Il nuovo partito del Sud e l’antica questione meridionale
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica,27.07.2009)
«L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Questa profezia mazziniana rischia di avverarsi nel senso peggiore. L’ultimo rapporto Svimez dà l’allarme: non solo non si è ridotto il divario tra Nord e Sud, ma è apparso quello tra l’Italia nel suo insieme e gli altri grandi paesi europei.
Il peggio è che, mentre non è diminuito il divario, si è ridotta, fin quasi a scomparire, l’attenzione politica verso la questione meridionale. Essa era stata individuata, non come un problema territoriale, ma come la questione critica dell’unità nazionale. Oggi è praticamene uscita dall’agenda politica e sostituita da una questione settentrionale che punta piuttosto alle divergenze che all’unità.
Il dualismo italiano era stato denunciato dai grandi meridionalisti come il più grave fallimento dell’impresa risorgimentale. L’annessione del Mezzogiorno al resto del paese si era verificata non come liberazione ma come occupazione. Non come rivoluzione nazionale e sociale, ma come conquista regia. E ciò era apparso in tutta la sua tragica evidenza durante quella che fu definita guerra del brigantaggio e che fu in effetti una guerra di repressione vinta dalla monarchia contro il Mezzogiorno e soprattutto contro il suo mondo contadino.
Alla fine dell’ultima guerra la Repubblica aveva finalmente adottato una grande politica meridionalistica, impostata tutta su un intervento economico straordinario e mirante alla riduzione del divario attraverso la costruzione nel Sud delle infrastrutture necessarie allo sviluppo e alla promozione di investimenti industriali, privati e pubblici. La prima parte del programma fu un grande successo: la Cassa del Mezzogiorno realizzò imponenti programmi di bonifica, di irrigazione, di articolazione di una vasta rete di trasporti e di comunicazioni. La seconda è stata sostanzialmente un fallimento.
La ragione essenziale - lo dico in modo consapevolmente provocatorio - sta nell’affidamento della gestione delle ingenti risorse destinate a questo scopo a una classe politica regionale complessivamente incapace: clientelare, incompetente e peggio. Dico complessivamente perché, come afferma Luciano Cafagna, accanto a grands commis moderni e moralmente adamantini, si contano «baroni ladri, banditi di passo e pirati della Malesia». Di qui «le oscure commistioni fra politica, clientelismo, affarismo, criminalità mafiosa cui, involontariamente ma spaziosamente, si apriva un eccezionale varco tecnico, allargatosi con gli anni via via che la democrazia si faceva partitocrazia e l’amministrazione diventava un giro d’affari». Di qui i due grandi problemi attuali del Mezzogiorno: la rivolta del Nord contro i trasferimenti al Sud e la deriva criminale mafiosa del Sud. Quanto alla prima, cito ancora Cafagna: «Non si può accettare che il foraggio destinato all’allevamento di cavalli di razza venga versato direttamente, invece, a ratti, zoccole e pantegane che si mangeranno poi anche i cavalli». Quanto alla seconda, la degradazione dell’amministrazione pubblica consegna vaste parti del territorio all’amministrazione privata criminale delle mafie. Questo è il tremendo rischio che il Mezzogiorno sta correndo.
Dunque, il problema del divario non dipende dall’insufficienza delle risorse trasferite al Mezzogiorno, ma dall’inefficienza (9 miliardi di euro destinati al Sud sono stati trasferiti dai fondi europei ad altre destinazioni per incapacità di utilizzazione) e dalla corruttela (vedi il crescente numero delle amministrazioni locali "sospese").
La "regionalizzazione" del Mezzogiorno non ha democratizzato la gestione delle risorse affidate alla classe politica. Diversamente dal Nord, le regioni meridionali non possono contare su salde tradizioni storiche di autonomia che costituiscano la base della loro educazione politica; mentre ha fatto perdere il senso unitario del problema.
La proposta che oggi si affaccia, di un partito del Sud, avrebbe, se emendata da disegni opportunistici, un suo comprensibile fondamento politico nella necessità di riproporre la questione meridionale come grande problema nazionale, elevandone il livello: di formare una vera e nuova classe dirigente meridionale affrancata dai condizionamenti clientelari locali e capace di esprimere la domanda politica del Mezzogiorno.
Non si tratta però soltanto di un "partito" del Sud. Si tratta di riprendere l’antica battaglia dei meridionalisti federalisti, come Guido Dorso e Gaetano Salvemini, per un governo autonomo del Mezzogiorno nell’ambito di un regime nazionale autenticamente federalista: che intenda cioè il federalismo come grande patto nazionale unitario e non come redistribuzione del carico fiscale.
Compito fondamentale di quel Governo dovrebbe essere di concentrare i mille rivoli nei quali si disperdono i trasferimenti al Sud in un solo grande piano di risanamento urbano: il solo strumento capace di riconquistare alla vita civile e democratica i territori caduti sotto il controllo delle mafie
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dieci punti per il Piano di Rilancio
Ricostruire l’Italia, con il Sud
Se si vuole davvero avviare la ricostruzione del Paese, il Piano di Rilancio deve coniugare sviluppo e coesione sociale, riducendo le disparità e valorizzando il Mezzogiorno.
di AA.VV. (Il Mulino, 09-03.2021) *
L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua «ricostruzione» coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.
Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali - per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del Paese - dev’essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.
Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno dev’essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al Paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale.
Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa. Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero Paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del Paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero «ricostruita» e non potrà contare in Europa.
*
Laura Azzolina, Università di Palermo / Luca Bianchi, economista / Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud / Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli / Luigi Burroni, Università di Firenze / Domenico Cersosimo, Università della Calabria / Leandra D’Antone, storica / Paola De Vivo, Università Federico II Napoli / Carmine Donzelli, editore / Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma / Lidia Greco, Università di Bari / Alessandro Laterza, editore / Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria / Alfio Mastropaolo, Università di Torino / Vittorio Mete, Università di Firenze / Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli / Rosanna Nisticò, Università della Calabria / Emmanuele Pavolini, Università di Macerata / Francesco Prota, Università di Bari / Francesco Raniolo, Università della Calabria / Marco Rossi-Doria, maestro / Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli / Rocco Sciarrone, Università di Torino / Carlo Trigilia, Università di Firenze / Gianfranco Viesti, Università di Bari
Politica
Luigi Di Maio è una speranza per il Sud (nonostante Saviano)
di Emiliano Morrone *
Eletto Luigi Di Maio candidato premier e capo politico del Movimento 5 stelle, su Repubblica.it Roberto Saviano ha scritto un commento intitolato “Il tradimento delle origini”, che riprende posizioni già espresse da Curzio Maltese prima che, approdato al parlamento Ue con Tsipras, cambiasse idea sulla democrazia nel Pd.
Riassumo alcune tesi di Saviano e replico. Lo scrittore antimafia ha sostenuto che
“nessuno all’interno del Movimento può prendere decisioni in autonomia”
“è il primo caso di un’entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da srl che pretendono fiducia incondizionata”
i leader “del Movimento, quelli che hanno consolidato la propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di mandato”
Tralascio per brevità ogni ragionamento sui 37mila e dispari votanti alle recenti primarie online del Movimento, ritenendo deviante l’argomento sul dato in sé. Le primarie altrui, caratterizzate da una più alta partecipazione, hanno finora seguito logiche, fin troppo note, di puri accordi di potere. L’esempio in casa Pd può essere l’elezione nel 2014 del mio compaesano Gerardo Mario Oliverio quale candidato governatore della Calabria o quella, per le politiche del 2013, dei candidati parlamentari inseriti nel listone sulla base dei consensi riportati. Tra costoro risultò in posizione più che utile Enza Bruno Bossio, moglie di Nicola Adamo, ex consigliere regionale e già vicepresidente della giunta della Calabria.
Nello specifico forma e sostanza distano anni luce, come sa bene l’amico Saviano. La legittimazione formale dei candidati del Pd è spesso pura finzione, la quale nasconde - e male - il controllo del partito da parte di gruppi di potere avvezzi alle trattative interne. Nessuno si offenda, è il solito gioco di una vecchia politica che ripudia strumenti e processi valutativi dell’autonomia e della visione collettiva del singolo candidato.
Chiedo all’amico Saviano se, tolte le suggestioni offerte - nel suo articolo - sull’attuazione della democrazia, in Italia esista sovranità del parlamento e libertà del governo. La mia risposta è negativa, perché le politiche sono condizionate alle “origini” dagli equilibri di finanza pubblica, dall’incostituzionale pareggio di bilancio e dalla riduzione, obbligatoria e progressiva, del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il parlamento, in cui 5 stelle è forza di opposizione, è scavalcato ogni volta mediante l’utilizzo illegittimo della decretazione d’urgenza, seguito dal voto di fiducia. In un silenzio diffuso e indicativo, ciò è avvenuto, da ultimo, per il “decreto vaccini”.
All’amico Saviano ricordo che Beppe Grillo si candidò alle primarie del Pd, ma non lo vollero. Aggiungo che il Movimento 5 stelle, proprio in territori di confine come la “mia” Calabria, ha condotto una battaglia di legalità e trasparenza senza eguali, che Gianroberto Casaleggio, Grillo o altri non hanno mai ordinato, scoraggiato, ostacolato oppure bloccato.
L’elezione di Di Maio, finalmente un ragazzo del Sud, a me sembra una speranza, forse l’ultima, visto che sul futuro del nostro Mezzogiorno, storico serbatoio di voti, i partiti continuano con lo sfruttamento del bisogno e con l’imperdonabile retorica di patti e promesse di fiumi di denaro, su cui la criminalità organizzata, che costruisce i politici di riferimento, è sempre pronta a mettere mano.
* Il Fatto quotidiano, 24.09.2017 (ripresa parziale - senza note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFRR.:
Per la Costituzione - e il dialogo, quello vero ...
"ITALIA". AMARE L’ITALIA: RIPRENDIAMOCI LA PAROLA. VAFFA-DAY?! ONORE A BEPPE GRILLO. Contro la vergognosa confusione dell’ "antipolitica" in Parlamento e della "politica" in Piazza, l’invito ad uscire dalla "logica" del "mentitore". Una lettera (2002), con un intervento di Beppe Grillo (la Repubblica, 2004),
È una spia del malessere del Paese
di Linda Laura Sabbadini (La Stampa, 14.07.2016)
Un incidente terribile, ma evitabile in Puglia tra due treni incanalati sullo stesso binario e la vita dei pendolari, lavoratori e studenti appesa ad una telefonata. Non ci si può neanche credere. Sembra un incubo. Un bimbo appena nato che muore in Sardegna per la mancanza di elisoccorso dopo che la sua mamma partorisce prematuramente in traghetto. Che cosa sta succedendo nel nostro Paese? Episodi che non vorremmo vedere. Gli epidemiologi li chiamerebbero eventi sentinella. Sintomi di qualcosa di profondo che non va.
Si tratta di mortalità evitabile che il nostro Paese deve puntare ad azzerare. Per mortalità evitabile si intendono quegli eventi che potrebbero essere contrastati con azioni mirate, soprattutto nell’ambito della prevenzione e della sicurezza, e del potenziamento di servizi e infrastrutture, come in questi casi. E si deve farlo sapendo che su questi fronti i rischi non sono equamente distribuiti.
Stiamo parlando di Sud, parte fondamentale del nostro Paese e dell’Europa. In Italia la mappa dei bisogni presenta già alcuni squilibri, perché non coincide con la mappa dei servizi e delle infrastrutture presenti. Gli anziani, ad esempio, sono in peggiori condizioni di salute al Sud, ma hanno minore assistenza sociale e sanitaria. I poveri sono di più, ma ricevono di meno.
Attribuire la responsabilità a inefficienze di natura locale o all’incapacità di gestire fondi da parte delle amministrazioni del Sud non aiuta a mettere a fuoco soluzioni efficaci, anzi, si rivela spesso controproducente. Il punto è piuttosto quello di ricostruire opportunità adeguate per la popolazione del Sud, tenendo a mente che le croniche «dispari opportunità» che si sono perpetrate negli anni non permettono di valorizzare le grandi risorse umane e del territorio pur presenti in quelle zone. E’ un gap che va colmato, in fretta, prima che le disparità aumentino ulteriormente, ad esempio con la fuga dei giovani, e prima che i settori più dinamici del Sud siano costretti ad abbandonarlo.
Non si possono fare risparmi sulla sicurezza dei cittadini, né accumulare ritardi sull’assistenza sanitaria, da sempre un pilastro del nostro Paese: si è fin troppo tagliato su prevenzione, sicurezza e sanità, adesso è il momento di investire. La mortalità evitabile al Sud è un fattore che si aggiunge e si sovrappone a un quadro già disagiato. Il disastro ferroviario in Puglia e il mancato elisoccorso in Sardegna colpiscono territori già pesantemente provati, ed è su questo secondo aspetto che bisogna lavorare.
Quando si comincerà a investire - più che a tagliare - per ridurre le disuguaglianze di opportunità tra Nord e Sud? Non ci si può lavare le coscienze ricordando le inefficienze e gli sprechi. Il Sud ha bisogno di essere sostenuto nel recupero del gap che lo separa dal resto del Paese. E il nostro Paese deve ritrovare le sue priorità. La crescita dell’Italia è strettamente connessa alla crescita del Sud. Eliminare la mortalità evitabile, puntare sulla prevenzione e sulla sicurezza, partire dai bisogni di coloro che hanno sempre avuto meno, questo è il compito.
dagli atti della XXIII legislatura
Il binario unico al centro del dibattito parlamentare di cento anni fa
di Nicoletta Cottone (Il Sole-24 Ore, 14 luglio 2016)
«Se non ci decidiamo a impiantare questi doppi binari, noi soffochiamo lo sviluppo dell’industria, del commercio e del traffico» ferroviario. Il problema del binario unico e delle ferrovie in Puglia, alla ribalta oggi dopo il tragico scontro dei due treni a Corato, è lungo cent’anni. E, ieri come oggi, ha interessato il dibattito parlamentare. Coinvolgendo all’epoca anche la Camera dei deputati del Regno d’Italia. Era lunedì 12 giugno 1911, una giornata come tante altre, di 105 anni fa.
L’intervento del 1911 sullo stato delle ferrovie pugliesi Un vecchio ritaglio di giornale datato 1911 - gelosamente conservato per anni da un mio amatissimo zio, poi perso nel corso di un trasloco, ma restato nella memoria di mio cugino Claudio Gallì - è stato lo spunto per andare a caccia nell’Archivio storico di Montecitorio del discorso alla Camera dei deputati del mio bisnonno, Giovanni Ravenna, deputato dal 1909 al 1913, nella XXIII legislatura del Regno d’Italia. Un intervento che proprio allo stato delle ferrovie pugliesi e alle difficoltà del viaggio sul binario unico era dedicato.
Si discuteva delle spese del ministero dei Lavori pubblici
L’occasione era la discussione sullo stato di previsione della spesa del ministero dei Lavori pubblici per l’esercizio finanziario dal 1° luglio 1911 al 30 giugno 1912. Prima del mio bisnonno, il deputato fiorentino Giovanni Celesia Di Vegliasco aveva sottolineato come ci fossero in Liguria interventi urgentissimi da fare, come la «costruzione dei doppi binari». Il ritardare «la costruzione di questi doppi binari equivale a uno sperpero di ricchezza». All’epoca negli atti parlamentari erano stati quantificati «binari urgenti» per 450 milioni di lire, dei quali 300 milioni «urgentissimi». E il solo raddoppio di binario in Liguria sarebbe costato 150 milioni di lire.
«Le ferrovie finiscono a Lecce»
«Onorevole ministro, altri potrà chiederle, nella discussione di questo bilancio, di doppi binari o di binari nuovi, e forse avrà ragione di farlo, io le chiedo semplicemente che quei binari che esistono nell’estremo Salento funzionino razionalmente», fu l’attacco dell’intervento del deputato Giovanni Ravenna, già sindaco di Gallipoli. «Le ferrovie, possiamo dirlo senza tema di smentita, finiscono a Lecce - spiegò - perché effettivamente fino a Lecce si hanno i collegamenti diretti coi grandi centri. Da Lecce in poi si è serviti dall’esercizio economico: così la Lecce-Zollino-Gallipoli, la Lecce-Zollino-Otranto a Sud del capoluogo, la Francavilla-Novoli-Nardò al Nord-Ovest».
Treni che per il regolamento dell’epoca avrebbero dovuto viaggiare a 35 chilometri all’ora, dichiarò, ma che, orario alla mano, andavano «a una velocità di appena 20 chilometri». I ritardi erano dovuti, più che alla velocità dei treni, alle lunghe soste legate alla carenza di manovali. Con il binario unico, infatti, i manovali dovevano far girare sulla piattaforma le automotrici per consentire l’aggancio dei vagoni e la partenza dei treni. Per andare da Lecce a Gallipoli e a Otranto «occorre - dichiarò - un tempo infinito e ciò arreca un danno gravissimo all’economia dei paesi posti a Sud del capoluogo».
Ecco il racconto del mio bisnonno di un viaggio in Puglia cento anni fa, tratto dagli Atti parlamentari della XXIII Legislatura del Regno d’Italia.
L’indice degli atti parlamentari del 12 giugno 1911 della Camera dei deputati della XXIII Legislatura
«Proprio qualche giorno fa, onorevole ministro, il treno non poteva partire da Zollino, stazione centrale che al contrario manca anche di una pensilina che ripari dalle intemperie e dalla canicola i viaggiatori che ivi si accumulano per i trasbordi, perché mancavano i manovali che dovevano fare girare sulla piattaforma una di quelle famose automotrici. Mi affacciai allo sportello e chiesi che cosa si aspettasse. Mi si rispose che i due operai addetti a quella stazione erano occupati altrove. Dunque due operai in una stazione dove contemporaneamente quattro volte al giorno coincidono quattro treni.
Orbene, si rimase mezz’ora fermi in stazione e quando i due manovali completarono il servizio di un altro treno, come Dio volle, si girò l’automotrice, si attaccò al treno e si partì.
Ed a proposito di queste automotrici (rifiutate altrove perché insufficienti), v’ha chi dice che si siano piazzate sui nostri binari al solo scopo di poterne giustificare la spesa enorme sostenuta per costruirle. E le han mandate precisamente là dove il viaggiatore paga, è mal servito e tace.
Le automotrici troverebbero la loro ragione d’essere nel forte risparmio del carbone. Orbene, mentre una volta partiva un treno da Lecce trainato da macchina ordinaria e poi a Zollino si sdoppiava per Gallipoli e per Otranto, con le automotrici, invece di far partire da Lecce un solo treno, ne partono due, dappoichè queste macchine hanno forza di trazione assai limitata.
E come vede, onorevole ministro, le automotrici che dovrebbero rappresentare una economia sono dispendio maggiore. Ma forse, ella ignora questi piccoli dettagli, poiché ha problemi ben più gravi da risolvere, per aver tempo di pensare a codeste incongruenze.
Per andare da Lecce a Gallipoli e ad Otranto occorre un tempo infinito e ciò arreca gravissimo danno all’economia dei paesi posti a Sud del capoluogo. Eccone un esempio: i negozianti settentrionali che una volta affluivano durante la campagna vinicola nei nostri paesi per gli acquisti delle nostre uve, da quando abbiamo l’esercizio economico si arrestano per le loro provviste nei paesi posti a Nord di Lecce, perché essi dicono che andare oltre Lecce significa perdere tutta una giornata. (...)
Onorevole ministro, forse ella non avrà occasione di visitare quei luoghi, o se mai, vi andrebbe in carrozze che servono a trasportare i dignitari dello Stato. Ma se il suo spirito democratico giungesse al sacrificio di voler viaggiare come i poveri mortali, eviti di sedere al centro della carrozza, perché il suo abito ne uscirebbe imbrattato per lo stillicidio che fa l’olio messo ad alimentare la piccola fiammella centrale; e si guardi bene dal sedere agli angoli perché pei vetri abitualmente rotti o mancanti soffia la poco piacevole tramontana. Come vedono, onorevoli colleghi, per quanta buona volontà egli potesse avere, il ministro non troverebbe posto in quelle carrozze.
Più volte, onorevoli colleghi, fu lamentato questo stato di cose. La Camera di commercio di Lecce, l’Associazione commerciale di Gallipoli, i Consigli comunali sono ormai stanchi d’inviare petizioni e proteste, chè mai nulla si è fatto, e nulla forse potrà farsi fino a che non si faccia intendere alla Direzione generale delle ferrovie che le lontane terre salentine sono anch’esse abitate da cittadini italiani e non da beoti.
E se questo non vorrà intendersi venga una buona volta il Ministero delle comunicazioni. Allora il Parlamento avrà effettivamente di fronte un ministro il quale, conscio della propria responsabilità, non potrà fare una politica ferroviaria al Nord ed un’altra al Sud».
(Intervento del deputato Giovanni Ravenna, già sindaco di Gallipoli - Tratto dagli Atti Parlamentari della Camera dei deputati del Regno d’Italia - XXIII Legislatura - Tornata di lunedì 12 giugno 1911)
L’incidente sulla Corato-Andria e le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese
Morire perché si è preso un treno
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 14.07.2016) *
Ogni tragedia ha la sua dose di imponderabilità, di fatalità, di specifica responsabilità o di errore umano. Ma l’azione collettiva ha, fra i suoi scopi più importanti, proprio il compito di ridurre il peso di questi fattori nelle vite dei cittadini; di consentirci di fruire in sicurezza di beni e servizi pubblici. Un Paese avanzato lo è anche perchè riesce a garantire vita e salute dei suoi cittadini, con norme, decisioni, investimenti.
Questo non è stato evidentemente possibile per i poveri operatori e viaggiatori dei treni sulla linea Corato-Andria. La loro terribile sorte è stata causata da circostanze e responsabilità specifiche che toccherà stabilire a chi è a ciò preposto. Ma, in senso più generale, è collegata all’insufficiente capacità collettiva di garantire loro migliore servizio, maggiore sicurezza. A scelte e a condizioni che hanno interessato le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese.
Tre elementi sembrano di particolare rilievo.
Da tempo, l’Italia ha concentrato i suoi investimenti ferroviari sulla rete ad alta velocità. Investimenti consistenti in un servizio molto importante, che riduce fortemente i tempi di percorrenza, sposta viaggiatori dall’aereo al treno, garantisce un ricco mercato per la società pubblica e il concorrente privato che gestiscono il servizio. Molto bene. Ma molto male che ciò sia avvenuto a danno dei trasporti regionali e pendolari, che interessano ogni giorno cinque milioni e mezzo di italiani, e le cui condizioni sono assai misere, in carenza di investimenti e attenzione per i servizi. Un giornale come «Il Mattino», ad esempio, da tempo documenta il fortissimo peggioramento del trasporto pubblico locale campano. Purtroppo non è un caso unico: l’eccellente rapporto Pendolaria, realizzato da diversi anni da Legambiente e disponibile sul web, lo documenta con grande precisione e ricchezza di dati; mostrando, uno fra mille esempi, che l’offerta sulla Circumvesuviana si è ridotta del 30%. In misura rilevante vi è carenza di miglioramenti proprio sulla qualità e la sicurezza della circolazione. Nel caso di ieri colpisce la circostanza che in un mondo nel quale sensoristica e connettività hanno fatto passi da gigante, abbattendo il loro costi, e si sperimentano da anni automobili in grado di circolare senza guidatore, vi siano linee ferroviarie nelle quali non vi sono dispositivi in grado di verificare se i binari da percorrere sono liberi e tali da impedire automaticamente, magari con un semplice semaforo, le possibilità di questi assurdi incidenti.
In secondo luogo, infrastrutture e servizi ferroviari sono nettamente peggiori nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. Ad esempio, la percentuale di linee a doppio binario rispetto alla lunghezza della rete totale, è ancora oggi, stando agli indicatori Istat, del 24% al Sud, la metà del Centro Nord. Questo è frutto di divari storici mai colmati; ma anche di una distribuzione degli investimenti assai sperequata da molti anni a questa parte: nel Sud dovrebbe esserci uno sforzo aggiuntivo per compensare progressivamente dotazioni e servizi assai inferiori rispetto al Centro Nord. Non è assolutamente così. Ad esempio il gruppo Ferrovie dello Stato (che non gestisce la Corato-Andria, ma a cui fa capo la stragrande maggioranza degli investimenti ferroviari) ha investito nel triennio 2012-14 al Sud 701 milioni l’anno, che rappresentano solo il 21% del totale nazionale. Il quadro è in netto peggioramento. Gli investimenti di Fs al Sud sono scesi rispetto al triennio precedente (2009-11) del 34% (erano in media 1062 milioni l’anno), con una contrazione assai più forte della media nazionale (-20%). Sulle ferrovie al Sud si investe pochissimo; interi tratti della rete sono in abbandono.
Infine, la circostanza più negativa di tutte: il raddoppio di quella linea ferroviaria era finanziato, e le procedure in corso, ma con tempi lunghissimi. Non un caso eccezionale: la maledizione italiana per cui la realizzazione delle opere pubbliche ha tempi lunghissimi. Stando al pregevole monitoraggio che realizza una struttura governativa (Uver), per portare a termine una grande opera pubblica (più di 100 milioni), ci vogliono 14 anni e mezzo: un dato in aumento rispetto al passato e solo leggermente superiore al Sud rispetto alla media nazionale. La filiera del ritardo, acquisito il finanziamento, comprende tutte le fasi (progettazioni, affidamenti, esecuzioni, collaudi), ciascuna delle quali contribuisce ai ritardi.
Questi tre elementi (disattenzione al trasporto locale/pendolare; limitatissimi investimenti ferroviari al Sud; tempi lunghissimi per realizzare le opere pubbliche) disegnano il contesto di un Paese nel quale, purtroppo, tragedie del genere possono accadere. Indicano con chiarezza le strade da seguire per «cambiare verso», se si ha la volontà di farlo. Per diventare un Paese (tutto, da Nord a Sud), nel quale non si possa morire solo perchè si è preso un treno.
Questo articolo è stato pubblicato su «Il Mattino» del 13 luglio 2016
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
Uomini senza onore per tutte le stagioni
di Mimmo Gangemi (La Stampa, 10.07.2016)
Al procuratore Nicola Gratteri io credo per fede, come succede ai devoti riguardo i dogmi religiosi. Come me, crede in lui il popolo calabrese, quello sano. E non si potrebbe diversamente, c’è l’efficienza dei suoi lunghi anni di trincea, c’è la visione realistica del fenomeno ’ndrangheta, c’è la faticosa dedizione di chi bada al sodo e non ha bisogno d’inventarsi bufale con cui costruire meriti. E c’è la nascita aspromontana, nella splendida Gerace.
Solo chi è nato in questa terra martoriata da uomini d’onore che l’onore non sanno nemmeno cosa sia - ché di sicuro non c’è nel sangue versato a piene mani, nei sequestri di persona, nel traffico di droga, di armi, persino di scorie radioattive seppellite negli stessi luoghi dove loro vivono con le famiglie! - ha imparato certi meccanismi, certe logiche distorte, sa cogliere sfumature e dettagli, sa decifrare, è capace di intuizioni risolutive. Perché ha, suo malgrado, respirato ’ndrangheta, nel senso che ha avuto occasione di osservarli gli ’ndranghetisti, di coglierne i modi, le mosse, gli atteggiamenti, di assistere alle parate, di sentir rimbalzare il gergo e parole con lo stampo, di attingere fiati dalla stessa aria che quelli infettano, di distinguerli dentro una maggioranza che è perbene e che spesso ha il solo torto d’esercitare il diritto d’avere paura.
Ora Gratteri individua un altro nervo scoperto nella macchina amministrativa della cosa pubblica. Ed è ancora una volta credibile. È indubbio che c’è una parte non irrilevante di essa che non funziona a dovere, si rivela spesso incompetente e inadatta, fraudolenta, non “muore” mai - è sempre la continuazione di se stessa - uomini per tutte le stagioni, chiunque sia tenere il bastone della bandiera che svetta più in alto, uomini utili a chi si succede nel potere, loro stessi potere a fronte d’una politica troppo spesso inetta o che esprime pochezza, che è debole e si fa condurre docile, senza produrre idee, progresso, valori di cultura.
Questa macchina amministrativa taroccata è in qualche misura ’ndrangheta essa stessa, ne è la propaggine, molti la ’ndrangheta li ha agevolati ad accedere ai ruoli chiave, perché ne diventassero strumento, con politici per decenni solleciti a elargire i posti a cassetta su richiesta di un amico o, peggio, di un amico degli amici a cui non poter opporre un no.
Ad andare a spulciare nei quadri dirigenziali della Regione, degli enti pubblici, della sanità troveremmo tanti a cui ha messo il pennacchio il merito ’ndranghetista e non quello professionale, tanti diventati dirigenti senza aver vinto il concorso previsto dalla Legge e magari senza possedere la laurea, o primari ospedalieri cui non ci affideremmo per un’unghia incarnita. Chiaro che si tratta di favori a rendere: in qualche maniera dovranno sdebitarsi con chi ha consentito che succedesse, “dovranno togliersi l’obbligazione”, per dirla in gergo. A discapito della collettività.
Un Paese che invecchia, si ferma, ripiegato su se stesso
Un’Italia ingiusta
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 11 luglio 2016)
Gli effetti della grande crisi sul lavoro degli italiani sono stati estremamente forti. È bene ricordarlo. Non per deprimersi, ma per rendersi conto che è necessario un progresso potente per tornare a una quantità e qualità dell’occupazione almeno paragonabile a quella del 2008. Per rendersene conto, possono essere d’aiuto alcune interessanti tabelle pubblicate dall’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale (in particolare alle pp. 107-109), nelle quali sono comparate la dimensione e la struttura (per settore, professione, età, nazionalità e territorio) degli occupati in Italia del 2008 e del 2015; queste tabelle tengono poi già conto del discreto recupero che si è realizzato nell’ultimo anno.
Nell’insieme, gli occupati sono 626 mila in meno. Tantissimi. Ma le informazioni più interessanti vengono, più che dal saldo netto, dalla composizione delle variazioni. A livello di settore, perdono moltissimi occupati le costruzioni (484 mila), per la crisi dell’edilizia e il crollo degli investimenti infrastrutturali, e l’industria (421 mila); ma anche il commercio (258 mila), a causa della caduta dei consumi interni; e la pubblica amministrazione/istruzione (228 mila) a causa dell’austerità. Gli occupati aumentano in pochi ambiti. Innanzitutto nel settore dei servizi alle famiglie (370 mila), quindi negli alberghi e ristoranti (174 mila), grazie alle buone dinamiche del turismo. Guardando alle professioni, la trasformazione è profonda: perdiamo operai e artigiani (più di un milione) e tecnici e professionisti ad alta qualifica (642 mila); guadagniamo addetti alle professioni esecutive (814 mila) e non qualificate (428 mila).
Netto anche il cambiamento nella composizione per età: abbiamo quasi due milioni di occupati giovani (nella fascia 15-34 anni) in meno (anche - ma certo non solo - per motivi demografici) e oltre un milione e 800 mila occupati anziani (di oltre 50 anni) in più. Se guardiamo alla nazionalità scopriamo che gli occupati italiani sono ben un milione e 300 mila di meno, e che invece gli stranieri aumentano di quasi 700 mila.
Infine, la riduzione degli occupati è un fenomeno prevalentemente meridionale: al Sud ci sono 482 mila lavoratori in meno. Sono dati che preoccupano molto, specie se letti con una prospettiva d’insieme. Scopriamo che il problema non è solo la riduzione quantitativa dell’occupazione, ma anche e soprattutto la sua trasformazione qualitativa: che va in direzione opposta a quanto sarebbe auspicabile. Si riducono gli occupati giovani, italiani, a maggiore qualifica, nel pubblico e nel privato; si riducono i tecnici, gli artigiani, gli operai nell’industria e nelle costruzioni. Aumentano i lavoratori a qualifica più bassa, e in particolare gli immigrati che lavorano nel Centro Nord come collaboratori domestici e badanti. Meno tecnici e più camerieri. Restano al lavoro gli occupati più anziani.
Descrivono una fase terribile di un Paese che invecchia, si ferma, che ripiega su se stesso. Suggeriscono che non basta monitorare gli andamenti d’insieme del mercato del lavoro, ma che occorre studiarne anche le trasformazioni; che non basta accontentarsi di un occupato in più se costui lavora prevalentemente con mansioni (e stipendi) più basse (e precarie). È l’occupazione qualificata, pubblica e privata, e a maggiore retribuzione, che ci serve: per restare un Paese avanzato (e civile); per dare un futuro ai più giovani che hanno investito su se stessi; per aumentare la qualità dei servizi, pubblici e privati, ai cittadini e la capacità competitiva delle imprese. Non è certo facile crearla: ma saperlo e provarci sarebbe un buon inizio.
Politica
Il Sud dimenticato dai governi degli ultimi 40 anni. L’ultimo ad occuparsene fu Moro
di Alessandro Cannavale *
Il 9 maggio ricorreva l’anniversario triste dell’assassinio dell’on Aldo Moro. Forse, pochi sanno che il politico di Maglie, assai più di tanti altri, seppe tradurre il proprio meridionalismo in azione politica concreta. Con continuità, lungo gli anni dell’impegno di Governo: è stato ministro e presidente del Consiglio. Furono anni di proficuo impiego dei fondi straordinari della Cassa del Mezzogiorno. Nel 1959 Moro diceva: “Si può ben dire che la soluzione che noi daremo a ogni nostro problema economico rischia di risultare una pseudo soluzione se disoccupazione e mezzogiorno continueranno a presentarsi come problemi largamente irrisolti”. E sempre nello stesso discorso, a Firenze: “Noi siamo riusciti a portare il saggio di sviluppo del sud al livello di quello del nord, non a farlo superare nella misura necessaria per ottenere una sostanziale riduzione dell’attuale divario”.
La questione del divario evidentissimo che attraversava il paese alla fine del fascismo impose la necessità di una programmazione di lungo respiro, per risollevare le sorti del Mezzogiorno. Moro ne era uno dei propugnatori, stante l’indissolubile interdipendenza tra le due aree del paese. L’idea morotea era chiaramente orientata a favorire un riequilibrio interno, per scongiurare l’ampliamento dei divari. Forse molti decisori di oggi dovrebbero rileggere queste pagine, ricche di senso di responsabilità e di consapevolezza del ruolo rivestito, con serietà e preparazione. E di amore verso il paese tutto. Quello di Moro fu un meridionalismo che non scadde mai nel regionalismo. La rivendicazione di dignità ed eguaglianza del Sud era percepita come un’urgenza inderogabile. Prioritaria. E proprio i discorsi inaugurali della Fiera del Levante, ormai declassati nelle agende dei recenti governi, erano invece momenti programmatici rilevantissimi per il Sud e il paese tutto.
Gli interventi statali in economia, nella visione morotea, erano pensati in funzione di un innesco di virtuose evoluzioni, mai come sporadiche precipitazioni di fondi, atte a tamponare emergenze contingenti, prive di auspicabili riflessi sul medio e lungo periodo. “L’incentivo non ha un valore in sé, ma in quanto istituisca una condizione differenziale nei riguardi di tutte le altre parti del sistema”. Le industrie di stato al Sud, secondo Moro, costituivano un mezzo e non fine: uno strumento per frenare l’emorragia di manodopera che in quegli anni imperversava al Sud, prevalentemente. L’obiettivo era, essenzialmente, quello di far sorgere un autonomo ceto imprenditoriale al sud. Chissà cosa avrebbe detto, oggi, considerando che, secondo il recentissimo rapporto Anvur, cresce la quota di diplomati del Mezzogiorno che si iscrivono in un ateneo del Centro-Nord (da circa il 18% dello scorso decennio al 24%)?
Il politico pugliese coglieva in quel titanico flusso di persone un impoverimento quasi sempre irreversibile del Mezzogiorno. Per tale ragione, Moro sosteneva fermamente la necessità di far sorgere l’industria anche al Sud ma, anche, che tale sforzo a nulla sarebbe valso senza una opportuna modernizzazione del settore agricolo meridionale o l’attivazione dell’imprenditoria privata. Nel dopoguerra, sottolinea Moro, l’Italia ha scelto un’economia di mercato, pur perseguendo “una risoluta azione di sostegno e di propulsione nei riguardi delle situazioni economicamente in ritardo oppure in crisi”: una “duplice linea”. Oggi sembra latitare l’equilibrio sano di questa duplicità di intenti.
Il Sud veniva percepito come un banco di prova per la generazione di Moro. Occorreva “redistruibuire tra regioni (nord e sud e in generale zone depresse” e tra settori (industria e agricoltura) il capitale di nuova formazione”. E se da un lato egli auspicava la nascita di robuste autonomie locali, dall’altro ribadiva la necessità di abbattere i divari interni per affrontare in modo ottimale la sfida competitiva dell’Italia in un contesto europeo. Da Bari, dove teneva i suoi corsi universitari, guardava all’Europa, non all’inasprimento strumentale dei conflitti in seno al paese. Qui sta il respiro ampio del meridionalismo moroteo.
Era, indiscutibilmente, la capacità di programmare a lungo termine il punto di forza della classe dirigente alla quale Moro appartenne. Lo segnano distintamente queste parole: “I problemi connessi con l’azione di governo non possono essere affrontati singolarmente ed episodicamente, ma in una visione di insieme, secondo precise priorità d’importanza e di urgenza, in relazione cioè ad una politica di programmazione economica, che consenta, sulla base indispensabile di un adeguato sviluppo del reddito, il superamento degli squilibri territoriali, settoriali e distributivi ancora esistenti, nonché la eliminazione delle maggiori deficienze nel campo delle dotazioni civili del nostro paese”. Correva l’anno 1963.
Cito, infine, queste memorabili parole di Aldo Moro sulla libertà: “Vi chiediamo dunque di volere la vostra libertà e la libertà di tutti con la stessa forza e convinzione; di volere il vostro progresso ed insieme il progresso di tutti. Vi chiediamo di rinunciare all’egoismo e di non consentire, al di là di questa, a nessun’altra rinuncia. Vi chiediamo di credere che ragionevoli limitazioni e temporanei sacrifici portano ad un vero sviluppo; che una libertà misurata e rispettosa è una vera libertà ed una libertà garantita. Vi chiediamo di credere che la libertà non di uno solo, ma di tutti, esalta necessariamente la dignità umana e rinnova la società. Vi chiediamo perciò di custodire la libertà politica come un bene supremo che apre largamente il varco alla giustizia che avanza”.
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Fonte delle citazioni: “il meridionalismo di Aldo Moro”, idee e programmi per il sud riproposti da Giovanni Di Capua e presentati da Dino De Poli - Centro studi e iniziative per il mezzogiorno Aldo Moro, 1978
* Il Fatto, 26 maggio 2016 (ripresa parziale).
La questione meridionale dell’università: il sud è già condannato alla resa
di Alberto Baccini *
Articolo pubblicato sulla prima pagina de Il Mattino di Napoli il 7 dicembre 2015.
C’è una questione meridionale nell’università italiana? Se lo chiede Mauro Fiorentino in un libro La questione meridionale dell’Università, appena pubblicato per ESI, Napoli. La questione c’è. Ed è il risultato di una complicata combinazione di fattori che stanno svuotando le università del Sud di studenti, professori e finanziamenti. Una combinazione di fattori che non è stata decisa esplicitamente dai governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni; né tantomeno dal parlamento. Ma è il risultato dell’adozione generalizzata di strumenti premiali adottati in un contesto di progressiva e continua riduzione dei finanziamenti, che hanno spostato risorse dalle università del Sud a quelle del Nord.
Pochi giorni fa sul sito www.roars.it è uscita la notizia che finalmente l’Italia ce l’ha fatta: siamo ultimi nella classifica per la quota di laureati nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Si è realizzato l’obiettivo di quanti in questi anni hanno sostenuto sulla grande stampa nazionale che i laureati non servono, che con un miliardo e quattrocento milioni di cinesi che vogliono venire in Italia a fare le vacanze non abbiamo bisogno delle università, che in effetti di università l’Italia ne ha anche troppe. L’OCSE (Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica) ha calcolato che in Italia ci sono 24 laureati ogni cento giovani, contro i 41 della media OCSE, certificando così la nostra ultima posizione in classifica. Fino all’anno scorso eravamo penultimi a pari merito col Cile e davanti alla Turchia, due nazioni che quest’anno ci hanno superato.
E’ da sottolineare che non è a causa dell’inefficienza del sistema universitario o dello spreco di risorse che abbiamo ottenuto questo risultato. Almalaurea stima, sulla base di dati OCSE, che in Italia far laureare uno studente costa in media la metà che in Germania; il 60% che in Francia e Spagna. Questo risultato lo abbiamo ottenuto perché in questi anni abbiamo ridotto le risorse destinate all’università. Siamo infatti al penultimo posto nella classifica della spesa pubblica per istruzione universitaria in rapporto al PIL. Spendiamo lo 0,9% contro una media OCSE dell’1,6%; peggio di noi percentualmente fa solo il Lussemburgo.
L’università e la ricerca (con la scuola) sono i settori che pagato il prezzo più alto in termini di riduzione della spesa pubblica. Ed il taglio è stato fortemente selettivo dal punto di vista territoriale. Secondo i calcoli di Fiorentino, la riduzione del fondo complessivo per il funzionamento delle università nel periodo 2009-2014 è stata a carico per il 50% degli atenei del mezzogiorno, lasciando in media invariato il finanziamento delle università del Nord.
Veniamo ora alla questione degli studenti. L’Italia ha perso tra il 2010, anno dell’entrata in vigore della legge Gelmini, ed il 2015, oltre 27mila immatricolati, pari ad una riduzione media del 9%. Nel 2010, ogni 10 studenti che avevano conseguito la maturità, se ne iscrivevano all’università circa 7; Dopo cinque anni il loro numero si è ridotto a 6. Anche in questo caso i dati OCSE danno all’Italia un triste primato: solo Messico e Sud-Africa hanno una quota di iscrizioni all’università più basse di quelle fatte registrare dall’Italia. Ed anche in questo caso le diversità territoriali sono impressionanti: perdono oltre un quarto degli immatricolati Basilicata (-33%), Abruzzo (-30%), Sicilia (-25%), Molise (-25%), Calabria (-23%). Solo le università campane si attestano sulla perdita media nazionale. Perché sta accadendo questo?
Principalmente per due ragioni. La prima è che l’università italiana costa troppo agli studenti: nella classifica OCSE, dopo Regno Unito e Olanda, l’Italia è terza in Europa per costo delle tasse universitarie. La seconda è che abbiamo un problema enorme per quanto riguarda gli interventi per il diritto allo studio. Una cosa di cui non dovremmo meravigliarci, visto che ascoltati consiglieri dei governi di centro destra e di centro sinistra hanno sostenuto esplicitamente che il diritto allo studio non riguarda l’università, perché “l’università pubblica dovrebbe essere pagata autonomamente da chi la frequenta (così come ogni cittadino si paga il ristorante, il cinema e l’automobile)”. Ed infatti l’Italia ha un altro primato di cui non dovremmo vantarci: siamo gli unici ad avere la figura dello studente che ha diritto alla borsa di studio, ma che non la riceve, il cosiddetto “idoneo non beneficiario”. Nel 2013/14, erano 46mila studenti su 186mila aventi diritto: in media in Italia uno studente su quattro ha diritto alla borsa, ma non la riceve. La disparità territoriale è impressionante: nelle regioni del Sud uno studente idoneo su due è nella condizione di “idoneo non beneficiario”. Questo significa che circa l’80% degli idonei non beneficiari è concentrato nelle regini del Sud, con la Sicilia che ha da sola quasi un terzo degli idonei non beneficiari italiani.
Sarebbe troppo lungo e tecnicamente complesso mostrare che questo rapido e progressivo abbandono delle università e degli studenti del sud dell’Italia è il risultato non solo della riduzione delle risorse, ma dell’adozione di meccanismi premiali distorti per la loro distribuzione. E’ utile però notare che su un punto non si sono risparmiate risorse, costituendo una costosissima agenzia, l’ANVUR, cui è stato dato il compito di produrre “dati oggettivi” al fine di premiare la didattica e la ricerca. Questo ha permesso ai governi di nascondere dietro la presunta oggettività dei numeri scelte politiche che, se fossero state esplicitate, non avrebbero trovato un facile consenso nell’opinione pubblica. La retorica del merito e dei parametri oggettivi sta realizzando il piano che proprio uno dei membri dell’ANVUR dichiarò ad un giornale nel febbraio 2012: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra research university (università di Serie A, ndr) e teaching university (università di serie B, ndr). Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.” Quello che l’ANVUR non disse - ma era così difficile capirlo? - era che le università di serie B e le chiusure si sarebbero concentrate selettivamente proprio nelle regioni meridionali.
* http://www.roars.it/online/la-questione-meridionale-delluniversita-il-sud-e-gia-condannato-alla-resa/, 14 dicembre 2015 (ri presa parziale).
di Carlo Formenti *
Perché il Sud occupa così poco spazio nei media? O, volendo allargare la prospettiva, perché la Questione Meridionale non è sopravvissuta al cambio di secolo? Questi gli interrogativi da cui prende le mosse una ricerca firmata da due docenti dell’Università del Salento (Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo”, Mimesis editore). La ricerca, alla quale hanno contribuito altri studiosi, prende in esame un trentennio di edizioni del TG1 e dei due maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, oltre ad alcune fiction televisive e pellicole cinematografiche e siti web arrivando alla conclusione che, negli ultimi vent’anni, in particolare in quelli successivi al 2000, il racconto del Sud ha occupato sempre meno spazio nell’agenda dei media e si è progressivamente appiattito su una serie di luoghi comuni negativi: criminalità organizzata, arretratezza economica e culturale, corruzione, malgoverno, parassitismo, ecc.
Nel saggio introduttivo i due autori prendono le mosse dall’analisi gramsciana della Questione Meridionale e dal suo tentativo di mobilitare le energie del neonato Partito Comunista per costruire un blocco storico fondato sull’alleanza fra proletariato settentrionale e contadini meridionali. Tuttavia, visto che il libro si occupa soprattutto, anche se non esclusivamente, dell’immaginario mediatico sul Sud, la loro attenzione si concentra soprattutto sul Gramsci teorico dell’egemonia, dei processi che consentono di costruire senso comune. Una lezione metodologica che attraversa sottotraccia altre parti del libro e rimbalza anche da alcune (non da tutte) delle sedici interviste ad altrettanti intellettuali meridionali (giornalisti, registi cinematografici e televisivi, scrittori) chiamati a rispondere alle stesse domande formulate in apertura.
Dalle ricerche dedicate ai singoli media e dalle interviste emerge uno scenario complesso, a volte contraddittorio, ma dal quale si possono enucleare alcuni punti fermi. La transizione dalla Questione Meridionale al fattore M, cioè a una rappresentazione negativa e “tipizzata” di un Sud su cui non vale più la pena di interrogarsi, in quanto inchiodato a uno stato permanente e sostanzialmente immodificabile di degrado economico, politico, sociale e culturale, è il prodotto di una serie di processi intrecciati e complessi. In particolare: la transizione a una nuova fase dell’economia mondiale associata all’avvento di politiche neoliberiste e antistataliste ha delegittimato i discorsi sulla necessità di dirottare risorse pubbliche verso il Sud per agevolarne sviluppo e crescita; la perdita di posizioni che l’intero Paese ha subito nel corso di tale mutazione (anche il Centro e il Nord hanno subito processi di “meridionalizzazione”) ha progressivamente spostato l’attenzione sulla Questione Settentrionale (paradossalmente il Sud, grazie alle sue tradizionali strutture di welfare familiare, sembra avere assorbito meglio l’impatto della crisi).
Nessun elemento in controtendenza? In effetti, qualche considerazione positiva emerge. Da un lato, l’irruzione sulla scena delle masse dei migranti ha “relativizzato” e parzialmente neutralizzato il fattore M, innescando una riflessione sulla relazione fra Meridione d’Italia e Paesi dell’area mediterranea (riflessione che ha avuto il suo picco nel “pensiero meridiano” di Franco Cassano). Dall’altro i destini del Sud sono sempre più venuti articolandosi secondo diverse traiettorie regionali, un fattore che emerge con particolare evidenza dalle interviste a registi, scrittori e film maker, i quali richiamano l’attenzione sui Sud (al plurale) che si rispecchiano nella più recente fiction letteraria, cinematografica e televisiva.
Tuttavia è proprio su quest’ultimo fattore che si divaricano le opinioni, anche perché questa evoluzione culturale si accompagna al venire meno della funzione e del ruolo dell’intellettuale impegnato (una specie in via di estinzione non solo al Sud) e alla sua sostituzione da parte di uno strato di operatori culturali variamente occupati nella produzione di immaginario. Per alcuni degli intervistati questo è un fattore positivo, in quanto aiuta a convogliare le energie verso nuove forme di progettualità locale, autonoma dalle vecchie logiche assistenziali, per altri (Goffredo Fofi su tutti) siano invece di fronte al degrado di un patrimonio culturale folclorizzato e devitalizzato che viene riciclato a fini di marketing territoriale (come ti vendo la Puglia ai milanesi). Il dibattito è aperto.
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Carlo Formenti
Per diventare “europei” partiamo dal Mezzogiorno
Un appunto dattiloscritto inedito del 1978, dedicato alla questione meridionale
di Federico Caffè (la Repubblica, 06.01.2014)
La larga e ben può dirsi unanime adesione che incontra il convincimento di una concentrazione del massimo degli sforzi odierni della nostra politica economica ai fini dell’accrescimento dell’occupazione nel Mezzogiorno è un aspetto confortante, nel contrasto dialettico di opinioni che contraddistingue le società in cui esse possono liberamente esprimersi. [...]
In effetti, l’individuazione che l’intensificarsi e la persistenza del processo inflazionistico avrebbero provocato conseguenze più deleterie nel Meridione fu tempestiva, ma rimase ancora circoscritta nell’ambito di specialistiche cerchie intellettuali. Sono stati non soltanto fenomeni di degrado economico, ma altresì di maturazione civile, a farci più chiaramente comprendere che, tra le varie compatibilità da tener presente per conservare il necessario aggancio con l’Europa, rientra anche quella della indispensabile attenuazione di un divario ancora troppo accentuato tra le due Italie economiche.
Le potenzialità costruttive di questa più diffusa coscienza della priorità, più che della «centralità», dei problemi del Mezzogiorno consistono nella finalizzazione immediata che ne ricevono i sacrifici da richiedersi, in vario grado e proporzione, alla parte privilegiata e protetta della collettività.
Ma occorre altresì tener conto che il Mezzogiorno si è profondamente trasformato; che alcuni suoi problemi attuali (si pensi alla maggiore partecipazione femminile all’offerta di lavoro) sono il risultato di un processo di maggiore omogeneità con il resto della società civile italiana; che la stessa compagine demografica si è radicalmente modificata nella localizzazione, con un addensamento in centri urbani di vecchia e nuova formazione, che si è indubbiamente compiuto con caoticità, ma anche con un vigore di cui non vanno sottovalutati l’impulso dinamico e le incidenze sociali.
Permangono, in questo ambiente le cui trasformazioni hanno un rilievo non sempre adeguatamente riconosciuto, antiche tare, quali la larga prevalenza di disoccupati sforniti del tutto di titoli di studio o con la sola licenza elementare; e l’elevatezza di persone fornite di diploma tra le nuove leve alla ricerca di lavoro: con una percentuale pressoché doppia rispetto a quella che si rileva nel nord.
Ma solo un indulgere ai luoghi comuni può portare a discutere di un’irrazionale corsa al cosiddetto «lavoro intellettuale», posto che i ben evidenti e documentati costi sociali sono, invece, costituiti dalla carenza di completamento della scuola d’obbligo e dall’ampio divario tra coloro che pervengono a ultimarla e gli iscritti agli studi superiori. [...]
È già accaduto in passato che la «scelta di civiltà » dell’integrazione economica europea determinasse una diversione dell’impegno per le esigenze della parte più debole del Paese, o meglio l’aspettativa che esse fossero soddisfatte in forza dell’operare spontaneo di meccanismi perequativi, garantiti da apposite clausole e specifici codicilli.
Oggi, non possiamo non tener conto del divario tra le salvaguardie cartacee e l’operare concreto. La formazione di una zona monetaria europea, che pure costituisce il completamento ideale di quella scelta, potrebbe ancora una volta diventare un involontario diversivo rispetto alla drammaticità dei problemi occupazionali del Mezzogiorno, in cui la necessità di creazione di possibilità di lavoro e il loro carattere aggiuntivo hanno carattere di pressante immediatezza.
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Tratto da Federico Caffè, La dignità del lavoro,a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, 2014. Per gentile concessione dell’Editore
IL LIBRO: La dignità del lavoro di Federico Caffè (a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi pagg. 430 euro 22)
Federico Caffè
La lezione interrotta dell’economista che difendeva il lavoro
Cento anni fa esatti il 6 gennaio 1914 nasceva lo studioso che diffuse Keynes in Italia e che scomparve misteriosamente nel 1984
di Daniele Archibugi e Marco Ruffolo (la Repubblica, 06.01.2014)
La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta ventisette anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe compiuto cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”.
Il carisma che ha esercitato su una ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo. La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero.
Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse. Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica.
1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.
2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano inaltre parti del mondo; prima ancora di criticare ilWelfare State,sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.
3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.
Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni.
No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.
Quell’idea di un Mezzogiorno che si ispirava ai modelli dell’America di Roosevelt
di Francesco Erbani, (la Repubblica, 12.03.2012)
Una vita per il Sud s’intitola la raccolta di lettere, quasi tutte inedite, che Manlio Rossi-Doria scrisse o ricevette fra il 1930, quando un tribunale fascista lo condannò a 15 anni di carcere, e il 1987, poco prima di morire (la raccolta è pubblicata ora da Donzelli, a cura di Emanuele Bernardi, con una prefazione di Michele De Benedictis). E se c’è uno spazio fisico in cui, lungo tutta l’esistenza, questo economista agrario e intellettuale poliedrico e fuori dagli schemi, riversò ogni passione conoscitiva e politica, e che raccontò con la sua scrittura fattuale eppure limpida e flessuosa, come fosse lo strumento di una grande letteratura di viaggio, questo è proprio il Mezzogiorno d’Italia.
Rossi-Doria non è meridionale (è nato a Roma nel 1905), come non lo sono alcuni fra i più insigni intellettuali che in maniere diverse si iscrivono al partito dei meridionalisti (il piemontese Umberto Zanotti-Bianco, il valtellinese Pasquale Saraceno, il lombardo Eugenio Azimonti, fino al torinese Carlo Levi o al triestino Danilo Dolci). Ma il Mezzogiorno è lo spazio concreto in cui, dagli studi universitari alla morte, Rossi-Doria esercita la "politica del mestiere", così la chiama, che sta a indicare un equilibrio continuamente aggiornato fra il sapere fatto di competenze, analisi, sperimentazione, obbligo di verifica, e lo slancio ideale, non ideologico, che sintetizza nell’immagine di un Sud riscattato dal "muro della miseria".
Rossi-Doria, dopo essere stato comunista, si muove nel recinto del socialismo liberale ed è senza appartenenze. Per otto anni, dal ’68 al ’76, è senatore socialista. La sua militanza, però, è in quello schieramento minoritario, politico e culturale, che eredita dall’azionismo tensione morale e spirito di servizio. In più ci aggiunge un’attitudine alla concretezza che non è mai pragmatismo. Gli interlocutori che compaiono in questa raccolta di lettere danno la misura di una maglia spessa di rapporti, una rete che avvolge Guido Dorso e Ferruccio Parri, Luigi Einaudi ed Emilio Sereni, Lelio Basso, e poi Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti-Bianco, Altiero Spinelli, Albert Hirschman, Arrigo Serpieri, il poeta-sindaco Rocco Scotellaro, Francesco Compagna, Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, Claudio Napoleoni, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo. E quindi Norberto Bobbio. Maestri, compagni di strada, amici: con loro intreccia un dialogo mai convenzionale, dal quale si aspetta molto, perché è il dialogo che consente di accertare la bontà di un’idea, quanto essa sia realizzabile.
Dalle lettere a Salvemini, in cui prevede la sconfitta del 18 aprile 1948 («La lotta elettorale nel Mezzogiorno è impostata sulla demagogia e l’inconsistenza più pacchiane»), fino allo sfogo amaro eppure mai disperato dei messaggi a Bobbio, pochi mesi prima di morire («Ci basta continuare a restare al servizio delle giuste cose che abbiamo servito da giovani e, ognuno a modo suo, nel corso della nostra vita»), Rossi-Doria somiglia sempre di più al ritratto che di lui disegna Carlo Levi nell’Orologio, dove compare negli abiti di Carmine Bianco: «Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l’altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in un’abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato».
Il Mezzogiorno Rossi-Doria lo batte palmo a palmo, lo osserva nelle grandi estensioni di latifondo, nelle zone aride e montuose e in quelle della "polpa", dove l’agricoltura offre speranze. Custodisce nella memoria i paesaggi, decifra quanto di naturale essi contengano e quanto invece, molto di più, siano il frutto del lavoro degli uomini. Consulta dati e statistiche e poi attinge al racconto dei contadini. Ha studiato chimica e mineralogia, entomologia e microbiologia, ma quando percorre a piedi la Calabria, la Lucania o l’Abruzzo, è anche geografo. Non si fida delle descrizioni uniformi, delle sintesi confortanti. Delle palingenesi totali. Invita a distinguere i tanti tipi di agricoltura che convivono nelle regioni del Sud. Per realtà diverse invoca politiche diverse. Non c’è problema per il quale non si sforzi di immaginare una soluzione in positivo. Pensa, a dispetto di molti, che l’emigrazione sia un fenomeno da incoraggiare, perché sfoltisce la pressione su suoli che non possono dare benessere a tanti e perché assicura competenze e rimesse in danaro. Ma poi reagisce sdegnato di fronte alle storie degli emigranti abbandonati a se stessi, senza alcuna assistenza, a cominciare dai treni che li portano al Nord come fossero bestie.
Le lettere, attentamente selezionate e curate da Bernardi, offrono tanti materiali per approfondire i suoi giudizi sulla Dc e la Chiesa, sulla riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno, sulla tutela idrogeologica dei versanti appenninici e sul nucleare (al quale si oppone fieramente). Ma molti materiali servono anche a documentare, oltre quel che già si sapeva, quanto Rossi-Doria consideri la "vita per il Sud" una vita che spazia da una dimensione locale, profondamente territoriale, fino ai più produttivi centri di ricerca europei e alle esperienze politiche e di studio che si compiono negli Stati Uniti. Il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie, una delle migliori eccellenze dell’accademia italiana, fondato a Portici nel 1959, ha il sostegno della Cassa per il Mezzogiorno, ma anche della Ford Foundation e dell’Università di California, dove Rossi-Doria ha soggiornato poco prima di dare avvio a quell’avventura. A Portici economisti, sociologi e antropologi americani avrebbero collaborato intensamente con i colleghi italiani, ha ricordato la storica Leandra D’Antone, che fu sua allieva.
L’attenzione per gli Stati Uniti è di vecchia data. «Hai ragione a pensare che Rossi-Doria sia uno degli uomini migliori dell’Italia di oggi», scrive Salvemini nel 1948 in una lettera ad Arthur McCall, alto funzionario del governo americano. «È un uomo di straordinaria intelligenza e di splendido carattere. Se si pensa che un tale uomo è stato messo fuori uso per il suo popolo con anni di prigione e di confino, si può capire quale disastro sia stato il fascismo per l’Italia». Nel 1951 Rossi-Doria, superando le diffidenze che gravano su di lui in quanto ex-comunista, compie il primo viaggio negli Usa. Studia le bonifiche e i sistemi di assistenza pubblica all’agricoltura, sia tecnica che creditizia, prodotto del New Deal rooseveltiano. Si spinge fino alla Tennessee Valley. Alcuni di quei sistemi lo convincono, altri meno (come documenta D’Antone).
Ma colpisce la sua disponibilità ad apprendere, a confrontare esperienze, rompendo lo schema bipolare imposto dalla Guerra Fredda, come segnala Bernardi in Riforme e democrazia, una biografia di Rossi-Doria uscita nel 2010. Rossi-Doria è attratto dall’America dei democratici, recepisce metodi di indagine, studia le tecniche dell’inchiesta sociale (di cui darà prova raccontando Scandale, piccolo comune del marchesato di Crotone e che gli servirà anche in un progetto abruzzese, insieme ad Angela Zucconi e Leonardo Benevolo). E quando si rilassa, eccolo abbandonarsi all’arte dell’osservazione e del resoconto narrativo: «Un mese dopo, con esperienza fatta più ricca e profonda», scrive a Bob Brand nel dicembre 1951 (la lettera è citata da Leandra D’Antone), «seduto su una bella poltrona del Mark Hopkins Hotel a San Francisco, con la città stupenda sotto gli occhi, i ponti sospesi sulla baia, gli aeroplani nel cielo, il senso dell’oceano di fronte a quello del continente immenso alle spalle, guardando il volo dei gabbiani (...) mi sentivo come un vecchio rispetto ai giovani, cercando di capire e forse incapace del tutto di farlo».
Sociologia.
Addio Franco Cassano, teorico del "pensiero meridiano"
Docente all’Università di Bari, rinnovò il dibattito sulla questione meridionale
di Redazione Agorà (Avvenire, martedì 23 febbraio 2021)
Addio al sociologo Franco Cassano, professore di sociologia della conoscenza nell’Università di Bari, autore del saggio "Il pensiero meridiano" (Laterza, 1996, tradotto in francese, inglese, tedesco e giapponese), che ha rinnovato il dibattito sulla questione meridionale. È morto all’alba a Bari all’età di 77 anni e da tempo era malato. Intellettuale di punta del "marxismo meridionale" dagli anni ’70, Cassano è stato deputato alla Camera come indipendente eletto nelle file del Partito democratico dal 2013 al 2018.
Nato ad Ancona il 3 dicembre 1943, Cassano iniziò la carriera universitaria nel 1970 come professore incaricato all’Università di Messina. Dal 1971 è assistente ordinario di filosofia del diritto all’Università di Bari dove, nel 1980, diventa professore ordinario di sociologia della conoscenza. Dal 1991 al 1993 ha diretto la "Rassegna Italiana di Sociologia". Cassano è stato fra i più giovani animatori della corrente di pensiero politico definita "école barisienne" che annoverava tra gli altri intellettuali Giuseppe Vacca e Biagio De Giovanni, che negli anni Settanta rivoluzionò il dibattito culturale all’interno del Pci, teorizzando una proposta di riforma in senso democratico e partecipativo delle forme di organizzazione politica ispirate al marxismo. -Negli anni ’80 Cassano intraprese una critica della modernità fondata sulla decostruzione dei suoi integralismi: l’etnocentrismo, il culto del progresso, la velocità, il primato del mercato.
Pur avendo esordito come autore già negli anni Settanta, tuttavia la pubblicazione che ha reso celebre Cassano in ambito accademico (e non solo) è stata "Il pensiero meridiano": in questo volume ha posto le basi teoriche di quello che è stato definito "nuovo meridionalismo", un modo diverso e inedito di guardare al Sud del mondo, che smitizza la concezione moderna di "homo currens". Con "Mal di Levante" (Laterza, 1997) e "Paeninsula" (Laterza, 1998) Cassano ha esteso la riflessione al Mezzogiorno italiano.
Tra le opere successive si ricordano "Modernizzare stanca - Perdere tempo, guadagnare tempo" (Il Mulino, 2001), "Tre modi di vedere il Sud" (Laterza, 2009), "L’umiltà del male" (Laterza, 2011). Quest’ultimo saggio ha suscitato ampio dibattito per l’esortazione alla sinistra ad abbandonare l’"aristocratismo etico" in cui si sarebbe rifugiata negli ultimi anni. Il suo volume più recente è "Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento" (Laterza, 2014).
Tra i suoi libri figurano anche "Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro" (Il Mulino, 1989); "Partita doppia. Appunti per una felicità terrestre" (Il Mulino, 1993).