penso all’arcaico. La Lucania emoziona perché in qualche modo l’arcaico non è stato sterminato. Ma non è l’arcaico che ci interessa, non è il suo fulgore, piuttosto un arcaico ferito, in forma di relitto, di reliquia. L’arcaico fuori forma. Adesso il compito è di concepire qualcosa che già mentre la concepiamo si dissolve. La festa di Aliano è finita e quella che forse faremo l’anno prossimo accadrà in una nuova epoca: in un anno ormai si avvicendano molte epoche.
Oggi è difficile che qualcuno mi possa parlare veramente di questa festa. È come fare una carezza a una bestia ferita con mani che non esistono. Oppure è una profanazione questo fuoco d’artificio di letizia in una terra che non ama esultare, in una terra consacrata al soffrire.
Quest’anno abbiamo fatto anche due uscite nei paesi vicini. In Lucania ogni paese è un’emozione sicura, non esistono luoghi vacui, sfiatati. A Gorgoglione mi hanno colpito i vecchi che stavano seduti davanti alle porte del paese. Mi ricordo il cerchio di sangue di uno intorno a un occhio piccolo e rotondo. Lì ho pensato al petrolio come a un’ingiuria, lì ho sentito che non potrò mai stare dalla parte degli uomini del profitto. La mia gloria è la perdita.
Dovrei pensare a quello che ha detto Aldo Bonomi. Lui ha inquadrato la paesologia tra le speranze del nuovo secolo, non so spiegare bene cosa ha detto, anzi saprei anche spiegarlo, ma non ne ho voglia, il mio corpo oggi vuole indugiare sulle pieghe, sui dettagli. E poi non ha molto senso fare proclami intorno alla paesologia. Mi basta dire che è un piccolo tentativo che a che fare con la religione, nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non è una disciplina rurale e neppure paesana. Qui si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. I paesi dell’Appennino vanno benissimo come approdo per i profughi, ma non altrettanto per lo sviluppismo dell’ultima ora. In estrema sintesi: sì ai profughi, stop al consumo di suolo.
In fondo la nostra è una guerra partigiana. Si tratta di resistere al nemico comune che possiamo chiamare denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie. La parola cultura per le mie azioni mi pare fuori luogo. La cultura è nicchia inerte o populismo vacuo. Quello che a me interessa è portare i corpi in un luogo. In effetti gli ospiti più interessanti sono quelli più sbilanciati dalla parte del corpo. Chi balla, chi suona, chi fa l’amore, chi ara il suo corpo per farne luce.
Bisogna avere il coraggio di mostrarsi per quello che siamo, infimi e immensi. Questo è il tempo dell’immenso, la medietà non esiste, è una patina con cui molti si rivestono per nascondersi. Tendo a pensare che ogni individuo è un abisso, una voragine in cui il bene e il male si prendono a calci. C’è una furia in ogni vita e bisogna portarla in superficie. Il mio sogno è fare il festival degli anonimi, invitare solo persone che non conosce nessuno. Magari prima o poi ci riesco, dovrei trovare qualche finanziatore che sfugge al ricatto della fama.
La paesologia mette l’accento sui luoghi sgraziati, sui luoghi che fanno luce da soli. Aliano sarebbe un luogo luminoso anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. La forza di questo luogo viene dal suo avere poca vita intorno.
La festa della paesologia dice addio anche a un certo modo di stare a sinistra, tutto centrato sull’opinionismo a costo zero. Mi piacciono i percettivi, gli attenti, quelli che prima di dire il male provano a dire il bene. E per fare questo bisogna lavorare di più perché il bene è raro e sfuggente. Ad Aliano si capisce benissimo che il canto e la poesia stanno un passo avanti rispetto ai ragionamenti rinsecchiti. Il secolo che abbiamo davanti non sappiamo che strada può prendere, per ora è il caso di aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo. La sinistra si rifonda qui, si rifonda nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con cura, si dà foraggio buono alle mucche. Ecco le tracce di una politica che parte dalla natura, ogni cosa che abbiamo tra le mani viene dalla terra prima che da una fabbrica.
La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. Questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato, perché se siamo qualcosa è dentro l’aria che abbiamo respirato.
L’alfabeto è continuamente da rivedere. Personalmente non credo più neppure alla letteratura. Credo a qualche pagina, credo a qualche frase, ma la letteratura si è arenata, non toglie e non aggiunge, è un treno d’ombre su un binario morto. La festa della paesologia è il mio libro, un libro scritto con i corpi dei visitatori e degli artisti invitati, con il corpo degli abitanti del paese. Chiamo questi intrecci comunità provvisorie.
La festa ha messo insieme persone assai lontane tra di loro, ma le persone quando danno il meglio di sé un po’ si avvicinano. Il senso della festa sta tutto in questo clima in cui ognuno dà il meglio. Ad Aliano è tutto un fiorire di abbracci, gli abbracci che mi hanno tenuto sveglio a oltranza per sei giorni.
C’è soprattutto una visione, ho capito prima di altri che in certi luoghi del Sud oggi si può concepire qualcosa di nuovo. Ho capito che la mia scrittura doveva essere agganciata a delle azioni di militanza collettiva, una militanza festosa, lontana dal grigiore di chi vive sotto la dittatura del problema. In realtà il mondo è già bene accordato ovunque, il problema di solito lo aggiungiamo noi. Con questo punto di vista si possono fare tante cose belle, non solo la festa della paesologia. Dunque, mettiamoci al lavoro fuori dal piombo dei discorsi. Sa di polvere il mondo di chi parla e non crede. Ora c’è da credere in chi crede e guarda.
* Franco Arminio, paesologo, scrittore e poeta, altri suoi articoli sono qui.