La povertà della nazione
di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 24 maggio 2007)
Proprio alla vigilia dell’assemblea di Confindustria, sono arrivate, con il rapporto dell’Istat-Istituto nazionale di statistica, le cifre sullo stato di salute dell’Italia e sulla distribuzione dei redditi. Il confronto non potrebbe essere più aspro. Gli industriali, oggi, il loro giorno verificheranno la ricchezza della nazione e se ne attribuiranno i meriti. Ieri al contrario è emersa con nettezza la povertà della nazione: come se fosse Alfred Marshall a parlare, e non Adamo Smith.
La povertà della nazione ha colpito perfino l’attenzione del vescovo Angelo Bagnasco, il presidente della Cei. La cattiva distribuzione del reddito è in aumento in Italia, quale che sia il governo. Non sono soltanto le persone rimaste indietro nella scala sociale a soffrirne, in famiglia o prese una per una. E’ un fenomeno di massa che coinvolge milioni e milioni di persone: «il 28,9 per cento delle famiglie ha... specificato di non aver potuto far fronte a una spesa imprevista di importo relativamente modesto (600 euro)». Così l’Istat, anche se non è facile dimenticare che un quarto dei pensionati riceve meno di 500 euro mensili e il 31 per cento tra 500 e 1.000 euro. Per tutti, 600 euro sono una somma importante. Per i primi, anziché di un «importo relativamente modesto», si tratta di una somma irraggiungibile, il risultato di un terno al lotto. Ed è un avverbio relativamente che suggerisce molte riflessioni sulla distribuzione dei redditi nel nostro paese e sulla percezione che se ne ha, perfino in un ambiente attento e colto come quello dell’Istat.
Sono dati che vengono discussi all’interno, nel manifesto; qui vogliamo aggiungere solo un altro paio di notazioni sui redditi: sui ricchi e sui poveri del nostro paese; anche se sarà «nostro» a pieno titolo solo per alcuni; e «loro» per tutti gli altri. «Le famiglie appartenenti al 20 per cento più povero della distribuzione percepiscono soltanto il 7,8 per cento del reddito totale, mentre la quota del quinto più ricco risulta cinque volte maggiore (39,1 per cento)». E poi: nel Nord-est una persona con disabilità riceve un sostegno che grava sul pubblico - stato, comune - per 4.182 euro in media. La media per lo stesso sostegno nel sud è di 448 euro.
Ma torniamo al 20 per cento delle famiglie più ricche, quelle che godono di redditi doppi di tutto l’insieme delle famiglie; e redditi cinque volte maggiori di quelli del 20 per cento delle famiglie meno provviste. Anche all’interno del campo dei ricchi vi sono notevoli differenze; anzi, vi sono di solito barriere tra chi guadagna un milione e chi solo centomila. Alcuni partiti hanno tentato in passato, senza successo, di organizzare i secondi contro i primi. Adesso, se accettassero, tutti gli industriali andrebbero bene, per il nuovo partito che nasce.
Oggi, in Confindustria, luogo assai democratico, le barriere saranno abbassate. Tutti in coro gli industriali, guidati dai più ricchi di loro, chiederanno ai ministri, presenti in massa, notizie sul cuneo fiscale. I ministri, rassegnati, prometteranno . Qualcuno, nel «nostro» paese, parlerà ancora di come ridurre il cuneo sociale?
La politica del Presidente
di Galapagos (il manifesto, 25 maggio 2007)
Stefano ha una storia normale: 36 anni, un lavoro a tempo indeterminato, guadagna - da contratto - appena 900 euro al mese. Vive nella periferia romana con il padre. Vorrebbe una sua casa, una sua famiglia. Ma con 900 euro al mese non è possibile. Per cercare di rompere l’accerchiamento della non-vita, Stefano sta pensando a un doppio lavoro. Magari in nero per portare a casa e per la casa un po’ più di soldi. Ma Stefano non è una eccezione. La sua «normalità» chiama in causa quello che tutti ormai chiamano «crisi di credibilità della politica».
Stefano è una vittima della globalizzazione, che ha spinto i capitalismi a ricreare una sorta di «esercito di riserva» composto dai precari che debbono accettare una retribuzione inadeguata a vivere: il mercato non offre altro. E anche questo chiama in causa l’inefficacia della politica.
Ieri Montezemolo ne ha offerto la sua versione accusando la politica di essere inadeguata ai compiti della globalizzazione. Montezemolo è passato sopra ai dati sulla competitività dell’industria italiana, diffusi 24 ore prima dall’Istat, che mettono sotto accusa le aziende, la loro assenza in settori produttivi fondamentali, il loro modo di investire che privilegia il processo, anziché il prodotto. Insomma, molte industrie dovrebbero piangere per le loro colpe.
Montezemolo si è proposto profeta di una «nuova» politica, risolutiva di tutte le crisi di rappresentanza. Con domande retoriche ha spiegato alla platea che non esistono più confini tra destra e sinistra. L’ideologia è morta, insomma, e va sostituita con un modello buonista e efficiente dove stato e governo debbono essere funzionali all’impresa. L’equità, sulla base di questo ragionamento, è l’ultima delle preocupazioni.
L’accusa di Montezemolo alla politica ha solo l’obiettivo di far cadere su altri le responsabilità. Però nel ragionamento del presidente degli industriali esistono elementi che non possono essere trascurati. Insomma, è vero che lo stato e i partiti sono carenti, ma lo sono non nell’ottica di Montezemolo che farebbe a meno dello stato per delegare tutto (tutto ciò che non costa) alle imprese e favorire così i processi di globalizzazione. La Confindustria di Montezemolo mira a farsi stato e governo: a imporre le proprie idee sui processi non solo di produzione, ma sulla stesa democrazia.
Certo, la politica è fragile, confusa, e un po’ corrotta, ma la verità è un’altra: l’Italia manca di una presenza autorevole del «pubblico» e delle scelte di politica economica che non possono essere delegate - lo diceva anche Keynes - ai privati. In questo non c’è nostalgia dello statalismo, ma la richiesta di soggetti pubblici - anche istituzionali - che ascoltino e cerchino di soddisfare le necessità di chi non vive, ma sopravvive. Non riducendo l’attenzione a carità pubblica. Per dirla in altro modo, occorre tornare ai diritti. Al diritto alla casa, alla salute, al lavoro, a salari e redditi adeguati anche per chi perde il lavoro. Sarebbe un modo per capire se la politica ha ancora un futuro.
PER UNA CAMPAGNA DI VERITA’ - VIVA L’ITALIA !!!
Della casa dei nostri padri e delle nostre madri hanno fatto una spelonca di ladri!!!
di Federico La Sala *
Chi governa oggi la Chiesa Cattolica e chi governa oggi l’Italia, alleati, stanno mettendo sempre più chiaramente in evidenza il senso della catastrofe verso cui ci avviamo e ci stanno portando, sia sul piano della ‘gestione’ del messaggio evangelico sia della ‘gestione’ del messaggio costituzionale della repubblica italiana. La gerarchia della Chiesa Cattolica sta sempre più facendosi scudo e “partito” della cattolicità (- dell’universalità) della sua stessa ragione di essere e chi oggi governa l’Italia sta sempre e ancor più facendo scudo e “partito” dell’Italia.... e, insieme, stanno portando tutta la comunità della Chiesa e tutta la società dello Stato ad una catastrofe senza più ritorno!!! La volontà e l’abuso del loro potere sta continuando sempre più a devastare coscienze e società - civile e religiosa, e non solo le chiese sono diventate addirittura cimiteri di banditi e mafiosi ma anche il parlamento (quasi e ormai) un covo di ladri!!! Il partito di “forza Chiesa” e il partito “forza Italia”.... contro tutti e tutte!!! Ma dov’è la Chiesa e dove l’Italia? E chi lo sa?! Per il momento .... i capi dei due “partiti” gozzovigliano e si divertono alla grande, nella Casa dei nostri padri e delle nostre madri !!! Meno male che, al di sopra di tutto, brilla la luce del Quirinale, del nostro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. VIVA LA COSTITUZIONE !!! VIVA L’ITALIA !!!
* IL DIALOGO, Lunedì, 26 settembre 2005
IL "RISULTATO": UNA PENISOLA AVVELENATA E DEVASTATA - IN TUTTI I SENSI!!!
Sul tema, nel sito, si cfr. anche:
La sinistra nella crisi della politica
di Ezio Mauro (la Repubblica, 23 maggio 2007
Ci sono due strade per cercare di uscire dalla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. La prima, è quella di denunciare i ritardi e gli abusi della classe dirigente - tutta - lavorando per una riforma del sistema che è necessaria e urgente, ma che forse è ancora in tempo per salvare le istituzioni dal collasso e per evitare che l’antipolitica diventi il sentimento prevalente del Paese. La seconda, è quella di puntare direttamente sul collasso del sistema, vellicando l’antipolitica per arrivare se non a una seconda ribellione popolare in quindici anni almeno a una delegittimazione dei poteri costituiti: in modo da aprire la strada agli "ereditieri", quel pezzo di classe dirigente che non sa fare establishment ma sa proteggere molto bene la sua dubbia imprenditorialità e la sua scarsa responsabilità, sperando addirittura di ereditare il Paese. Come se in una democrazia, anche malata, la cosa pubblica fosse scalabile al pari di un’azienda in crisi, trasferendo in politica il network italiano delle scatole cinesi che consente di comandare senza essersi guadagnati il comando, senza aver costruito o almeno riammodernato qualcosa - come un partito, un movimento, un sistema culturale - che parla ai cittadini e raccoglie il loro consenso semplicemente perché "poggia su una intuizione del mondo".
Bisogna dire che i partiti e i loro leader fanno di tutto per deludere chi crede nella prima strada, e aiutano chi punta sulla seconda. Solo la cecità e la sordità italiana consentono di dire che l’allarme nasce oggi, all’improvviso. In realtà, prima di Natale il Presidente della Repubblica Napolitano (destinato ad avere un ruolo come quello di Pertini, denunciando la crisi del mondo da cui proviene) aveva parlato chiaro e forte, lanciando un vero e proprio allarme per la "tenuta" della democrazia, lamentando il "distacco" tra politica, istituzioni e cittadini, ammonendo tutte le parti politiche, perché nessuna si illudesse di "trarne vantaggio". Cosa ci voleva di più? Siamo da almeno cinque mesi davanti al rischio conclamato di una regressione democratica, con lo Stato che ritorna Palazzo, separato, trent’anni dopo.
È chiaro che la sinistra, guidando il governo e il Paese, ha le responsabilità maggiori di questo disincanto democratico, ed è naturale che ne subisca le conseguenze maggiori, in termini di consenso. Ma è altrettanto chiaro - e ripeto quel che ho scritto altre volte - che c’è qualcosa di più generale, di sistemico, che sta intaccando le istituzioni e corrode lo stesso discorso pubblico senza distinzioni, perché salta ogni intermediazione riconosciuta e accettata, sia di tipo organizzativo che di tipo culturale, dunque è la doppia anima della politica che viene colpita. Tutta la politica.
Quando il sistema dei partiti fa lievitare in modo indecente i costi della politica e si trasforma in "classe" privilegiata, autoprotetta e onnipotente, controllando gli accessi, premiando l’appartenenza, puntando sulla cooptazione dei fedeli e dei simili, lottizzando ogni spazio pubblico con l’umiliazione del merito, corrodendo così la stessa efficienza della macchina statale, allora diventa impossibile fare distinzioni tra destra e sinistra. Quando a tutto questo si aggiunge da un lato l’esercizio disinvolto e automatico del denaro pubblico per mantenere e far crescere questo sistema autoreferenziale e dall’altro lato l’esibizione pubblica dei privilegi, diventa difficile non parlare di "ceto separato", un tutt’uno dove le differenze culturali e politiche che - per fortuna - dividono e connotano i due schieramenti di destra e sinistra finiscono per essere travolti dal sentimento indistinto di rifiuto e di lontananza che cresce tra i cittadini.
Naturalmente l’anima originaria di Berlusconi, il suo istinto mimetico del senso comune dominante e il carattere della destra italiana possono portarlo a fingere di interpretare il risentimento democratico come una sua possibile politica, perché in realtà l’antipolitica è una forma primaria di espressione del populismo, che se ne giova mentre la nutre. La sinistra, semplicemente, non può. Questo sentimento di progressiva perdita della cittadinanza - perché di questo si tratta - la colpisce al cuore, distrugge il canale di dialogo e di incontro con la sua gente perché fa venir meno una piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento: come se con l’agibilità dello spazio politico pubblico venisse a mancare un territorio in cui muoversi da cittadini consapevoli dell’ambito di libertà nostro e altrui, del portato di storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri doveri. In questo senso, è drammatico il vuoto di ogni proposta di cambiamento nel costume e nel metodo politico (la rinuncia alla lottizzazione, la riduzione drastica del numero dei ministri, il rifiuto dei privilegi, la riorganizzazione del tempo di lavoro del parlamento) da parte del centrosinistra tornato al governo, dopo il quinquennio berlusconiano. La sinistra radicale, mentre vuole cambiare il mondo vuole intanto cambiare anche il cda delle Ferrovie, per avere un posto. La sinistra riformista, non vede la riforma più urgente: e che credito riformatore può avere - si è chiesto qui Adriano Sofri - una politica che non mostri di saper riformare se stessa?
Un ritardo reso tragico dal paragone con i tempi del nuovo presidente francese Sarkozy, che in due giorni ha fatto il governo, lo ha ridotto ai minimi termini, lo ha rinnovato per metà con ministri-donna. Un ritardo reso amaro dall’abbandono di Blair, che lascia il governo inglese all’età in cui da noi normalmente vi ci si affaccia e lo fa nella convinzione di poter avere una "second life" altrettanto piena e soddisfacente, cancellando lo stereotipo della politica non come professione, ma addirittura come vitalizio. Sia in Francia che in Gran Bretagna, nei discorsi di addio e di investitura la retorica dei leader usa la coppia concettuale formata da "io" e "voi", due parole che trasmettono molto semplicemente l’idea del vincolo di mandato e anche l’idea del vecchio partito come animale politico vivo e vitale, soggetto politico obbligatorio di riferimento, anche per leader carismatici e decisionisti.
Da noi, i partiti sono nati tutti mercoledì scorso, non hanno storia, tradizione, valori consolidati, una cultura di riferimento: tutte quelle cose che fanno muovere e garrire le bandiere, che infatti non ci sono, o restano ammosciate. Anche qui, ancora una volta, la nuova destra berlusconiana prende a prestito i valori e i precetti nel deposito di tradizione millenaria della Chiesa, mentre riempie il vuoto culturale con un carisma vagamente paganeggiante e idolatrico che finge di restituire la politica ai cittadini trasformati in folla mostrando il corpo mistico del leader: mentre in realtà sottrae loro ogni partecipazione reale e per sempre, ipotizzando addirittura una successione in forma dinastica, capricciosa e incontrollabile, comunque autocratica.
Ma la sinistra, quanto può resistere sul mercato politico senza una rifondazione di pensiero, senza idee-forti che diano sostanza alla sua politica, la pre-determinino, e parlino della vita e della morte, dei grandi temi, al cittadino? La parte radicale ha ancora il comunismo nelle sue bandiere, e finché dura quel simbolo sconfitto dalla tragedia che ha suscitato, ogni altra idea non è accostabile. I Ds sembrano credere che diventare riformisti significhi annacquare ogni mattina la propria identità nel mare turbolento del senso comune altrui. Come se gli strumenti propri di una sinistra riformatrice, serena e radicale insieme, non fossero oggi probabilmente i più adatti a governare le contraddizioni della fase: basterebbe saperlo, e usarli, a partire dalla laicità.
Davanti a questi ritardi conclamati, al camaleontismo della destra, alle cifre del disincanto svelate da Ilvo Diamanti, la sinistra ha tuttavia una carta, che è il Partito democratico. Può banalizzarla, come sta facendo, giocandola tutta dentro il mondo chiuso degli apparati, facendo di questo partito l’ultima della creature politiche del Novecento, e allora si misurerà soprattutto il ritardo, l’affanno, il costo tardivo dell’operazione. Oppure, può farne il primo soggetto diverso del nuovo secolo, per una nuova politica, contagiando la "cosa" che dovrà nascere nella sinistra radicale, e forse persino il futuro partito conservatore, a destra. Un partito, ha scritto Mario Pirani, forte perché leggero, potente in quanto disarmato: e soprattutto, scalabile, infiltrabile, contendibile. Da qui non si scappa: perché la riforma della politica parte da qui, se si vuol fare sul serio.
Altrimenti, si inseguirà il fastidio popolare crescente, da gregari spaventati, sperando che non si condensi in quell’antipolitica in cui si entra tutti insieme, ma si esce soltanto a destra. Sperando in più di evitare un nuovo collasso e una nuova supplenza, anche perché non sempre il supplente si chiama Ciampi. "Benissimo il Governatore - diceva allora l’avvocato Agnelli - ma ricordiamoci che dopo di lui c’è solo un generale o un cardinale". I generali non so, ma i cardinali sarebbero anche pronti. Proviamo a dire che non è il caso, perché non ce ne sarà bisogno.
Il suicidio della politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 27/5/2007)
Invece di farsi mille domande molto sospettose sulle vere intenzioni di Luca di Montezemolo, converrebbe ascoltare quel che egli ha detto sulla politica italiana: una politica «debole», «litigiosa» sempre tesa a «galleggiare in attesa della consultazione elettorale successiva». Chiunque rilegga il discorso che il presidente della Confindustria ha pronunciato il 24 maggio sa che questi mali non sono immaginari ma molto reali e comunque percepiti diffusamente come reali. Sa che la politica in Italia non riesce a decidere, bloccata com’è da veti sempre più fitti e da quelle che Ilvo Diamanti chiama minoranze dominanti. Nel loro libro su La Casta (Rizzoli) Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sullo Stato disastrato e parlano di caste grandi, piccole e piccolissime: tutte intoccabili.
Persino il singolo parlamentare tende di questi tempi a divenire casta: il veto d’un singolo può paralizzare ogni cosa. Chiudersi a questo monito e considerarlo addirittura un’usurpazione non riscatta la politica ma conferma, semplicemente, le accuse che le vengono rivolte. Se è veramente forte, il politico non s’indigna se criticato. Se ha ambizione e anche attitudine a guidare con autorità il proprio campo e il proprio paese accoglie tutti i consigli che possano irrobustire quest’autorevolezza. Se si chiude vuol dire che ha paura, che non si ritiene all’altezza.
Che è animato da una sorta di xenofobia, che diffida d’ogni voce straniera che minaccia la sua identità e il suo territorio. Il politico debole non ha torto a prendersela con le élite che vedono i difetti altrui e non i propri,madebole resta pur sempre se si fa sommergere da simili fobie. Alla fine avrà paura del voto stesso, come nei giorni che hanno preceduto le elezioni di questa domenica. Un’elezione non indifferente ma neppure decisiva, perché i governi solidi sopravvivono ai voti locali. Tremare davanti alle amministrative è come tremare davanti a Montezemolo o a un articolo di Mario Monti o alle interferenze della Chiesa, della magistratura, delle minoranze dominanti. Vuol dire che i poteri forti son divenuti talmente numerosi che un vero potere al centro non c’è più.
Ogni voto e giudizio contrario è ritenuto destabilizzante, ed è vissuto come un’usurpazione e un’indebita incursione. Naturalmente queste incursioni corrono il rischio di sottovalutare le servitù della politica. Chi critica è di enorme aiuto quando fa sentire la propria voce (quella di Montezemolo è d’altronde severissima con il «cinismo dell’antipolitica » e con la tentazione del Paese a «far da sé nella convinzione che lo Stato assente sia preferibile allo Stato considerato invadente») ma è di aiuto davvero pratico se scorge le differenze fra il proprio statuto e quello del politico, se riconosce i limiti propri oltre a quelli altrui: lui, il critico non impegnato nell’azione, non è stato messo alla prova, non si è misurato con le difficoltà della politica, del consenso, del tribunale elettorale che un giorno ti premia e il giorno dopo può licenziarti.
I rappresentanti delle élite che ammoniscono dall’esterno hanno un privilegio che il politico non possiede: godono di immunità, sono immortali mentre il politico è, per definizione, mortale. Berlusconi non ha torto quando ricorda che il difficile è ottenere il 51 per cento. Così Prodi, quando rammenta che entrare in politica non è una discesamauna salita fatta di «fatica, sudore, mediazioni, consenso, voti per raggiungere risultati». Non ha torto neppure il sindacalista Bonanni, quando sospetta Confindustria di scaricare sui governanti incapacità che son di industriali e sindacati. Ma questo non permette di liquidare il monito di Montezemolo, soprattutto quando questi fa lo sforzo, esplicito, di «parlare prima come cittadino e poi come imprenditore». Se c’è oggi una forza che difende il particolare più dell’interesse generale, che scarica sulla politica incapacità che son proprie, che adotta il comportamento denunciato da Bonanni («Lui sembra che scenda dal pero», dice di Montezemolo), questi è piuttosto il sindacato.
Domandarsi quali siano le carriere che questi critici vogliono intraprendere interessa forse gli esperti in retroscene ma vuol dire rinunciare a correggere e migliorare la politica. Vuol dire rimanere nella melma in cui essa s’è impantanata dai tempi di Tangentopoli, e cercare una scusa per non agire. Vuol dire non chiedersi quel che spinge queste persone critiche e quel che le rende popolari. Se fanno tanta impressione, se ogni giorno si parla di governi e leader alternativi, vuol dire che c’è, in giro, un’immensa sete di guide, capaci di decidere presto e imperiosamente. Negli anni di Weimar, dunque di una democrazia debole e litigiosa, il filosofo Max Scheler si soffermò su questo punto, considerandolo il male più grande. Vide che s’era creato un tragico distacco fra spirito e potere, e parlò di una «nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall).
I Führer sarebbero alla fine venuti, sotto forma di anti-politica e anti-democrazia, perché la politica dei partiti non seppe dissetare quegli assetati di leadership. Scheler scriveva su élite e leadership poco dopo un saggio fondamentale della sociologia, il Suicidio scritto nel 1897 da Emile Durkheim, in cui son descritte le società che perdono le regole, vedono frantumarsi i legami sociali, precipitano nell’assenza di leggi che è l’anomia. Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato. Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia.
Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar. Quando vengono meno regole e leggi i desideri diventano illimitati nel nostro caso i desideri dei partiticasta che difendono i loro elettorati e altrettanto illimitata è l’insaziabilità, la brama che non si sfama.
Il «male dell’infinito» sommerge tutti. Tanto più gravi sono le delusioni, quando vien fuori che i mezzi e le risorse realmente a disposizione finanziarie e non non bastano ai propri fini. Le forze che oggi governano sembrano afflitte da questa insaziabilità, che invece d’ordinare il mondo lo sbriciola (lo specchio rotto di cui parla Eugenio Scalfari): «una sete inestinguibile » cattura i partiti, e nessuno sa regolare le proprie passioni e capire il vantaggio d’avere un limite. In Durkheim è questo il suicidio anòmico, nella società priva di autorità rispettate e temute. A questo bivio è la politica. Le tante critiche che le vengono rivolte non sono sempre giuste, abbiamo visto. La crisi della politica non cade dal cielo e al caos contribuiscono in tanti: imprenditori, sindacati, caste varie comprese quella dell’informazione. I cittadini non hanno sfiducia solo nel Parlamento, nel governo, nell’opposizione. Diffidano anche delle imprese, della Chiesa che sequestra la politica, perfino di se stessi. I politici usano difendersi nascondendosi dietro la complessità del proprio compito, delle proprie pene.
Ma la complessità è una via di fuga.Èuna terribile tentazione di cui urge liberarsi. Chi dice che «tutto è molto più complicato» già s’è arreso. La semplicità è la via, e tutto ruota attorno a una cosa semplice: in una comunità organizzata ci vuole la dignità dell’esercizio del governare, del reggere il timone. L’Italia è un Paese che dal 1992 ha distrutto la politica e che non ne può più d’averla distrutta. Tutti invocano il suo ritorno: sotto forma di capacità rinnovata di guida, sotto forma di un rapporto meno nevrotico col tempo (è un altro punto sollevato da Montezemolo: «Fare oggi scelte coraggiose, i cui risultati si vedranno fra otto o dieci anni, significa avere senso dello Stato»). Sotto forma di misure forti, che ristabiliscano la maestà della legge e l’idea stessa della maestà (ci deve pur essere un modo per rimediare d’imperio al disastro dei rifiuti in Campania).
La politica deve fare il primo passo, dice l’ex Presidente Scalfaro in un’intervista a Repubblica: «Ma non a partire dalle prossime elezioni: a partire da domani». Anzi, da oggi.
Il day after di Luca Cordero di Montezemolo: è mancata un po’ di autocritica
"Voglio dar voce a una borghesia che sta crescendo, Bersani mi ha capito"
"In politica non entrerò mai
ho parlato per il bene del Paese"
di MASSIMO GIANNINI *
"SE VUOLE glielo metto anche per iscritto: non entro e non entrerò mai in politica...". Dunque, nessuno ha capito niente. Non c’è un usurpatore in agguato, che minaccia il dissestato Palazzo romano. Non c’è un nemico alle porte, che attenta all’affannato bipolarismo italiano. Il giorno dopo il lancio del suo "manifesto" all’assemblea di Confindustria, Luca di Montezemolo si gode l’indiscutibile successo dell’operazione. "Non può immaginare quante telefonate e mail ho ricevuto. E quanta gente mi ha fermato, per farmi i complimenti e dirmi "bravo, ha fatto bene a dire quelle cose"...".
Comunque la si pensi, non lo si può negare: l’"agenda Montezemolo" ha fatto notizia. Ha infiammato i cuori della sua base associativa. ha turbato i sonni del ceto politico. In tutti e due i casi, la missione è compiuta. Ma ora che c’è modo di ragionare un po’ più a mente fredda, il leader degli industriali italiani, mentre in pubblico gioca da buon ferrarista sul filo dell’ambiguità, dicendo "non scendo in pista, neanche al Gran Premio di Montecarlo", in privato mette in chiaro il senso del suo discorso all’Auditorium: "Ne ho sentite e ne ho lette di tutti i colori, e l’avevo messo nel conto. Ma voglio che sia chiara una cosa: io ho parlato prima da presidente di Confindustria, e poi da cittadino che ha a cuore i destini del suo Paese. Tutto qui: non avevo e non ho secondi fini...".
Montezemolo risponde così, ai tanti capi o sottocapi di partito che ieri l’hanno criticato, accusandolo di invasione di campo. Prima di tutto a Prodi, che se l’è legata al dito, sibilando quel suo livido "la relazione si commenta da sola...". "Forse - riflette ora il leader degli imprenditori dopo aver visitato lo stand Fiat alla Fiera di Bologna - potevo fare un’autocritica in più sul sistema industriale, questo è vero. Ma se parliamo di dissesti come quello di Parmalat, allora il vero tema riguarda più le banche, che non il tessuto produttivo. E poi, in ogni caso, io avevo l’esigenza di ridare un messaggio di coesione ai miei associati. Dovevo ridar loro l’orgoglio di sentirsi classe dirigente, e di rappresentare una categoria che in questi anni non è stata chiusa nei salotti, come pensa qualcuno, ma si è rimboccata le maniche e ha lavorato sodo per far ripartire la crescita in questo Paese".
Tutto merito dell’impresa, se la nave Italia si è rimessa a navigare. E il governo unionista del Professore? Possibile che neanche il risanamento dei conti pubblici gli si possa riconoscere? Montezemolo non lo dice, ma sondando gli umori di Viale dell’Astronomia si scopre che questo "denegato riconoscimento" non nasce da un dispetto, ma da un dubbio: Confindustria ritiene che quello realizzato dal centrosinistra sia solo un "risanamento contabile", che riflette il riequilibrio dei saldi, ma poggia su un artificio aritmetico e politico: poiché manca il coraggio di abbattere gli aumenti forsennati della spesa pubblica, la riduzione del deficit è garantita solo dall’incremento più che proporzionale della pressione fiscale. Questo non è un risanamento "strutturale", ma tutt’al più un riequilibrio "congiunturale" garantito solo a suon di tasse.
Sul fronte opposto, c’è poi da fronteggiare la critica rilanciata ancora ieri da Berlusconi. "Con cravatta o senza? Senza, in democrazia decide il popolo, non la Confindustria...". Il Cavaliere descamisado riscalda così i cuori di Olbia, come il Peron del 1951 accendeva le speranze di Buenos Aires. Se dunque il paradigma è una cravatta, Montezemolo adesso se la tiene ben stretta intorno al collo, per marcare la sua differenza dall’ircocervo populista di Arcore: "E non è a me che devono spiegare la diversità tra l’essere imprenditore e fare il leader di partito. Quella differenza la conosco bene, io...". E a quella differenza dichiara di volersi attenere, per ora e per il futuro.
"È vero, io ho accusato il sistema politico. Ma non è forse un mio diritto di cittadino? E non è forse un mio dovere di presidente di un’associazione di categoria che non ha la pretesa di rappresentare tutti, ma che si vuole far carico dell’interesse generale? Pochi hanno notato per esempio che nella mia relazione, in diversi passaggi sulla battaglia contro il sommerso come sul salario equo, ho detto che la Confindustria è stata e sarà sempre al fianco dei lavoratori. Nessuno ha sottolineato il passaggio in cui ho indicato la centralità della figura dell’operaio sempre più moderno. Insomma, io voglio parlare in nome di un capitalismo sano, voglio dare voce a una borghesia che sta crescendo, e che sta davvero maturando una nuova coscienza di sé". Questa volontà, secondo il ragionamento di Montezemolo, non è l’incubatrice di un futuro "partito della borghesia". "Noi - precisa - puntiamo a fare sul serio un gioco di squadra. Critichiamo i costi e i ritardi della politica non per sostituirla, ma per convincerla a muoversi, e a fare insieme a noi e a tutti gli altri attori sociali la partita della modernizzazione e del cambiamento".
Non c’è "auto-candidatura", insomma. Non c’è "discesa in campo". "Chi ha veramente capito lo spirito delle mie parole - osserva ancora il capo delle industrie, della Fiat e della Ferrari - è stato Bersani. Ho apprezzato molto il suo intervento, perché diceva le stesse cose che ho detto io: lavoriamo tutti assieme, ognuno dia il suo contributo per cambiare l’Italia e modernizzarla, ognuno faccia la sua parte per ritrovare il senso di una missione condivisa. Possibile che Pierluigi l’abbia capito, e molti altri no?".
Possibile, se accade. Hegel insegna: tutto ciò che è reale è razionale. Forse Montezemolo non ha fatto abbastanza, per spiegare al suo uditorio che le sue parole non suonano come campane a morto per la vecchia politica sprecona e screditata. Sono al servizio di un Progetto-Paese, e non del Grande Centro o della Grande Coalizione. Adesso vallo a spiegare ai due poli condannati senza appello all’Auditorium, che in quel processo il "pm" era solo una parte, che non si voleva sostituire al tutto. Dopo il plebiscito confindustriale di giovedì scorso, vallo a spiegare che credi in un’altra democrazia, e non a quella che Norberto Bobbio chiamava la "democrazia dell’applauso", dove non c’è elezione ma c’è solo investitura, e dove il capo che l’ha ricevuta è svincolato da ogni mandato e risponde solo a se stesso. Montezemolo lo ripete ancora una volta: "Non rinuncio oggi e non rinuncerò nei prossimi mesi al mio diritto di giudicare e di criticare maggioranze e opposizioni. Ma insisto ancora, non entro e non entrerò in politica...". Eppure, suo malgrado, ormai pochi sono pronti a credere alla sua promessa. Lui ne sembra pienamente consapevole. Ma anche questo, dice, è solo un altro segno della paurosa debolezza del nostro sistema politico.
* la Repubblica, 26 maggio 2007
Benedetto XVI e il nostro Paese
Parla dell’Italia come chi la conosce meglio di noi
di Dino Boffo (Avvenire, 25.05.2007)
Non è più un papa nuovo. Benedetto XVI parla ai vescovi italiani come chi si sente, a suo modo, dentro a questa Chiesa, della quale è primate, oltre che pontefice. La conosce ormai in modo personale. E può dire, come ha fatto ieri all’assemblea della Cei, di conoscere personalmente ciascuno dei nostri vescovi. Li ha ricevuti - nei mesi addietro - a casa sua, ad uno ad uno, nel corso delle visite ad limina, e ora annota: «Così ho imparato la geografia esteriore, ma soprattutto la geografia spirituale della bella Italia». Questi contatti nel segno dell’«amicizia» e della «comunione», aggiunge, sono stati «per me un grande conforto e un’esperienza di gioia». E quasi scambiando i ruoli, si dice lui «confermato nella certezza che in Italia la fede è viva e profondamente radicata»: qui «la Chiesa è una realtà di popolo, capillarmente vicina alle persone e alle famiglie». Spiegherà poi ancor meglio, dando atto delle diverse situazioni e delle «molteplici eredità», che «la fede cattolica e la presenza della Chiesa rimangono però il grande fattore unificante di questa amata nazione ed un prezioso serbatoio di energie morali per il futuro».
È l’occhio del papa straniero che riesce a vedere quel che noi italiani non vediamo. Ma lungi dal lusingare, egli chiede che si tenga conto delle «difficoltà già presenti» e delle «insidie che possono crescere» e sono il portato «di una cultura improntata al relativismo morale, povera di certezze e ricca invece di rivendicazioni non di rado ingiustificate». Così sollecita più formazione per tutti, più catechesi («una catechesi sostanziosa»), più tensione alla santità, più cura delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, più tensione missionaria («ad gentes e tra noi»), più attenzione alle povertà visibili e a quelle nascoste, tramite il volontariato e la Caritas, più apertura ai giovani. Il suo è apparso un parlare sicuro, senza astrattezze o esitazioni. Per cinque volte ha alzato gli occhi dal foglio, integrando il tes to con spunti ulteriori e tutti molto interessanti.
Era la terza volta, ieri, che parlava al nostro episcopato, e si può ragionevolmente intravedere come ci sia ormai una dinamica di continuità. La stessa continuità che il papa voleva probabilmente segnalare lunedì scorso, quando - notizia circolata sulla stampa - ha invitato a pranzo il nuovo e il vecchio presidente della Cei, insieme al segretario generale. Anticipo di un discorso che giovedì quindi ha sviluppato dinanzi a tutti i vescovi e idealmente a tutte le nostre comunità, come peraltro era già avvenuto in ottobre, quando a Verona intervenne al convegno delle Chiese d’Italia. E infatti, le parole di ieri erano volutamente il seguito di quelle veronesi: «Si tratta ora di proseguire il cammino, per rendere sempre più effettivo e concreto quel "grande sì" che Dio in Gesù Cristo ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza».
Benedetto XVI sente i vescovi italiani vicini a sé. Gliel’aveva assicurato nel saluto iniziale l’arcivescovo Bagnasco, ma è stato il Papa stesso ad ammetterlo espressamente quando ha citato la Nota approvata a marzo dal Consiglio permanente riguardo alla famiglia e ai tentativi di varare nuovi tipi di unione. Si è trattato - ha detto - di «una chiara testimonianza» del bene comune, per la quale vi siete mossi non solo nel cordiale rispetto delle distinzioni tra Chiesa e politica, ma anche «in piena sintonia con il costante insegnamento della Sede Apostolica». Insomma, nessuno provi a contrapporci, è sembrato dire. Nello stesso tempo, ha espresso un’eloquente considerazione per l’impegno del laicato cattolico che ha dato prova di sé nella grande manifestazione del 12 maggio. Quel giorno - si sa - egli era in Brasile, ma il suo sguardo evidentemente si allungava fino ai bordi di piazza San Giovanni, dove era in scena «una grande e straordinaria festa di popolo, che ha confermato come la famiglia stessa sia profondamente radicata nel cuor e e nella vita degli italiani».
Non erano scontati questi accenni all’attualità. Se li ha fatti, devono avere un loro peso, e sarebbe strano ignorarli. Che a Firenze, praticamente nella stessa ora, il presidente Napolitano avvertisse i partecipanti all’attesa Conferenza sulla Famiglia che è bene dare un ascolto «attento» e «serio» alle «preoccupazioni» e ai «contributi» della Chiesa, questo davvero non era previsto, e tuttavia è suonato come segnale importante di concordia. Un tratto che ha reso ancor più significativa la giornata di ieri.
Il merito e l’umile Italia
di LUCA RICOLFI (La Stampa, 26/5/2007)
Qualche politico comincia ad avere paura, altri fingono di essere preoccupati, altri ancora preferiscono minimizzare. Certo è che da qualche settimana lo spettro del 1992 ritorna ad aleggiare nei palazzi della politica. La stampa ha messo nel mirino i costi della politica e - precisa come un orologio svizzero - ci informa quotidianamente delle malefatte della «casta» e dei suoi scandalosi privilegi. Il libro che li documenta e li racconta (La casta, di Rizzo e Stella) in pochi giorni balza in cima alle classifiche. All’assemblea annuale di Confindustria, il presidente Luca Cordero di Montezemolo striglia la classe politica, mettendone a nudo non solo le (costose) degenerazioni ma anche le (costosissime) non-decisioni. I sondaggi confermano che i cittadini non ne possono più e che il loro scontento investe tutto il ceto politico, di destra e di sinistra.
Dobbiamo dunque prepararci a un nuovo sconquasso, come quello che nel 1992-’93 spazzò via i partiti della prima Repubblica? Forse sì, qualcosa potrebbe anche succedere, ma è piuttosto improbabile che la storia si ripeta. La rivolta antipolitica dell’opinione pubblica nel 1992-’93 aveva un doppio «tigre nel motore», che oggi sembra invece assente. Il primo «tigre» era la magistratura, che aveva la volontà e i mezzi per mettere in galera i politici corrotti (e purtroppo anche diversi innocenti). Il secondo «tigre» era l’economia che, con la svalutazione della lira (settembre ’92), aveva fatto scattare un decisivo campanello d’allarme.
Oggi non è così. La magistratura può ben poco, non solo perché ha scarsi mezzi e sempre meno prestigio, ma perché il ceto politico, pur continuando a delinquere più o meno episodicamente, ha costruito un’impressionante rete di strumenti legali per autofinanziarsi e perpetuare la sua occupazione della Pubblica amministrazione (per sapere come, basta leggere il bel libro di Salvi e Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, 2005). Quanto all’economia, la differenza fra il 1992 e oggi è che allora ricevemmo un singolo e istantaneo schiaffone (il crollo della lira), mentre oggi affondiamo abbastanza lentamente da permetterci di non percepire quel che sta capitando. Ma c’è anche un’altra differenza importante con il 1992. Oggi non c’è solo disgusto, sfiducia, ira verso una classe politica inadeguata (per usare un eufemismo). Non c’è solo indignazione per la vanità e i privilegi della «casta». Oggi c’è qualcosa di molto più ampio, che tocca il ceto politico non solo in quanto ruba o vive a sbafo, ma in quanto non ha il coraggio di decidere, e non decidendo perpetua il malfunzionamento dell’Italia. I cittadini cominciano a capire che l’inconcludenza dei politici ha dei costi, dei costi diffusi ed enormi. Visti con l’occhio degli esperti quei costi sono i soliti di cui si parla da dieci anni, e si riassumono in quello che si potrebbe definire il «sillogismo dei riformisti»: se non facciamo le riforme continueremo a crescere meno dei nostri partner europei, e se continueremo a crescere meno saranno guai per (quasi) tutti. Visti con gli occhi dei comuni cittadini, tuttavia, quei costi si presentano in un modo diverso.
Forse mi sbaglierò, ma la mia impressione è che quello che sta montando nel Paese, fra la gente, non è l’astratta richiesta di riforme (su cui ben pochi hanno idee precise) ma è un ben più concreto e diffuso sentimento di frustrazione e di rabbia per il triste film che quotidianamente passa sotto gli occhi di tutti. Pochi giorni fa, su questo giornale, Lucia Annunziata ha parlato di un «generale senso di ingiustizia». Sì, credo che proprio questo sia il sentimento che si sta condensando in Italia. La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l’immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere. Ingiustizie che non riguardano solo «la casta», ma tutte le caste. Caste che non sono le solite - i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud, gli uomini e le donne - ma sono di un tipo diverso. Per descriverle, non basterebbe un’enciclopedia, e nemmeno un decennio di puntate di Report, la meritoria trasmissione di Milena Gabanelli.
Però possiamo provare a riassumerle così: chi fa tutti i giorni il proprio dovere, ma non ha una rete di relazioni che lo sostiene e lo protegge, si accorge sempre più sovente che il gioco è truccato. Che non c’è rapporto fra i sacrifici, lo sforzo, la dedizione e i risultati che si ottengono. Che accanto alle grandi diseguaglianze storiche, da sempre centrali nei discorsi della sinistra, si è formata in questi anni una selva di micro-diseguaglianze di fronte alle quali quasi tutte le forze politiche maggiori sono sostanzialmente cieche, sorde e mute. In breve è «l’umile Italia» - come l’avrebbe forse chiamata Pasolini - che si sente dimenticata e offesa dalle nuove disuguaglianze.
Queste disuguaglianze, a loro volta, hanno un comune denominatore: un tragico deficit di meritocrazia, non solo a livello individuale ma anche a livello di istituzioni. Al lavoratore precario che tira la carretta negli uffici pubblici non fa piacere scoprire che la persona che è chiamato a sostituire guadagna dieci volte di più, produce dieci volte di meno ed è inamovibile qualsiasi cosa faccia o non faccia. Ai governatori delle regioni virtuose, che hanno bene amministrato la sanità, non fa piacere scoprire che non ci sono né veri premi per chi ha ben operato né vere punizioni per chi ha lasciato bilanci in rosso per miliardi di euro. Agli studenti che vorrebbero ricevere un’istruzione universitaria decente e non hanno i mezzi per studiare all’estero non fa piacere vedere i figli dei ricchi che vengono spediti negli Stati Uniti o sistemati nelle aziende di famiglia. Ai cittadini che rispettano le leggi non piace accorgersi che i furbi e i delinquenti quasi sempre riescono a farla franca. Agli immigrati onesti, che lavorano, pagano le tasse e rispettano le regole, non piace essere guardati con sospetto perché una minoranza di stranieri può spadroneggiare in interi quartieri delle nostre città.
Insomma, ci vorrà tempo, ma poco per volta molti si stanno rendendo conto che c’è una «dialettica dell’egualitarismo», per parafrasare il buon vecchio Adorno. Fino a un certo punto livellare le differenze produce eguaglianza, ma oltre quel punto produce nuove e più profonde disuguaglianze. Perché non tutti i diritti sono a costo zero, e sempre più sovente difendere a oltranza i diritti di qualcuno implica limitare gravemente quelli di qualcun altro, sia esso un individuo o un gruppo. Quel punto di non ritorno, oltre il quale l’egualitarismo diventa generatore di ingiustizie, è ormai da lungo tempo stato attraversato. È su questo che la sinistra è in ritardo ed è per questo che le sue organizzazioni - partiti e sindacati - sono divenute delle grandi e inconsapevoli macchine per produrre disuguaglianza. È probabile che, ancora per un po’, la cultura di sinistra riuscirà a occultare questa sua paradossale metamorfosi. Ma solo per un po’: alla lunga, se non sarà la sinistra a guidare una salutare reazione, finirà per pensarci la destra. Peccato, perché ci eravamo abituati, con Norberto Bobbio, a pensare che la lotta contro la diseguaglianza - ossia contro tutte le differenze inique - fosse la cifra di un’autentica cultura di sinistra.
Il monito di Benedetto XVI ai rappresentati di Confindustria
Tutelate la famiglia e non lasciatevi guidare solo dal profitto
Papa ai giovani imprenditori
"Salvaguardate l’occupazione" *
CITTÀ DEL VATICANO - Le imprese devono dare il loro importante contributo alla salvaguardia dell’occupazione, in particolare di quella giovanile, benché il mondo del lavoro sia "segnato da una forte e persistente crisi". E’ quanto ha detto questa mattina Benedetto XVI ricevendo in udienza nella sala Clementina i giovani imprenditori di Confindustria.
"Sono certo che non risparmierete i vostri sforzi per salvaguardare l’occupazione lavorativa, in particolar modo dei giovani", ha detto il Pontefice nel suo discorso.
"E’ necessario che l’attività lavorativa - ha continuato il papa - torni a essere l’ambito nel quale l’uomo possa realizzare le proprie potenzialità ponendo a frutto capacità e ingegno personale, e dipende in gran parte da voi, imprenditori, creare le condizioni più favorevoli perché ciò accada".
"E’ vero - ha aggiunto Benedetto XVI - tutto questo non è facile essendo il mondo del lavoro segnato da una forte e persistente crisi, ma sono certo che non risparmierete i vostri sforzi per salvaguardare l’occupazione, in particolar modo dei giovani". "Per costruire il proprio avvenire con fiducia, essi debbono infatti poter contare su una fonte di sostentamento sicura per sé e per i propri cari".
Benedetto XVI ha poi ricordato "l’importanza della famiglia fondata sul matrimonio quale elemento portante della vita e dello sviluppo della società". E ha sottolineato che "operare in favore delle famiglie significa contribuire a rinnovare il tessuto della società e assicurare le base anche di un autentico sviluppo economico". Spiegando che il profitto non può essere l’unico criterio a guidare l’attività economica: un posto altrettanto grande deve avere la dignità delle persone, "la vita umana e i suoi valori devono essere sempre il principio e il finire dell’economia".
"In altri termini - ha concluso il papa - la vita umana e i suoi valori devono sempre essere il principio e il fine dell’economia". E solo in questa prospettiva ha "il suo giusto valore la funzione del profitto, quale primo indicatore del buon andamento di un’azienda".
* la Repubblica, 26 maggio 2007