«Un testo unico contro la holding Cosa Nostra»
di Enrico Fierro *
Finalmente il Parlamento italiano ha la sua Commissione antimafia. Presidente è Francesco Forgione, 46 anni, calabrese ma eletto in Sicilia, tessera di Rifondazione comunista in tasca e cornetto rosso scaramantico nascosto dentro la cravatta. Dono del sindaco di Ottaviano, Napoli, una volta paese di Raffaele Cutolo. Il particolare gadget gli ha portato fortuna: su 48 presenti ha ricevuto 32 voti, più di quelli a disposizione del solo centrosinistra. E apprezzamenti che contano.
Maria Falcone: «Ottima scelta, lo conosco da tempo e in questi anni ne ho saggiato le sue capacità di politico impegnato sul fronte antimafia. Personalità seria e preparata». Rita Borsellino: «Forgione conosce bene i vari volti della criminalità organizzata nel nostro Paese e rappresenta una garanzia per il rilancio della Commissione».
Un buon inizio, presidente.
«Le parole di Maria Falcone e Rita Borsellino, che arrivano nello stesso giorno del monito del Presidente Napolitano, rappresentano per me un carico morale molto forte».
Le mafie sono fortissime. Lo Stato appare debole.
«La sfida che le mafie lanciano alla democrazia nel suo insieme è pesantissima. Oggi le mafie sono della grandi holding finanziarie, movimentano un giro di affari che è stato valutato intorno ai 100 miliardi di euro, una grande parte di questi soldi viene investita nell’economia pulita distorcendo il mercato, minando la sua trasparenza, colpendo il sistema pulito delle imprese. E’ a questo livello che bisogna agire e subito».
Il primo impegno della sua Commissione?
«Quello di proporre in tempi rapidi al Parlamento, e in accordo con le Commissione giustizia e Affari costituzionali, un testo unico di norme antimafia, antiracket e antiusura, per dotare l’azione di contrasto di una strumentazione adeguata».
Sui beni confiscati le cose vanno male.
«Il punto è che è sbagliato considerarli come normali beni acquisiti al demanio dello Stato. Perché il loro riutilizzo porta con sé un significato sociale importante. Per queste ragioni la loro gestione deve essere assicurata da una apposita agenzia».
Napoli, la Calabria: sono queste le emergenze?
«Certo. Queste realtà saranno subito al centro dell’attenzione della Commissione, ma senza dimenticare la Sicilia e Cosa Nostra. A Palermo non scorre il sangue, ma la mafia continua la sua azione».
Lei è un garantista...
«Garantista non è una brutta parola. Rivendico il diritto a definirmi garantista e antimafioso. L’antimafia può e deve coniugarsi con una visione garantista. Il mio sostegno e quello della Commissione alla magistratura e alle forze investigative è massimo. Detto questo, io credo che il compito dell’Antimafia sia quello di contribuire a far uscire la lotta alle mafie dalla sua esclusiva dimensione giudiziaria. Penso a una antimafia sociale, a un nesso tra la trama democratica e la trama sociale, senza il quale non si prosciuga il brodo di coltura in cui le mafie si rigenerano».
Lei parla spesso di «borghesia mafiosa».
«Le mafie oggi hanno una loro forza, un livello alto di penetrazione nell’economia e nella politica perché rappresentano un vero e proprio blocco sociale. Una realtà che riesce a tenere insieme la "plebe" di cui parla Isaia Sales nel suo bel libro su Napoli e quella borghesia mafiosa spesso richiamata dal procuratore nazionale Piero Grasso. Finanzieri, burocrati, uomini politici, primari, commercialisti, che nella migliore delle ipotesi non vedono e non sanno, ma che sempre più spesso diventano complici e organici al sistema mafioso».
Il suo primo impegno?
«Andrò agli Stati generali di Libera, l’associazione antimafia di don Ciotti».
Il suo desiderio?
«Che l’Italia intera riesca di nuovo ad indignarsi contro la mafia e il malaffare. Come hanno fatto gli straordinari commercianti di Lamezia Terme, come i ragazzi di Locri, come tutti quelli che a Napoli resistono contro la camorra».
Francesco Forgione: «13 anni per riutilizzare i beni confiscati, così la lotta alla mafia è dura»
di Enrico Fierro *
Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia, è a Polistena, Calabria, alla giornata della memoria e dell’impegno organizzata da «Libera». Osserva le migliaia di facce, tantissimi giovani, che affollano le strade di questo centro nel cuore della Piana di Gioia Tauro. «E ogni volta mi meraviglio di questi ragazzi e di queste ragazze che hanno fatto dell’impegno sociale contro le mafie una loro ragione di vita. Organizzano dibattiti, muovono coscienze».
Certo, Presidente, ma dalla politica arrivano invece segnali di arretramento nella lotta alle mafie.
«È vero, ma il compito della Commissione antimafia è proprio quello di dare risposte, di creare le condizioni perché la lotta alla mafia trovi suoi momenti di concretezza. Un esempio: è scandaloso quello che accade oggi in materia di sequestro dei beni mafiosi».
Cosa succede?
«Succede che dal sequestro al riutilizzo a fini sociali del bene passano ben 13 anni, un periodo scandalosamente infinito. Come Commissione antimafia presto consegneremo al Parlamento una relazione aggiornata sui beni mafiosi, la situazione che abbiamo trovato è allarmante. Ci sono terreni sequestrati e lasciati incolti, interi palazzi di valore che cadono a pezzi, beni assegnati che i comuni non riescono a gestire per mancanza di mezzi. Così rischiamo di perdere la battaglia contro le ricchezze accumulate illecitamente».
Che fare?
«Lo Stato e il governo devono far diventare questa questione una priorità. Prodi si era impegnato a costruire una struttura autonoma in grado di occuparsi esclusivamente dei beni sottratti alle mafie, il tempo è maturo perché si proceda in questa direzione. Ma c’è un altro dato allarmante e riguarda il sistema finanziario della criminalità organizzata. Noi continuiamo a sequestrare società e capitali per milioni di euro e i processi per riciclaggio in Italia sono solo 6, c’è qualcosa che non va».
Le mafie non riciclano più?
«Affatto, il dato allarmante è che c’è scarsa collaborazione delle banche, dei notai, delle società finanziarie. Per questa ragione il 18 aprile prossimo in Commissione ascolteremo il governatore della Banca d’Italia, Draghi. Vogliamo capire quali sono i canali che permettono alle organizzazioni mafiose di movimentare i capitali, di ripulire i soldi, perché questo è un problema che incide sulla democrazia italiana».
Siamo in Calabria, Presidente, lei si guarda intorno e cosa vede?
«Vedo una realtà oppressa da quella che è certamente la mafia più potente, più ricca, ma anche la più inesplorata. I suoi intrecci con la politica e con i livelli più occulti del potere sono un problema serio per la democrazia in questa regione. La Calabria vive una crisi della politica che è trasversale, tocca tutti i partiti e gli schieramenti. Credo che ci sia poco tempo, ma la politica qui deve sottoporsi ad un radicale processo di trasformazione, deve superare una gestione clientelare che ha raggiunto livelli non più sostenibili in questa realtà dove il concetto di trasparenza e di imparzialità della pubblica amministrazione è sconosciuto».
Su tutto, però, pesa l’omicidio di Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale.
«Con quell’omicidio la ‘ndrangheta ha lanciato un messaggio fortissimo alla democrazia e alle istituzioni calabresi, e allora noi dobbiamo capire qual è il sistema di collusioni che c’è dietro quel delitto, qual è il livello di penetrazione della ’ndrangheta in settori come la sanità pubblica, capire quali rapporti sono maturati tra settori della politica e i capi di cosche importanti prima e dopo l’assassinio di Fortugno. Senza la verità su quell’omicidio sulla Calabria continuerà a gravare un’ombra pesantissima».
La vedova Fortugno, l’onorevole Laganà, si deve dimettere dalla Commissione antimafia?
«L’onorevole Laganà ha, come tutti gli altri parlamentari, il pieno diritto a partecipare alla Commissione antimafia. Mi ha già comunicato, dimostrando grande sensibilità istituzionale, che non parteciperà alle sedute in cui si parlerà dell’omicidio Fortugno e dell’inchiesta. Come Antimafia stiamo già lavorando alla definizione di una relazione sulla ’ndrangheta. Abbiamo acquisito migliaia di documenti, stiamo già facendo una prima istruttoria, poi andremo in Calabria. Sarà una relazione seria, sottratta alle speculazioni politiche, senza riguardi per nessuno».
Mafia e politica, a maggio si vota per comuni e province, una proposta ai partiti? «La mia idea, condivisa dall’intera Commissione, è che chi è rinviato a giudizio per associazione mafiosa, estorsione, racket, riciclaggio, non venga candidato».
* l’Unità, Pubblicato il: 21.03.07, Modificato il: 21.03.07 alle ore 8.34
Nebbia sull’Antimafia
di Nando Dalla Chiesa *
(l’Unità, 1 dicembre 2006) - Commissione Antimafia morta o viva? Personalmente ho espresso su queste pagine (e non certo con piacere) la convinzione che le sia stato assestato il colpo di grazia con l’iscrizione a suoi membri effettivi di Alfredo Vito e di Paolo Cirino Pomicino, entrambi condannati in via definitiva per reati contro la pubblica amministrazione. Ed entrambi simboli di un’idea dei rapporti tra legalità e politica che li ha fatti entrare nei libri di storia (vedi Francesco Barbagallo, Napoli fine Novecento, Einaudi). Ho argomentato le ragioni di questa mia opinione. Che poteva essere confutata in molti modi. E tuttavia il modo in cui l’hanno fatto il neopresidente della Commissione Francesco Forgione (intervista al "Corriere" del 23 novembre) e il suo compagno di partito Giusto Catania, europarlamentare di Rifondazione (articolo sull’ "Unità" del 27 novembre) è francamente sconcertante. E fa pensare. E molto.
Riassumo. Io ho posto solo il problema della Commissione, senza fare alcun riferimento al suo nuovo presidente, e senza sognarmi di dire una sola parola nei suoi confronti. Ho offerto valutazioni oggettive. Soprattutto queste: il prestigio della Commissione; la sua credibilità presso i rappresentanti dello Stato che saranno chiamati a raccontare di inchieste ancora in corso o di verità da secretare (chi sarà davvero disposto a dire alla Commissione tutto quello che sa?). Questo giudizio può indirettamente riflettersi sul lavoro di Forgione, mio amico da anni? Sì. Ma, come dicevano i latini, "amicus Plato sed magis amica veritas". Ma soprattutto esso non giustifica la reazione di Forgione e Catania. Che parlano come se fosse stato attaccato il presidente dell’Antimafia. Ossia fingendo che sia accaduto qualcosa che non è accaduto. E da lì partendo per mettere a segno degli affondi altrettanto immaginari. Che cosa dice Forgione? Provo a sintetizzare, spero con il dovuto scrupolo. 1) Qui sta tornando la stagione dei veleni. 2) La morte dell’Antimafia viene dichiarata proprio da chi ha strillato perché si rifacesse la Commissione nel più breve tempo possibile. 3) Anche Dalla Chiesa è stato in Commissione con dei condannati; eppure a suo tempo non ha fiatato. 4) E’ chiusa la stagione dei giustizialismi, la mafia si combatte politicamente.
A lui si è aggiunto Catania. Che, sempre fingendo che sia stato Forgione l’oggetto della critica, ha aggiunto: 5) non è vero che il movimento antimafia è finito con il rifiuto di votare il celebre emendamento Licandro-Napoli (quello che tendeva a escludere per legge dalla Commissione chi avesse avuto relazioni con la mafia); 6) nessuno può impedire che Cirino Pomicino e Vito partecipino alla commissione antimafia; 7) nessuno si è indignato a suo tempo per la candidatura di Cirino Pomicino e Vito, tranne Forgione e Bertinotti, protagonisti di un convegno in cui il procuratore Grasso (Grasso, non altri; nda) chiedeva di escludere dalle liste i condannati che avessero rapporti con la mafia. Per ribadire poi anche lui, Catania, che la lotta alla mafia non si può fare solo nei tribunali. E che è arrivata l’ora di chiamare in causa la politica. Infine l’eurodeputato ha lanciato alla sinistra l’accusa di amnesia, chiudendo con la sentenza del Perfetto Garantista. Leggere bene: “E’ strano che solo ora si decreti la fine dell’antimafia, proprio adesso che una delle poche voci udite in mezzo al deserto di questi anni è diventato Presidente della Commissione Antimafia. La coincidenza è un po’ sospetta e il tono del dibattito di questi giorni evoca la stagione in cui si polemizzava con i professionisti dell’antimafia”. Alla faccia dei “veleni” evocati da Forgione...
Bene. Ora: che c’entra tutto questo con gli argomenti che ho sollevato? Nulla, proprio nulla. Nessuno mi sta dimostrando che ora la Commissione ha un prestigio che le consentirà di ottenere ciò per cui è stata istituita come Commissione d’inchiesta con gli stessi poteri della magistratura: ossia informazioni riservate, segrete (giudiziarie e non) da parte di chi farà piuttosto qualche responsabile valutazione su come proteggere le sue inchieste (e in qualche caso la sua persona). La reazione di Forgione e Catania è pura cortina fumogena. Che non depone per lo spirito di verità che aleggia sulla Commissione. E spiego perché. 1) Non ho mai chiesto la ricostruzione a tambur battente della Commissione. Invitato a esprimermi sulla sua utilità, ho scritto piuttosto un editoriale su “Europa” per dire che era il caso di dare al parlamento un’ultima chance. Senza alcun entusiasmo. Esattamente perché ho visto di persona nell’ultima legislatura gli uomini in divisa farsi prudenti di fronte a una commissione poco credibile e che strumentalizza la sua funzione. La politica (non la giustizia) ha scelto ora di renderla ancora meno credibile (per le presenze, non per la presidenza). E dunque confermo quello che dissi proprio in commissione, in una quasi drammatica discussione sulla Relazione finale nel gennaio del 2006: questa Commissione sta diventando inutile, perfino dannosa; se continua così farà la fine della Commissione Stragi. Giusta o sbagliata che fosse la valutazione, essa sta scritta negli atti parlamentari. Altro che incoerenza...
2) Quanto alla teoria che nessuno abbia detto niente, che nessuno abbia fatto niente, che nessuno si sia scandalizzato e dunque abbia diritto di parola di fronte a Cirino Pomicino e Vito nominati in Antimafia dai presidenti delle Camere, ricordo la proposta di legge che la Margherita presentò al Senato la scorsa legislatura per evitare la candidatura dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione (semplice applicazione al parlamento della legge già esistente per gli enti locali). Legge che non fu semplicemente presentata e lasciata nel cassetto; ma fu portata al voto, perdendo. Ora chi è in parlamento la ripresenti, ci sono i numeri per vincere.
Il movimento antimafia - che non capisco perché secondo Giusto Catania dovrebbe mai coincidere con una Commissione siffatta - non morirà comunque per questo. Anche perché, se qualcuno non se ne è accorto o soffre di amnesia profonda, è da almeno venticinque anni che la lotta alla mafia viene fatta pure nelle scuole, nei quartieri, nelle parrocchie, nella stampa alternativa, attraverso il sindacato, nelle università, con i circoli e le associazioni. E’ arrivato il momento di dirlo: questa pantomima per cui ogni volta c’è il politico di turno che si staglia davanti a chi denuncia le debolezze della politica e gli predica che la lotta dev’essere non giudiziaria ma politica (che è esattamente quello che si chiede!), incomincia a diventare un piccolo sconcio del nostro spirito pubblico. Sui “veleni” non rispondo nemmeno. Nando dalla Chiesa come Pio Pompa o come il celebre “corvo” di Palermo è roba da lasciare a futura memoria.
A proposito di amnesie voglio invece ricordare un episodio del 1973. E tirare fuori dagli archivi il caso Matta. Giovanni Matta, democristiano, ex assessore all’urbanistica e ai lavori pubblici di Palermo, simboleggiava un po’ il parlamentare che non doveva entrare in Commissione Antimafia. Invece ci entrò. Era assai chiacchierato, a suo carico c’era anche un rapporto dell’allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Pio La Torre, benché Matta fosse incensurato, ne chiese l’allontanamento. Matta chiese la solidarietà della Dc. Ma Pio La Torre insisté, con la sua durezza cristallina. Alla fine, data la valenza simbolica del caso, tutti i membri della Commissione (tranne i missini) diedero le dimissioni. Compreso il presidente Luigi Carraro, che era dello stesso partito di Matta. E la commissione venne rifatta. E questa volta Matta non c’era più. Così era la Commissione allora, così gli uomini. E davanti a quella Commissione (che magari, è vero, non aveva il coraggio di scrivere tutto quello che sapeva) gli ufficiali dei carabinieri e i commissari di polizia si sentivano incoraggiati a raccontare anche le loro “impressioni”. Trent’anni fa, prima delle stragi, prima di Falcone e Borsellino. Santa memoria.
http://www.nandodallachiesa.it/public/index.php?option=com_content&task=view&id=465&Itemid=123, venerdì 01 dicembre 2006