OLTRE 8 MLN POVERI IN ITALIA, SOPRATTUTTO AL SUD
ROMA - Sono 8 milioni 78mila le persone povere in Italia, il 13,6% dell’intera popolazione. Le famiglie che si trovano in condizioni di povertà relativa sono stimate nel 2008 in 2 milioni e 737mila (11,3%). Il fenomeno è maggiormente diffuso al sud (23,8%), dove l’incidenza di povertà relativa è quasi cinque volte superiore a quella del resto del Paese. E’ quanto emerge dal rapporto Istat sulla povertà relativa nel 2008 presentato oggi a Roma.
La percentuale di famiglie relativamente povere (la soglia di povertà per un nucleo di due componenti è rappresentata dalla spesa media mensile per persona e nel 2008 è risultata pari a 999,67 euro) , riferisce l’Istat, è comunque sostanzialmente stabile negli ultimi quattro anni e immutati sono i profili della famiglie povere. Il fenomeno è stabile rispetto al 2007 a causa del peggioramento osservato tra le tipologie familiari che tradizionalmente presentano un’elevata diffusione della povertà e del miglioramento della condizione delle famiglie di anziani.
L’incidenza di povertà risulta però in crescita tra le famiglie più ampie (dal 14,2% al 16,7% tra quelle di quattro persone e dal 22,4% al 25,9% tra quelle di cinque o più) , soprattutto per le coppie con due figli (dal 14% al 16,2%) e ancor più tra quelle con minori (dal 15,5% al 17,8%). In aumento la povertà nelle famiglie di monogenitori (13,9%), nei nuclei con a capo una persona in cerca di occupazione (dal 27,5% al 33,9%), tra quelle che percepiscono esclusivamente redditi da lavoro, e cioé con componenti occupati e senza pensionati, (dal 8,7% al 9,7%) e ancor più tra le famiglie con a capo un lavoratore in proprio (dal 7,9% all’11,2%). Soltanto le famiglie con almeno un componente anziano mostrano una diminuzione dell’incidenza di povertà (dal 13,5% al 12,5%) che è ancora più marcata in presenza di due anziani o più (dal 16,9% al 14, 7%).
Nel 2008 in Italia 1.126.000 famiglie è risultato in condizioni di povertà assoluta, per un totale di 2.893.000 persone, pari al 4,9 per cento dell’intera popolazione. E’ quanto emerge dal rapporto Istat sulla povertà. Quasi 5 italiani su 100 possono essere considerati "i poveri tra i poveri" dal momento che non possono conseguire uno standard di vita minimamente accettabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
POLITICA E "QUESTIONE MERIDIONALE". Una nota sull’allarme Svimez di Giorgio Ruffolo
Un Paese che invecchia, si ferma, ripiegato su se stesso
Un’Italia ingiusta
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 11 luglio 2016)
Gli effetti della grande crisi sul lavoro degli italiani sono stati estremamente forti. È bene ricordarlo. Non per deprimersi, ma per rendersi conto che è necessario un progresso potente per tornare a una quantità e qualità dell’occupazione almeno paragonabile a quella del 2008. Per rendersene conto, possono essere d’aiuto alcune interessanti tabelle pubblicate dall’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale (in particolare alle pp. 107-109), nelle quali sono comparate la dimensione e la struttura (per settore, professione, età, nazionalità e territorio) degli occupati in Italia del 2008 e del 2015; queste tabelle tengono poi già conto del discreto recupero che si è realizzato nell’ultimo anno.
Nell’insieme, gli occupati sono 626 mila in meno. Tantissimi. Ma le informazioni più interessanti vengono, più che dal saldo netto, dalla composizione delle variazioni. A livello di settore, perdono moltissimi occupati le costruzioni (484 mila), per la crisi dell’edilizia e il crollo degli investimenti infrastrutturali, e l’industria (421 mila); ma anche il commercio (258 mila), a causa della caduta dei consumi interni; e la pubblica amministrazione/istruzione (228 mila) a causa dell’austerità. Gli occupati aumentano in pochi ambiti. Innanzitutto nel settore dei servizi alle famiglie (370 mila), quindi negli alberghi e ristoranti (174 mila), grazie alle buone dinamiche del turismo. Guardando alle professioni, la trasformazione è profonda: perdiamo operai e artigiani (più di un milione) e tecnici e professionisti ad alta qualifica (642 mila); guadagniamo addetti alle professioni esecutive (814 mila) e non qualificate (428 mila).
Netto anche il cambiamento nella composizione per età: abbiamo quasi due milioni di occupati giovani (nella fascia 15-34 anni) in meno (anche - ma certo non solo - per motivi demografici) e oltre un milione e 800 mila occupati anziani (di oltre 50 anni) in più. Se guardiamo alla nazionalità scopriamo che gli occupati italiani sono ben un milione e 300 mila di meno, e che invece gli stranieri aumentano di quasi 700 mila.
Infine, la riduzione degli occupati è un fenomeno prevalentemente meridionale: al Sud ci sono 482 mila lavoratori in meno. Sono dati che preoccupano molto, specie se letti con una prospettiva d’insieme. Scopriamo che il problema non è solo la riduzione quantitativa dell’occupazione, ma anche e soprattutto la sua trasformazione qualitativa: che va in direzione opposta a quanto sarebbe auspicabile. Si riducono gli occupati giovani, italiani, a maggiore qualifica, nel pubblico e nel privato; si riducono i tecnici, gli artigiani, gli operai nell’industria e nelle costruzioni. Aumentano i lavoratori a qualifica più bassa, e in particolare gli immigrati che lavorano nel Centro Nord come collaboratori domestici e badanti. Meno tecnici e più camerieri. Restano al lavoro gli occupati più anziani.
Descrivono una fase terribile di un Paese che invecchia, si ferma, che ripiega su se stesso. Suggeriscono che non basta monitorare gli andamenti d’insieme del mercato del lavoro, ma che occorre studiarne anche le trasformazioni; che non basta accontentarsi di un occupato in più se costui lavora prevalentemente con mansioni (e stipendi) più basse (e precarie). È l’occupazione qualificata, pubblica e privata, e a maggiore retribuzione, che ci serve: per restare un Paese avanzato (e civile); per dare un futuro ai più giovani che hanno investito su se stessi; per aumentare la qualità dei servizi, pubblici e privati, ai cittadini e la capacità competitiva delle imprese. Non è certo facile crearla: ma saperlo e provarci sarebbe un buon inizio.
Il dio ignoto della patria leghista
di Fulvio Tessitore l(a Repubblica/Napoli, 31.07.2009)
POVERA Italia! Sì, Italia e non Mezzogiorno e Napoli dinanzi all’ultima, ormai sono quasi quotidiane, esternazione di becero razzismo della Lega. Non serve, non vale lamentare il silenzio dei “meridionalisti” di destra alleati della Lega. La questione non riguarda Napoli e il Mezzogiorno. La questione riguarda tutto il nostro Paese, ormai stordito, frastornato dal “regime di propaganda” e dalla rozza incultura della Lega. Il suo razzismo è da suburra (per i signori della Lega ricordo che così si chiamava, nell’antica Roma, la valle tra il Palatino e l’Esquilino, abitata dalla parte più bassa della popolazione) e da lupanare (ossia, sempre a uso dei signori della Lega, nell’antica Roma, la casa delle puttane). Non è il Mezzogiorno a essere offeso, è l’Italia tutta, ivi compresa la grande cultura lombarda che, con le culture veneta, piemontese, napoletana e siciliana, ha fatto la storia e data la sostanza alla cultura pluralistica (altro che razzismo) del nostro Paese.
Ma tant’è: sia consentito a un napoletano orgoglioso di esserlo parafrasare il gran lombardo, Manzoni (da me napoletano tanto amato) e dire: «la cultura» come «il coraggio chi non ce l’ha, non se lo può dare». E, tuttavia, noi napoletani e meridionali non possiamo e non dobbiamo accogliere, con un sorriso di superiorità, quella di una cultura e una città cosmopolitiche quali sono Napoli e la sua cultura, l’insulto razzistico della Lega. Questa volta, addirittura, lanciato nella commissione Cultura della Camera, non in un coro da adunata di suburra.
Perché non dobbiamo e non possiamo tacere? Ma perché questo razzismo da incultura si coniuga col lascivo contegno di uomini pubblici, che non sanno neppure più coprire con ipocrite “pubbliche virtù” i propri “vizi privati” e anzi se ne vantano solleticando il fariseismo di una borghesia priva di valori e la parte più rozza del Paese.
Come contrastare il razzismo se si infanga e si ignora la pubblica e privata moralità? Mi viene in mente una domanda dalle “Confessioni” di Rousseau, che suona così: «Qual è la natura del governo atto a formare il popolo più virtuoso, più illuminato, più saggio». Si rispondeva che questa, la virtù, era il metro per valutare un governo. Che ne deriva circa la qualità del nostro governo, tra offesa alla moralità e razzismo, che è anch’esso una forma - e assai grave - di offesa alla eticità di un popolo?
Dinanzi a tanto non si può tacere, non possiamo e non dobbiamo tacere, in specie noi laici meridionali e i nostri compagni laici settentrionali. I laici hanno nel loro Dna il rispetto dell’altro, questo è il significato della laicità. Non possiamo e non dobbiamo tacere, sperando di trovare accanto a noi gli uomini di chiesa, non solo gli eccezionali giovani sacerdoti e gli straordinari parroci dei nostri quartieri degradati.
Quando sono stato senatore di Bagnoli, Fuorigrotta, Soccavo, Pianura, Chiaiano, ne ho incontrati tanti e ho visto in loro i soli, i pochi generosi operatori sociali in aiuto della gioventù da togliere dalla strada e dal malaffare e dei diseredati di ogni colore e cultura. Noi laici, “religiosamente laici”, dobbiamo sperare di trovare, prima o poi, finalmente con noi qualche esponente della gerarchia cattolica, qualche teologo anche se conservatore sul piano dottrinario.
Proprio questi, sostenitori tenaci del nesso indissolubile di fede cristiana e di ragione classica, dovrebbero sapere che non è atto di fede né di ragione l’offesa alla dignità della persona, quella che un grande protestante dell’Ottocento definiva bellamente «parola cristiana».
La fede, colle sue virtù della carità e della pietà, non può tollerare nessuna forma di razzismo becero, da suburra e da lupanare e nessuna trasformazione in lupanare delle pubbliche istituzioni.
Non c’è interesse che tenga, non c’è ideologia che valga: tollerare razzismo e immoralità pubblica e privata è spregevole cinismo, è immonda ipocrisia, è antipolitica, quella dei miserevoli cantori del nostro governo.
Siano perciò consentiti un appello e una preghiera. L’appello agli uomini seri - ve ne sono tanti - di destra a rispettare i valori del loro credo politico. La preghiera alla gerarchia cattolica di “predicare dai tetti” i valori del Vangelo, senza ipocrisie e strumentalizzazioni, in nome della dignità della persona, “parola cristiana”. Che Dio li illumini. Che Dio ci assista. Che non si debba, ancora una volta, raccomandare sé e la patria al dio ignoto.
L’eterna miseria meridionale
di Chiara Saraceno (la Repubblica,31.07.2009)
Non bisogna farsi ingannare, e soprattutto tranquillizzare, dalla sostanziale stabilità della diffusione della povertà nel nostro paese anche in un anno, il 2008, segnato nella sua seconda parte dalla crisi economica. É vero che a livello nazionale la diffusione della povertà relativa ormai da quattro anni si attesta attorno all’11,3% delle famiglie (2 milioni e 737 mila circa) e il 13,6% della popolazione (circa 8 milioni e 78 mila individui). Ed è rimasta stabile, al 4,9%, anche l’incidenza di quella assoluta. Ma vecchi divari si sono ampliati e specifici gruppi hanno aumentato la propria vulnerabilità.
In primo luogo, nonostante situazioni di peggioramento emergano anche nel Centro e soprattutto al Nord, il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno è aumentato e complessivamente l’incidenza della povertà in queste regioni, già molto più elevata che nelle altre, è ulteriormente aumentata. Significativamente tale aumento si riscontra sia se si utilizza la linea della povertà relativa, uguale per tutto il paese, sia che si utilizzi quella della povertà assoluta, che viceversa, a parità di beni considerati necessari, tiene conto, oltre che della numerosità della famiglia, anche del diverso costo della vita nelle varie aree del paese. In particolare, la diffusione della povertà assoluta nel Mezzogiorno è passata dal 5,8% delle famiglie nel 2007 al 7,9% nel 2008, a fronte di una media nazionale del 4,9% (3,2% nel Nord, 2,9% nel Centro).
In secondo luogo è aumentata l’incidenza della povertà, sia relativa che assoluta, tra le famiglie numerose, in particolare quelle con due o più figli, specie se minori. Ciò, tra l’altro, significa che la povertà tra i minori è aumentata più che tra gli adulti. Un fenomeno per nulla contrastato, nel nostro paese, da misure quali assegni per i figli di tipo universalistico e non riservate solo alle famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito. Tanto meno da una social card di valore irrisorio e destinata solo ai bambini sotto i tre anni. Il fenomeno della povertà minorile nel nostro paese è grave ed ha caratteri di persistenza, quindi effetti di lunga durata sulle chances di vita, maggiori che per gli adulti. È stato da tempo segnalato dai vari rapporti della Commissione di indagine sulla esclusione sociale. Anche i Rapporti dell’Unicef sulla condizione dei minori nei paesi sviluppati indicano che l’Italia è collocata, insieme agli Stati Uniti e all’Inghilterra, tra i paesi in cui la percentuale di minori in condizioni di disagio economico è più serio. Ma i diversi governi che si sono succeduti, a differenza, ad esempio, di quello inglese, non lo hanno mai considerato una priorità da affrontare con misure non occasionali e puramente simboliche. Anche il Libro bianco sul futuro del modello sociale non fa pressoché menzione.
In terzo luogo, l’incidenza della povertà sia relativa che assoluta è aumentata nelle famiglie in cui gli adulti sono a bassa istruzione e in quelle in cui sono in cerca di lavoro. Sia avere una bassa qualifica che perdere il lavoro, in altri termini, ha presentato nel 2008 un rischio più elevato di caduta in povertà che in passato. La cosa non sorprende, perché i lavoratori a bassa qualifica hanno sia meno riserve che minori possibilità di ricollocarsi, specie in un periodo di diminuzione della domanda di lavoro. E sappiamo che molti di coloro che hanno perso il lavoro non hanno diritto a nessuna forma di protezione del reddito, stante il nostro sistema frammentato e pieno di trappole. Il fatto è che il numero di coloro che hanno perso il lavoro è nel frattempo aumentato ed è destinato ad aumentare ancora, senza che si sia messo mano ad un sistema di protezione più adeguato. Anzi, per certi versi si sono accentuati i difetti dell’esistente: discrezionalità, categorialità, criteri di esclusione sorprendenti e così via.
Meno poveri per uscire dalla crisi
di GIUSEPPE BERTA (La Stampa, 31/7/2009)
I dati diffusi dall’Istat sulla povertà in Italia sono destinati a rinfocolare la controversia che si è aperta sul divario crescente fra il Centro-Nord e il Sud. Gli indici che sono stati elaborati per il 2008 non si discostano nella sostanza dei valori degli ultimi anni. Ma mettono impietosamente in rilievo come il fenomeno della povertà - che riguarda 8 milioni di persone nel nostro Paese - si concentri e si acutizzi nella parte meridionale del Paese. Osserva l’Istat che l’incidenza della povertà nel Mezzogiorno è quasi cinque volte superiore a quella che si registra nel resto d’Italia. Si parla in questo caso di povertà relativa, ma quando si passa a quella assoluta e si considerano i parametri elaborati dall’Istat diventa ancora più visibile la distanza fra le varie aree territoriali. È da considerarsi povero a tutti gli effetti l’adulto in età compresa fra i 18 e i 59 anni che vive da solo spendendo meno di 750 euro mensili in un’area metropolitana settentrionale. Questa cifra viene rivista in basso, a 674 euro, se si tratta di una persona domiciliata in un piccolo comune del Nord. Per un abitante di un piccolo centro del Sud il valore scende a 502 euro al mese. Sono numeri che rispecchiano le realtà di maggior disagio e rivelano come siano profonde le disparità di condizioni e di reddito che segmentano la penisola. Ma sono le rilevazioni statistiche relative agli indici della povertà relativa a far riflettere di più. Per l’Istat nel 2008 si è collocato sotto la soglia di povertà un nucleo familiare composto da due persone la cui spesa mensile sia risultata inferiore al valore medio per individuo di 1.000 euro. Se la percentuale di coloro che si collocano al di sotto di questo discrimine sul totale della popolazione è contenuta nel Nord (4,9%) e nel Centro (6,7%), essa si impenna al 23,8% quando si prende in esame il Sud.
La fotografia dell’Istat ritrae l’Italia dell’anno scorso, in una fase in cui il Paese non era ancora stato investito dall’onda d’urto della crisi. Dovremo aspettare l’elaborazione dei dati del 2009 per conoscere il grado con cui la recessione globale si è ripercossa sulla condizione dei poveri. Certo, c’è da attendersi che queste cifre non renderanno più facile il percorso della Finanziaria nel prossimo autunno, dopo che il voto sul Dpef ha mostrato la disaffezione di settori della maggioranza verso i tentativi di controllo della spesa pubblica operati dal ministro Tremonti. Non è questo tuttavia il nodo più importante che pongono in evidenza le rilevazioni dell’Istat. Esse mettono a fuoco due elementi di criticità importanti, che non possono essere sottovalutati. Il primo è costituito dalla staticità dell’area sociale della povertà. Si conferma ancora una volta il blocco dei processi di mobilità che caratterizza la nostra società. Dalla condizione di povertà è difficilissimo uscire, e non soltanto perché essere poveri dipende sempre più da fattori quali un livello carente di istruzione. Ci sono delle radici territoriali della povertà che non possono essere scalfite all’interno di assetti sociali congelati, dove le vie di fuga individuali possono configurarsi soltanto con l’abbandono del luogo in cui si è nati. Ma, di nuovo, la carta della mobilità territoriale è oggi accessibile ai giovani in possesso di un titolo di studio spendibile in altre parti del Paese.
Il secondo fattore critico è rappresentato dal fatto che la mappa della povertà disegna una domanda interna statica o in declino, dunque un handicap consistente per le nostre possibilità di rilancio economico. La contrazione dei consumi sta già facendo sentire i suoi effetti sul prolungamento della crisi, su alcune sue manifestazioni specifiche che appaiono connesse alla particolarità del modello Italia. Per questo, sarebbe tempo di pensare a logiche di intervento nella politica sociale e fiscale che non siano solo contingenti, ma si aprano alla prospettiva di rendere meno permanente e stringente la morsa della povertà.