[...] Domanda: - Che cos’è il conflitto di interessi? Risposta: - È il sommarsi dell’interesse privato (la mia ricchezza, le mie aziende) con l’interesse pubblico (il potere di governare e dunque di dettare le regole che valgono anche per il mio interesse privato).
D.: - Perché è pericoloso il conflitto di interessi? R.: - Perché è umano, naturale e probabile che io usi il potere pubblico di cui dispongo come governante per recare benefici al mio interesse privato che durerà ben più a lungo del mio governare.
D.: - Chi danneggia il conflitto di interessi? R.: - Danneggia tutti, tranne la sola persona che è titolare di quel conflitto. C’è il danno concreto, quando la decisione beneficia direttamente e personalmente l’interessato. E c’è il sospetto continuo che questo accada anche quando non si sa e non si vede. E questo è un danno per la democrazia [...]
di Furio Colombo (www.unita.it, 03.09.2006)
«Mi manca la Peroni e mi manca Berlusconi» canticchiava ieri al supermercato un signore che mi precedeva nella fila alla cassa. Forse aveva notato l’Unità bene in vista sul mio carrello. Avrei voluto dirgli che anche a me manca Berlusconi. Perché, proprio nel momento in cui cominciamo a discutere la legge chiave di un’epoca della vita italiana - la legge sul conflitto di interessi - vedo improvvisamente scomparire dalla scena Berlusconi, il protagonista e il vero destinatario di questo indispensabile provvedimento. Mi dicono che la legge non riguarda Berlusconi, che riguarda "chiunque". Ma io non conosco un signor Chiunque che possieda tutte le televisioni, controlli quasi tutta l’editoria e partecipi - da uomo tra i più ricchi del mondo - ad ogni vicenda della finanza italiana e della finanza internazionale. Se lo conoscessi, direi che l’unica legge possibile per regolare il suo strapotere è questa: primo punto, chi possiede i media non governa. Secondo punto: chi governa non possiede i media. I punti successivi riguardano le altre forme di ricchezza personale nocive al buon governo se tenute fuori dal controllo pubblico e a disposizione del privato che è a capo dell’esecutivo.
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Ecco perché mi meraviglio un po’ quando mi dicono: ma che cosa c’entra Berlusconi? Berlusconi non è neanche più al governo, è impegnato a servire drinks nei bar della Costa Smeralda. E poi, basta con questa fissazione. Si tratta di stabilire alcune buone regole che valgano per chiunque.
Mi ritrovo dunque alle prese con il signor Chiunque, dopo aver aspettato anni per partecipare alla preparazione di questa legge fatta proprio a causa di Berlusconi (e dunque cominciando dal caso-Berlusconi, il più anomalo al mondo), quando mi viene in soccorso Roberto Villetti, capogruppo della Rosa nel Pugno alla Camera.
Cito da Il Corriere della Sera del 30 agosto: «Non possiamo dimenticare che metà del Paese ha votato per Berlusconi. Sa che cosa succederebbe se il centrosinistra lo dichiarasse ineleggibile? Le piazze si riempirebbero, qualcuno griderebbe al colpo di stato. Ci troveremmo in una grave situazione di tensione democratica, una tensione destabilizzante. E l’Unione la democrazia vuole rafforzarla, non indebolirla».
Stimo Villetti, uno che - in un’altra Italia - si è dimesso da direttore dell’Avanti per non piegarsi a una politica che non voleva condividere. Ma non capisco il ragionamento, che mi appare rovesciato. Bisogna, dice, evitare di rafforzare la democrazia per impedire che la democrazia si indebolisca. Su questa strana contraddizione fa luce Lucia Annunziata (Il Corriere della Sera, 31 agosto): «Quando se lo trovano davanti (Berlusconi, ndr.) è come se si spaventassero. Lo vedono potentissimo. Gli sembra gigantesco. Più potente e gigantesco di quello che è. Così, alla fine, per un motivo o per l’altro, finiamo sempre per tenerci il conflitto di interessi». Domanda il giornalista (Fabrizio Ronconi, ndr) a Lucia Annunziata: «È questa la chiave con cui leggere la dichiarazione del presidente del Senato Marini che auspica "una legge non punitiva"?». Risponde Annunziata: «Direi di sì. D’altra parte, com’è del tutto evidente, una legge seria sul conflitto di interessi manderebbe su tutte le furie Berlusconi». Conclude: «L’onda lunga del berlusconismo ancora controlla, gestisce». Sta parlando della Rai, che lei conosce bene, cuore del cuore del conflitto di interessi di Berlusconi padrone di Mediaset, che anche adesso dai suoi telegiornali fa scomparire i riconoscimenti internazionali alla politica estera italiana. E offre solo le dichiarazioni del padrone di quel gruppo privato: Berlusconi, appunto.
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Bene, è tempo di occuparsi dell’onda lunga. Che continui intatta è evidente. Basta vedere e ascoltare le radio e le televisioni. E la ragione è proprio il conflitto di interessi. Se non c’è una legge, i prudenti non si fidano a lavorare in modo normale e a cessare l’ossequio. I prudenti con famiglia continuano a sentirsi con il fiato sul collo. Vorrei incoraggiare Villetti: il centrosinistra esiste per questo. Per fare di nuovo dell’Italia un paese normale. Non è - non è stato - un paese normale quello in cui un presidente del Consiglio sceglie uno per uno i dirigenti della televisione pubblica, può dare a se stesso il permesso di trasmettere dalle televisioni private di cui è proprietario, è in grado di sorvegliare scrupolosamente l’una e l’altra fonte di notizie, fino all’ultima frase e all’ultima immagine. Quando succedono cose del genere, Villetti, la gente - è vero - va in piazza, dal Palavobis a Piazza San Giovanni (ti ricordi?: 40.000 autoconvocati al Palavobis, 1 milione di presenze spontanee a Roma) e non per minacciare il colpo di stato, ma per denunciare il rischio (un gran brutto rischio) che la democrazia italiana ha corso. È vero, noi - l’Unità - eravamo definiti, su reti pubbliche e private, «testata omicida». La ragione è semplice: non abbiamo mai smesso di denunciare il conflitto di interessi. Quella denuncia veniva equiparata al regicidio, ripetuta nelle ore di massimo ascolto, senza che qualcuno sollevasse obiezioni. Farlo, evidentemente, sembrava imprudente. Ha ragione Lucia Annunziata: se tocchi il conflitto di interessi Berlusconi va su tutte le furie. Lei dice: «Temo che neanche ora la legge sul conflitto di interessi la faranno. E questa volta andrò anch’io al Palavobis».
Vorrei rassicurarla. Prodi ha detto e confermato: «Faremo la legge sul conflitto di interessi». E ha già dimostrato di essere uno che sa quello che dice. D’altra parte, senza questa legge il centrosinistra non esisterebbe, non sarebbe stato votato, non lo sarebbe più. Un senso di giustizia, del diritto, della morale pubblica ma anche un sano istinto di conservazione detterà le regole e la misura delle regole.
Con l’intento di essere preliminarmente di aiuto, propongo alcune domande e provo a dare alcune risposte.
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Domanda: - Che cos’è il conflitto di interessi? Risposta: - È il sommarsi dell’interesse privato (la mia ricchezza, le mie aziende) con l’interesse pubblico (il potere di governare e dunque di dettare le regole che valgono anche per il mio interesse privato).
D.: - Perché è pericoloso il conflitto di interessi?
R.: - Perché è umano, naturale e probabile che io usi il potere pubblico di cui dispongo come governante per recare benefici al mio interesse privato che durerà ben più a lungo del mio governare.
D.: - Chi danneggia il conflitto di interessi?
R.: - Danneggia tutti, tranne la sola persona che è titolare di quel conflitto. C’è il danno concreto, quando la decisione beneficia direttamente e personalmente l’interessato. E c’è il sospetto continuo che questo accada anche quando non si sa e non si vede. E questo è un danno per la democrazia.
D.: - Perché è particolarmente grave che il portatore di conflitto di interessi sia un grande proprietario di mezzi di comunicazione, di editoria, di giornali?
R.: - Perché attraverso il doppio controllo delle fonti pubbliche e di quelle private dell’informazione, chi porta al governo un simile conflitto di interessi è in grado di oscurare, alternare o manipolare ogni forma di notizia. Ed è in grado di tagliare fuori chi non sta al gioco della sua volontà e del suo potere («va su tutte le furie»).
D.: - Una simile situazione è già accaduta in Italia?
R.: - Sì, è già accaduta in Italia, solo in Italia, durante i 5 anni del governo Berlusconi.
D.: - Dunque la legge italiana sul conflitto di interessi riguarda o non riguarda Berlusconi?
R.: - Riguarda prima di tutto Berlusconi, perché non si conosce nessuno che possieda un partito, tre reti televisive, grandi giornali e grandi case editrici, e la quattordicesima ricchezza più grande del mondo.
D.: - Una legge seria sul conflitto di interessi può considerarsi punitiva?
R.: - È punitiva quanto lo è un senso vietato o un limite di velocità. Nessuno viene punito se non viola le regole.
D.: - La legge sul conflitto di interessi equivale ad un’espropriazione?
R.: - No. I limiti severi esistono in molte professioni e attività pubbliche. Un avvocato non può esercitare nella città in cui il padre è presidente del tribunale. Un poliziotto non può fare la guardia privata. Un insegnante non può dare ripetizioni ai suoi allievi e farsi pagare. Ma non è proibito bere. E non è proibito guidare; è proibito bere e poi mettersi alla guida di un automezzo. Inoltre la legge sul conflitto di interessi prefigura una libera scelta: o fai attività politica (che vuol dire attività pubblica e nell’interesse di tutti) o ti occupi dei tuoi affari. Nessuno ti obbliga a una scelta o a un’altra.
D.: - È ragionevole stabilire la ineleggibilità di chi è protagonista di un conflitto di interessi?
R.: - Sì, ma quel protagonista resta libero di farsi eleggere se elimina le ragioni del conflitto. È la stessa logica che vincola deputati e senatori a rendere pubbliche tutte le circostanze economiche e organizzative della loro vita privata e che impedisce a chi è eletto una serie di attività private potenzialmente in contrasto con l’impegno pubblico.
D.: - La legge sul conflitto di interessi di cui stiamo parlando sarebbe solo italiana?
R.: - Al contrario, esiste in tutti i paesi democratici. Solo in Italia non esiste. Ma solo in Italia esiste Berlusconi. Dunque è bene che Berlusconi non sembri né un nano né un gigante, ma esattamente quello che è: il più vistoso simbolo al mondo di violazione delle regole democratiche attraverso l’esercizio continuato del più grande conflitto di interessi che si sia mai verificato in una democrazia.
Perciò la domanda non è se la legge sarà punitiva contro una sola persona (nessuna legge può esserlo). Ma se sarà seria, efficace e giusta. Giusta vuol dire impedire al conflitto di interessi (non alla persona) di governare un paese.
Quirinale con vista
di Furio Colombo *
Uno strano evento ha attraversato la settimana politica italiana, con la complicità dei giornali e delle Tv che vi hanno dedicato ampio spazio. Sono stati i colpi violenti, le manate maleducate al portone del Quirinale.
Berlusconi dice di essersi espresso male o di essere stato frainteso, e ha anche smentito, secondo il suo rigoroso modo di operare (la sua Repubblica è fondata sulla smentita). Può anche darsi che gli si debba concedere l’attenuante delle condizioni estenuanti e della difficoltà di condurre - come sta dicendo - una campagna elettorale alla cieca in cui dice e ripete un’unica proposta, anzi una perentoria richiesta: «Datemi il potere, e poi so io che cosa farne».
Però una cosa è chiara e neppure Bonaiuti, l’uomo che, secondo Berlusconi, «nei momenti difficili è sempre in bagno», ma che a noi pare molto efficiente, potrebbe smentire.
Questa cosa è l’affannosa ricerca, da parte dell’uomo di Arcore, non della porta di Palazzo Chigi, ma del portone del Quirinale. La cosa fa differenza persino se non ci si abbandona all’incubo di Berlusconi che torna a governare.
Noi (noi, tutti gli italiani) sappiamo che, governando da primo ministro, Berlusconi ha violato tutte le regole possibili, scritte e non scritte, dalle buone maniere alle missioni impossibili. Ha licenziato giornalisti italiani di aziende che non hanno niente a che fare con i poteri del premier. Ha insultato parlamentari di altri Paesi sia da premier che da ministro degli Esteri ad interim.
Ha inventato una guerra in Iraq che per l’Italia non esisteva (su quella guerra il governo italiano non è mai stato consultato e non ha mai preso parte ad alcuna decisione), con regole di ingaggio che sono costate la vita a soldati italiani privi di protezione. E adesso la Corte dei Conti ci fa sapere che una parte dei soldi destinata alla protezione dei soldati e all’assistenza alla popolazione civile è stata stranamente dirottata su altri bilanci su cui ora la corte sta indagando. Inoltre Berlusconi ha annunciato a raffica cose che non ha neppure cominciato a fare, come i 136 cantieri delle opere pubbliche, il ponte di Messina o la riforma «come un calzino» del ministero degli Esteri.
Adesso pensa al Quirinale. Si dirà che il presidente della Repubblica in Italia non ha poteri. Ma è proprio intorno a questa constatazione che l’incubo “ritorno di Berlusconi” diventa una minaccia istituzionale. Stiamo parlando di un personaggio che, persino in buona fede, e anche a causa del vasto potere personale che gli conferisce la ricchezza e il completo dominio sulle comunicazioni italiane, è interessato al fatto, ma non al diritto. Non al senso giuridico, meno che mai istituzionale, di ogni cosa che fa. È interessato soltanto a ciò che - legale o illegale - va bene per lui.
Un politico tradizionale, anche se di destra, anche se privo di scrupoli, avrebbe agito dietro lo schermo dei suoi apparenti limiti decisionali per raggiungere scopi brutali come la cacciata dei «criminosi» Biagi e Santoro e Luttazzi dalla Rai. E avrebbe raggiunto il non nobile fine della vendetta personale che gli stava a cuore, lasciando cadere altrove le responsabilità della decisione, protetta da uno schermo di forme e di apparenti espedienti procedurali.
Ora fate attenzione. Berlusconi non ci pensa due volte a divellere con le sue mani i paraventi di buone maniere che separano - e mantengono un poco al riparo - la presidenza della Repubblica dalla politica quotidiana e dai suoi colpi a volte clamorosi e volgari.
Sappiamo tutti che quei paraventi sono strumenti fragili che, tuttavia, hanno un compito che conta molto per le istituzioni e per i cittadini. Consentono al Capo dello Stato, proprio perché è un alto simbolo senza potere (o con pochi, limitati ma essenziali poteri come quello di designare il primo ministro o di sciogliere le Camere) di essere una garanzia per tutti, accettata e rispettata da tutti. Si tratta di un carattere difficilmente soppesabile, un po’ come le “divisioni del Papa” su cui faceva osservazioni sarcastiche Stalin. Il Papa, infatti, non aveva divisioni, ma è stato il mondo di Stalin - che di divisioni ne aveva moltissime - a scomparire, non il mondo apparentemente indifeso del Papa.
* * *
Dunque i poteri non giuridicamente definibili, fatti di consenso dal basso e di responsabilità morale dall’alto, hanno un peso molto grande nella vita di un Paese. Per esempio sono un impedimento all’uso eccessivo, squilibrato o arbitrario di coloro che hanno effettivamente una certa dotazione di potere - come i primi ministri - e la usano male.
Ma se Berlusconi sceglie proprio adesso il momento di vendicarsi di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo Azeglio Ciampi, e - in uno strano modo preventivo, che sa di finta lode e di vero avvertimento - di Giorgio Napolitano, c’è una ragione piccola e una ragione grande.
La ragione piccola è che, qualunque sia la buona e consigliabile strategia di una campagna elettorale in cui persino per lui sarebbe bene essere più accorti, gli preme scaricare la sua malevolenza contro coloro che, con grande senso dello Stato, hanno contenuto, limitato o impedito i gesti di una quotidiana prepotenza che sono stati i principali snodi del modo di governare di Berlusconi, dalle leggi personali a quelle per le sue aziende.
In particolare: come può, l’uomo di Mediaset che vuole governare ancora una volta le sue aziende e l’Italia, accettare la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la penosa legge sulle Comunicazioni scritta apposta per lui da un «antemarcia» del Popolo della Libertà, certo Gasparri, che si era arruolato nel Pdl di Berlusconi molto prima che il Pdl esistesse?
La ragione grande, quella a cui gli elettori, anche coloro che non si sentono chiamati dalle proposte e dalle idee del Pd dovrebbe prestare attenzione, è che - se diventasse Presidente della Repubblica - Berlusconi si comporterebbe secondo la sua visione dei fatti totalmente separata dal diritto. Sei al Quirinale, il colle più alto e la magistratura suprema del Paese? E allora che cosa ti importa di quali poteri sono prescritti e previsti e di quali non sono contemplati dalla Costituzione? Prima di me - lui dirà - c’erano politici imbelli dediti alle buone maniere. Lui è fattivo e farà.
Contro un presidente che esorbita esiste - anche nella versione italiana - una sorta di «impeachment». Provate a immaginare di farlo con lui. Primo, dirà che in realtà volete espropriare le sue aziende, che intanto faranno capo direttamente al Quirinale. Secondo, avrà pur sempre abbastanza sostegno, acquisito alle urne o acquistato al mercato della debolezza umana, per impedirlo. Terzo, da capo dello Stato ha diritto alle reti unificate, che sono il suo vero progetto fin da quando ha mandato alle varie Tv italiane quella famosa cassetta preregistrata in cui, con le dovute cautele e trucchi visivi, annunciava la sua «discesa in campo». Se riesce, già adesso, con poche telefonate, a controllare interi consigli di amministrazione di cui non fa parte e a intimidire intere testate giornalistiche in cui non ha investimenti diretti (c’è pur sempre il controllo di tutta la pubblicità) con le reti unificate farà miracoli di governo.
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È importante non dimenticare un aspetto singolare, unico, del trascorso e infausto governo Berlusconi. Ad ogni attacco o anche solo cauta critica sul suo operato o sull’operato del suo governo, l’uomo della libertà mandava a dire che ogni giudizio contro di lui era in realtà un giudizio contro l’Italia. Per ogni polemica sul suo modo di governare evocava il tradimento. E subito si associavano i suoi, nelle Camere e fuori. Infatti, come sanno deputati e senatori del Popolo delle Libertà che, non avendo consentito sul cento per cento di tutto non sono stati ricandidati, gli ordini sono ordini, e dunque non sono ammessi «deviazionismi» di nessun tipo.
Una volta Umberto Eco ha notato che il modo di intendere il potere, il rapporto con il partito e gli elettori di Silvio Berlusconi e la sua pronta e irritata condanna per ogni pur vago dissenso, è l’«ultimo comunismo».
La scorsa settimana, in un memorabile editoriale su la Repubblica, Eugenio Scalfari ha invitato i lettori a riflettere sul pericolo dei «dodici anni di governo» di Silvio Berlusconi, cinque come primo ministro in caso di vittoria alle urne, e sette da presidente della Repubblica. Scalfari implicava, e io mi sento di dire: dittatore a vita. Là dove la dittatura non deve intendersi (sempre) come restrizione personale, alla vecchia maniera. Ma certo gli avversari devono aspettarsi un monitoraggio elettorale stretto. Per esempio la pratica di far spiare dai servizi segreti militari giudici e giornalisti, già sperimentata nel suo ultimo governo, non promette bene. Dittatura vuol dire togliere la parola, salvo Blog e foglietti. Ma intervenire su tutto a reti unificate sarà (sarebbe) il suo capolavoro: un mondo finto come i modellini computerizzati del ponte di Messina, mandati in onda a tutte le ore nei telegiornali italiani in modo da convincere che quel ponte già esiste e chi si oppone è un luddista o un pazzo.
Ma la vera controparte, il vero nemico che Berlusconi governante a vita preferisce è il traditore, l’anti-italiano che cerca di levare la voce del dissenso e tenta di dire la vera storia, opponendosi così - lui dice e dirà - non a lui ma all’Italia.
Qui occorre notare che - dal tempo della «discesa in campo» ad oggi - Berlusconi ha certamente cambiato e aggiornato i suoi modelli. Ai tempi dell’arrivo di Berlusconi da Arcore si vedeva ben disegnata sul fondo l’ombra di Juan Peron.
Tuttora provoca una immensa meraviglia (certo nella cultura politica del mondo) ricordare che l’uomo più vecchio e datato del mondo politico europeo negli anni Novanta, un paleo-monopolista che ha fondato il suo impero su favori di governo e altri favori, senza mai alcun vero debutto sul mercato inteso come concorrenza e sfida dei migliori, è stato visto, anche in Italia, e anche a sinistra, come qualcuno che «ha capito la modernità» e che «porta modernità».
Nel frattempo però è avvenuto un drastico aggiornamento. Il modello adesso è Putin. Non bisogna dimenticare che uno dei suoi più attivi strumenti di denigrazione e di governo, la non dimenticabile commissione Mithrokin, il cui scopo era di dimostrare l’affiliazione di Prodi al KGB, ha agito con personale a pagamento della Russia di Putin, ed è incorso nella disavventura di alcuni non dimenticabili delitti (spaventosi persino in un esagerato serial Tv) come la morte pubblica, per avvelenamento di polonio, della spia Litvinenko, alla presenza del consigliere principale della Commissione parlamentare, certo «Prof. Sgaramella» presentato e retribuito come star della intelligence mondiale e finito in prigione per falso. Falso su tutto. In altre parole, il Paese in cui è stata assassinata per eccesso di libertà la giornalista Olga Politoskaia è, attraverso l’amico Putin, il modello di comportamento del governo Berlusconi, del governo dei dodici anni.
Una presidenza della Repubblica priva di poteri formali è l’ideale per ospitare un potere forte la cui forza dipende dalla ricchezza, dalle aziende, dalla sottomissione dei dipendenti e dei tanti che aspirano a diventare dipendenti. Tutto ciò che è stato detto fin qui sembra motivato esclusivamente da antagonismo politico. Vi prego di rileggere. Noterete che, togliendo l’aggettivazione negativa e i giudizi personali, certo di profondo dissenso e di incolmabile distanza, la storia che ho provato a tratteggiare, non cambia.
Nel futuro desiderato da Berlusconi l’Italia si impantana in una semidittatura fondata sul potere a senso unico della televisione, e servito dalla sottomissione di molti giornali. Il pericolo, oggettivamente, è grande.
* * *
A confronto con questo scenario, che mi pare purtroppo fondato, provo disorientamento e stupore ogni volta che si rinnova - sempre e solo da parte del Pd - l’esortazione, la speranza, o addirittura la preghiera, di fare qualcosa di «bipartisan».
A parte la legge elettorale, che è una disperata urgenza del Paese, una specie di pronto soccorso delle condizioni minime della democrazia, con cui è inimmaginabile che persino gli autori del misfatto (la «porcata» di Calderoli) rifiutino di misurarsi, non si trova traccia di una offerta, o anche solo di uno spiraglio d’apertura a destra, sul «fare insieme». Né si capisce perché si dovrebbe desiderare. A me non risulta che Barack Obama, ma anche la più pragmatica Hillary Clinton, abbiano mai pensato di coinvolgere George W. Bush e i suoi deleteri ideologi in qualche tipo di conferenza comune per il futuro degli Stati Uniti.
Il Congresso americano, come si sa, è spesso «bipartisan». Ma è un Congresso (Camera e Senato) che non ubbidisce agli ordini del Presidente e agisce in piena autonomia. Nessuno, tra loro, avrebbe accettato l’ordine di insultare in pieno Senato una persona come Rita Levi Montalcini, anche perché la grande stampa e Tv di quel Paese non avrebbe aspettato la denuncia indignata di un solo piccolo giornale come l’Unità per darne notizia e giudicare ignobile il fatto. Perché allora in questa Italia, dove Berlusconi insulta ogni giorno Veltroni, e tutti gli altri si occupano di farci credere che Prodi è peggio di Attila, si deve fare ala riverente al passaggio della più stupida idea mai affiorata tra le bravate della destra? L’idea è che i problemi della scuola italiana si risolvono se gli studenti si alzano in piedi quando entra un insegnante. Intitola il Corriere della Sera (2 aprile): «In piedi quando entra il prof. Franceschini apre al Cavaliere». E scrive: «La proposta di Berlusconi sembra avere un appeal bipartisan».
Perché? Nella mia scuola fascista i bambini dovevano alzarsi in piedi quando entrava l’ispettore della razza. Che rapporto c’è fra una proposta così modesta e irrilevante e la vera profonda crisi della nostra scuola, vigorosamente aggravata dalla Moratti? Come dice Crozza, Franceschini, buona sera Franceschini. Non potremmo avere un’idea migliore, e per giunta nostra? Perché ci tormenta il bisogno di dare ragione a Berlusconi, visto che il suo torto verso l’Italia è così grave che ce lo ripetono da ogni angolo del mondo?
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 06.04.08, Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.54
La democrazia è che i generali vanno a casa
di Raniero La Valle
Riceviamo da Enrico Peyretti questo articolo di Raniero La Valle della rubrica “Resistenza e pace” che uscirà su Rocca (rocca@cittadella.org ) del 15.06.07 *
Resistenza e pace
Si può salvare la Repubblica? Le istituzioni tengono, ma lo spirito è debole. Ciò che è accaduto con la vicenda Visco-Speciale e con la fallita “spallata” al governo Prodi, ha fatto accendere un segnale di allarme rosso. Altre volte la Repubblica è stata in pericolo, per Servizi deviati, generali golpisti, stragi di Stato, oscuri giochi delle parti tra Brigate Rosse e ceti politici antimorotei; abbiamo avuto perfino un capo dei contrabbandieri al comando della Guardia di Finanza e un vertice della magistratura ridotto a un porto delle nebbie; ma il gioco politico che si svolgeva alla luce del sole era formalmente corretto, la cultura democratica era fuori discussione, l’opposizione rispettava le regole e la coscienza pubblica era sana. È grazie a ciò che delle grandi emergenze democratiche sono state superate con relativa facilità, e di alcune si è perso perfino il ricordo.
Ma ora è la politica stessa, nelle sue espressioni quotidiane e pubbliche, che si è trasformata in un gioco al massacro; le rappresentazioni serali del confronto politico traboccano di odio, sete di vendetta, disprezzo per l’avversario; un distinto signore come l’ex democristiano D’Onofrio tratta beffardamente il ministro Padoa Schioppa in Senato come un minorato psichico, come un ignorante della Costituzione e come un intruso al palazzo. La percezione che lo schieramento battuto alle elezioni ha del governo legittimo del Paese, è che si tratti di una banda di usurpatori; il loro imperdonabile delitto, ogni momento additato alla esecrazione degli “Italiani”, è che, approfittando di un attimo di distrazione di Berlusconi o di qualcuno dei suoi elettori ed alleati, essi abbiano rubato il potere all’unica parte politica sana del Paese, designata a governarlo per diritto divino; e poiché per meglio gestire il potere destra e sinistra hanno creato un sistema in cui il conflitto politico non si può più dirimere attraverso le procedure parlamentari e il Parlamento non è più il luogo dove si formano e cadono i governi, l’unico assillo dell’opposizione, l’unico suo discorso politico, l’unico suo contributo al dibattito pubblico è del come si possa abbattere il governo a spallate, come lanciargli contro veleni e dossiers, come mobilitare la piazza e inventarsi scioperi fiscali e insomma come ristabilire, con le buone o con le cattive, la normalità di un governo della destra.
In quest’ultima occasione, l’uso di una testa d’ariete come il comandante della Guardia di Finanza contro l’esecutivo e in particolare contro il titolare della lotta all’evasione fiscale, è stato francamente eversivo. Se il ministro Padoa Schioppa non avesse finalmente rivelato quale era il punto politico della contesa, il governo non avrebbe meritato di sopravvivere, per questa sua incapacità di motivare e far capire perfino le cose buone che fa. E il punto politico era che la separazione dei poteri riguarda solo l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e che non esistono altri poteri o corpi separati che possano rivendicare una loro autonomia, e tanto meno le Forze Armate che sono tenute per legge a conformarsi ai principi democratici della Repubblica; e che se esiste un conflitto tra un generale e il governo, o va via il generale o va via il governo; ma se va via il governo non siamo più in Italia e in Europa, bensì in una “repubblica delle banane”.
Ora il vero problema è come mettere in sicurezza la Repubblica, come evitare che attentati e rischi di questo genere possano ripetersi. È inutile fare appello a un ammorbidimento del clima politico, al senso dello Stato dei protagonisti e almeno all’educazione degli eletti (si fa per dire) ai seggi parlamentari.
La salvezza delle istituzioni non può dipendere dal ravvedimento dei singoli. Occorre reintrodurre delle garanzie oggettive: una governabilità che non significhi l’inamovibilità dell’esecutivo per l’intera legislatura, un Parlamento che riacquisti il suo ruolo come fonte e limite del potere di governo, un’opposizione che sia vincolata all’obbedienza alle leggi della democrazia e al rispetto delle persone (la immunità dei parlamentari riguardo alle opinioni espresse nell’esercizio del mandato non può estendersi alla licenza di insulto e di annientamento simbolico dell’avversario), una legge elettorale che produca una vera rappresentanza e che non trasformi una minoranza in maggioranza schiacciante, una regola del gioco che non costringa i partiti ad alleanze innaturali con forze dall’opposto sentire politico, una ripresa di autorità e dignità della politica che faccia venir meno quel vuoto che oggi è riempito dalla supplenza caricaturale dei media che mettono in scena la politica come spettacolo nell’arena di un set televisivo.
Soprattutto è necessario che il gregarismo di masse cui è stata tolta ogni seria informazione e cultura politica non venga elevato a rango costituzionale mediante l’instaurazione di un presidenzialismo irresponsabile e l’istituzionalizzazione del culto della personalità; e che lo stesso “criterio” del politico cessi di essere la contrapposizione col nemico, e torni ad essere il bene comune e l’interesse generale.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Mercoledì, 13 giugno 2007
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
Il ’cattolico’ presepe di "Forza Italia": Mettere il cavaliere al posto del bambinello....
L’ex ministro Tremonti ha liquidato come reato di compromesso storico l’invito rivolto ai due poli dal presidente Napolitano per cercare intese sul risanamento dei conti pubblici chiesto dall’Europa. Di fronte a una proposta di puro buon senso, la risposta sgarbata e priva del più elementare galateo istituzionale conferma che il partito berlusconiano ha come unica strategia quella di sedersi sulla riva del fiume e attendere che sulla Finanziaria il governo Prodi compia un clamoroso scivolone. Del dialogo non sanno che farsene, e se sulla missione in Libano hanno votato con l’Unione è solo perché non potevano comportarsi diversamente dopo il disco verde di Stati Uniti e Israele. Per la verità, neppure nel centrosinistra le piccole e grandi intese raccolgono entusiastici consensi ma, almeno, c’è l’impegno riconfermato da Prodi di non procedere a colpi di maggioranza sul terreno delle riforme. Se questa è la situazione non si comprende sulla base di quali ragionamenti il ministro Mastella giudichi «intempestivo», e dunque «sbagliatissimo» affrontare il problema del conflitto di interessi nel momento in cui, afferma, «cerchiamo la collaborazione della Cdl sulla Finanziaria». Prima di tutto non ci sembra una mossa astuta avvertire Berlusconi che si beccherà l’odiata legge quando non serviranno più i suoi voti. Ma poi, dopo la risposta a Napolitano, quali cortesie, di grazia, Mastella si attende da questa opposizione? E in cambio di cosa un provvedimento cardine del programma dell’Unione (che a certe condizioni perfino An e Udc sono disposti a discutere) dovrebbe essere accantonato? In una celebre commedia c’è unpresepe che, malgrado gli sforzi, al figlio di Eduardo proprio non piace. Mettere il cavaliere al posto del bambinello, per fare apprezzare a Tremonti il presepe dell’Unione, ci sembra francamente troppo.
www.unita.it, Pubblicato il: 04.09.06 Modificato il: 04.09.06 alle ore 6.01
Berlusconi e i quattro conflitti di interessi di Francesco Pardi*
Ha ragione Furio Colombo a ricordare nel suo editoriale di ieri sul conflitto d’interessi l’importanza del Palavobis e di Piazza San Giovanni. Infatti già in quelle grandi discussioni popolari del 2002 era perfettamente individuata la natura della questione. È vero: il problema del conflitto d’interessi esiste anche senza Berlusconi. Ma Berlusconi gli ha dato proporzioni gigantesche. Dovremmo poter discutere del conflitto d’interessi indipendentemente dal suo, ma non possiamo proporre soluzioni valide per tutti se non si affronta anche quello. Berlusconi è titolare di quattro diverse anomalie che è utile tenere distinte. La prima riguarda l’imprenditore divenuto capo del governo: come evitare che egli usi il suo ruolo per favorire le proprie imprese? E che le sue imprese gli diano un vantaggio nell’attività politica? L’interrogativo, in questa forma, è ora superato ma in mancanza di una legge seria potrebbe riproporsi. E ha comunque un carattere generale: riguarda qualsiasi soggetto che nell’esercizio di una funzione pubblica possa favorire il proprio vantaggio privato a danno dell’interesse pubblico. Qui siamo nel vero problema del conflitto d’interessi: si tratta di stabilire una norma valida per tutti che impedisca a chiunque di piegare l’interesse generale a vantaggio della propria utilità particolare. La seconda anomalia riguarda il duopolio televisivo. Perché mai un solo imprenditore privato deve avere una dotazione di reti pari a quelle dell’ente pubblico? La parità produce una finta concorrenza dualistica che è in realtà spartizione forzosa del mercato: è la negazione del capitalismo. Il rimedio è elementare: ridurre il numero delle reti in possesso ai singoli operatori privati e creare le condizioni per una competizione pluralistica a parità di mezzi. E allo stesso tempo ridare alla Rai il ruolo ormai perduto di servizio pubblico e di ente culturale.
La terza anomalia è la più smaccata. In nessun paese democratico si può essere monopolisti televisivi e stare al vertice del sistema politico. Poiché la legge del ’57, che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di concessioni d’interesse pubblico, riguarda Confalonieri, va fissata con definitiva chiarezza l’ineleggibilità, o almeno l’assoluta incompatibilità con ruoli di governo, dei proprietari di mezzi di comunicazione. Su Repubblica Passigli sostiene che la legge deve individuare i principi fondanti. Eccone uno difficilmente confutabile: non può essere eletto chi ha, da solo, lo strumento principale per influenzare il suffragio elettorale. La quarta anomalia è il contrasto tra l’ex presidente del Consiglio e la magistratura. È uscito da processi per reati infamanti solo grazie a numerose leggi ad personam letali per la salute istituzionale del paese. Questo malinconico retaggio deve semplicemente essere eliminato con la abrogazione di quelle leggi, prima fra tutte quella sull’ordinamento giudiziario con cui il governo passato regolava i suoi conti con la magistratura.
La sconfitta del centrodestra ha solo tolto drammaticità alle quattro anomalie, ma non le ha affatto annullate. Esse lavorano come insidiose metastasi nel tessuto della repubblica. La seconda è ancora intatta: nella televisione pubblica continua a comandare il padrone di prima. Basta vedere l’informazione che ne esce. Anche la quarta anomalia resiste. I lettori dell’Unità continuano a chiedere: perché l’Unione non cancella la legge sull’ordinamento giudiziario? Perché sono stati negati i motivi d’urgenza a un decreto legge che doveva sospendere l’entrata in vigore di una pessima legge?
Ma delle quattro anomalie solo la prima rientra in pieno sotto le prerogative di una legge sul conflitto d’interessi efficace per tutti. Le altre sono distorsioni eccezionali della democrazia che vanno semplicemente tolte di mezzo. La seconda con lo scioglimento del duopolio televisivo, la terza con l’ineleggibilità o l’incompatibilità dei proprietari di mezzi di comunicazione, la quarta con l’abrogazione delle leggi ad personam e dell’ordinamento giudiziario.
La legge specifica sul conflitto d’interessi ha un campo d’azione molto più esteso e riguarda tutte le situazioni in cui l’interesse privato di coloro che svolgono funzioni pubbliche entra in conflitto con l’interesse generale. Certo deve anche risolvere il molteplice conflitto d’interessi che ha inquinato la vita politica italiana nell’ultimo decennio. Ma dalle informazioni circolate non sembra vicina una legge rigorosa per tutti e capace di recidere le metastasi del caso più pericoloso. Sembra invece che queste vengano affrontate nel modo più inoffensivo, mentre l’efficacia della legge verso tutti rimane nel limbo. Di ineleggibilità, incompatibilità e, ora, incandidabilità si parla solo per dire che non sono praticabili perché «punitive».
Restano così in piedi solo misure inconcludenti. Il blind trust, o fondo cieco, funziona solo per le ricchezze finanziarie ed è del tutto inefficace per le reti televisive. La credibilità delle Authority, dopo l’esperienza di quella sulle telecomunicazioni, è a dir poco assai scarsa. E temibile è l’artificio che ora viene messo in primo piano come soluzione maestra: la sterilizzazione del voto al detentore del pacchetto di maggioranza. Siamo chiari: si vuol far credere che Berlusconi sarebbe compatibile con la guida di un governo solo perché formalmente non potrebbe votare nel consiglio di amministrazione delle sue aziende? Ci vuole un ottimismo sfrenato per credere che le sue imprese non gli obbediscano.
Chi ha votato per la vittoria dell’Unione si aspettava non solo un avvicendamento del personale politico ma soprattutto una capacità di affrontare alla radice i problemi del paese. Già l’indulto per chi ha rovinato i piccoli risparmiatori non era un buon segno. Ma se sul conflitto d’interessi non ci sarà una soluzione davvero incisiva la delusione nell’elettorato sarà enorme e se ne avvertiranno dure conseguenze alle prossime elezioni. Da parte sua, la cittadinanza attiva, che ha già dato un contributo insostituibile a salvare la Costituzione, è pronta a elaborare una proposta di legge di iniziativa popolare per riaprire un largo dibattito nella società e nel Parlamento. Ma non basta. È necessaria subito una nuova fase di mobilitazione corale per una legge rigorosa.
* www.unita.it, Pubblicato il: 04.09.06 Modificato il: 04.09.06 alle ore 6.35
SUL TEMA, UNA ’VECCHIA’ ......LETTERA APERTA AL’ITALIA
“COGLIONI”, DAVVERO !!!
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala (www.ildialogo.org/filosofia, Mercoledì, 05 aprile 2006)
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
ITALIA - THAILANDIA: DUE ....”GRANDI FRATELLI” !!!(red.).
A cura di Federico La Sala
Thaksin Shinawatra protagonista di uno show autoprodotto Passerà 5 giorni in un villaggio povero, telecamere 24 ore su 24 Thailandia, il premier nel reality per riconquistare popolarità Analisti politici e borghesia lo ridicolizzano, i contadini lo adorano (www.repubblica.it, 17.01.2006)
BANGKOK - Un "morto di fama" del tutto particolare, che per rilanciarsi produce il suo personale reality show e si decreta protagonista. In Thailandia il primo ministro miliardario Thaksin Shinawatra, visto che i sondaggi lo davano in calo di consensi, ha lanciato su una televisione via cavo il programma Backstage Show. Per 24 ore al giorno vengono trasmesse le immagini del soggiorno di cinque giorni del premier con dei contadini, in un villaggio molto povero del nord-est del paese.
Anche in Thailandia programmi come il Grande fratello sono molto seguiti e gli analisti politici hanno accusato il premier di voler acquistare in modo scorretto consensi per il suo governo. In effetti alcune delle situazioni nello show sono spiccatamente demagogiche. Thaksin Shinawatra passerà la prima notte in una tenda nel giardino della famiglia di un tassista, assente per lavoro a Bangkok. Durante la settimana il premier ascolterà le lamentele degli abitanti di una delle zone più povere della Thailandia, ai quali esporrà le sue idee per sconfiggere la miseria.
Non è la prima volta che Thaksin Shinawatra si affida alla televisione per farsi pubblicità. E’ già accaduto quando, in piena crisi per l’epidemia aviaria, ha fatto riprendere un pranzo con tutto l’esecutivo, con pietanze rigorosamente a base di pollo. I media thailandesi lo hanno spesso ridicolizzato e gli analisti sostengono che la classe media urbanizzata detesta le sue apparizioni. Ma la maggior parte dei thailandesi che vivono al di fuori delle città lo adora. (17 gennaio 2006)
Sul cavaliere della I - THAILANDIA....
di Federico La Sala (www.ildialogo.org, Venerdì, 30 maggio 2003)
Caro Direttore
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama forza ITALIA... Il trucco del NOME (Forza ITALIA) è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io la ritengo la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e sopratutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo! Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri. LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi. Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo. Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco! M. cordiali saluti, Federico La Sala.
(WWW.ILDIALOGO.ORG/FILOSOFIA, Mercoledì, 18 gennaio 2006)
SULL’ARGOMENTO, PER NON DIMENTICARE CHE COSA SIGNIFICA "CONFLITTO D’INTERESSI", UN RECENTE INTERVENTO DI FRANCO CORDERO
L’avvocato P. e le leggi ad personam
di Franco Cordero (la Repubblica, 02.09.2006)
Anche i naviganti scaltri talvolta affondano. Succede all’on. G. P.: avvocato organico dell’allora premier, pontificava nella commissione giustizia; ed è presentatore della legge grazie a cui il cliente schiva l’appello contro la sentenza che concedendogli le attenuanti generiche, dichiara estinto dal tempo un grave episodio delittuoso. Rispedita alle Camere dal Quirinale, riappare incostituzionale come prima. Così la XIV legislatura chiude in gloria il ciclo dei favori al padrone. In due articoli (qui [la Repubblica], 13 e 18 gennaio 2006) spiegavo che roba sia. L’autore racconta d’avermi querelato: nessuno se n’è accorto; e siccome non esistono querele occulte, suppongo che fosse vanteria; dopo sette mesi arriva una citazione dove, asserendosi leso nel «patrimonio morale», chiede i danni.
Ricapitoliamo. Giugno 2000: i moribondi del centrosinistra consumano l’ultimo squallido anno; B. vola ad sidera. È sotto accusa, d’avere comprato sentenze romane (una risulta determinante nella storia dell’impero editoriale): gliele comprava l’avvocato C. P.; e mettendo piede a Palazzo Chigi, 1994, se l’era scelto ministro della giustizia. L’udienza preliminare del caso Mondadori sbocca in uno sbalorditivo non luogo a procedere: applaudono i miracolati e la claque; il pubblico ministero appella (oggi non potrebbe). La Corte accoglie l’appello ma i correi hanno sorti diverse a causa d’una svista legislativa, stavolta solo colposa: l’art. 319-ter aumenta la pena della corruzione nei processi; l’ha interpolato una l. 26 aprile 1990 n. 86, i cui compilatori dimenticano il corruttore (art. 321); poi lo nominano (art. 2 l. 7 febbraio 1992 n. 181); siccome però i fatti risultano anteriori, B. è passibile solo della pena meno grave, da due a cinque anni, anziché da tre a otto; e con le attenuanti cosiddette generiche il reato sarebbe estinto. La sentenza 25 giugno 2001 le concede motivando così: seguiva la prassi d’un ambiente corrotto, poi ha concluso accordi transattivi; infine, l’attuale suo stato «individuale e sociale» merita riguardi. In lingua spiccia, «non possiamo negarle a chi s’è appena riseduto sulla più alta poltrona, ricchissimo, potente, fortunato». Ricorrono tutti in cassazione: non è titolo lusinghiero «privato corruttore»; il pubblico ministero mira alla condanna; la Corte respinge i ricorsi. Res iudicata, lo stigma resta. Nel dibattimento i correi subiscono pesanti condanne. Comincia un lustro d’incubo. L’uomo ha pochi scrupoli: entra nelle teste dagli schermi; comprava giudici nemmeno fossero fattorini; risalito in sella, inquina la legge tagliandosela su misura. Falso in bilancio, rogatorie (vuol escludere carte bancarie che svelano i circuiti del denaro corso nelle baratterie), translatio iudicii (vuol cambiare tribunale), conflitto d’interessi, prescrizione. Padrone della macchina normativa, l’adopera: i votanti muovono la testa su e giù, nodding asses; l’avvocato, stratega d’asfissianti cavilli, guida la commissione giustizia a Montecitorio; un lupo custodisce l’ovile, direbbe Fedro.
Erano due i processi pericolosi. Ne trascina ancora uno. Alla fine del dibattimento, primavera 2003, annuncia d’avere nel cuore «dichiarazioni spontanee», sul velluto perché non ha contraddittori e verrà solo quando gli sia comodo: tiene banco tutta una mattina, spettacolo tristissimo; le puntate seguenti, Dio sa quando; guadagnava tempo, mentre le Camere affatturano un cosiddetto lodo d’immunità processuale, esemplarmente invalido. Saltiamo al 22 novembre 2003: il Tribunale aveva separato i giudizi; assolve C. P. da due capi d’accusa; condannandolo sul terzo inchioda B.; era denaro suo (perciò le Camere avevano riscritto l’articolo sulle rogatorie). Può salvarsi solo con la prescrizione accorciata dalle attenuanti generiche: volo arduo, dopo l’eversiva sfida alla giustizia; e qualora gliele regalino, il pubblico ministero appella. Salta fuori G. P., 13 gennaio 2004, proponendo d’abolire l’appello contro i proscioglimenti: s’è sognato che lo imponga la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; ogni tanto scrive e parla come intrattenesse un pubblico ignorante o ebete. Anche gli orbi vedono dove miri. L’attesa sentenza esce venerdì 10 dicembre 2004: nessun dubbio sui fatti, i soldi venivano dalle casse berlusconiane; ormai tutto dipende dalle famose attenuanti; e gliele concedono ancora, senza una sillaba sulla questione capitale (fin dove le meriti il pirata che, salito al potere, scardina l’ordinamento). La mossa legislativa arriva appena in tempo, grazie al riguardoso timing del procedimento, in sonno nei mesi della campagna elettorale: la Corte ossequente dichiara inammissibile l’appello; i proscioglimenti non sono più appellabili; se vuole, il pubblico ministero ricorra in cassazione, dove le questioni sul fatto evaporano.
Legge invalida, a parte le bestialità tecniche. L’avevo detto in un convegno, presente l’autore che s’è guardato dal contraddire, né contraddice adesso, ma nega d’avere reso servizi al cliente. Che l’interno d’anima fosse immacolato, l’afferma sbandierando le date: la proposta risale al 13 gennaio 2004; la sentenza il cui appello disturba B., viene fuori 11 mesi dopo. Bell’argomento, ne ricorda uno speso da David Irving, storico delle Hitler’s Wars, quando nega che il suo idolo sapesse del genocidio ebraico: manca l’ordine scritto; poi contesta anche l’evento; morivano d’epidemie o sotto le bombe alleate. Ripetiamolo: la proposta 13 gennaio 2004 nasce dalla condanna 22 novembre 2003; inchiodato quale mandante, B. spera nella prescrizione, purché il Tribunale gli regali le «generiche»; e dev’essere un proscioglimento che non sfumi in appello. Tutto avviene secondo i desideri. L’onorevole avvocato pratica arti induttive sui generis. Nell’art. 533, ad esempio, interpola una battuta: il giudice condanna solo se l’imputato risulta colpevole «al di là d’ogni ragionevole dubbio», come nei film americani; era chiaro dall’art. 530, c. 2. Formula enfatica e ridondante: lettori impressionabili vi colgono l’invito ad allargare le maglie del dubbio; penalisti disinibiti scaricheranno i casi d’omicidio indiziario sugli spiriti dell’aria. Dire che l’atto servisse a B., costituisce «intollerabile aggressione»; e leso nel «patrimonio morale», chiede 250 mila euro: quasi niente rispetto alle parcelle d’Arcore, ma più della buona uscita che lo Stato italiano m’ha corrisposto su quarantun anni d’insegnamento nelle sue Università.
Dopo le mercuriali, i valori. Se G. P. non fosse assorbito da affari meno eterei, gli consiglierei due letture: Eric R. Dodds, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1951; e Arthur W. H. Adkins, Merit and Responsability. A Study in Greek Values, Oxford University Press, 1960, a proposito d’archetipi del sentimento morale. Sono due, vergogna e colpa. Lasciamo da parte il secondo: astro e satelliti del mondo berlusconiano ignorano i tormenti della coscienza infelice, assente nel caimano Leviathan; vale invece un modello della shame culture; «cosa dirà la gente?». Emergono affinità col mondo omerico: riuscire è kalón (bello, degno, ammirevole), senza riguardo al modo; fallire, aischrón (brutto, turpe, obbrobrioso); contano i fatti, non motivi e circostanze. La società achea venera gli agonisti vittoriosi dei quali ha bisogno o crede d’averne. Agamennone appare aischrós quando Clitemnestra l’ammazza in casa: lei no, benché l’atto sia empio; ma non essendo vendicata, soffre vergogna nell’Ade, anima errabonda. I violatori della reggia d’Itaca sono agathói (eccellenti), finché nessuno li stani, mentre sarebbe infame l’Ulisse soccombente. Solo Teognide (sesto secolo a. C.) loda i giusti, vincano o perdano. Le gesta berlusconiane risuscitano categorie arcaiche: ha schivato le condanne che il fido correo sconta; l’epopea leguleia aperta nella fine secolo onora G. P., quasi una seconda guerra troiana. Ne goda i lucri ma sia coerente: chiedendo quei 250 mila euro, vuol qualificarsi Baiardo delle istituzioni e asceta forense vecchio stile (vedi Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, un’avvocatura nobile, colta, povera); qui commette hybris, molto malvista dagli dèi (in pallida versione italiana, l’atto arrogante d’uno che vìola limiti naturali). Il sottinteso tattico adombra «larghe intese» sperimentabili sul corpo vile della procedura penale, caso mai qualche dialogante aprisse spiragli. Speriamo di no: il capolavoro firmato G. P. somiglia ai feti mostruosi che i naturalisti conservavano sotto spirito; è imperdonabile trascinarselo; e quanta aria cattiva spira dalle porte socchiuse.