GLI SCAVI RITROVANO L’EDEN?
di Aristide Malnati (Avvenire, 15.06.2006)
L’archeologia biblica si arricchisce di antichissime e importanti vestigia, testimonianza concreta di una realtà storica, che avrebbe costituito il sostrato ispiratore del racconto biblico della Genesi. In particolare sono emerse le evidenze archeologiche di un nucleo sociale capace 9.000 anni prima di Cristo, in pieno Neolitico, di dar vita a forme architettoniche indicative di una religiosità viva e di istanze sociali raffinate e complesse.
Cacciatori seminomadi hanno eretto santuari di notevoli dimensioni dedicati a divinità anche zoomorfe, in particolare a un dio serpentiforme che tanto ricorda il rettile edenico e che dunque potrebbe aver costituito un termine di raffronto per il narratore biblico nel corso della stesura del celebre episodio del Paradiso terrestre.
Simili resti si trovano nell’attuale Turchia orientale, sull’altura di Göbekli Tepe, non distanti dalla pianura in cui sorgeva Harran, altro centro menzionato nel libro dei Patriarchi; e non sono nemmeno lontani dalla regione dei monti Tauro e Zagros, che 10.000 fa, al termine dell’ultima glaciazione, diventarono alture verdeggianti, ai cui piedi si estendevano fertili pianure.
Proprio sotto l’impulso di una mitigazione climatica si generò quasi spontaneamente l’attività agricola e fu dall’osservazione di una generazione spontanea che la società di cacciatori e raccoglitori imparò a praticare forme di coltivazione e a dar vita ad ampie pianure agricole, vere e proprie distese, che possono aver formato l’immagine del giardino dell’Eden.
E tale immagine si sarebbe depositata nella memoria culturale di una società ormai sedentaria (presto sarebbero nati i primi centri urbani nella vicina Mezzaluna fertile) e sarebbe giunta a fornire un esempio concreto agli israeliti e al narratore biblico.
Per Klaus Schmidt, direttore degli scavi del complesso templare sul Göbekli Tepe - le operazioni archeologiche riprenderanno il prossimo mese di settembre per la consueta campagna annuale -, non ci sono dubbi: «Questo enorme complesso sacro è un esemplare unico nel suo genere e può essere paragonabile a Stonehenge, di cui però è ben più antico e più imponente: presenta colonne addirittura di cinquanta tonnellate. Questo tra l’altro pone il problema, ancora irrisolto, di come simili blocchi possano essere stati trasportati e collocati nella posizione definitiva». Insomma il popolo dei cacciatori-raccoglitori di Göbekli Tepe mostra caratteristiche di sviluppato sentimento religioso e si pone antropologicamente alla base di quel lungo processo di evoluzione spirituale che è sfociato, sotto l’influenza anche di altri elementi eterogenei, nella realizzazione del racconto di Adamo ed Eva.
All’obiezione da parte di colleghi esegeti veterotestamentari, per cui il racconto biblico della Genesi presupporrebbe come tessuto di riferimento una società con agricoltura già sviluppata e quindi storicamente più recente (in Genesi 2,15 è detto che Adamo ricevette l’incarico di coltivare e conservare l’Eden), Schmidt risponde facendo rilevare il grado di raffinato sviluppo della popolazione di Göbekli Tepe e soprattutto la sua pratica di un’agricoltura in nuce, capace di dar vita a verdeggianti distese coltivate, già possibile modello del giardino edenico: alberi e piante fruttifere erano note e sfruttate e iniziava in quei secoli la coltivazione di cereali. A questo proposito i biologi dell’Istituto Max Planck di Colonia (Germania) hanno ricostruito, tramite la comparazione genetica di 68 tipi di sementi, il cereale, che per primo fu sistematicamente piantato in quelle regioni e «che potrebbe, nella fantasia del racconto biblico, aver costituito il cibo del Paradiso terrestre», osserva Schmidt.
Né osta l’origine persiana e quindi ben più recente del termine Paradiso (pairidaez, in persiano): quando, a metà del I millennio, durante la Cattività babilonese, sarebbe avvenuta la stesura di gran parte dell’Antico Testamento, il narratore avrebbe compiuto un processo di normalizzazione, utilizzando un termine a lui contemporaneo per indicare una realtà geografica ancestrale e stratificata da millenni nella memoria collettiva.
Inoltre a supporto di una simile identificazione del modello biblico concorrono numerosi elementi: la zona individuata pullula di corsi d’acqua, proprio come nell’Eden dell’Antico Testamento; inoltre (Ezechiele 28,14) il giardino di Adamo ed Eva era ubicato su una collina sacra, del tutto simile al Göbekli Tepe; e infine da ricordare la grotta della nascita di Abramo, mitologicamente identificata con un’apertura in una roccia nella città di Urfa ad appena due chilometri dal monte con il complesso templare: «La zona costituì un centro religioso con gran peso mitologico nei millenni», conclude Schmidt.
Ma non è tutto: «Dio modellò l’uomo con argilla e insufflò nelle sue narici il soffio vitale», è detto nel racconto della creazione. Ebbene questo processo creativo presenta forti analogie con le figurine d’argilla recentemente rinvenute a Nevali Çori, a soli cinquanta chilometri dal monte Göbekli Tepe, ad indicare una somma di elementi, che poi convergono in un’unica narrazione; e a questa forniscono sostanza storica con la concretezza di tradizioni ancestrali, la cui eco rimane anche con l’arricchimento conferito dalla patina teologica.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
Lilith: la libertà della prima donna creata da Dio
di Sofia Russo (Il Chiasmo, 3 agosto 2020)
La leggenda di Lilith, demone-femmina, possiede un’ampia letteratura diffusa sia in epoca antica, medievale e moderna. Questo mito affonda le sue origini nella religione mesopotamica e nei primi culti di quella ebraica che, insieme ad altri miti come ad esempio quello del diluvio universale, potrebbe averlo appreso dai babilonesi durante la prigionia degli ebrei a Babilonia. Nella religione mesopotamica, Lilith, è un demone femminile portatore di sciagure e morte, legata al vento e alla tempesta e alcune trascrizioni che accennano a questo culto sembrerebbero risalire al III millennio a. C.
Nella religione ebraica, invece, Lilith è la prima moglie di Adamo che si rifugia nel Mar Rosso per fuggire dal marito. Lilith, infatti, essendo stata creata da Dio dalla polvere, come Adamo, pretendeva di averne anche gli stessi diritti, che, però, le furono negati. Per questo suo gesto di ribellione viene associata a un demone notturno, che spesso compare nella forma di una civetta, e capace di danneggiare i bambini maschi. Tuttavia, alla fine dell’Ottocento, durante l’emancipazione femminile, Lilith diventa simbolo della libertà delle donne.
Mi sembra, dunque, opportuno esaminare questa figura sia nella religione mesopotamica che in quella ebraica, così da poter identificare e capire la complessità di questa figura archetipica della Femminilità.
Per quanto riguarda il nome di Lilith, le fonti sono scarse. Sicuramente è rintracciabile la radice sumera Lil, che è presente nei nomi di varie divinità assiro-babilonesi e di spiriti cattivi. Nella religione accadica si rintracciano scongiuri e preghiere contro figure maligne e demoniache di nome Lilitu o Lilu. Tuttavia nel 2000 a. C. sembra che il nome fosse diventato Lilake: in merito a questo Robert Graves cita una tavoletta sumera di Ur che riporta la storia di Gilgamesh e il salice. Anche in questo episodio Lilake sarebbe una figura demoniaca femminile che risiede nel tronco di un salice, custodito dalla dea Inanna, Signora del Cielo ed equivalente della romana Venere. Un’ etimologia ebraica, invece, farebbe derivare il nome di Lilith da Layl o anche Laylah, cioè spirito della notte. Tuttavia gli studiosi moderni ritengono che l’origine sia nel sumerico Lulu che significa libertinaggio. Lilith sarebbe, dunque, un demone notturno lascivo e libidinoso.
Il Rilievo Burney è un altorilievo di terracotta, conservato al British Museum, risalente al II millennio a. C. probabilmente di origine babilonese. Raffigura una divinità, non ancora bene identificata, che, però, potrebbe essere Lilith. L’immagine scolpita è una figura ibrida, disposta in piedi frontalmente, con le braccia aperte e piegate come se stesse pregando, le mani congiunte e le dita unite. La bocca è atteggiata in un vago sorriso, ma l’espressione è tipica della plasticità arcaica: impenetrabile e ineffabile. I capelli sono fatti da quattro serpenti sovrapposti e formano un cono. I seni si protendono prosperosi, con evidente funzione sensuale. Le gambe sono femminili ma i piedi sono artigli di avvoltoio che spuntano dalle dita rugose.
Lilith tiene nelle mani due pentacoli che ricordano i segni geroglifici della Bilancia, simbolo di potenza e giustizia. Ai lati sono rappresentati due volatili che ricordano un gufo o una civetta e due leoni. L’altorilievo è scolpito in un triangolo equilatero, il cui vertice superiore è la testa di Lilith. Osservando l’opera si può percepire l’energia aggressiva che la permea e l’espressione agghiacciante e demoniaca di Lilith, così statica. Questa scultura racconta già il mito di Lilith: la prima moglie di Adamo è una creatura demoniaca di cui non fidarsi.
Nella tradizione ebraica il mito di Lilith appartiene alla tradizione delle testimonianze orali raccolte negli scritti rabbinici che formano la versione jahvista della Bibbia, che precede di qualche secolo quella dei sacerdoti. Queste versioni della Genesi sono molto complesse e presentano una serie di contraddizioni e incongruenze che si eliminano a vicenda: probabilmente la leggenda di Lilith è andata perduta o rimossa, proprio nell’epoca del passaggio dalla tradizione jahvista a quella sacerdotale poi ulteriormente modificata dai Padri della Chiesa.
Nella Bibbia ebraica Lilith compare una sola volta in Isaia 34:14:
L’ebraico lilit viene tradotto con civette, ma il libro di Isaia viene datato intorno al VII secolo a. C., cioè il secolo della cattività degli ebrei a Babilonia e, dunque, proprio il periodo in cui essi avrebbero appreso questo culto dalla religione mesopotamica.
Alcuni passaggi oscuri della Genesi hanno poi fatto pensare ad un’altra donna che precedette Eva. Nel primo libro della Genesi, infatti, si legge:
Dunque ci si riferisce a due individui e la creazione di Eva è descritta nel secondo libro della Genesi, successiva a quella di Adamo, da una sua costola (Genesi 2:22):
Seguendo il passo biblico si avverte un altro particolare interessante nella reazione di Adamo alla vista della sua compagna (Genesi 2:22-25):
Lo stupore di Adamo che questa volta la donna sia carne della sua carne conferma che ci deve essere stata una prima volta, riferito dunque a una donna precedente creata dal suolo come lui. Che in queste righe aleggi una rimozione è evidente.
Una fonte interessante che parla di Lilith come della prima figura femminile vista da Adamo è sicuramente L’alfabeto di Ben-Sira di un autore anonimo, scritto nel X secolo d. C. Nell’opera si racconta che Lilith abbandonò il giardino dell’Eden, lasciando Adamo. Viene raccontato che quando i due si accoppiavano, evidentemente Lilith giaceva sotto e Adamo sopra, per questo la donna mostrava insofferenza, domandando al compagno perché dovesse stendersi sotto di lui, pur essendo stati creati insieme dal suolo. Propone, quindi, di invertire le posizioni. La domanda di Lilith è, fondamentalmente, una domanda di uguaglianza per stabilire una parità e un’armonia fra i corpi e le anime. Ma Adamo rifiuta nettamente:
A questo rifiuto Lilith pronuncia infuriata il nome di Dio e, accusando Adamo, abbandona il paradiso terrestre. Si rifugia nel Mar Rosso dove, accoppiandosi con Asmodai, demone biblico, crea un’infinita generazione di demoni detti Lilim.
Il rifiuto di obbedire a Adamo che Lilith rivendica, oltre ad essere un atto di ribellione nei confronti dell’uomo è anche un atto di ribellione verso Dio che, infatti, la esilia nel regno delle ombre, Edom. Quello che è interessante è notare come questo mito sia stato rimosso dalle Sacre Scritture, rimanendo però vivo in quelle incongruenze della Genesi già menzionate e, soprattutto, in Eva. Sarà infatti Eva, spinta dall’istinto di curiosità e trasgressione, a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Da questo momento in poi non solo Lilith, ma anche Eva e tutte le altre donne verranno, consciamente o inconsciamente, associate dalla cultura giudaico-cristiana al simbolo demoniaco del serpente e quindi del Male.
Nell’immaginario collettivo Lilith è un demone, simbolo di trasgressione e peccato e, nella cultura cristiana, ha subito una vera e propria damnatio memoriae. L’archetipo che, però, rappresenta non può essere rimosso in nessun modo, perché vive nel nostro inconscio, e simboleggia la forza, la disobbedienza e la trasgressione del Femminile, di tutti quei divieti posti sui desideri, non solo sessuali, delle donne. Lilith rappresenta un tabù culturale e religioso che sopravvive ancora ai nostri giorni.
Rimuovendo la creazione della prima donna si è rimosso anche l’energia vitale delle donne, la capacità di difendere i propri diritti, la legittimazione del desiderio sessuale e la giusta parità con l’uomo, in ogni ambito, anche nella divisione del potere. Da secoli si esalta solo la dimensione materna del Femminile, a svantaggio di tutto il resto, della complessità dell’ Anima, cioè delle sue aspirazioni e dei suoi desideri. Agendo in questo modo le donne sono state tagliate totalmente fuori dalla costruzione della società che è, ancora oggi, prettamente maschile, e si è creato uno sbilanciamento degli equilibri tra i due sessi.
La cultura giudaico-cristiana, da Lilith in poi, ha premiato solamente l’archetipo della donna in quanto madre per due ragioni: perché si garantiva la sopravvivenza della specie e perché più facile da controllare.
Nel corso della storia dell’Occidente, la concezione giudaico-cristiana che vede la donna come fonte di peccato e perdizione ha decisamente influito sul pensiero patriarcale, e questo ha portato le donne a stare blandamente ai margini di una società controllata e costruita da uomini per gli uomini e che, non tenendo conto della diversità e della pluralità del genere umano, è destinata al collasso. Questo è il momento di riscoprire la figura di Lilith, in quanto archetipo della ribellione e della disobbedienza a un potere assoluto che non accetta confronti, poiché è un mito che agisce nella psiche di tutti ed è, quindi, risorsa dell’umanità intera.
Per saperne di più:
Per una conoscenza maggiore dei temi trattati si consiglia la lettura di: Eva o Lilith? Identità femminile nella società (post)-patriarcale di Flaminia Nucci (Roma, Alpes Italia s.r.l, 2015), Lilith, la luna nera di Roberto Sicuteri (Astrolabio, Roma, 1980) e Lilith di Salvator Gotta (Baldini & Castoldi-editori, Milano, 1943).
Alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.11.2017)
Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito?
«Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa - “controfattuale” - della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi.
Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose.
Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio.
«Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso.
Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani.
Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali - sviluppando il contrattualismo hobbesiano - avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ADAMO, EVA ... E L’EDEN? Archeologia, preistoria, e storia
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
"GENESI" E GENERE SESSUALE. MUTAMENTI "BIBLICI" IN CORSO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
Federico La Sala
La magnifica ossessione di un darwinista sconsolato
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 22.10.2015)
Capita che alcuni scrittori abbiano delle (più o meno) «magnifiche ossessioni». Che ci girino intorno e ci si arrovellino, facendone un fondamento del proprio immaginario. Così avvenne anche per il grande Mark Twain (1835-1910), il fondatore secondo alcuni della narrativa statunitense moderna e uno dei maggiori scrittori umoristici di sempre in virtù del suo inconfondibile sguardo ironico sulle persone e le cose.
A esercitare una fascinazione magnetica su di lui furono Adamo ed Eva, ai quali dedicò nel corso della vita vari testi, una buona parte dei quali vengono ora raccolti da Piano B edizioni nell’antologia Sui fondatori della razza umana. Da Adamo ed Eva al Diluvio universale (pp. 220, € 15).
Nel volume compaiono i Diari di Adamo ed Eva (usciti tra il 1904 e il 1905, quando il narratore era ancora in vita), un centrifugato «spietatamente» divertito di tutti gli stereotipi possibili sulle differenze tra maschile e femminile (e chi meglio del primo uomo e della prima donna avrebbe potuto compendiarli...) che, a occhio e croce, susciterebbe qualche reprimenda da parte degli attuali alfieri del politicamente (troppo) corretto, così come, all’epoca, fece scandalo tra i credenti.
Ma gli «scritti adamitici» di Twain apparvero soprattutto dopo la sua scomparsa, come il racconto inedito che qui anticipiamo, Il soliloquio di Adamo, pubblicato negli Usa nel ’23, nel quale l’antenato per antonomasia si ritrova scaraventato nella New York di inizio Novecento, a spasso tra il Museo di Scienze naturali (dove contempla i fossili dei dinosauri e si rammenta delle discussioni con Noè sui «difetti strutturali» dell’Arca) e Central Park.
Il mito fondativo dei progenitori del genere umano, dissezionato in lungo e in largo per via satirica, rimandava alla severa educazione religiosa giovanile dello scrittore. Un presbiterianesimo integralista che abbandonò prima per una sorta di deismo, e poi, a fine Anni Ottanta dell’Ottocento, per uno scetticismo assoluto, e a cui contribuì in maniera decisiva la lettura dell’Origine delle specie e il coevo dibattito sul naturalismo scientifico e l’evoluzionismo. Ma della «premiata coppia» Adamo ed Eva il Twain diventato un disincantato e sconsolato darwinista aveva evidentemente nostalgia.
Il dinosauro si è estinto per colpa di Noè
In un inedito dello scrittore americano un soliloquio di Adamo nella New York di inizio ’900, in visita al Museo di Storia naturale
di Mark Twain (La Stampa, 22.10.2015)
Esaminando il dinosauro al Museo di Storia Naturale.
È strano... molto strano. Non ho ricordi di questa creatura.
Dopo averla fissata a lungo e con ammirazione
Beh, è meravigliosa! Il suo semplice scheletro misura 57 piedi di lunghezza e 16 in altezza! Finora, a quanto pare, hanno trovato solo questo campione - e dev’essere senz’altro solo uno di medie dimensioni; è abbastanza probabile che il più grande dinosauro misurasse 90 piedi di lunghezza e 25 in altezza. Sarebbe cinque volte più lungo di un elefante; un elefante paragonato ad esso è più o meno come un vitello paragonato a un elefante. [...].
Io non ho alcun ricordo di lui; fino a ieri non ne avevamo mai sentito parlare, né Eva né io. Ne abbiamo discusso con Noè; lui è avvampato e ha cambiato argomento. Allora gli abbiamo ricordato i vecchi tempi - e pressato un poco - e ha confessato che gli accordi in fatto di stoccaggio dell’Arca non furono eseguiti con assoluta rigorosità - cioè, per dei dettagli minori, non essenziali. Ci furono alcune irregolarità. Ha detto che i ragazzi erano da biasimare per questo. I ragazzi soprattutto e la sua indulgenza paterna, in parte. All’epoca erano nel pieno vigore della gioventù, la primavera felice della loro vita, quando poche centinaia di anni si erano accumulate su di loro con gentilezza, e gli mancò il coraggio di essere troppo esigente. E così - beh, fecero cose che non avrebbero dovuto fare - e lui, a essere sincero, chiuse un occhio. Ma nel complesso fecero un lavoro piuttosto fedele, considerando la loro età.
Animali inutili sull’Arca
Raccolsero e riposero una buona fetta di animali veramente utili; e quando Noè non guardava anche una moltitudine di quelli inutili, come mosche, zanzare, serpenti e così via, ma di certo lasciarono a terra un buon numero di creature che una volta o l’altra avrebbero potuto avere un qualche valore. Questi erano soprattutto enormi dinosauri lunghi un centinaio di piedi, e mostruosi mammiferi, come il megaterio e cose del genere, e c’erano davvero delle giustificazioni per lasciarli fuori, e principalmente due: 1) era chiaro che sarebbero stati utili solo come fossili per i musei; e 2) ci fu un errore di calcolo, l’Arca venne più piccola di quella che avrebbe dovuto essere e dunque non c’era spazio sufficiente per quelle creature.
A dir la verità c’era materiale fossile a sufficienza per riempirne venticinque di arche come quella. E per quanto riguarda il dinosauro, Noè non se ne penava granché; non era menzionato nella lista e i ragazzi non sapevano neppure che esistesse una tale creatura. Ha detto che non poteva prendersi le colpe per non sapere del dinosauro, perché era un animale americano, e l’America non era stata scoperta.
Poi Noè proseguì: «Feci rimproverare i ragazzi per non aver sfruttato al massimo lo spazio che avevamo; per aver scartato animali da nulla e dimenticato bestie come il mastodonte che sarebbe tornato utile all’uomo per i lavori pesanti, come si fa con l’elefante, ma dissero che queste creature avrebbero aumentato il nostro lavoro ben oltre le nostre capacità, in fatto di nutrirli e abbeverarli, perché disponevamo di personale insufficiente. C’era qualcosa di vero in questo. Non avevamo una pompa; c’era solo una finestra; e dovevamo farci scendere un secchio e tirarlo su per una cinquantina di piedi, che era molto faticoso; poi dovevamo portare l’acqua giù per le scale - di nuovo quei 50 piedi nei casi dove c’era l’elefante e roba del genere, ché li tenevamo nella stiva per farci da zavorra».
«Così ne perdemmo tanti»
«Fu così che perdemmo diversi animali; animali scelti che sarebbero risultati preziosi nei serragli - diverse razze di leoni, tigri, iene, lupi e così via; ché non vollero bere più acqua dopo che l’acqua di mare si era mischiata con quella fresca. Ma non abbiamo mai perso una locusta, né una cavalletta né un tonchio né un topo né un germe del colera e roba del genere. Tutto considerato, credo che nel complesso fu fatto un buon lavoro. Eravamo pastori e contadini, mai stati in mare prima, eravamo ignoranti di cose navali, e so per certo questo: che c’è più differenza tra l’agricoltura e la navigazione di quanto una persona potrebbe pensare. È mia opinione personale che i due mestieri non abbiano nulla in comune. Shem la pensa uguale, e anche Jafet. Quanto a quello che pensa Ham, non è importante. Ham è contorto; ma trovatemi un presbiteriano che non lo sia, se pensate di riuscirci».
Lo disse con fare aggressivo, aveva in sé uno spirito di sfida. Ho evitato l’argomento e cambiato discorso. Discutere, per Noè, è una passione, una malattia, ne è sopraffatto, ne è stato sopraffatto per tremila anni e più; cosa che l’ha reso impopolare - molti dei suoi più vecchi amici hanno ancora paura di incontrarlo. Anche chi non lo conosce inizia ben presto a evitarlo, anche se all’inizio sono contenti di incontrarlo e pendono dalle sue labbra, per via della famosa avventura. Per un po’ sono orgogliosi della sua attenzione, perché lui è così distinto; ma poi li tratta come stracci e dopo poco cominciano a desiderare, come tutti, che qualcosa di brutto fosse capitato all’Arca.
Se il Paradiso è in questa terra
Le riflessioni sulla preghiera della teologa Adriana Zarri
di Umberto Galimberti (la Repubblica 26.01.2013)
«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Queste parole di Nietzsche le sento risuonare in ogni pagina del libro di Adriana Zarri, Quasi una preghiera.
Quasi perché siamo soliti chiamare “preghiera” l’invocazione, o la richiesta di grazie, o quelle noiosissime nenie che recitano formule senz’anima, senza partecipazione, senza canto. Queste «formule scritte da altri e assunte da noi senza che spesso riusciamo ad aggiungere nulla di nostro» non sono per Adriana Zarri vere preghiere perché «non consentono un libero e personale esprimerci e parlare col Signore».
Ma perché questa preghiera possa sorgere e scaturire spontanea e sincera con tutta la partecipazione del cuore bisogna ribaltare quella concezione teologica che descrive la terra come «valle di lacrime» o come «esilio», perché, scrive la teologa, monaco ed eremita, Adriana Zarri, se la terra è «la creazione bella e buona predisposta dal Signore per noi», se non è «un deserto, ma un giardino: il giardino dell’Eden», se «il Signore non ci ha messi in esilio, ma ci ha collocati nella nostra patria, nella casa che aveva amorevolmente preparato per noi», allora a questa patria, a questa casa, a questo giardino a questa terra dobbiamo essere fedeli e «pregare Dio per questa terra in senso proprio, questa terra di terra, per questo cielo d’aria e non per quello metaforico popolato dagli angeli, per questo cielo nostro, questo cielo di nuvole e di vento, percorso dalle ali degli uccelli».
Così risuona nelle parole di Adriana Zarri l’invocazione di Nietzsche: «Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra», ma risuonano anche le «sovraterrene speranze» a cui Nietzsche invita a non credere.
Eppure la fedeltà alla terra di Adriana Zarri fa la sua comparsa anche nelle «sovraterrene speranze» se appena ascoltiamo l’invocazione della sua ultima preghiera: «E questo nostro dolce mondo, ti prego, Dio, fallo risorgere tutto, così com’è, perché è così com’è che noi lo amiamo, ed è così com’è che noi lo attendiamo quando “i cieli nuovi” e “le terre nuove” che ci hai promesso risorgeranno dal gran rogo finale. Ti prego, non dimenticartene, Signore, perché io aspetto di trovarle di là. Se non ci fossero ne resterei delusa, e in paradiso non può esserci delusione».
Possiamo leggere questo libro di Adriana Zarri, che prega il Signore con il canto che si leva dalla contemplazione delle sue creature e delle sue bellezze, che il succedersi delle stagioni offre nella loro varietà, in sintonia con la variazione che caratterizzala la gamma dei nostri sentimenti, come un libro lirico, mistico, non dissimile dalla mistica francescana.
Ma Adriana Zarri non è solo questo. Perché da teologa ha anticipato il Concilio Vaticano II, e da voce libera e forte ha avuto il coraggio di ribaltare quella visione che il cristianesimo, dimentico del Vangelo, ha ereditato da Platone, il quale ha disprezzato la terra e il mondo sensibile per il mondo delle idee collocate sopra il cielo. Questa tradizione greca e non cristiana è stato ripresa da Agostino che ha deprezzato la città terrena per esaltare quella celeste, e da allora in poi la terra è diventata valle di lacrime e di dolore: il dolore che redime.
Quasi una preghiera, prima di essere un libro lirico o mistico, è un libro teologico, dove ciò che si chiede è di abbandonare il dualismo platonico e poi cristiano che oppone la terra al cielo, lasciando l’uomo senza quella patria, quella casa, quel giardino che il Signore aveva amorevolmente preparato per lui.
La cripta di Adamo ed Eva
A Matera la Bibbia degli analfabeti: guardando imparavano le «Scritture»
di Carlo Vulpio (Corriere La Lettura, 22.04.2012)
Nel buio di una delle grotte che, come finestrelle, dalla parete di roccia carsica si affacciano sulla gravina - letteralmente: piccola grave, in realtà fenditura a strapiombo che non ha nulla da invidiare ai canyon americani -, nel buio di una di queste grotte, illuminata dal basso grazie a una sapiente disposizione di luci «calde», si può vedere come l’uomo, e la donna, persero il paradiso.
La gravina che va da Matera fino a Ginosa, a Castellaneta, a Massafra e sbocca nel mare Jonio è una lunga cicatrice ricca di insediamenti e chiese rupestri che segna longitudinalmente l’altopiano delle Murge. Ma la grotta nascosta in questa parte di gravina ancora lontana dal mare, a pochi chilometri da Matera, avvolta con la delicatezza di un velo dal paesaggio della riserva naturale della diga San Giuliano, è - per quel che contiene - unica in tutto il Mezzogiorno d’Italia e nel Mediterraneo. In questa grotta, chiamata anche Grotta dei cento santi o, più propriamente, Cripta del peccato originale, si può «vedere» il Paradiso perduto di John Milton, il meraviglioso poema che racconta «Del primo atto di disobbedienza/ che l’uomo ha commesso, e del frutto/ dell’albero proibito, il cui fatale/ sapore ci portò dolore e morte».
Si può «vedere», abbiamo detto, e così è. Il ciclo di affreschi che decora la cripta - scriveva nel 1981 la storica dell’arte Anna Grelle Iusco - è una vera e propria «Bibbia figurata, che invadeva pareti e volte della chiesa rupestre del Peccato originale in una successione di episodi ora narrati per sequenze temporali, ora per emblematiche teofanie».
La cripta è stata aperta al pubblico solo alcuni anni fa - esattamente il 23 settembre 2005 -, dopo il recupero curato dalla fondazione materana Zétema e dall’Istituto centrale del restauro di Roma, con la direzione scientifica dell’ex soprintendente ai Beni artistici della Basilicata, Michele D’Elia, e grazie al finanziamento delle fondazioni Banca Cariplo di Milano, Carisbo di Bologna e addirittura della fondazione di Piacenza e Vigevano, mentre le banche indigene e i presunti mecenati locali brillavano per assenza e indifferenza.
«Bibbia figurata», dunque, o anche «Bibbia dei poveri», cioè dei semplici, degli analfabeti, di coloro i quali non sapendo leggere potevano ricorrere soltanto alle immagini per capire cosa era accaduto nell’Eden e così comprendere fino in fondo quale tremendo castigo fosse stato aver perso il Paradiso. Le tenebre e la luce, Dio e i suoi arcangeli, l’Albero della vita - una palma - e l’Albero della conoscenza - un fico -, il Serpente e Adamo ed Eva. Tutti immersi in un tripudio di fiori rossi - sempre lo stesso fiore, il cisto rosso - che hanno meritato all’anonimo frescante il nome di «Pittore dei fiori di Matera».
La scoperta della grotta avvenne per caso, «in un pomeriggio canicolare del luglio 1962, mentre con gli amici del circolo culturale La Scaletta lavoravamo alla ricognizione del patrimonio storico-artistico di Matera», scrive Raffaello de Ruggieri ne La cripta del peccato originale a Matera (Giuseppe Barile editore). L’allora giovane avvocato de Ruggieri, che oggi è presidente della fondazione Zétema, non ha mai più rivisto né ha conosciuto nemmeno il nome del contadino a cui quel giorno diede un passaggio in macchina, quando lo vide a una decina di chilometri dalla città che arrancava sotto il sole con un radiatore rotto sulle spalle. Fu come un’apparizione. Durante il tragitto, quell’individuo taciturno aprì bocca solo per rivelare al «buon samaritano» che lo aveva preso a bordo l’esistenza di una grotta molto particolare, in cui lui, fin da quando aveva dieci anni, ricoverava le pecore.
Disse, il pastore-contadino, che quando riparava in quella grotta, «le cento figure di santi che stanno sulle pareti» lo facevano sentire tranquillo e che certe volte si addormentava lì, anche di notte, ma si sentiva al sicuro, perché «protetto dalle tre figure con le ali, che hanno gli occhi spalancati e vegliano su di me». Parlava dei tre Arcangeli, ma de Ruggieri e i suoi amici della Scaletta non potevano saperlo. Lo capiranno solo un anno più tardi, quando scopriranno, dopo averla cercata in ogni anfratto della gravina e proprio quando stavano per arrendersi, la Grotta dei «cento santi» di cui aveva raccontato il contadino. L’emozione della scoperta fu così forte che de Ruggieri, sua moglie Teresa e i suoi amici Carlo Scalcione e Maria Sinatra si ritrovarono per terra, abbracciati, come ragazzini felici che avessero vinto una caccia al tesoro. «Ribattezzammo subito quell’antro meraviglioso con il nome di Cripta del peccato originale», ricorda de Ruggieri.
Le scene raffigurate in questa grotta - che divenne, con ogni probabilità nell’VIII secolo, uno dei tanti cenobi di monaci benedettini grazie alla sua naturale posizione protetta, così com’era stato per le comunità che avevano abitato la gravina nelle età del Bronzo e del Ferro - sono scene semplici, ma chiare ed efficaci. Proprio come voleva papa Gregorio Magno già nel VII secolo. Di fronte alla tendenza iconoclastica dell’impero d’Oriente, legittimata dall’editto dell’imperatore Leone III, l’Isaurico, contro il culto delle immagini, in Occidente papa Gregorio Magno incoraggiò la raffigurazione della divinità e degli episodi delle Sacre Scritture.
La pittura fu il principale veicolo della sua politica culturale e religiosa. E attraverso la pittura, quindi le figure, ottenne che tutti potessero capire ciò che era scritto nei sacri testi e avessero la possibilità, scriveva Gregorio Magno al vescovo di Marsiglia, di «imparare mediante l’immagine della pittura che cosa si debba adorare: infatti ciò che è la Scrittura per quanti sanno leggere, questo offre la pittura a quanti non istruiti la guardano». Ecco dunque affermarsi il concetto di Biblia Pauperum, la Bibbia dei poveri, che nella Cripta del peccato originale trova la sua piena realizzazione e anzi la sua esaltazione in un ciclo di affreschi davvero unico, quasi una pellicola cinematografica srotolata e affissa alle pareti della grotta secondo la successione cronologica degli episodi del Libro della Genesi.
Le Tenebre e la Luce sono rappresentate da due figure simili ma opposte: la prima ha il volto inespressivo e le mani in grembo, legate, mentre la seconda è nettamente più femminile, con gli abiti colorati, il viso radioso e le braccia levate al cielo, esultante. Il Cristo benedicente è una figura per nulla ieratica e anzi quasi familiare, vestito di una semplice tunica, mentre Dio si manifesta soltanto attraverso la cheirofania, la sua mano che dall’alto si indirizza, quasi a toccarli, verso Adamo ed Eva. I quali, a differenza degli altri i personaggi, sono raffigurati nudi in tutte le scene che li riguardano, dalla nascita di Eva da una costola di Adamo fino al dialogo di lei con il serpente e al frutto proibito mangiato da entrambi. In tre nicchie, poi, ecco gli affreschi delle tre triarchie: san Pietro con sant’Andrea e san Giovanni, la Madonna con il bambino in mezzo a due donne adoranti, e infine i tre Arcangeli, con san Michele al centro che benedice alla maniera greca, tenendo una palma nella mano sinistra.
La cripta, giova ribadirlo, è stupenda. E gli affreschi sono tutti degni della massima ammirazione. Però, secondo Valentino Pace, docente di Storia dell’Arte medioevale all’Università di Udine ed esperto di arte medioevale nell’Italia meridionale, ce n’è uno che è più bello, o almeno più significativo, di tutti gli altri, ed è la Madonna con Bambino. Che in realtà è una Vergine regina - e infatti è affiancata da due sante inginocchiate -, la cui figura aristocratica e longilinea le conferisce un aspetto imperiale che non ha nulla da invidiare a quello della celebre imperatrice Teodora, che si trova nella basilica di San Vitale a Ravenna. È il «tema della regalità della Vergine» a fare la differenza. Un tema, sostiene Pace, «che nell’Italia meridionale era stato proposto per la prima volta tra l’826 e l’842 nel ciclo pittorico dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno» (vicino a Isernia, in Molise).
In più, in questa Vergine regina - chiamata anche la Basilissa, alla maniera bizantina - si può notare ancora meglio il conflitto tra i due mondi, anche artistici, in cui si era scisso l’Impero, quello latino occidentale e quello greco orientale. La Basilissa di Matera, per esempio, non ha quella che Ferdinando Bologna definì «la fissità iconica, sempre troppo astratta e capziosa, dell’arte di Bisanzio». E questo anche perché nella parte occidentale i Longobardi della «Langobardia minor», come loro chiamavano l’Italia meridionale, guardavano al modello religioso benedettino - fondato su lavoro e preghiera -, che era ben diverso da quello ascetico ed eremitico dei monaci bizantini.
E poi c’era la politica. I Longobardi fronteggiavano e contendevano ai Bizantini e ai Saraceni l’egemonia sugli stessi territori e Matera da questo punto di vista, come ha ben spiegato Rosalba Demetrio nel suo Matera, forma et imago urbis (edito sempre da Barile), si trovava in una sorta di terra di mezzo, con la contemporanea presenza dell’autorità greca e di quella longobarda, la coesistenza del diritto romano-bizantino e di quello longobardo, oltre al temporaneo assoggettamento - a metà del IX secolo - all’Emirato di Bari, da dove i Saraceni riuscivano spesso a sfruttare a proprio vantaggio i contrasti fra Longobardi e Bizantini. Poi arrivarono i Normanni e anche Matera fu definitivamente «latinizzata». Ma la «contiguità» tra culture che caratterizzò quei secoli non si dissolse e insieme con la Cripta del peccato originale ci ha lasciato altre cento bellissime chiese rupestri. Con i Sassi - dei quali non c’è bisogno di dire nulla, se non che vanno salvati dallo sciagurato progetto di «incorniciarli» tra una ventina di gigantesche pale eoliche -, questa terra di mezzo oggi può ben ambire a diventare, nel 2019, capitale europea della cultura.
L’antropologo nominato cardinale che ha riscoperto la Preistoria
Julien Ries: Lévi-Strauss sbagliava, ha trascurato la trascendenza
di Armando Torno (Corriere della Sera, 04.02.2012)
Julien Ries, professore emerito a Louvain La Neuve di Storia delle religioni, è cappellano presso la Famiglia spirituale l’Oeuvre a Villers Saint Amand (nel Belgio vallone). La Cattolica di Milano, alla quale ha lasciato biblioteca e archivio, gli ha conferito la laurea honoris causa nel 2010. La nomina a cardinale è giunta per i suoi lavori scientifici e culturali. Riceverà la berretta il 18 febbraio. Le sue opere complete stanno uscendo da Jaca Book, casa editrice con cui collabora da un quarto di secolo. Lo abbiamo intervistato.
La porpora a 92 anni. Cosa dice il suo cuore?
«È stata una grande sorpresa, ero totalmente meravigliato. Non me l’aspettavo. Nella vita capita quello che succede nell’evoluzione: un imprevisto permette un salto in avanti. Ho riflettuto sulle ragioni e ho pensato che prima di me c’era stato Franz König, di Vienna...»
Che giocò un importante ruolo nel Concilio...
«...come storico delle religioni. Era un grande conoscitore dell’Iran e aveva, tra i molti lavori, comparato l’escatologia di Zoroastro con l’Antico Testamento. Ma, al di là di tutto, credo che siano i miei studi di storia delle religioni e anzitutto quelli sull’antropologia religiosa che hanno giocato nella nomina».
Continuerà la sua opera o la porpora è troppo pesante?
«No, non lo è; anzi è una leva che permette di avere una visione migliore della missione intrapresa e un’idea più entusiasta del lavoro ancora da compiere. La mia giornata di studio e di raccoglimento continuerà. Comincio alle 5 di mattina: preghiera e meditazione, poi celebro la messa a cui vengono le suore dell’"Oeuvre". Tengo una omelia tutti i giorni, nella quale ricordo santi e avvenimenti della Chiesa per orientare il nostro lavoro. Traggo ispirazione da Ambrogio, che influenzò anche Agostino. Dalle 9 fino alle 12 mi dedico allo studio e alla scrittura. Lo stesso faccio dalle 3 di pomeriggio alle 6 di sera. Poi la cena. E il riposo».
Cosa manca oggi alla cultura?
«Primariamente la coscienza della storia, della storia dell’umanità. È una disciplina quasi dimenticata. E la storia della cultura ha bisogno di essere conosciuta per sapere dove mettere i piedi. Il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes, che parla della relazione Chiesa-mondo, ha posto un capitolo importante sulla cultura, che andrebbe riletto oggi. Per la Chiesa è stato un impegno serio e il lavoro di figure quali il cardinale Ravasi ne è la prova».
Cosa va scoperto e valorizzato nella cultura di oggi?
«La cultura attuale ama la superficie e ha perso il senso: smarrirlo equivale a non trovare più la ragione della vita. In Europa, per esempio, manca la coscienza della storia cristiana. C’è dunque un lavoro in profondità da fare e occorre, tra l’altro, attivare il dialogo con i non credenti. Non si deve inoltre avere alcuna paura per l’immigrazione, ma non si possono trasformare le periferie in luoghi di parcheggio che ricordano la colonizzazione, quando i nativi erano posti in "campi" e gli europei vivevano per proprio conto. Io seguito a utilizzare il termine acculturazione per esprimere l’accoglienza simpatetica di altri popoli. Uso poi il vocabolo inculturazione per esprimere come l’annuncio del Vangelo debba tener conto di rivolgersi a culture diverse».
Riscoprire la Chiesa. È possibile ancora?
«Per riscoprire la Chiesa è necessario trasmettere un entusiasmo per Cristo, che la nostra generazione ha quasi perso. Ma ai giovani è possibile. Si tratta di ritrovarlo nel Vangelo: ci vogliono profeti per la nostra epoca. Ce ne sono stati di recente, come don Giussani, Chiara Lubich e altri».
Lei è considerato il più grande antropologo religioso del nostro tempo. Un giudizio sull’antropologia «non» religiosa...
«L’antropologia "non" religiosa è una scienza orizzontale, guarda l’uomo nelle sue dimensioni sociali e, a volte, con occhi che fanno fatica a vedere, come quella strutturale di Lévi-Strauss. In noi c’è un’altra dimensione. Sant’Ireneo diceva che l’uomo che sta ritto in piedi è la gloria di Dio. Occorre vedere assieme alla dimensione orizzontale quella verticale: l’uomo è piantato verso il cielo. Dunque all’antropologia non deve mancare la trascendenza e l’antropologia religiosa è marcata dalla trascendenza. Da qui l’importanza dell’homo religiosus».
Teilhard de Chardin. Questo gesuita turba ancora la Chiesa?
«Sta tornando! Le ricerche attuali sull’evoluzione mostrano la visione chiara e lungimirante che aveva Teilhard. È stato De Lubac a indicare per primo il vero volto di Teilhard. Oggi la Chiesa riconosce che commise un errore nel metterlo da parte».
Il mondo sta cambiando. È solo crisi economica?
«La crisi economica profonda ha le sue radici nel neoliberismo. Si è puntato su ricchezza e beni materiali e non si è capito che sono campi da regolare. Siamo in un contesto di materialismo liberale. Accanto ad esso, c’è una crisi dello spirito per la perdita di veri punti di riferimento culturali. La mondializzazione è un monogambismo, ma per camminare occorrono due gambe. Occorre rileggersi le encicliche che denunciavano le società con una sola gamba».
I fondamentalismi religiosi?
«Hanno toccato molte fedi, e ne hanno fatto delle ideologie. Nell’Islamismo si mischia politica e religione, ma è il progetto politico che prevale e si vuole fare di esso la costituzione del mondo. Il fondamentalismo indù sta ripetendo un errore simile al nazismo, considerando necessaria, indispensabile ed unica per l’India appunto l’identità indù. Perderebbe in tal modo la grande visione dell’uomo e del mondo. Nel cristianesimo osserviamo lo stesso fenomeno con l’integrismo che seleziona i testi e trasforma la religione in ideologia. Lo abbiamo visto nella guerra del Golfo. L’ideologia fondamentalista sovverte l’uomo religioso, diviene intolleranza ideologica e rende il dialogo impossibile».
Molti suoi lavori si rifanno alla Preistoria. Perché?
«Ho trovato in essa le nostre radici. Con la Preistoria noi vediamo che in partenza l’uomo è marcato dal simbolismo ed è homo religiosus; e questo lo caratterizza. Da oltre due milioni di anni osserviamo la crescita di ciò che chiamiamo ominizzazione e seguiamo il percorso dell’umanità sino al Paleolitico superiore alle grandi grotte dipinte: segno, con la già precedente sepoltura dei morti, di un grande senso della trascendenza. C’è una crescita della coscienza nella storia dell’umanità che porta alla nascita delle grandi culture e religioni, ma noi notiamo che dal suo apparire l’uomo è simbolico e religioso. Questa consapevolezza è importante per il nostro tempo, per tale motivo mi sono interessato di Preistoria. Oggi abbiamo bisogno delle costanti del sacro: simboli, miti, riti. Oggi sappiamo che la Preistoria, un tempo considerata separata dalla storia per la mancanza della scrittura, è già storia. Non c’è alcuna rottura da quando appare l’uomo».
la civiltà è nata 7000 anni prima delle piramidi
di Alex Saragosa (la Repubblica/Il Venerdì, 13.05.2011)
Sì, il paradiso terrestre esisteva e, anche se non c’entrano nulla serpenti e mele, l’abbiamo perduto. Nel momento in cui abbiamo deciso di rompere il patto con la natura. Questo sembra rivelare una delle più clamorose scoperte archeologiche degli ultimi anni, descritta dal suo autore, il tedesco Klaus Schmidt, del celebre Istituto archeologico di Berlino, nel saggio da oggi in libreria Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286, euro 24,50). L’edizione italiana è la prima in traduzione, quattro anni dopo quella tedesca. In altri Paesi il libro uscirà in settembre, ma non è prevista un’uscita in lingua inglese, pare per l’ostilità delle élite archeologiche anglosassoni, che mal digeriscono l’idea di dover completamente rivedere la ricostruzione della storia dell’umanità fin qui accettata.
"Il più importante sito archeologico del mondo", come l’ha definito l’archeologo sudafricano David Lewis-Williams, si chiama Göbekli Tepe (la "collina panciuta"), ed è un modesto rilievo a nord della città turca di Urfa, vicino al confine siriano. La zona è la parte più settentrionale della cosiddetta "mezzaluna fertile", l’area compresa fra Palestina, Turchia sud-orientale e Iraq. Qui, circa undicimila anni fa, tribù di cacciatori iniziarono a raccogliere e poi piantare cereali selvatici, inventando così l’agricoltura, e diedero il via a una serie di innovazioni - scrittura, città, monumenti, Stati - che avrebbero cambiato il destino dell’umanità.
Nel 1994 Klaus Schmidt, studiando siti neolitici nel Nord della mezzaluna fertile, andò a dare un’occhiata a Göbekli Tepe, già visitato, trenta anni prima, da una spedizione americana, che l’aveva liquidato come "cimitero medievale". Schmidt capì che quelli che erano stati presi per lapidi tombali erano in realtà pilastri a T neolitici, cioè rappresentazioni stilizzate di persone, talvolta con volti, mani e una sorta di stola scolpiti. Ce n’erano a decine, dai due ai sette metri di lunghezza.
Nelle successive stagioni di scavo, Schmidt e i colleghi turchi hanno dissotterrato e ricostruito quattro grandi cerchi megalitici, dai dieci ai trenta metri di diametro, composti da 43 pilastri a T e muri a secco, decorati da centinaia di bassorilievi, con serpenti, volpi, avvoltoi, cinghiali, gru, leoni, asini, tori, anatre, ibis, insetti, ragni e scorpioni. "In pratica, uno zoo dell’età della pietra" dice Schmidt, "anche se alcune figure potrebbero rappresentare sciamani che danzano vestiti da animali". Sono state anche trovate statuette di uomini con il membro eretto, stipiti decorati con animali in altorilievo, misteriose cornici e anelli in calcare, mentre indagini con il georadar hanno rivelato che sulla collina sono sepolti altri sedici cerchi.
Il vero shock è arrivato dalla datazione delle ossa degli animali trovati nei vari strati archeologici, da cui si è scoperto che la realizzazione di Göbekli Tepe è iniziata undicimila anni fa, ed è continuata per 1500 anni, quando tutto è stato sepolto. In altre parole, quando i faraoni costruivano le piramidi di Giza e i celti Stonehenge, i cerchi megalitici di Göbekli Tepe erano già vecchi di sei-settemila anni. "I blocchi di calcare dei pilastri (anche di cinquanta tonnellate l’uno) sono stati estratti e scolpiti da migliaia di persone che non solo non conoscevano ancora ruota, ceramica o metalli, ma non avevano neanche inventato l’agricoltura o l’allevamento. Difatti abbiamo trovato sul posto solo punte di freccia e mucchi di ossa di animali selvatici, soprattutto gazzelle".
E questo contrasta con quanto si è sempre creduto, e cioè che l’agricoltura, con il surplus di cibo che produce, e un governo centrale, in grado di coordinare masse di lavoratori, siano condizioni necessarie per realizzare grandi monumenti. Ma le sorprese non finiscono qui. Sui pilastri, sotto le immagini principali, si trovano combinazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di "h". "L’aspetto richiama fortemente quello dei geroglifici egizi. Probabilmente si tratta di pittogrammi, dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. Insomma, l’idea di base della scrittura risulta anticipata di migliaia di anni" dice Schmidt.
Ma a cosa serviva questo complesso monumentale? "È ormai impossibile ricostruire il mondo simbolico e spirituale degli uomini di Göbekli Tepe, ma tutto, lì, parla di sacro. L’assenza di raffigurazioni femminili (persino gli animali delle immagini sono maschi) e la predominanza di rappresentazioni di specie pericolose o legate alla morte violenta, così come le statuette falliche, mi fanno pensare che si trattasse di un tempio per i defunti, forse anche un luogo iniziatico, dove i giovani apprendevano i miti". Una sorta di cattedrale neolitica, insomma, capostipite di tutti i luoghi di culto dell’umanità.
Le enormi dimensioni dell’impresa, secondo Schmidt, devono aver prodotto un "effetto collaterale" sconvolgente. "Per mantenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, c’è il monte Karaca Da, il luogo dove sono stati rinvenuti i capostipiti selvatici del grano coltivato. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare. Poi, dalla raccolta, si è passati alla coltivazione". Secondo Schmidt, quindi, è stato il primo dei monumenti umani ad aver spinto verso l’agricoltura, non questa verso i monumenti, come si pensava. Nel mondo spopolato uscito da appena due millenni dalla glaciazione, Göbekli Tepe, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, doveva essere il paradiso dei cacciatori-raccoglitori.
Nel momento in cui fu inventata l’agricoltura, per quel paradiso fu però la fine. Gli uomini, fino ad allora in equilibrio con l’ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, dissodare i terreni, bruciare erbe selvatiche e costruire villaggi vicino ai campi. La loro società egualitaria si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti. Comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie. E nuovi sanguinari dèi scalzarono gli idoli animali. A un certo punto la nuova società agricola deve aver deciso di cancellare l’antico santuario sotto metri di terra. Insomma Göbekli Tepe potrebbe essere il luogo dove l’uomo ha abbandonato il "paradiso terrestre" per entrare nell’era dell’"e tu coltiverai la terra con il sudore della fronte". Un cambio vantaggioso per molti versi, ma non per tutti...
Misteri
Un popolo sconosciuto
La Stonehenge della Turchia cambia la storia del Neolitico
Tempio di 12 mila anni fa sposta indietro la nascita della civiltà
Il complesso di Göbekli Tepe risale al 10 mila avanti Cristo mentre le piramidi di Giza sono del 2600 a.C. e Stonehenge del 2000 a. C.
I 40 monoliti (alcuni di 16 tonnellate) sono disposti in quattro cerchi principali: sono decorati con figure di animali di raffinata fattura
Gli scavi sono condotti da Klaus Schmidt del Deutsches Archaeologisches Institut di Berlino In Italia è appena uscito il suo libro «Costruirono i primi templi» (Oltre Edizioni)
di Giordano Stabile (La Stampa/TuttoScienze, 15.06.2011)
Quando nel 1994 l’archeologo tedesco Klaus Schmidt si imbatte in quella che con un nome stravagante i curdi della Turchia sudorientale chiamano «La collina con la pancia», è alla ricerca di qualcosa di «succoso», in termini archeologici, qualcosa che non gli faccia battere piste già consumate. La zona è una miniera di ritrovamenti e Göbekli Tepe è nota agli studiosi fin dagli Anni 60, ma considerata «senza particolare interesse». Il cumulo di terra dalle forme non del tutto naturali può al massimo nascondere qualche insediamento del Neolitico. Schmidt si convince che c’è sotto qualcosa di più complesso: «C’erano troppi utensili in pietra per non capirlo». Non immagina che sta per imbattersi nel più importante sito dell’età della pietra mai scoperto. «La collina con la pancia» è destinata a cambiare per sempre le nostre conoscenze, e le idee, sulla nascita della civiltà.
Göbekli Tepe è vecchio di almeno 12 mila anni. Siamo nel Neolitico «preceramico», senza oggetti in terracotta, l’età dei cacciatori raccoglitori, degli utensili in pietra, ma soprattutto dei primi animali domestici e delle primissime coltivazioni di cereali. I passi iniziali di un processo «culturale» che porteranno alla comparsa, 6 mila anni dopo, della scrittura, delle città, della civiltà umana come la conosciamo oggi. Ma fra gli ziggurat babilonesi, le piramidi egiziane, e i cacciatori-raccoglitori del Neolitico, c’è un abisso, 5 o 6 millenni. Göbekli Tepe ha dimostrato che quell’abisso non è così profondo. E che i nostri cacciatori-raccoglitori erano un popolo molto più sofisticato, propenso all’arte e alle speculazioni.
In più avevano «capacità tecniche così sorprendenti» da poter tagliare, incidere e trasportare 40 monoliti, alcuni pesanti 16 tonnellate, sulla «collina con la pancia» per costruire il più antico tempio mai scoperto, con le pietre scolpite con figure di animali che formano quattro cerchi e che un tempo facevano da colonne a edifici straordinari. Una gigantesca Stonehenge della Mesopotamia. Ottomila anni prima. «Gö bekli Tepe è sorprendentemente antica - conferma Schmidt -. Siamo intorno al 10 mila a.C., prima della ceramica e della ruota. Basti pensare che Stonehenge è del 2000 a.C. In più abbiamo dimostrato che non si tratta di un sito solo civile, bensì religioso, il più antico tempio della storia. Indica che i cacciatori-raccoglitori erano capaci di arte e speculazione, qualcosa che non era mai stato immaginato prima».
La scoperta di Schmidt, considerata «la più importante per l’epoca neolitica degli ultimi 50 anni» e raccontata in prima persona nel saggio «Costruirono i primi templi» appena tradotto in Italia (sarà presentato oggi dall’autore all’auditorium dell’Acquario di Genova, alle 17 e 30), va oltre le aspettative dell’ambizioso archeologo e necessita di un lavoro di équipe: al di là della complessità degli scavi, c’è bisogno di fondi per la copertura del sito, perché l’esposizione all’aria aperta, dopo millenni, non lo danneggi, mentre storici e paleontologi devono contribuire a decifrare il complesso monumentale.
Le domande si moltiplicano. Perché affrontare un’impresa simile, che richiedeva enormi investimenti di energia, squadre organizzate per i lavori, gruppi che procurassero cibo per tutti, anni di impegno? Che cosa volevano significare, celebrare gli uomini di Göbekli Tepe? «Credo che celebri la cattura, lo stile di vita dei cacciatoriraccoglitori - ipotizza Schmidt -. E perché non dovrebbe? Era una vita ricca e comoda, e offriva loro abbastanza tempo libero per dedicarsi alla scultura». In effetti, studi per esempio sui Boscimani in Africa, dimostrano che i cacciatori-raccoglitori «lavorano» soltanto 2-4 ore al giorno, sufficienti a procurarsi da vivere.
Ma le cose erano destinare a cambiare. «Riunirsi a scopi religiosi significa che avevano necessità di nutrire più persone - spiega Schmidt -. Così cominciarono a coltivare le erbe selvatiche». Era il passaggio all’agricoltura e nei dintorni di Göbekli Tepe sono stati trovati semi di Triticum monococcum, precursore dei cereali. E ci sono prove che i maiali vennero addomesticati nella regione, nella stessa epoca. È l’inizio della «rivoluzione del Neolitico», che porterà all’agricoltura e alla prima esplosione demografica. Finora gli studiosi hanno attribuito la svolta a un cambiamento climatico, a stagioni più calde che favorirono attorno al X millennio a. C. la coltivazione dei cereali. Göbekli Tepe, però, potrebbe dare una nuova lettura.
Lo spettacolare complesso, i raffinati bassorilievi visibili anche da lontano, potrebbero aver attirato gruppi sempre più numerosi di cacciatori-raccoglitori. La curiosità si sarebbe poi trasformata in culto. I pellegrinaggi al tempio, forse, sono diventati l’equivalente di quelli odierni alla Mecca o al Vaticano. E attorno al sito si sarebbe formata una società più complessa. Il preludio delle città. Schmidt non esclude questo tipo di speculazioni, anche se respinge interpretazioni più fantasiose. Göbekli Tepe venne sommersa da un fiume di fango, una tremenda alluvione. Qualcuno, specie in America, ci ha visto la prova del Diluvio universale. La «collina con la pancia» era il Giardino dell’Eden? Troppo anche per Schmidt: «È solo un fantasia».
VERSO L’EDEN: UN PARADIGMA PER I POSTERI.
SUL TEMA, NEL SITO, LEGGERE IL SAGGIO: *
Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO: *
[...] Fatto da vivo l’itinerarium in Deum e raggiunta “la felicità della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio (alla quale l’uomo non può elevarsi da sé senza il soccorso della luce divina) ed è raffigurata nel paradiso celeste”, egli è degno di indicare “la diritta via” per raggiungere “la felicità di questa vita” che è “raffigurata nel paradiso terrestre” (Monarchia, IlI, xv). Il De vulgari eloquentia, benché sia di poco precedente alla stesura della Commedia, s’iscrive entro questo orizzonte: vuoI essere un programma politico e culturale per la riconquista del Regno, non solo d’Italia - per l’instaurazione della monarchia temporale o, che è lo stesso, dell’Impero. La lingua d’Amore della Vita Nuova (XXIV, 3), divenuta lingua di Salvezza Amore e Virtù (Salus Venus e Virtus), nel De vulgari eloquentia vuol essere infatti - proprio perché ha reso possibile il recupero di quella “ben determinata forma di linguaggio” creata da Dio, di cui “farebbero uso tutti i parlanti nella loro lingua, se essa non fosse stata smembrata per colpa dell’umana presunzione” (I, vi, 4) - la restaurata lingua prebabelica (7).
L’orizzonte ideologico del tempo non può far vedere (né tanto meno nominare) a Dante come alle forze sociali emergenti il nuovo per cui essi lottano. Nel momento in cui la società borghese comincia a prendere coscienza di sé e lotta per i propri obiettivi, non può farlo se non con gli strumenti a disposizione, come attesta questo documento del 1257:
Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...] (8).
Alla luce di questo atto di manomissione (9) molte cose si fanno più chiare. [...]
*Per leggere, cliccare qui -> Contro le pretese e le tracotanze teocratiche dei Bonifacio VIII e dei Giovanni XXII di ieri e di oggi.
Dante (e Bacone), alle origini del moderno!!! Pace, giustizia e libertà nell’aiuola dei mortali - di Federico La Sala
Il fondamentalista non riluttante
De Mattei: Il paradiso terrestre è esistito davvero
intervista a Roberto De Mattei,
a cura di Antonio Gnoli (la Repubblica, 11 aprile 2011)
Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all’appuntamento col professor Roberto De Mattei, l’uomo che con le sue idee - professate in varie sedi e occasioni - ha vinto l’Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l’immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa?
Se insieme al taccuino avessi con me un bel "tapirone d’oro", la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa?
Il problema è che De Mattei non è un signore qualunque: egli è vicepresidente del Cnr, un incarico che lo pone ai vertici della struttura che in teoria dovrebbe guidare la ricerca scientifica in Italia. Ma al tempo stesso egli ha una rubrica su Radio Maria, dirige il periodico Le radici cristiane, insegna alla Nuova Università Europea che appartiene ai Legionari di Dio. Il suo ultimo libro (pubblicato da Lindau) è una rilettura molto polemica del Concilio Vaticano II. Sguazziamo in un bel pasticcio ideologico.
Da dove nascono le sue provocazioni?
«Dalla mia coerenza. E dai miei studi. Sono stato allievo di Augusto Del Noce e Armando Saitta. Ho insegnato come associato all’Università di Cassino. Oggi ho un incarico alla Nuova Università Europea dove insegno storia moderna e storia del cristianesimo. Purtroppo sono spesso dipinto in maniera caricaturale».
Lei è vicepresidente del Cnr, un grande ente scientifico, diciamo il corrispettivo del Max Planck. Come è avvenuta la sua nomina?
«Fu la Moratti, nel 2004 Ministro dell’Istruzione, a nominarmi».
Perché scelse lei?
«Il Cnr ha anche un settore minoritario dedicato alle scienze umane. Al cui interno cadono le mie competenze».
Si è mai chiesto se ci fossero studiosi più preparati di lei, più legittimati sotto il profilo dei titoli e delle idee?
«Ho scritto centinaia di articoli, decine di libri, partecipato a convegni internazionali».
Non ci sono echi significativi dei suoi lavori nella comunità scientifica.
«Non è questo il punto. La contestazione alla mia nomina, una vera e propria levata di scudi, si basava sul fatto che la mia cultura cattolica era negatrice di alcuni valori fondanti della democrazia occidentale. Non ho mai nascosto che la fede religiosa non sia solo una questione privata, ma vada testimoniata pubblicamente».
Ho di fronte un missionario e un martire.
«Penso che il cristianesimo non possa ridursi a una religione intimistica e individuale, ma debba proiettarsi nella vita pubblica».
E questo l’autorizza a dichiarare che lo tsunami in Giappone è stato un castigo divino?
«Parlavo a titolo personale da una radio cattolica e non in qualità di vicepresidente del Cnr. Ho svolto una riflessione sul grande mistero del male e ho detto che tutto ciò che accade ha un significato. Non si muove foglia che Dio non voglia, verità antica e perenne. Coloro che credono in Dio sanno che esiste una remunerazione, che per i cattolici sia chiama inferno. E come si legge nella dottrina di Sant’Agostino e Bossuet anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Terremoto in Giappone e all’Aquila, devastazioni, guerre, catastrofi, crisi. Per lei Dio è molto occupato in questo momento?
«Non direttamente. Se Egli permette questo male non intendo dire che sia l’autore del male, perché altrimenti cadremmo in una visione manichea. Non esiste un Dio del male. Egli è il sommo bene capace di trarre il bene dal male. Anche dalla catastrofe giapponese».
Il Giappone è a prevalenza scintoista.
«Non ho la pretesa di conoscere la ragione per cui Dio ha permesso che ciò accadesse. Ma so che una ragione c’è».
Un’affermazione così perentoria e ilare la mette in totale contrasto con la comunità scientifica.
«Mi mette in contrasto con lo scientismo. A cominciare da Galileo, lo stesso Newton, ma poi Spallanzani, Mercalli, Pasteur, Mendel, fino a Max Planck, sono stati grandi scienziati che hanno creduto all’esistenza di Dio e non hanno trovato un contrasto tra la loro fede e la scienza».
Ma nessuno di loro si è piegato ai metodi biblici per spiegare il mondo. Per lei la Bibbia è il testo di riferimento?
«Per un cattolico non può che essere così. Lei sa che fin dal Concilio di Trento...».
Non vada troppo indietro. Contro l’evoluzionismo lei è un assertore del disegno divino. E le prove le ricava tutte dalla Bibbia. Un po’ poco, no?
«Per un cattolico la Sacra Scrittura va letta non come libero esame razionalista, ma alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa».
Con quali conseguenze?
«Che un cattolico deve credere, per esempio, nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria da cui è nato il genere umano».
Uno scienziato inorridirebbe.
«Respingo il poligenismo evoluzionista. Se un cattolico lo accettasse verrebbe a cadere l’idea di un peccato originale trasmesso da una coppia di progenitori a tutta l’umanità. La mia battaglia culturale non è solo contro il laicismo, ma si svolge soprattutto all’interno del mondo cattolico sottomesso al clima intellettuale dominante».
Insomma lei sostiene che Adamo ed Eva non sono figure simboliche ma reali?
«Il paradiso terrestre è una realtà storica non una metafora».
Non le viene il dubbio che la storia della Terra, la sua origine, si possa raccontare in maniera diversa?
«Io ripropongo una cosmologia cristiana che fa capo alla stessa visione di Benedetto XVI».
Lei sa che la grande rivoluzione scientifica del Seicento cambia nel profondo anche la cosmologia cristiana, come può non tenerne conto?
«Mi pare più grave voler interdire la possibilità a un cattolico di esporre pubblicamente le proprie visioni cosmologiche e metafisiche».
Fino al punto di affermare che la caduta dell’Impero Romano avvenne principalmente per colpa dei gay?
«In realtà in quell’occasione io feci mio il discorso del Papa che paragonava la crisi del mondo attuale alla decadenza dell’Impero Romano. La cui caduta, secondo me, più che alle invasioni barbariche va fatta risalire al relativismo morale e culturale che lo minavano dall’interno».
E i gay?
«Un ragionamento che ho ripreso da Salviano di Marsiglia. Coevo di Sant’Agostino».
Come è stata la sua infanzia?
«Tranquilla. Sono nato e vissuto a Roma. Provengo da una famiglia cattolica. Mio padre e mio nonno erano professori universitari. Sono sposato e ho cinque figli ormai grandi».
Come reagiscono alle sue intemerate?
«Sono tutti dei buoni cattolici. Ho il loro sostegno. Certo, ricevo da fuori molti insulti, ma anche gente che mi sostiene e mi incita ad andare avanti».
Ha mai immaginato di farsi prete?
«Non ho mai avuto questa vocazione, né crisi mistiche. Sono un’eco del XXI secolo di una tradizione che viene da lontano e che è radicata nel senso comune. Quelle che espongo non sono idee originali o particolari, perché se tali fossero vivrebbero lo spazio di una bufera mediatica. Al di là della mia persona queste idee affondano nelle radici della coscienza stessa dell’Occidente».
Lei è un cattolico integralista?
«Mi piacerebbe definirmi un cattolico tout court. Ma oggi è insufficiente. Sono un cattolico senza compromessi».
Il barone e l’invertito
di Marco D’Eramo (il manifesto, 12 aprile 2011)
Invertiti, avvertiti, convertiti, divertiti, pervertiti, riveriti, sovvertiti di tutta Italia, unitevi! Anzi uniamoci contro l’esimio barone Roberto De Mattei che sulle onde di Radio Maria attribuisce la caduta dell’impero romano all’«effeminatezza degli invertiti» e teme per l’Italia «l’invasione dell’Islam» («religione indubbiamente basata sulla violenza e sulla sopraffazione»). Uniamoci noi per liberarci di quest’inquietante macchietta, che non è un radioimbonitore qualunque, ma è il vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
Cioè dell’organo statale preposto alla ricerca scientifica. Facciamolo, visto che migliaia e migliaia di intrepidi scienziati italiani se ne guardano bene. E, per ragioni di bottega, lo temono e si tacciono. Questo paladino del razionalismo critico era noto finora per le tesi creazioniste, per avere organizzato nel 1999 un convegno antidarwiniano e per aver scritto nel 2009 Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, pamphlet finanziato con 9.000 euro di denaro pubblico.
Ma da ultimo si è superato, prima con la fantasiosa spiegazione del perché declinò la civiltà classica (un declino davvero lungo: Socrate e Platone «invertiti» erano - per usare l’elegante termine di De Mattei - nove secoli prima che l’impero romano fosse dissolto). E poi per aver spiegato, sempre su Radio Maria, che il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio», tesi ribadita ieri in un’intervista ad Antonio Gnoli di Repubblica: «Anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Non sappiamo se De Mattei sarà ricordato come l’uomo che schiantò Darwin. Ma certo già oggi è colui che ha disintegrato la reputazione prima di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, e poi dell’intero corpo scientifico italiano. Infatti quel che rende insopportabili le panzane del già professore associato all’università di Cassino è quel che il pensiero femminista chiama «il luogo di enunciazione».
Molti telepredicatori statunitensi propagano castronerie ancora più surreali, ma almeno loro non sono stati messi alla testa dell’apparato pubblico di ricerca scientifica. Invece le ministre Moratti e Gelmini lo nominarono nel consiglio d’amministrazione del Cnr per ingraziarsi un po’ il Vaticano e un po’ la corrente di Gianfranco Fini, visto che De Mattei è considerato in quota ai finiani: e quest’affiliazione non è estranea all’indulgenza, soprattutto recente, mostrata nei suoi confronti dai professori di centrosinistra. Certo che De Mattei al Cnr è come un iconoclasta alla Galleria degli Uffizi. Con un altro governo sarebbe stato inimmaginabile mettere un creazionista bigotto nella sala di controllo della ricerca.
Ma chi da questa storia esce peggio è la comunità scientifica e accademica italiana. Più delle corbellerie omofobe di De Mattei, a colpire è il silenzio pavido degli scienziati. È la loro viltà. Abbiamo tanto sparlato degli accademici sovietici che subirono le assurde dottrine biologiche di Lyssenko senza fiatare, per paura di perdere il posto, per compromesso, per quieto vivere, perché magari nel frattempo Stalin lasciava lavorare veri scienziati come Pyotr Kapitza e Lev Landau.
Ma allora cosa dovremmo dire dei nostri accademici, dei ricercatori che tacciono o tutt’al più mugugnano sottovoce? (Il mugugno era diritto garantito alle ciurme in cambio del divieto -pena la morte - di ammutinamento). Anzi bofonchiano. A volte persino lo difendono perché il prode De Mattei sarebbe l’unico baluardo che ripara il presidente del Cnr Luciano Maiani dalle Gelmini, dai Berlusconi, o dai tagli di Tremonti.
Il fisico Maiani è un valentuomo, ma il peso della Chiesa l’ha sentito tutto sulle sue spalle: quando nel 2007 firmò una lettera pubblicata dal manifesto in cui alcuni docenti (tra cui Marcello Cini e Giorgio Parisi) definivano «incongrua» la visita di papa Ratzinger all’università La Sapienza di Roma, come per incanto la sua nomina al Cnr fu bloccata per mesi in Commissione. È così che discepoli di Galileo, scienziati evoluzionisti e baciapile oscurantisti vivono tutti insieme felici e contenti.
Nel giardino mistico dove abita l’homo faber
di Marco Dotti (il manifesto, 13 gennaio 2011)
«Il mio lavoro, il mio impegno, le mie capacità». Sono queste le prescrizioni di metodo, dai forti «accenti cartesiani» che Robinson Crusoe, disperso in un punto imprecisato dell’estuario del fiume Orinoco, tenta di imporre e di imporsi. In quel luogo staccato dal resto del mondo - un’isola - Robinson costruisce la propria officina, per dare senso al disordine della natura e alla tendenziale anarchia delle cose che lo circondano e la abitano. La ragione tecnica e la smania classificatrice del lavoro, condotto per l’appunto con «capacità» e «impegno», tendono - almeno nelle buone intenzioni del naufrago immortalato da Daniel Defoe nel celebre romanzo del 1719 - ad assimilare l’alterità selvaggia dell’isola deserta a una logica precisa: quella del «produttore», dell’homo faber visto e sentito come l’unico e vero «soggetto della storia». Nel libro che Michel de Certeau non ha mai smesso di considerare come «uno degli ultimi miti occidentali antecedenti Totem e tabù» di Freud, qualcosa in un dato momento, semplicemente, accade.
Tra terrore e bizzarrie
Accade, ad esempio, che l’intero sistema di segni che garantiva la stabilità di Robinson vacilli, consegnandolo a un panico che lo stesso Defoe sintetizza affidandosi a tre termini: «pensieri folli» (fluttering thoughts), «bizzarrie» (whimsies), «terrore» (terror). È un attimo, una modestissima parentesi che - insinuatasi in un piccolo punto della robinsonnade, proseguendo per circa cinquanta pagine - spacca il romanzo in due e apre una falla nell’impresa stessa di Robinson, interrompendone così la «colonizzazione volorantistica e moralizzatrice».
Sul bordo dell’isola, al limite di quello che è diventato il mondo a lui conosciuto, in cui è disperso ma di cui si sente «padrone», Robinson scopre l’impronta di un piede umano. Davanti alla traccia imprevista, il colonizzatore borghese esce letteralmente di sé, sragiona, sembra diventare egli stesso un selvaggio. Ai giorni chiari dell’ordine, si contrappongono ora notti piene di incubi e ossessione: qualcosa fa breccia nella rigida scorza cartesiana del disperso, il suo cogito è letteralmente perforato da un «fuori» inassimilabile.
La paura diabolica di essere divorato da un mostro antropofago alimenta nel naufrago la pulsione a divorare l’ignoto. È una partentesi, ma non di meno è importante, perché - come ha scritto a più riprese de Certeau, in particolare nell’Absent de l’histoire, libro pubblicato nel 1973, e tra le pagine di Storia e psicoanalisi, (uscito in Italia da Bollati-Boringhieri nel 2006) - ciò che per un attimo porta disordine nell’ordine di Robinson è un tratto estremamente precario e transeunte dell’esistenza, un «quasiniente di passaggio», un altro-assente, che non ha né autorità, né luogo. Esposte all’altro, le cose e il mondo stesso di Robinson si alterano. Alterazione e alterità si coimplicano a tal punto che la reazione del naufrago è quella di gettarsi letteralmente «out of myself», consegnandolo ai tortuosi movimenti di un mare più profondo di quello da cui è scampato: l’incubo.
Un’ombra emerge dai margini, modifica con la sua sola traccia tutto un territorio - l’isola -, lo perturba, fino a quando Robinson non ristabilisce il pieno controllo su di sé. Ma per farlo, gli occorre prima vedere, sostituendo - così scrive Michel de Certeau nell’Invenzione del quotidiano, recentemente riedito dalle Edizioni Lavoro (e recensito da Vanni Codeluppi su queste pagine, il 17 luglio scorso) - «all’indice della mancanza un essere tangibile, un oggetto visibile: Venerdì».
In più punti della propria opera, Michel de Certeau si è richiamato all’episodio dell’orma nella sabbia, per esemplificare e spiegare un lavorio storiografico particolarmente fine e, pertanto, da sempre concentrato sulle voci che, filtrando tra la sabbia e il tempo, ci vengono dall’«absent de l’histoire».
Nulla - osservava, citando la poetessa mistica del XIII secolo Hadewijch d’Anversa - inquieta più di questa «presenza dell’assente», di questa modalità selvaggia di apparire propria di un fantasma che - come il fantasma del padre di Amleto, che si aggira tra le mura del castello - irrompe dai bordi.
La storiografia parla precisamente delle impronte lasciate da questo fantasma, costruisce un «racconto», una «finzione» nel senso letterario del termine, mettendo in rapporto il presente, le sue fratture e le voci che vi fanno breccia. Come Robinson Crusoe, lo storico percorre i bordi del suo tempo presente, ne visita le spiagge, sicuro di sé e della propria opera. Addirittura, «vi si installacon la propria industria» e, a partire da impronte definitivamente mute, egli «costruisce una messa in scena dell’operazione che confronta l’intelligenza con questa perdita», organizzando così il discorso di una «presenza mancante».
Un mondo sfuggente
Nel 1969, ripercorrendo un cammino di ricerca che già si presentava come esemplare, parlando della storia religiosa del XVII secolo, in un dibattito pubblico Michel de Certeau confessava: «quel mondo in effetti mi sfuggiva o, per essere più precisi, cominciavo ad accorgermi che mi sfuggiva. È a partire da quel momento, sempre scaglionato nel tempo, che comincia davvero a nascere lo storico. Ed è proprio questa assenza che costituisce il discorso storico: la morte dell’altro lo colloca al di fuori della porta d’accesso e, con ciò, definisce lo statuto della storiografia stessa, vale a dire del testo storico».
E non è un caso che, proprio a questa morte e a quel testo rimandino i saggi recentemente raccolti, per la cura di Domenico Bosco, in un’utilissima silloge titolata Sulla mistica (pp. 270, euro 20), pubblicata per i tipi della Morcelliana. Testi brevi e folgoranti per profondità, ma anche per l’intensità irrequieta di una scrittura che ama farsi «alterare» e inquietare. E non è neppure un caso che i nomi di Daniel Defoe e del suo Robinson Crusoe ritornino proprio in uno dei testi più densi della raccolta, il saggio sull’Enunciazione mistica, originariamente apparso in rivista nel 1976.
L’isola di Robinson, vi afferma Michel de Certeau, ha sostituito il vecchio giardino mistico (studiato d’altronde nella prima parte di Fabula mistica, a cura di Silvano Facioni, Jaca book, 2008) occupato non più da delizie, ma «dal lavoro e non da un’alterazione beatificante». Un giardino che si trasformerà, di lì a poco, in proprietà privata, in isola, distretto industriale e infine - in giorni a noi più prossimi - in una deserta isola globale. Con la speranza, alzi la certezza, che prima o poi altre tracce, altre impronte preannunceranno l’arrivo di un’estraneità capace di farci gioiosamente sragionare, provocando anche in noi quei «pensieri folli», quelle «bizzarrie» e in fondo anche quel «terrore» a cui Robinson non ha voluto, o forse non ha saputo rispondere.
Quell’Eden così noioso
E Adamo disse a Eva "Andiamo a letto"
Il dono tardivo della parola ad Adamo ed Eva, la vita quotidiana nel paradiso terrestre, e l’affare misterioso del peccato originale
Nel suo ultimo romanzo Saramago rivisita le storie della Genesi assumendo il punto di vista dell’uomo che è diventato il simbolo del male
di José Saramago (la Repubblica, 20.04.2010)
Gli altri animali, al contrario degli umani muti, godevano già tutti di una voce propria Il fiat ci fu una volta sola e mai più perché gli esseri viventi non sono macchine Essere informati è sempre preferibile all’ignoranza specie in questioni come il bene e il male
Quando il signore, noto anche come dio, si accorse che ad adamo ed eva, perfetti in tutto ciò che presentavano alla vista, non usciva di bocca una parola né emettevano un sia pur semplice suono primario, dovette prendersela con se stesso, dato che non c’era nessun altro nel giardino dell’eden cui poter dare la responsabilità di quella mancanza gravissima, quando gli altri animali, tutti quanti prodotti, proprio come i due esseri umani, del sia-fatto divino, chi con muggiti e ruggiti, chi con grugniti, cinguettii, fischi e schiamazzi, godevano già di voce propria. In un accesso d’ira, sorprendente in chi avrebbe potuto risolvere tutto con un altro rapido fiat, corse dalla coppia e, uno dopo l’altro, senza riflessioni e senza mezze misure, gli cacciò in gola la lingua.
Dagli scritti a cui sono stati via via, nel corso dei tempi, consegnati un po’ a caso gli avvenimenti di queste epoche remote, vuoi di possibile certificazione canonica futura o frutto d’immaginazioni apocrife e irrimediabilmente eretiche, non si chiarifica il dubbio su che lingua sarà stata, se il muscolo flessibile e umido che si muove e rimuove nel cavo orale e a volte anche fuori, o la parola, detta anche idioma, di cui il signore si era deprecabilmente dimenticato e che ignoriamo quale fosse, dato che non ne è rimasta la minima traccia, neppure un semplice cuore inciso sulla corteccia di un albero con una legenda sentimentale, qualcosa sul tipo ti-amo, eva.
Siccome una cosa, teoricamente, non dovrebbe andare senza l’altra, è probabile che un secondo fine del violento spintone dato dal signore alle lingue mute dei suoi rampolli fosse di metterle in contatto con le interiorità più profonde dell’essere corporale, le cosiddette parti scomode dell’essere, perché in avvenire, ormai con qualche cognizione di causa, potessero parlare della loro oscura e labirintica confusione alla cui finestra, la bocca, già cominciavano a spuntare. Tutto può essere. Chiaramente, per uno scrupolo da buon artefice che andava unicamente a suo favore, oltre che compensare con la dovuta umiltà la precedente negligenza, il signore volle accertarsi che l’errore fosse stato corretto, e quindi domandò ad adamo, Tu, come ti chiami, e l’uomo rispose, Sono adamo, tuo primogenito, signore. Il creatore, poi, si rivolse alla donna, E tu, come ti chiami tu, Sono eva, signore, la prima dama, rispose lei superfluamente, dato che altre non ce n’erano. Il signore si ritenne soddisfatto, si congedò con un paterno Arrivederci, e riprese la sua vita. Allora, per la prima volta, adamo disse a eva, Andiamo a letto.
Set, il terzogenito della famiglia, verrà al mondo solo centotrent’anni dopo, non perché la gravidanza materna richiedesse tanto tempo per ultimare la fabbricazione di un nuovo discendente, ma perché le gonadi del padre e della madre, i testicoli e l’utero rispettivamente, avevano tardato più di un secolo a maturare e a sviluppare sufficiente potenza generativa. C’è da dire ai precipitosi che il fiat ci fu una volta e mai più, che un uomo e una donna non sono mica delle macchine automatiche, gli ormoni sono una cosa piuttosto complicata, non si producono così da un giorno all’altro, non si trovano in farmacia né al supermercato, bisogna dare tempo al tempo. Prima di set erano venuti al mondo, a breve intervallo di tempo fra l’uno e l’altro, dapprima caino e poi abele. Quello cui non si può non fare immediatamente cenno è la profonda noia che erano stati tanti anni senza vicini, senza distrazioni, senza un bambino lì a gattonare tra la cucina e il salotto, senz’altre visite al di fuori di quelle del signore, e anche queste rarissime e brevi, intervallate da lunghi periodi di assenza, dieci, quindici, venti, cinquant’anni, immaginiamo che poco ci sarà mancato che i solitari occupanti del paradiso terrestre si vedessero come dei poveri orfanelli abbandonati nella foresta dell’universo, ancorché non sarebbero stati in grado di spiegare cosa fosse questa storia di orfani e abbandoni.
È pur vero che, un giorno sì, un giorno no, e anche quel giorno no con altissima frequenza sì, adamo diceva a eva, Andiamo a letto, ma la routine coniugale, aggravata, nel loro caso, da nessuna varietà nelle posizioni per mancanza di esperienza, già allora si dimostrò altrettanto distruttiva di un’invasione di tarli lì a rodere le travature della casa. All’esterno, salvo un po’ di polverina che fuoriesce qua e là da minuscoli orifizi, l’attentato si coglie a stento, ma all’interno la processione è ben altra, non ci vorrà molto che venga giù tutto ciò che era parso tanto solido. In situazioni del genere, c’è chi sostiene che la nascita di un figlio può avere effetti rivitalizzanti, se non della libido, che è opera di chimiche assai più complesse che imparare a cambiare un pannolino, almeno dei sentimenti, il che, bisogna riconoscerlo, già non è poco. Quanto al signore e alle sue visite sporadiche, la prima fu per vedere se adamo ed eva avevano avuto problemi nell’installazione domestica, la seconda per sapere se avevano tratto qualche beneficio dall’esperienza della vita campestre e la terza per avvisare che tanto presto non si aspettava di tornare, giacché aveva da far la ronda negli altri paradisi esistenti nello spazio celeste. In effetti, sarebbe riapparso solo molto più tardi, in una data di cui non è rimasta traccia, per scacciare la sventurata coppia dal giardino dell’eden per il nefando crimine di aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Questo episodio, che diede origine alla prima definizione di un peccato originale fino ad allora ignorato, non è mai stato ben spiegato. In primo luogo, persino l’intelligenza più rudimentale non avrebbe alcuna difficoltà a comprendere che essere informato sarà sempre preferibile a ignorare, soprattutto in materie tanto delicate come lo sono queste del bene e del male, nelle quali chiunque si mette a rischio, senza saperlo, di una condanna eterna a un inferno che allora era ancora da inventare. In secondo luogo, grida vendetta l’imprevidenza del signore che, se realmente non voleva che mangiassero di quel suo frutto, avrebbe avuto un rimedio facile, sarebbe bastato non piantare l’albero, o andare a metterlo altrove, o circondarlo da un recinto di fildiferro spinato. E, in terzo luogo, non fu per aver disobbedito all’ordine di dio che adamo ed eva scoprirono di essere nudi. Nudi e crudi, con tutto quanto all’aria, c’erano già quando andavano a letto, e se il signore non aveva mai notato una mancanza di pudore così evidente, la colpa era della sua cecità di progenitore, proprio quella che, a quanto pare inguaribile, ci impedisce di vedere che i nostri figli sono, in fin dei conti, tanto buoni o tanto cattivi quanto gli altri.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Quando scrisse Il Vangelo secondo Gesù Saramago affermò più o meno che quel Gesù era "suo", un prodotto della sua scrittura e della sua immaginazione. Le polemiche non mancarono. Se ci fosse stata ancora l’Inquisizione, Saramago avrebbe fatto la fine di Giordano Bruno. Si limitò a lasciare Lisbona per Lanzarote, protestando col governo portoghese. Oggi il premio Nobel torna con mano leggera, nonostante le apparenze, su un tema biblico, resuscitando addirittura Caino e con lui Adamo ed Eva e una bella porzione dell’Antico Testamento.
La tesi di Saramago è irridente: come si fa a considerare sacro e dunque autorevole al massimo grado un testo pieno di incongruenze, di errori e di comportamenti raccapriccianti? «La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui», scrive Saramago ed avrà modo di documentare gli strani comportamenti dell’Onnipotente, che spesso appare distratto. Perché induce Abramo a sacrificare Isacco? Perché, quando distrugge Sodoma, non salva almeno i bambini, innocenti per definizione? Anche a proposito di Caino, Saramago potrebbe dire che si tratta di una sua creazione letteraria, visto che di licenze se ne prende parecchie. Il cherubino che fa da guardiano all’Eden dopo la cacciata della celebre coppia, tresca con Eva e rivela che al mondo c’è anche altra gente. Meno male, se no sai che noia, pensa l’autore che spesso si diverte a commentare.
Caino, con un marchio in fronte che lo preserverà da eventuali assassini, va in giro per la Terra Desolata, avrà la sua love story e attraverserà momenti biblici diversi (Saramago li chiama «diversi presenti»). Sarà lui a fermare la mano di Abramo, visto che l’angelo preposto a tal compito arriva tardi per un problema con le ali (sembra un’opera buffa), e sarà presente alla rovina di Giobbe, alla strage inaudita seguita all’episodio del vitello d’oro. Dio è un pazzo stravagante e sanguinario, ammalato di gelosia: questa la conclusione.
Saramago, scrittore "magico" e multiforme riesce bene in una doppia operazione: fa tornare il lettore nell’antichità della Bibbia, dando un seguito "inedito" alla storia di Caino e insieme (e qui il linguaggio è quello di un nostro contemporaneo) provoca la ragione di chi si ostina a non vedere. Nel mirino di Saramago c’è la vecchia e la nuova Israele: il suo "Caino" è letteratura, ma anche politica. Sarà incontrando Noè (e litigando con Dio) che Caino trova una soluzione molto drastica. La scoprano i lettori, come è giusto.
La mela e la coscienza della colpa
Una storia psicoanalitica infinita
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 5 febbraio 2010)
I miti sono un condensato di esperienze finite nell’inconscio, per la gran parte. Rinviano a una base storica, a un «in principio», e narrano fatti e personaggi che di quegli eventi son stati protagonisti.
Mito sta proprio a dire «racconto». Nel corso del tempo il filo narrativo subisce modificazioni e adattamenti sino a raggiungere la forma espositiva giunta sino a noi. I miti costituiscono materiale molto utile per il lavoro analitico.
Primo, perché si tratta di vicende «esemplari» del comportamento umano. Secondo, perché la ricostruzione delle stratificazioni successive al nucleo primigenio- dove essa è possibile- dà conto delle trasformazioni della psiche collettiva, cioè di come essa ha reagito agli impulsi, dei passaggi che ha attraversato, dei punti fermi che ha raggiunto a poco a poco nel corso dello sviluppo, contribuendo a determinare quello che chiamiamo inconscio culturale. Terzo, perché essi, i miti, mostrano come vi sia un’attitudine costante della mente umana a produrre immagini, cioè a rappresentare in linguaggio figurativo e drammaturgico i contenuti di ciò che accade e turba, di vagliare le suggestioni ad alta tonalità affettiva. Il fine è di prendere le distanze dalle emozioni troppo forti, di proteggersi, di non rimanerne sopraffatti. Il «discernimento», parola che so cara ai biblisti - basterebbe pensare all’uso ricorrente di essa nella pastorale del cardinal Martini- configura l’esercizio di questa funzione critica, basata costitutivamente su ragioni psichiche.
E quando si dice, con Pascal, che «il cuore conosce ragioni che la ragione non conosce» si fa riferimento proprio a quella realtà che chiamiamo «totalità psichica», all’essere umano considerato nella completezza delle sue funzioni, dal pensiero al sentimento. Quarto, i miti contengono al proprio interno dei nuclei energetici, cioè elementi che anche a distanza di epoche e di luoghi mantengono la propria carica e sono in grado di sprigionarla, di lasciarla fluire nel momento in cui noi siamo in grado di individuarli, di stabilire con essi un contatto e un collegamento, di attingere alla loro forza.
La cacciata dal Paradiso Terrestre come condanna di un comportamento riprovevole è in estrema sintesi il nucleo di un mito: quello delle origini. In un poderoso scenario il narratore biblico dà conto di un evento, quasi esponesse dei fatti che ha davanti a sé nel momento stesso in cui li racconta. In una sequenza di quadri suggestivi descrive come Dio ha dato vita all’universo e come l’uomo, che di quell’Eden era stato posto al centro perché lo custodisse e da signore ne potesse godere, ha trasgredito l’unico comandamento impartitogli dal suo creatore: non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. A quella disubbidienza originaria segue il castigo: principia il faticoso cammino degli uomini e delle donne sulla terra. Sulle spalle - conclude il racconto biblico- essi recano il fardello del senso di colpa per il delitto che hanno commesso. La psicoanalisi ha affrontato quel mito, cercando di ricostruire le varie componenti ascrivibili a fonti ancora più remote, che sarebbero poi confluite nella Genesi e che l’autore di questa avrebbe adattato per renderlo accettabile e comprensibile all’Israele del X secolo avanti Cristo. Non è qui la sede per una rassegna delle tante congetture che sono state fatte. Ma conta registrare, per sommi capi, parte del patrimonio interpretativo cumulato. Molti autori hanno creduto di riconoscere alcuni motivi specifici all’inizio della colpa e della punizione che ne è seguita. S’è parlato del desiderio sessuale, grazie al quale l’uomo si rende indipendente. Si è fatto riferimento all’uccisione del padre perpetrata al fine di prendere il suo posto e della lotta tra i fratelli nel disputarsi successione e divisione dell’eredità.
Qualcuno ha anche ipotizzato un carattere incestuoso della relazione fra Adamo ed Eva, in quanto questa è detta «madre dei viventi», lettura che rinvierebbe ad una equiparazione tra le figure di Adamo e di Edipo e alla contaminazione con la cultura mediterranea delle Grandi Madri. Stabilendo poi paralleli con i culti animisti si è risaliti anche alla venerazione delle forze della natura, ipostatizzate col proposito di rendersele amiche; il riferimento è a un culto totemico dell’albero, venerato e divinizzato al punto che, mangiandone i frutti, l’uomo potesse incorporare forza e potere e diventare quindi come lui: un Dio.
la recensione
Il peccato originale di Fabris, un mistero di libertà e relazione
DI FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 06.2009)
Cosa davvero accadde nel giardino di Eden? Quale il senso del racconto biblico, narrato nel terzo capitolo della Genesi, della trasgressione del comando divino a opera della donna, tentata dal serpente, e di suo marito? Come interpretare ciò che tradizionalmente, non solo dalla teologia, viene definito peccato originale? Il filosofo Adriano Fabris, in un recente prezioso volumetto, non soltanto ricostruisce con efficacia le linee essenziali delle interpretazioni religiose, teologiche e filosofiche di tale racconto più o meno mitico, ma ce ne dà anche una davvero originale lettura filosofica, capace di ascoltare profondamente l’esperienza religiosa espressa.
Innanzitutto va notato come il peccato originale sia tale non semplicemente in quanto protostorico, mitico, «originario», bensì soprattutto poiché «originante», all’origine di una vicenda storica fatta di rapporti fra uomo e Dio volti al ristabilimento di un profondo legame vicendevole.
Di per sé la narrazione biblica appare frammentaria, incoerente, difficilmente spiegabile secondo logiche consequenziali. Perché ciascun uomo sarebbe responsabile della colpa prototipica di un suo protostorico, se non mitico, antenato?
Come mai Dio consentì al serpente di tentare l’innocente coppia paradisiaca? L’uomo perde veramente qualcosa nel distaccarsi da Dio con la caduta, o non acquisisce piuttosto una sconfinata indipendenza e libertà? E Dio stesso non è restato defraudato, svilito, ingiustificato, nella sua impotenza di fronte al maleficio del tentatore?
Fabris non pretende di fare una teologia del peccato originale, ma nemmeno di ridurlo alle categorie scientifiche dell’antropologia e psicologia della religione. Piuttosto tenta di elaborare una filosofia della religione che, nell’indagare la possibilità del rapporto fra uomo e Dio, trova lo spazio interpretativo di fondamentali documenti dell’esperienza religiosa. E con l’interpretazione filosofica la viva fede religiosa acquisisce senso anche dove sembri più paradossale. In maniera semplice e convincente, approfondita e articolata, Fabris interpreta il peccato originale come una «mitologia della libertà».
Il peccato originale narra di una relazione fra Dio e uomo che risulta sempre in evoluzione, sino appunto anche alla possibilità della sua sospensione, persino della frattura e negazione. Ma anche nella separazione fra uomo e Dio, ecco che si mostra l’essenza viva della religione, cioè l’esercizio di libertà nella consapevolezza del limite, del rapporto con l’alterità: con Dio per quanto riguarda l’uomo, ma anche con l’uomo, in tutta la sua libertà di esser fedele o ribellarsi al progetto divino, da parte di Dio.
Adriano Fabris
FILOSOFIA DEL PECCATO ORIGINALE
Albo Versorio.
Pagine 146. Euro 12,00
ELENA LOEWENTHAL PRESENTA "EVA E ADAMO" DI KURT FLASCH
Difficile credere che sia solo una questione d’ordine alfabetico. Fatto sta che, per rispetto di una gerarchia vecchia (quasi) quanto il mondo, la nominazione della prima coppia umana prevede sempre prima il signore, cioe’ lui: Adamo. Frutto della terra, in ebraico adamah, uomo generato dall’humus, che significa poi la stessa cosa. Eva invece viene dopo. Forse perche’, proprio lei genitrice di tutta l’umanita’ a venire, e’ destinata ad arrivare per buona ultima nella sequenza della creazione. Forse perche’, come ci spiega Kurt Flasch in Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito (traduzione di Tomaso Cavallo per Il Mulino, pp. 152, euro 13), quell’amaro boccone e’ costato molto caro non solo a lei, la prima donna. Ma anche e soprattutto alle altre che seguirono a miriadi.
Se infatti, come dice Ambrogio Autperto nel secolo VIII, Eva fu l’autrix peccati - madre non solo di quello ma di tutti i peccati - cio’ che significa che, in senso lato, della donna non ci si puo’ fidare. E questo presupposto ha giustificato, per secoli e millenni, lo stato di sudditanza in cui le nipoti di Eva hanno vissuto. La presunta inferiorita’ della donna, con tutto cio’ che ha comportato in termini di vessazioni, trovo’ proprio nella (breve) storia del paradiso terrestre la sua pezza d’appoggio. Il libro di Flasch, che e’ professore emerito di filosofia all’universita’ di Bochum, e’ un ampio excursus in questa storia con un occhio alla teologia e uno all’arte.
Certo e’ che questo episodio biblico e’ entrato come nessun altro nell’immaginario, nella coscienza della cultura occidentale. L’approccio di Flasch e’ interessante proprio per questa sua ampia interdisciplinarieta’, ma anche perche’ non fa del peccato originale l’unico nucleo ideologico di questa storia. Prima e dopo di esso c’e’ infatti una sorta di "psicologia atavica" sulla quale riflettere. Non a caso la tradizione ebraica non danna affatto la prima coppia, anzi quasi la santifica: dalla loro tomba a Hebron i corpi di Eva e Adamo emanano un soave profumo, proprio come capita agli eroi piu’ positivi dell’epopea sacra.
Il boccone del frutto proibito e’ il presupposto dell’umanita’: senza di esso nulla sarebbe successo ed Eva e Adamo, eterni come il loro giardino, avrebbero finito per annoiarsi. Senza contare un dato non irrilevante, che scagiona la nostra povera madre da (quasi) tutte le sue colpe: quando Dio impartisce il divieto di quell’assaggio ("Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai", sta scritto in Genesi 2, 16-17), lei ancora non esiste. Sara’ creata soltanto qualche versetto piu’ in la’ e, a distanza di tanto tempo, in fondo, ci si puo’ proprio prendere il lusso di immaginarla mentre spalanca i suoi innocenti occhi sul mondo che di li’ a poco la vedra’ combinare un grosso guaio. Senza farlo apposta, pero’.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 292 del 3 dicembre 2007
[Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 15 settembre 2007, col titolo "Qui si scagiona la povera Eva" e il sommario "Quando nella Genesi Dio proibisce di ’mangiare la mela’, si rivolge ad Adamo, lei ancora non e’ stata creata: un saggio di Flasch che va ben oltre il peccato originale".
Elena Loewenthal, limpida saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a Torino nel 1960, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d’Israele, attivita’ che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa" e a "Tuttolibri"; sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il rigore, ma anche la tenerezza e l’amista’ di cui sono impastati, e fragranti e nutrienti ti vengono incontro. Nel 1997 e’ stata insignita altresi’ del premio Andersen per un suo libro per ragazzi.
Tra le opere di Elena Loewenthal: segnaliamo particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi, Milano 1996, 2002; L’Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002; Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi ha curato Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando l’edizione italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis Ginzberg.
Kurt Flasch e’ professore emerito di filosofia all’Universita’ di Bochum e membro dell’Accademia dei Lincei. Tra le opere di Kurt Flasch: Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica, Il Mulino, Bologna 1983; Introduzione alla filosofia medievale, Einaudi, Torino 2002; Niccolo’ Cusano e il suo tempo, ETS, Pisa 2005; Eva e Adamo, Il Mulino, Bologna 2007]
Prendo spunto di questo articolo, caro Federico, per invitarti a riflettere sulla caduta dei "nostri avi" e la conseguente catastrofe cosmica, che ha avvolto tutto e tutti. A te che piace citare Freud e il mito di Edipo:Non è forse l’uomo, figlio di Dio, che volle uccidere il Padre per impossessarsi della terra Madre ? L’uomo non volle impossessarsi delle cose di Dio senza Dio, prima di Dio e non secondo Dio ? Il pensiero cristiano non può che inquadrare il problema dell’evoluzione sotto questa ottica, sotto questa prospettiva.
Le scoperte archeologiche, geologiche o paleontologiche si fermano necessariamente alle porte dell’Eden, perchè il Paradiso costituisce una diversa modalità dell’essere! La scienza non può risalire al di là della caduta, perchè a sua volta inclusa nelle condizioni di esistenza provocate da essa.
Saluti