Facciamoci del male
La sinistra, B. e la sindrome del “che sarà mai?”
di Furio Colombo (il Fatto, 17.11.2013)
A quanto pare è accaduto qualcosa di strano, pericoloso, forse di mostruoso a sinistra. Sentite:
“Una metamorfosi psicologica prima ancora che ideologica ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di purezza morale, capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che avere trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento. Questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato impulso finale con l’avvento di Berlusconi.
Noto con piacere che entra nella lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo ‘resistere’ svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. (...)
La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi vent’anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte di quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi persuaso di vivere sotto il tallone di una dittatura”.
HO CITATO Emanuele Trevi, che recensisce Francesco Piccolo (il Corriere della Sera, 28 ottobre 2013) che ha scritto un libro, molto citato e molto lodato che si intitola Il desiderio di essere come tutti (Einaudi). “Tutti”, ci spiega il saggio-romanzo di Piccolo, sono coloro che non si fasciano la testa per Berlusconi.
Voglio essere preciso. La recensione è cattiva (non una cattiva recensione; cattivo, aggressivo, sprezzante è il sentimento). Il libro è lieve, elogia la spensieratezza, è molto ben scritto, ma con un curioso intreccio tra “lasciatemi in pace” e “purezza”, dove la “purezza” è la pretesa di superiorità della sinistra.
Superiorità su che cosa? Le origini della ricchezza di Berlusconi? Gli amici di Berlusconi? I reati di Berlusconi? Le vanterie private di Berlusconi? Qui mancano dettagli che sarebbero preziosi.
Comunque, letto da uno svedese, Berlusconi, in questo libro, è simpatico, apre e riempie di luce la Reggia di Caserta (così l’autore ricorda la prima apparizione del leader), induce una ragazza, davanti al televisore acceso della notte elettorale e in mezzo alla folla vociante di “menagrami e moralisti” (le parole sono di Trevi, nella recensione, ma il senso è nel libro di Piccolo) a dire, forte, allegra, sorseggiando il suo vino “va bene, che sarà mai, Berlusconi ha vinto le elezioni e governerà, cosa può succedere?”.
Seguendo la narrazione, avete l’impressione che in mezzo alle scenate isteriche e collettive di una sinistra “la cui principale occupazione è stata sempre quella di tracciare confini”, stesse formandosi un piccolo gruppo sereno di persone normali che, Berlusconi o non Berlusconi (che sarà mai), sceglie la vita, la felicità.
Il fatto è che quasi all’istante tutto ciò che restava della sinistra si è schierata con la ragazza “che sarà mai”. Posso testimoniarlo, avendo partecipato a tre legislature: Ero fra i contaminati dalla “purezza”, perché i reati di Berlusconi e il suo prevalere con truffa, evasione, rapporti oscuri (le contiguità e convivenze mai spiegate) compravendita di giudici e senatori, non mi piacevano.
E mi è subito stato detto - prima con bonarietà, e poi con severa esclusione da ogni discorso a nome del gruppo Pds, poi Ds, poi Pd - di smetterla con l’antiberlusconismo viscerale, ovvero ogni “attacco manicheo” ai nostri avversari che, dopo tutto avevano vinto.
La frase chiave del Pds, Ds, Pd (ovvero dei gruppi parlamentari di cui facevo parte) è stata subito “Che sarà mai?” nella nuova e più severa versione: “Non lo vedi che lui ha catturato lo spirito della modernità e voi (menagrami e moralisti) la menate ancora con questa storia della superiorità morale?”.
Quando dirigevo l’Unità (2001-2005) ricevevo una lettera al giorno di autorevoli personaggi che erano stati nella direzione politica prima del Pds, ed erano nella direzione politica dopo la nascita del Pd, con frasi pedagogicamente severe come questa: “Sentir parlare di regime mi fa venire l’orticaria”.
Tutto il resto sull’umore delle gerarchie Pd, irritate da ogni sintomo di opposizione e decise a convivere serenamente con il “regime”, lo trovate nel libro di Francesco Piccolo, da pag. 159 a pag. 261.
Gli argomenti, non la storia, che nel libro di Piccolo è gradevole. Ma gli argomenti me li sono sentiti ripetere quasi alla lettera per un intero periodo di direzione dell’Unità (che evidentemente appariva troppo aggressiva) e per tre legislature. Adesso capisco che il libro di Piccolo è il manifesto della maggioranza di ciò che al momento puoi chiamare, per convenzione (almeno in Parlamento), tutta la sinistra.
Due eventi guastano un po’ la festa Piccolo-Trevi, improvvisata per non dover sentire, neppure da lontano e senza microfono, le voci, ormai in disuso, di “menagrami e moralisti”.
Uno è l’insistenza con cui Stefano Meni-chini, direttore di Europa, vuole sapere chi e come ha organizzato da un momento all’altro l’aggregazione detta “grandi intese” al punto da mettere in scena, compatti, i 101 che abbattono Prodi (che sarà mai) e aprono la strada al governo Letta-Alfano, ovvero Pd-Berlusconi.
L’altra è il grido del presidente della Repubblica che, il giorno della visita del Papa, manda un messaggio, che rivela il peso di una grande tensione. Grida “Dialogo, dialogo, dialogo”, rifacendo, non so se con intenzione, in versione opposta, l’esortazione del procuratore Borrelli di Milano che concluse il suo discorso di commiato con le parole (tanto irrise da Trevi) “Resistere, resistere, resistere”.
Tutto ciò per dire che - tranne Francesco Piccolo e il suo recensore Trevi - “tutti” non sono felici, benché sollevati dalla “superiorità” e dalla “purezza” e, finalmente, alleati di Berlusconi. I leader Pd lottano tra loro (ma ai piani bassi), i militanti sfollano. E gli altri, che si credevano di sinistra, sono incerti, confusi, ribelli senza causa, senza lavoro e senza partito. Si sentono abbandonati in strada come i cani di Ferragosto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Maglia nera nei 27
Europa, undici bocciature in un giorno
L’Italia campione di indisciplina
Dalla scuola (soprattutto) ai medicinali, una lunga serie di infrazioni: siamo i peggiori
E intanto si aprono altre sei procedure, come quella della gestione dei rifiuti radioattivi
di Marco Zatterin (La Stampa, 21.11.2013)
Un record di cui non si può andare fieri. L’Italia, in appena 24 ore, è stata destinataria di ben 11 infrazioni da parte della Commissione Ue: le procedure riguardano scuola, sanità e ambiente. Tra i rilievi di Bruxelles c’è anche un ricorso alla Corte di Giustizia per il mancato recupero di aiuti di Stato illegali concessi negli Anni 90.
Ne abbiamo mancate 11, questa volta, noi della Repubblica Italiana. Per esempio, non trattiamo i precari della scuola pubblica come gli assunti a tempo pieno, ma siamo anche in ritardo nell’adeguarci alle norme contro la tratta degli esseri umani. I nostri medicinali sono privi della tutela dal rischio falsificazione e i passeggeri che viaggiano in treno non possono contare su un’autorità che tuteli i loro diritti, cosa che invece l’Italia ha promesso a Bruxelles. Per questo la Commissione ci richiama, ci minaccia e in un caso ci manda alla Corte di Giustizia. È successo 11 volte, ieri, in un giorno solo. Roba da primato anche nella storia infinita di un Paese da sempre maglia nera nel recepire il diritto Ue.
I numeri sono contro di noi. L’ultimo rapporto sull’applicazione del diritto comunitarie pone l’Italia in testa alla classifica delle infrazioni, erano 99 alla fine del 2012, comprese 17 procedure da ritardato recepimento. Per fare il confronto, la Francia ha 63 contenziosi aperti, la Germania 61, l’Olanda 41. La differenza è palese, come pure si evince dalle denunce dei cittadini, altra graduatoria su cui il sistema italico svetta: ne abbiamo incassate 438; la Spagna, seconda, è quota 309.
Sono statistiche pessime, eppure stiamo facendo meglio di un tempo. In febbraio il quadro di valutazione del mercato interno segnalava come «degna di particolare nota» la prestazione dell’Italia, capace di ridurre il deficit di recepimento delle normative europee dal 2,4 allo 0,8% in sei mesi. Un passo avanti che impone ulteriori sforzi. «È una priorità accelerare, perché non è sopportabile avere record negativi di infrazioni», ha ribadito a più riprese il premier Enrico Letta. L’impegno è di arrivare al semestre di presidenza italiano di Ue, nel giugno prossimo, con un recupero, netto e consolante.
Sinora ha avuto la meglio la lentezza delle Camere e una qualche disattenzione ad ogni livello per le questioni comunitarie. Il meccanismo della legge omnibus comunitaria ha dimostrato parecchie carenze e solo di recente si è cominciato ad accelerare. Ciò non toglie che il mostro mostri la sua faccia peggiore ogni mese, quando la Commissione apre il dossier infrazioni. Ora ci ritroviamo gli undici «pareri motivati», seconda fase della procedura europea, che guarda caso non vengono da soli. Ieri ne sono state aperte altre sei, con lettere di messa in mora, in teoria confidenziali. Fra queste, secondo quanto risulta a La Stampa, ce n’è anche una per l’inadeguata gestione delle scorie radioattive sul territorio nazionale. Il fantasma di Caorso, per intenderci.
Il resto è una bestiario normativo. Rischia di costarci salato il rinvio alla Corte di giustizia Ue per la mancata esecuzione di una precedente sentenza con cui la Corte confermava che certi sgravi degli oneri sociali concessi alle imprese dei territori di Venezia e Chioggia costituivano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, dovevano essere recuperati presso i beneficiari.
È una questione che risale agli Anni Novanta, soldi sociali erogati a chi non ne aveva diritto. Bruxelles propone una mora giornaliera di 24.578 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza della Corte e la piena conformità da parte dello Stato o la seconda sentenza della Corte. Nonché il pagamento d’una penalità decrescente di 187.264 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza fino all’attuazione.
C’è poi che entro gennaio dovevamo recepire le norme per proteggere i farmaci. Che entro marzo erano da attuare quelle in materia di stoccaggio del mercurio metallico considerato rifiuto. Che abbiamo due mesi per rendere uguale part-time e assunti a tempo indeterminato nella Pubblica istruzione. Che è aperta anche la norma sulla prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.
E via dicendo, così non è forse un caso se stamane il Consiglio dei ministri deve esaminare otto norme di attuazione comunitaria. La tratta degli umani è compresa. Sarebbe una di meno. Un passo avanti, importante non solo in nome dell’Europa.
Quanto costa non essere credibili
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 21.11.2013)
Ciò che colpisce, accanto al numero degli inadempimenti dell’Italia agli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea, è la grande varietà dei campi in cui essi si verificano. Ciò significa che il problema che affligge il nostro Paese è generalizzato e non riguarda questo o quello specifico settore in sofferenza, questo o quel ministero competente.
È quindi lecito domandarsi se non vi sia un problema di fondo nel rapporto tra l’Italia e l’Unione, una certa noncuranza, una certa svogliatezza come atteggiamento generale. Se la lettura delle informazioni fornite ieri dalla Commissione Europea giustificasse una simile conclusione, il commento dovrebbe essere molto amaro. E in effetti l’impressione che se ne ricava è sconsolante. Sconsolante ma non sorprendente.
Anche in altri campi risulta una certa facilità dell’Italia nel sottoscrivere impegni internazionali, salvo poi penare ad adempiere. C’è da chiedersi se, come fanno altri governi, quello italiano segua adeguatamente e preventivamente i lavori preparatori delle varie norme europee. E’ nota la difficoltà in cui, per la mancanza di preventive direttive politiche, si trovano spesso i funzionari italiani che si recano a Bruxelles o a Strasburgo per seguire la preparazione di ciò che diverrà una normativa dell’Unione o una convenzione. In quell’attività, a me è capitato con una certa frequenza, in anni andati, di sentire il collega rappresentante francese o britannico chiedere un rinvio, nel corso della discussione, per l’indiscutibile ragione di «non avere direttive sul punto» e di attendersi di riceverle. Ma una volta ottenuta la direttiva politica ed espresso il voto conseguente, il governo di quel funzionario avrebbe senza discussione o tentennamenti data esecuzione a quanto convenuto, poiché l’accordoerastatoraggiuntodopoapprofonditavalutazionedell’interesse nazionale e della pratica possibilità di adempiere gli obblighi assunti.
Vi sono poi esempi negativi dell’atteggiamento dell’Italia anche fuori dell’ambito dell’Unione Europea. Fin dal 1988 l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura impegnandosi a introdurre tale gravissimo reato nel suo sistema penale. Ma ancora, dopo venticinque anni, non l’ha fatto. Il Comitato europeo contro la tortura l’ha ancora richiamata nel suo rapporto di pochi giorni orsono. Intanto gli atti di tortura che anche in Italia si commettono (in occasione del G8 di Genova, ad esempio) vanno in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, con le pene adeguate alla sua gravità. E l’Italia si espone a una ripetuta e grave stigmatizzazione da parte della comunità internazionale.
Naturalmente le carenze e violazioni rispetto agli obblighi internazionali e, più particolarmente, europei non riguardano solo l’Italia. Ma dal comunicato della Commissione Europea risulta che l’Italia, tra tutti i ventotto Stati membri dell’Unione, è quello contro il quale è stato aperto il maggior numero di procedure.
E poiché i numeri e le statistiche contano, ed anche le classifiche, essere anche questa volta in testa (o in coda) aggiunge a tutto il resto argomenti di tristezza. In Italia, se non l’opinione pubblica, di questi tempi, almeno il governo non lesina dichiarazioni di fede europea. Ma gli sforzi fatti per adeguarsi ai grandi e severi parametri economici imposti dall’Unione non bastano ad assicurare all’Italia la credibilità generale, come Paese. E la credibilità vale come diversi punti di Pil.