I cinquecento anni del Laocoonte in mostra a Roma
di Annalisa Serpilli*
Il 14 gennaio del 1506 Giuliano da Sangallo, architetto di Papa Giulio II della Rovere e Michelangelo Buonarroti ancora giovane artista ma già famoso, fanno un ritrovamento che rivoluzionerà la storia dell’arte. Nei sotterranei di Felice de Fredis, tra le Terme di Tito e il Colosseo scoprono un gruppo scultoreo.
Al vederlo i due artisti rimangono abbagliati dal pathos e dalla drammaticità dell’azione. Giuliano da Sangallo esclama: “Quello è il Laocoonte di cui fa mentione Tito” che Plinio il Vecchio attribuiva agli scultori Hagesandros, Athanadoros e Polydoros di Rodi di proprietà dell’imperatore romano.
E come non riconoscerlo? Inconfondibile rimane quel viso sofferente e fiero al centro della scena che cerca di divincolarsi tra le spire di un serpente accanito contro di lui e due fanciulli già vinti dal veleno del serpente.
La scena rappresenta l’episodio descritto da Virgilio nell’Eneide. Il sacerdote troiano Laocoonte si impone di fronte alla scelta della città di introdurre nelle mura di Troia il cavallo di legno. Ma gli dei avevano già deciso. Ilio doveva cadere. E così Poseidone invia un mostro marino che sulla spiaggia troiana ingoia tra le sue spire il furente sacerdote e la sua stirpe ignara.
Dopo la scoperta dei due artisti, il gruppo scultoreo viene subito acquisito da Papa Giulio II, mecenate e amante delle arti di ogni epoca, che lo fa trasferire in Vaticano. Qui, negli anni seguenti, si costituisce il Cortile delle Statue - oggi Cortile Ottagono - uno dei nuclei più importanti di scultura antica dei Musei Vaticani, che avrebbero segnato profondamente la cultura artistica dei secoli successivi.
A cinquecento anni da quella scoperta e a cinquecento anni dalla nascita dei grandi Musei Vaticani voluti proprio da Giulio II, Roma celebra il gruppo scultoreo con una mostra dal titolo ”Laocoonte. All’origine dei Musei Vaticani”.
La mostra intende presentare in cinque sezioni la fama che la scultura ha avuto nei secoli attraverso la testimonianza di studi ed opere, dall’antichità all’epoca contemporanea, provenienti dai più importanti musei del mondo: dal Metropolitan, al British, e poi il Louvre, l’Ermitage, l’ Albertina e gli Uffizi.
Non mancano opere provenienti da grandi collezioni private come: quella del Windsor Castle, dello Chateaux Fontanebleau, del Somaini, oltre ovviamente alla Biblioteca Apostolica Vaticana e all’Archivio Segreto Vaticano.
Celebri sono le parole con cui Johann Joachim Winckelmann, un dei primi teorici della storia dell’arte, descrive il Laocoonte considerandolo un esempio di bellezza ideale alla base della nuova scultura neocalassica del ‘700:
“Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento.
Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come lo descrive Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta”.
Il dramma rappresentato dalla scultura antica esprime tutta la sofferenza fisica e morale di un uomo che sacrifica la propria vita e quella dei figli per la salvezza della sua città. Un tema profondo e tragico che l’arte ha ripetutamente ripreso e rielaborato.
Il Laocoonte è una delle opere più studiate e copiate a partire dal Rinascimento. Fra gli artisti che hanno dedicato particolare attenzione alla scultura mediante repliche e rielaborazioni, ricordiamo: Jacopo Tatti detto il Sansovino (1486-1570), Francesco Primaticcio detto il Bologna (1504-1570), Pietre Paul Rubens (1577-1640), Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), Carlo Maratta (1625-1713), Francesco Hayez (1791-1882), Arturo Martini (1889-1947), Salvador Dalì (1904-1989), Francesco Somaini (1926-2005) e Andrei Al faro. Autori le cui opere ora sono in mostra tutte insieme per celebrare quel grande esempio di arte che le ha ispirate.
Roma
Musei vaticani
Fino al 28 febbraio 2007
www.museivaticani.it
(Il Sole-24ore 24 novembre 2006)
Alla realizzazione definitiva del "TONDO DONI",iniziato nel 1504 ma finito sicuramente alcuni anni più tardi (1507/08 ca.), c’è probabilmente proprio la scoperta del Lacoonte (1506) e già l’avvio del "discorso" della Volta della Cappella Sistina:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
Napoleone li rubò, Canova li riportò a casa
La nuova vita dei capolavori recuperati
Duecento anni fa tornarono in Italia le opere sottratte dalla Francia, ora riunite in mostra
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 15.12.2016)
È il 4 gennaio 1816 e il «Diario di Roma», il giornale politico dello Stato Pontificio, scrive: «Giunsero in questa Capitale diversi carri contenenti vari dei migliori capi d’opera in Pittura e Scultura, che con trasporto di giubilo e per il Bene delle Arti, ritornano ad associarsi a questi Monumenti Romani, vale a dire a quel centro di riunione ch’è il solo capace di formare gli Artisti e d’inspirar loro la sublimità de’ concetti. Questo avvenimento ha eccitato il più grande entusiasmo del Popolo Romano». È una delle tante cronache del ritorno nei diversi Stati italiani preunitari delle splendide opere d’arte sottratte tra il 1796 e il 1814 nella penisola italiana per volere di Napoleone Bonaparte.
Sullo sfondo, il progetto di un Louvre che fosse Museo Universale, apoteosi culturale del nuovo ordine imperiale napoleonico, simbolo estetico delle sue conquiste territoriali. Da Roma partono persino opere monumentali e delicatissime come il Laocoonte e l’ Apollo del Belvedere. Caduto l’Empereur, i diversi Stati italiani ottengono, nel Congresso di Vienna, la restituzione dei loro capolavori, che rientrano nel 1816.
Sono passati duecento anni e le Scuderie del Quirinale a Roma propongono da domani, 16 dicembre, e fino al 12 marzo 2017 la mostra Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce.
L’accostamento di Canova a Napoleone è una delle chiavi della rassegna: fu il grande scultore, come commissario dello Stato Pontificio, a organizzare da Parigi il rientro delle opere romane.
Il Laocoonte rischiò danni irreparabili, cadendo sul ghiaccio del Moncenisio dalla carrozza che lo trasportava. La mostra offre autentici capolavori. Il vero divo sarà sicuramente Raffaello, col suo Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, che arriva con un prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi. E poi ecco La strage degli innocenti di Guido Reni dalla Pinacoteca di Bologna, l’immensa Assunzione della Vergine di Tiziano dal Duomo di Verona, il Compianto sul Cristo morto di Correggio e la Deposizione di Annibale Carracci dalla Galleria nazionale di Parma, la Cattedra di San Pietro del Guercino dalla Pinacoteca di Cento, il Battista tra i Quattro Santi di Perugino dalla Galleria nazionale dell’Umbria. E poi verranno esposti due capolavori della statuaria classica come la Venere Capitolina dai Musei Capitolini e il Giove di Otricoli dai Musei Vaticani.
La diversa provenienza geografica intende testimoniare, nelle intenzioni dei curatori, non solo la quantità e la qualità delle opere disseminate in Italia (testimonianza di una produzione artistica fertile in ogni regione) ma anche l’effetto prodotto da quel rientro: molte opere, dopo essere state conservate in depositi organizzati sull’onda dell’emergenza del ritorno, non vennero ricollocate nel loro contesto originario ma dettero vita, a loro volta, a molti musei moderni italiani, così come li conosciamo ora, proprio sul modello ideale del Louvre.
Per esempio il definitivo arricchimento della Pinacoteca di Brera a Milano voluta proprio da Napoleone nel 1805, la creazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, o le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Pinacoteca di Bologna. Tutti musei pubblici figli dei tempi ormai cambiati per sempre.
La mostra segna l’esordio delle «nuove» Scuderie del Quirinale, spazio espositivo autonomo ormai sganciato dall’Azienda speciale Palaexpo (che lo ha gestito fino a settembre e ha avviato la preparazione dell’evento). Le Scuderie del Quirinale sono state affidate dalla presidenza della Repubblica al ministero per i Beni e le attività culturali e quindi ad Ales, la società in-house del ministero, presieduta da Mario De Simoni. Il progetto è farne una sorta di Grand Palais italiano, il punto di riferimento delle grandi mostre temporanee di respiro nazionale.
Spiega De Simoni:«Dopo i grandi successi registrati negli anni scorsi, il ministero punta a stabilire un’alleanza organica tra le Scuderie e il sistema museale italiano. Parliamo di uno spazio di enorme prestigio, di superbo posizionamento nel cuore di Roma ma privo ovviamente di una propria collezione. Questo elemento solo apparentemente di debolezza può essere brillantemente superato inserendo le Scuderie in un circuito espositivo nazionale ma ovviamente di respiro internazionale. Faccio un esempio concreto proprio parlando del Grand Palais. Molte grandi mostre organizzate dal Louvre, come quella dello scorso anno sul Velàzquez, sono state allestite al Grand Palais con un accordo con La Réunion des musées nationaux, ovviamente il Grand Palais e il musée du Louvre di Parigi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna».
Intanto Raffaello con Leone X accoglieranno i visitatori alle Scuderie. Ed è già un magnifico esordio, visto che si tratta di uno dei pezzi più importanti dei 63 selezionati nella collezione granducale toscana, tra il marzo e l’aprile 1799, dal pittore Jean Baptiste Wicar e destinati a far parte del futuro Musée Napoléon al Louvre. Proprio Leone X apriva, nel 1804, l’elenco dei dipinti di Raffaello nel catalogo del nuovo museo parigino.
Caduto l’Impero, il ritratto di Leone X venne incluso nella seconda spedizione di rientro da Parigi in Italia. Partì dal Louvre il 23 ottobre 1815 e arrivò a Firenze il 27 dicembre dopo aver passato (come il Laocoonte) il passo del Moncenisio, aver fatto tappa a Torino e quindi a Milano. Un’avventura straordinaria, per i tempi. Infine, il ritorno nelle collezioni granducali, non più agli Uffizi ma a Palazzo Pitti nella Sala di Marte il 21 febbraio 1816: segno visibile della Restaurazione, con sommo gaudio del granduca Ferdinando III.
Da Laocoonte a Munch, l’urlo e il dolore
Il personaggio della celebre scultura del I secolo avanti Cristo grida o no?
Una questione che ha pungolato gli studiosi da Winckelmann ai giorni nostri
E che (forse) trova una risposta nel quadro del pittore norvegese
di Salvatore Settis (La Stampa, 04.12.2014)
Ritrovato nel gennaio 1506 (il 10, secondo un documento scoperto recentemente da L. Calenne e A. Serangeli), il Laocoonte oggi nei Musei Vaticani fu immediatamente riconosciuto come la statua di cui parla con altissima lode Plinio il Vecchio, ricordandola «nella casa di Tito imperatore». Forse anche per questo il papa Giulio II la volle per sé, e da subito gli artisti presero a disegnarla e a imitarla, i collezionisti ne ordinarono copie in grande e in piccolo, antiquari e archeologi ne studiarono ogni dettaglio. Nel Rinascimento e nel Barocco, come ha scritto L. Ettlinger, il Laocoonte servì come supremo exemplum doloris: l’intensità espressiva di un padre che muore impotente assieme ai figli inermi apparve un modello insuperabile, un’esplosiva concentrazione di pathos.
Creazione di tre maestri di Rodi (ma operanti a Roma) del I secolo a.C., il Laocoonte rientrava così in circolo nel primo ’500 come un’opera «nuova», ma modellizzabile proprio perché antica. Come ha scritto Warburg, «il gruppo dei dolori di Laocoonte il Rinascimento, se non lo avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica».
Prestissimo il Laocoonte diventa modello per la passione del Cristo: così è, per esempio, in una placchetta bronzea del Moderno, in una scultura di Cristoforo Solari, nell’Incoronazione di spine di Tiziano al Louvre. Di questa tradizione era consapevole Hegel, che in un passo ben commentato da Federico Vercellone contrappone il «dolore immane di Dio che soffre in quanto è uomo» alla «contorsione di muscoli che potrebbe indicare un grido» del Laocoonte.
Ma il Laocoonte della celebre scultura, chiediamocelo, grida o no? Non è una domanda oziosa, se vi ragionarono, da posizioni diverse, Winckelmann, Lessing, Goethe e Schopenhauer, e se vi sono dedicati tanti studi moderni (negli ultimi anni, Vercellone e Meyer-Kalkus). Forse proprio la sua diffusa assimilazione col Cristo influì su questa discussione, che si muove fra due estremi: se Laocoonte stia, nel momento in cui è rappresentato, urlando di dolore, o piuttosto trattenendo la voce ed esprimendo lo spasimo solo mediante il corpo. Per dirlo altrimenti, se la muta eloquenza del marmo rimandi a un grido articolato, o piuttosto a un grido trattenuto.
Il più famoso racconto letterario del mito di Laocoonte, ucciso davanti a Troia dai serpenti inviati dagli dèi, è l’Eneide di Virgilio: ma il Laocoonte di Virgilio, mentre «si sforza di sciogliere con le mani i nodi dei serpenti, innalza al cielo urla terribili». Questo raffronto complica le cose, perché obbliga a confrontare i mezzi espressivi della poesia e delle arti figurative, secondo il detto di Orazio «Ut pictura poesis»; tanto più che non sappiamo se quei versi di Virgilio siano stati scritti prima o dopo il Laocoonte.
Ma la ricerca espressiva dei tre maestri rodii (Agesandro, Atenodoro, Polidoro) innescò cento altri filoni d’indagine, fra cui forse il più singolare sono le ricerche di un medico francese, G. B. Duchenne de Boulogne (1862), che scelse il volto del Laocoonte come pietra di paragone per i suoi studi sull’espressione del dolore. Mediante scariche elettriche, egli stimolava i muscoli facciali dei pazienti di un ospedale psichiatrico, documentando le alterazioni in un atlante fotografico che ebbe grande successo. Sulla base dei suoi crudeli esperimenti, Duchenne si spinse anzi fino a «ricostruire» un Laocoonte «fisiologicamente corretto».
Una risposta alla domanda ormai antica, se il Laocoonte del gruppo vaticano stia o meno gridando, viene da un dipinto molto famoso, L’Urlo di Munch (1893). Studi recenti vi hanno individuato una risposta al dibattito sull’urlo di Laocoonte, mediata dall’atlante fotografico di Duchenne. Come ha scritto Svenaeus, «sia per Winckelmann sia per Lessing quello del Laocoonte è un urlo, ma un urlo trattenuto: secondo Winckelmann, perché urlare sarebbe al di sotto della sua dignità, secondo Lessing perché la sua rappresentazione andrebbe oltre l’ambito delle arti visive. La risposta di Munch è una risposta estetica: quello che si era ritenuto non-bello, per lui contiene di fatto la quintessenza della bellezza: la vita stessa, nei suoi vari stadii; l’urlo vero e proprio, nelle sue varie fasi». Insomma, L’Urlo di Edvard Munch è un anti-Laocoonte.
Ma la stessa domanda risuona ancora oggi, ad esempio in una bella pagina del Viaggio in Italia di Guido Ceronetti, recentemente ripubblicato da Einaudi: «Tutta la laocoontosofia di Schopenhauer è per illustrare perché Laocoonte non grida, convinto che l’opera di scultura rifiuta il grido. Ma il Laocoonte di Virgilio grida, e questo grido sembra sia stato raccolto dalla bocca del Laocoonte vaticano. È stato un errore materialistico aver negato il grido a Laocoonte: il suo è un grido di profondità che fa tremare le colonnine del bel portico circolare dove è stato collocato perché si sfogasse. Quell’uomo soffocato e avvelenato a morte da enormi serpenti inviati con urgenza dalla Divinità è un’immagine meditabile dell’umanità d’oggi sulla terra».
Ma perché è così importante chiedersi se Laocoonte grida o no? Ceronetti ci offre una chiave importante, che abbraccia il Laocoonte e L’Urlo di Munch: grida che non sono solo una questione di estetica, ma di identificazione dello spettatore nella scultura o nel quadro. Immagini che hanno un valore esperienziale, esistenziale: che ancora interrogano la condizione umana.