ARCHEOLOGIA
Padre Giuseppe Madau seguendo il metodo di cercare le somiglianze tra i nomi delle cose, ha interpretato il reperto del «disco» che sarebbe scritto in proto-attico
FESTO, L’ENIGMA DELLA MARGHERITA
Il fiore in bulgaro si chiama «ànghelma» che in greco vuol dire «messaggio». Per lo studioso francescano, si narra una storia d’amore sulle sponde del Mar Nero e del Danubio. Finora i ricercatori non avrebbero ben compreso il senso dei geroglifici, che hanno la stessa forma dell’opera
di Tito Siddi (Avvenire, 02.03.2006)
La margherita che squarcia tutti i misteri. Sarebbe questa la chiave di lettura del messaggio inciso nell’argilla qualche millennio fa noto come il disco di Phaistos o di Festo, ritrovato a Creta nel 1908 e conservato nel museo archeologico Iraklion, la cui traduzione è da sempre un autentico rompicapo per gli archeologi.
Autore della traduzione è padre Giuseppe Madau, un francescano nato ad Albagiara in provincia di Oristano in Sardegna. Teologo ed esperto di greco antico, ebraico e fenicio, dopo essere stato missionario in Africa, attualmente vive in convento ad Iglesias. Padre Madau inoltre parla correttamente inglese, francese, spagnolo, latino e due lingue africane del gruppo linguistico Bantu.
Uno dei suoi più grandi interessi è stato da sempre l’archeologia e lo scoprire tutto ciò che essa può celare. Così è stato anche per il disco di Festo che padre Giuseppe Madau è riuscito ad interpretare dopo anni di studio.
Tutto è partito racconta il frate, che a Sant’Antioco (Ca) ha presentato in anteprima la traduzione del disco, molti anni fa in convento all’ uscita da una cerimonia religiosa. «un confratello bulgaro, così senza apparente motivo - racconta il religioso - mi disse che la Margherita, che è il primo fiore a spuntare dalla neve, in bulgaro si chiama "ànghelma", una parola greca che significa messaggio». La cosa non è passata inosservata. Così leggendo La grammatica egiziana di Sir Alan Gardiner, padre Madau si è accorto che il metodo suggerito dall’ illustre egittologo poteva essere valido per la decifrazione del disco di Phaistos.
Così il religioso ha provato ad interpretare i disegni del disco di argilla usando il metodo "Rebus or charade", ossia trovando le omofonie tra i nomi delle cose e quelle di altri oggetti o qualità che suonavano allo stesso modo con un metodo di lettura parallela a quella usata per i geroglifici egiziani.
Partendo proprio dalla margherita al centro di una faccia del disco, come inconsapevolmente gli aveva suggerito il confratello bulgaro, a padre Giuseppe Madau sarebbe venuto facile tradurre il disco di Festo che racconta una bellissima storia d’amore che si svolge sulle sponde del Mar Nero e lungo il percorso del fiume Istros, oggi Danubio.
Un giovane principe del popolo dei Traci si innamora di una principessa lontana, la nobile Pellicana figlia del re dei Pelagi. Ad aiutarlo nell’intento di impalmare la giovane e bellissima principessa è lo stesso padre del principe. Con l’aiuto del nobile genitore e delle tribù dei Daci, raffigurati nel disco col simbolo dei lupi, e degli Apuli raffigurati col simbolo delle api, il giovane principe dopo varie peripezie riesce a sposare l’innamorata. Dalla coppia regale nasce un bellissimo figlio che dona letizia a tutta la nazione.
Gli interrogativi, che da sempre hanno impegnato gli studiosi per interpretare il disco, con padre Giuseppe Madau hanno trovato semplici risposte. Intanto, secondo padre Madau, la lingua ideografico - simbolica con cui è stato scritto il messaggio riportato nella placca d’argilla sarebbe Proto-Attico, ceppo del greco antico. Il testo poi va letto dal centro alla periferia per diversi motivi. Innanzi tutto per il senso di movimento delle figure, che vanno da sinistra a destra, come le opere simili presenti nella cultura minoica ed etrusca che si leggono a partire dal centro verso al periferia.
Infine i sigilli del disco chiudono i discorsi come chiudevano le anfore. I simboli poi, contenuti nei diversi cartigli o zone in cui è diviso il disco, sarebbero una sorta di immagini che trasferiscono dall’oggetto materiale un’idea non rappresentabile.
Così per esempio il primo segno del disco è la margherita e non una rosa come ha inteso qualcuno e deve essere interpretata come simbolo di messaggio. Il disco quindi inizia così con la parola «Un messaggio».
L’interrogativo di chi sia il messaggio viene subito dopo. La seconda figura del disco contiene una testa che in greco si dice kefalè.
Per padre Madau è il simbolo dell’uomo che sta a capo quindi: «messaggio del capo tribù o del re». La testa del re poi ha due tondini a forma di otto sulla guancia. Questo simbolo, secondo il francescano, rappresenterebbe due gocce d’acqua che scorrono dalla testa sulla bocca quindi indicherebbero l’espressione greca «Ta rèmata rei» che significherebbe «le gocce scorrono» o «le parole scorrono», quindi la traduzione sarebbe: «il messaggio viene dato dal re. Le sue parole scorrono e comanda». Così via con l’interpretazione del racconto attraverso il disegno.
Sinora, secondo padre Madau, si sarebbe trovata difficoltà nel capire che le «lettere» con cui i vari personaggi importanti comunicano tra loro nel disco sono rappresentate con la figura che ha la stessa forma del disco e che significa appunto «lettera o messaggio».
Adesso dopo la presentazione bisognerà attendere il parere della archeologia ufficiale sulla traduzione dell’umile francescano sardo che, se pur non essendo uno specialista, è comunque un uomo di vasta cultura.
COS’E’
Ritrovato a Creta - Il Disco di Festo è un reperto archeologico ritrovato nell’omonima città di Festo, sull’isola di Creta, sotto un muro di un palazzo minoico. Fu scoperto nel 1908 da una spedizione archeologica italiana guidata da L. Pernier e F. Halbherr.
È un disco di terracotta, delle dimensioni di 16 centimetri di diametro e 18 millimetri di spessore, cosparso di simboli figurali rimasti indecifrati, impressi con stampini quando l’argilla era ancora fresca, disposi a spirale su entrambe le facce. La datazione stratigrafica ne attribuisce l’età al 1700 a.C. Secondo altri, sarebbe più antico.
A Festo, su un’altura che domina i dintorni fino al mar libico, sorgono le rovine del secondo dei palazzi minoici per importanza. Ma il palazzo di Festo non è sontuoso come quello di Knosso, ha stanze piccole che fanno pensare a magazzini, a una comunità agricolo-pastorale.
È in una di queste stanze che il 3 luglio del 1908 la spedizione italiana guidata dagli archeologi F. Halbherr e L. Pernier rinvenne il disco che prese nome dalla località. Il locale e gli altri oggetti rinvenuti intorno facevano pensare a un luogo dal carattere sacro, o quantomeno centrale rispetto alle funzioni di potere.
SCHEDe EDITORIALI *
Autore: Ennio Giuseppe Madau
Il Disco di Festo
Data di
pubblicazione: 2007
Prezzo: 20€
ZONZA EDITORI
DESCRIZIONE
A quattromila anni circa di distanza dalla sua composizione, dopo innumerevoli tentativi di traduzione, il Disco di Festo, rimane uno degli enigmi più affascinanti dell’archeologia. Così come per la Stele di Rosetta, legioni di studiosi si sono alambiccati alla ricerca di una interpretazione. Cosa nasconde il testo? Che significato possono celare i pittogrammi che si srotolano nelle due facce del disco? Chi sono gli autori di questo rompicapo del passato? Archeologi, linguisti, storici, esosteristi non hanno trovato una chiave di lettura soddisfacente... finalmente, dopo trent’anni di serrate ricerce, il padre francescano Ennio G. Madau, è pronto a rivelare la vera storia del Disco, traducendolo integralmente, dando così la possibilità a tutti di conoscere un’epopea affascinante e romantica al tempo stesso. Un tassello della storia dell’uomo alla fine svelato e compreso
BIOGRAFIA
Ennio G. Madau, nato ad Albagiara nel 1930, frate francescano, dopo gli studi classici e filosofici ad Assisi e quelli teologici a Roma, ha frequentato il corso di Archeologia e Epigrafia Cristiana del celebre professor Gagov. Conosce l’ebraico, il fenicio, il greco e il latino. Tra le lingue moderne l’inglese, il francese, lo spagnolo e le lingue africane bemba e kaonde del gruppo Bantu. Missionario in Zambia per circa venticinque anni, dove ha insegnato Sacra Scrittura nel Seminario Nazionale di Lusaka, per conto della Conferenza Episcopale Zambiana ha tradotto e in parte corretto in lingua bemba il Messale Romano.
SUL TEMA ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO - IN OMAGGIO A PADRE MADAU - NEL SITO, SI CFR.:
Sul tema, in generale, nel sito, si cfr.:
Le 10 scritture (più una) che nessuno capisce
Tavolette, iscrizioni, incisioni sono state trovate in tutto il mondo, ma le forme per trascrivere le parole pronunciate sono nate da quattro focolai: Cina, Egitto, Mesoamerica, Mesopotamia. Alcune restano un rompicapo
Un bando europeo per studiare le origini dell’alfabeto e della comunicazione non verbale
di Silvia Ferrara (Corriere della Sera, La Lettura, 07.10.2018)
Perché il mistero ci affascina? Forse perché lancia una sfida alla nostra creatività, mette alla prova intuito, dedizione, metodo. Cruciverba, gialli, complotti, amori irrisolti: stregano perché sono elusivi. Ci ricordano che l’impulso a svelare la realtà è da sempre un gioco a metà, una tensione destinata a lasciare in sospeso. Il mistero è parte della vita anche nelle piccole cose, quelle che diamo per scontate, come le parole di questo testo, leggibili apparentemente senza sforzo.
La scrittura è forse la più rivoluzionaria invenzione dell’uomo. Eppure le sue origini restano misteriose. Fino a un paio di generazioni fa, l’idea prevalente era di un’unica invenzione, avvenuta in Mesopotamia, seimila anni fa: da qui si sarebbe diffusa la scrittura. Oggi, invece, ipotizziamo quattro invenzioni (in Cina, Egitto, Mesoamerica e Mesopotamia), anche se altri focolai creativi sono possibili (la Valle dell’Indo o l’Isola di Pasqua). Dunque le scintille sono state molteplici, ma dove, quando e perché si siano accese rimane una questione insoluta.
Non tutte le scritture poi sono state decifrate, e non tutte le lingue che esse registrano identificate. Oggi contiamo quasi una dozzina di casi irrisolti, alcuni dei quali forse non sono definibili nemmeno come scrittura (come i «segni» neolitici della cultura Vinca). Tra gli esempi indiscussi, invece, quattro provengono dal Mare Egeo (Creta e Cipro) e rappresentano i più antichi testi scritti in Europa. Le prime scritture del Vecchio continente sono dunque le meno comprensibili.
Leggere e decifrare sono azioni molto diverse. L’una implica assegnare a specifiche lettere suoni già conosciuti, nell’ istante in cui i segni colpiscono la nostra retina. L’altra implica assegnare valori fonetici a una scrittura non nota, riconoscerne la struttura interna e identificarne la lingua. Può richiedere una vita intera.
La scienza della decifrazione ha, però, un futuro se prospettive multidisciplinari (machine learning, data science, analisi paleografica, linguistica, archeologica) agiscono in sinergia. Nel giro intorno al mondo delle scritture indecifrate, e del potenziale di decifrazione, partiamo dall’Europa. E da un codice medievale. Poi, rotta verso est.
Manoscritto Voynich
Un libro di 200 pagine, che nessuno ha mai letto. Datato con il carbonio 14 al XV secolo, prende il nome da un mercante di libri polacco che lo comprò nel 1912 a Frascati. Diventato un fenomeno di culto, il libro è minuziosamente illustrato con immagini fantastiche: fiori e piante chimeriche, silhouette di donne svestite, tripudi di diagrammi alchemici. La cosa più strana però è la scrittura, con i suoi caratteri sinuosi e arzigogolati, mai visti in nessun altro testo. Diversamente dalle scritture descritte qui, che sono tutti sillabari, il sistema Voynich è un alfabeto (i segni sono una trentina). Tecniche di machine learning hanno festeggiato il decoding: ma la strada è ancora lunga («la Lettura» #339 del 27 maggio).
Geroglifico cretese
È la scrittura più antica del continente. Il suo nome è ispirato al geroglifico egiziano, ma impropriamente, perché né discendenza diretta, né somiglianza grafica li legano. I «minoici», popolazione così chiamata dal re Minosse all’inizio del secondo millennio a.C., creano un sistema di scrittura nuovo, i cui segni iconici - il termine «pittografico» è impreciso - sono mani, occhi, animali, utensili che registrano sillabe e logogrammi (parole intere). Gli artigiani incidono sigilli di pietra con sequenze brevi, gli scribi iscrivono barre e noduli di argilla. Così si controllavano gli import/export dei palazzi.
Lineare A
Quasi contemporanea al geroglifico cretese, la Lineare A segna l’apogeo dei palazzi monumentali minoici. Dalla Lineare A, che troviamo principalmente su tavolette di argilla, deriva la Lineare B, unico sillabario egeo decifrato, 50 anni fa, dall’architetto inglese e poliglotta Michael Ventris. La Lineare B registra una forma di greco molto antico, di 500 anni antecedente l’Iliade. Ventris l’ha decrittata avvalendosi solo dell’analisi statistica delle frequenze dei segni. Le due scritture lineari si somigliano, ma i valori fonetici della Lineare B non ci aiutano a identificare la lingua della Lineare A (diffidate di chi dice il contrario). Si tratta di un classico caso di scrittura leggibile e di lingua, forse, sconosciuta.
Cipro-minoico
Sull’isola di Cipro, quasi 4 mila anni fa viene adottata una scrittura sillabica, chiamata cipro-minoico, discendente dalla Lineare A. Benché ancora indecifrata, studi recenti regalano molti indizi. Il cipro-minoico compare su una varietà di oggetti, tra cui sfere di argilla che recano, probabilmente, nomi di individui di alto rango. A che cosa servivano? Una teoria è che fossero usate nei sorteggi: Cipro nel II millennio a.C. era uno snodo vitale per il commercio del rame (in latino cuprum) e molte «biglie» sono state trovate in laboratori industriali vicino ai santuari. Forse i sorteggi assegnavano i compiti agli addetti alla lavorazione del rame e ai riti religiosi.
Il Disco di Festo, famigerato tra gli esperti, mitizzato dai cretesi, riconoscibile come la gondola a Venezia o il Colosseo a Roma, non solo è preda del marketing, ma soprattutto parte di un’idea stessa di «grecità», anche se con la lingua greca ha poco a che fare. Contemporaneo della Lineare A, è il primo oggetto della storia stampato a caratteri mobili, una specie di «modello Gutenberg» dell’antichità. Un esemplare unico: 244 segni, tutti iconici, nessun indizio per decrittarlo. «Se Minosse in persona mi desse la chiave in sogno, nessuno mi crederebbe», diceva ironicamente uno dei padri decifratori della Lineare B. Chi pensa sia un falso sbaglia, ma è pur sempre un enigma senza soluzione.
Sillabario di Biblo
Semi-sconosciuto, dalla città sulla costa libanese che ha regalato al mondo la parola «libro» (byblos in greco), il Sillabario di Biblo, datato alla stessa fase delle scritture egee, è attestato su una manciata di tavolette di bronzo, spatule di metallo e stele di pietra. Alcuni segni sembrano derivare da una forma corsiva di egiziano, altri richiamano l’alfabeto fenicio più tardo. Che il Sillabario possa essere un trait d’union tra queste scritture è possibile, come è attendibile che la lingua registrata sia un dialetto semitico nord-occidentale (come il fenicio). Le ultime ricerche continuano a pronunciarsi poco su una potenziale decifrazione, soprattutto perché le iscrizioni sono poche (una decina) e i testi scarni.
Proto-elamita
Ci spostiamo a est e torniamo indietro di quasi due millenni (3200-2900 a.C.), nella regione sud-ovest dell’Iran odierno, dove troviamo la scrittura indecifrata più antica del mondo: migliaia di tavolette di argilla iscritte in un sistema relativamente simile al cuneiforme di primissima generazione, con caratteri lineari. Siamo agli albori della scrittura in tutta la Mezzaluna fertile, quando annotazioni e liste d’inventario vengono usate per il management agricolo; alcuni testi sono però molto più lunghi. Quindi di che cosa scrivevano nell’Elam? Per scoprirlo, un gruppo di ricerca di Oxford sta digitalizzando le iscrizioni con immagini ad altissima risoluzione (Rti) e trascrizione online. Nel definire i caratteri e le sequenze, il progetto ha evidenziato che gli scribi di 4 mila anni fa facevano anche errori di ortografia.
Harappan
Ancora più a est, nel III-II millennio a.C. (2600-1900 a.C.), troviamo la civiltà lungo la Valle dell’Indo, detta Harappan (uno dei suoi siti più importanti è Mohenjo-Daro, in Pakistan); le prime iscrizioni di questa zona sono molto brevi, con segni iconici, tanto che gli studiosi oggi dibattono se in realtà non rappresentino un sistema non-linguistico (icone araldiche ed emblemi, tra cui l’«unicorno») impresso su sigilli e amuleti. Analisi statistiche sembrano confutare questa ipotesi: le sequenze si comportano come parole, non con la distribuzione random o rigida di disegnini sparsi. È probabile che la lingua codificata sia un dialetto dravidico preistorico, ma prima la struttura interna della scrittura deve essere definita, anche applicando tecniche di machine learning.
Rongorongo
La scrittura può nascere anche in luoghi inaspettati, come in mezzo al Pacifico. Qui, gli abitanti dell’Isola di Pasqua concepiscono tre secoli fa e senza influenze esterne il Rongorongo, che nella lingua di Rapa Nui significa «recitare recitare». Esistono meno di 40 iscrizioni su tavolette di legno, materiale sfruttato fino alla deforestazione dell’isola. Centinaia di segni minuscoli e compatti, forse sillabici. Il Rongorongo è così poco studiato che non esiste un catalogo di tutte le iscrizioni, né un repertorio definitivo dei suoi segni. Le possibilità di decifrazione potrebbero aumentare, però, perché i testi sono corposi, e il repertorio grafico è facile da definire.
Epi-olmeco
La scrittura Maya fa da padrona per tutta l’epoca preispanica in America centrale, ma è la scrittura epi-olmeca (o istmiana, dall’istmo di Tehuantepec) a segnarne il vero inizio, mille anni prima, dal 500 a.C. circa. Simili al sillabario Maya, quasi del tutto decifrato e in costante perfezionamento, l’epi-olmeco e il suo cognato zapoteco sono dei grattacapo. Nei pochi testi fruibili troviamo indicazioni legate a calendari e computi, generi che nel periodo Maya classico sono diffusissimi. Un aspetto molto intrigante sta nel fatto che l’epi-olmeca è una scrittura complessa, che codifica testi lunghi: questo presuppone antecedenti, a noi oggi invisibili, meno articolati. Insomma, non si vede ancora il vero incipit delle scritture americane.
Il QR illeggibile
Chiudiamo con un «segno» moderno, ma di lettura difficile quanto le scritture antiche descritte sopra. Leggere è un’azione innaturale, frutto di trasmissione culturale e non dell’evoluzione dell’uomo. È troppo recente l’invenzione della scrittura, per esser parte dell’hard-disk del cervello. Nel corso dei millenni, i neuroni hanno quindi riciclato aree cerebrali preposte a captare altro: il solco laterale occipito-temporale sinistro, che riconosce forme e contorni degli oggetti, sembra essersi riqualificato per distinguere anche le forme dei segni. Anche questi ultimi si sono a loro volta adattati alla nostra percezione del mondo, semplificandosi in contorni, linee, segmenti. Per questo motivo un codice QR viene identificato subito da un smartphone, ma elude, come un cruciverba impossibile, la nostra retina.
La scoperta
Gli archeologi: «Bulgaria, qui la prima scrittura del mondo»
Gli esperti del museo di Pleven annunciano alla radio pubblica: «Rinvenuto un frammento di oltre 5mila anni fa»
di Stefano Giantin*
BELGRADO. Tre grandi fiumi, sulle sponde dei quali sorsero le prime grandi civiltà e nacquero le prime forme di scrittura: Eufrate, Tigri, Nilo. No, c’è un quarto fiume da aggiungere: è il Danubio, e con esso una civiltà dai contorni ancora incerti e misteriosi ma più arcaica di quelle egizia e sumera, con la sua scrittura. E la storia andrebbe riscritta.
È quanto sostiene un gruppo di archeologi bulgari, che ha annunciato quella che a loro dire potrebbe rivelarsi «la scoperta del secolo». Parola di Volodya Popov, studioso di fama in Bulgaria, da poco nominato direttore del Museo storiografico della città di Pleven, come precisa Ljudmil Vagalinski, direttore dell’Istituto Nazionale di Archeologia di Sofia.
Popov - fa sapere la radio pubblica bulgara - ha rivelato che un team di archeologi del suo museo ha ritrovato un antichissimo frammento, probabilmente di un vaso o piatto in ceramica, durante uno scavo nel villaggio di Riben, paesino situato a metà strada tra la città di Pleven e il Danubio.
A Riben si cercavano reperti di epoca romana. È stato invece portato alla luce qualcosa di più antico e prezioso, un coccio con incisi strani simboli. Simboli, tra cui uno che ricorda «la svastica», che rappresenterebbero il «primo esempio di scrittura» dall’inizio dei tempi, ha riferito Popov. Il reperto infatti «potrebbe avere più di 5mila anni». In pratica quella scrittura sarebbe anteriore - e di molto - a quella ideata nelle pianure della Mesopotamia e nei deserti d’Egitto.
A confermare il quadro al Piccolo anche Sergey Torbatov, archeologo dell’Istituto nazionale di archeologia di Sofia, presente sul posto al momento del ritrovamento. «Non voglio dire niente, stiamo organizzando una trasmissione alla radio bulgara in cui forniremo maggiori dettagli, non sono ancora pronto», esordisce, promettendo anche «una foto ad alta definizione dell’oggetto per la prossima settimana». Ma poi non riesce a trattenersi e racconta, eccitato. Il frammento «è stato rinvenuto il 2 agosto scorso, alle 7 del mattino».
Sull’oggetto «compare una svastica» e almeno «un pittogramma» ben riconoscibile. Quale l’età presunta dell’oggetto? «Si tratta di un pittogramma simile a quello inciso su un altro frammento» ritrovato in Bulgaria 40 anni fa, nel distretto di Vratsa, sul Danubio. Ma quello scoperto a Riben, secondo le stime del suo team, sarebbe anteriore. «Parliamo del più antico linguaggio scritto al mondo, del primo tipo di scrittura», si dice certo Torbatov. Tesi che dovrà ora essere confermata da indagini suffragate da prove scientifiche, che arriveranno presto, confermano da Pleven.
L’ipotesi di ricerca potrebbe non essere affatto campata in aria. «Ho analizzato e stabilito che la scrittura nella cultura danubiana è molto più vecchia che in quelle mesopotamiche ed egiziane» e la recente scoperta in Bulgaria «è solo uno dei tanti punti che rafforzano» il quadro, spiega al telefono dalla Finlandia il professor Harald Haarmann, linguista tedesco e autore di "Storia della scrittura" e di "L’enigma della civiltà danubiana", oggi vicepresidente dell’Institute of Archaeomythology.
Haarmann già in passato aveva scritto di precisi indizi - vedi le Tavolette di Tartaria, ritrovate in Romania nel 1961 e oggetto di dispute fra archeologi - che indurrebbero ad attribuire alla cultura danubiana la prima forma di scrittura. Altri elementi a corroborare l’ipotesi di una civiltà evoluta, «la fusione del bronzo, che iniziò nell’attuale Serbia nel 5.400 a.C.» e «il tesoro di Varna, antichi manufatti in oro e quanto ritrovato ora in Bulgaria», aggiunge.
Ma è possibile definire scrittura quella svastica e quel pittogramma? «La svastica è fra i segni più antichi, propri di remoti tipi di scrittura non alfabetici, con centinaia di simboli diversi necessari per un linguaggio» senza lettere. E sì, la chiosa dello studioso, «possiamo parlare di sistema di scrittura, non di decorazioni quando ci sono gruppi di segni» allineati, come a Riben.
Ora la palla torna proprio in quel villaggio finora sconosciuto, nell’attesa che la scoperta del secolo venga consolidata da prove inconfutabili.
* Il Piccolo, 20 agosto 2016 (ripresa parziale - senza foto).
Al Palazzo di Città di Cagliari un percorso che documenta la vita delle civiltà tra il V e il I millennio avanti Cristo. Dal Caucaso alla società nuragica
Eurasia
Quelle civiltà che diedero inizio alla grande Storia
Centinaia i reperti esposti provenienti dai musei della Sardegna e dall’Ermitage.
Un ponte fra mondi lontani per la prima volta a confronto
di Marino Niola (la Repubblica, 22.12.2015)
La conoscenza poetica del mondo precede la conoscenza razionale degli oggetti. In quella lunga notte in cui cominciano a spuntare le prime luci della storia, i nostri lontani progenitori vivevano in un paesaggio sconfinato dove la natura la faceva da padrona. E la caccia e la raccolta erano le sole arti della sopravvivenza. Eppure l’ingegno, la fantasia e la curiosità di quegli uomini e di quelle donne li hanno fatti uscire dall’età della pietra, dando inizio a una straordinaria rivoluzione culturale. Nascono allevamento, agricoltura, sedentarizzazione, lavorazione dei metalli, tessitura. Nasce l’idea stessa di casa, che non è un semplice riparo ma una dimora. Come dire che habitat, abiti e abitudini arrivano insieme. E che coltura e cultura avanzano in parallelo. Facendo uscire dal loro isolamento i figli di quei bestioni primitivi di cui parla Giambattista Vico nella Scienza Nuova. Di qui scambi, commerci e merci. Viaggi e non più vagabondaggi.
È un punto di non ritorno che cambia il destino della specie. A questa transizione è dedicata la bellissima mostra Eurasia, fino alle soglie della storia. Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna.
Curata da Anna Maria Montaldo, direttore dei Musei Civici di Cagliari, insieme a Yuri Piotrovsky e Marco Edoardo Minoja, l’esposizione (da oggi al 10 aprile 2016) documenta la vita di questi uomini che, intorno al quinto millennio prima di Cristo, stavano sperimentando la più grande delle mutazioni antropologiche.
Una soglia temporale ma anche una start up immaginativa. Da allora, infatti, le società umane cominciano a raccontarsi e a descriversi. In forma di parole e in forma di oggetti. Cose e rappresentazioni che fanno da monumento-documento di un tornante decisivo del cammino dell’umanità. I curatori della mostra hanno sintetizzato questo cammino nella parola Eurasia.
Una sorta di ellissi con due fuochi. La Sardegna e il Caucaso. Mondi così lontani e così vicini, divisi da una distanza incalcolabile e uniti da una domanda di senso che accorcia le distanze. Disseminando il percorso di oggetti eloquenti. Pugnali di rame, anfore kurgan, vasi di Ozieri, statuine femminili di alabastro, monili d’oro e d’argento. E poi gli strumenti prodotti dalle arti della metallurgia. Incudini e martelli che hanno plasmato rame, bronzo, ferro e oro consegnando la fabbrica del fuoco, che muove i suoi primi passi, prima al mito e poi alla storia.
Non a caso Prometeo, l’uomo che ruba la scintilla agli dei della folgore e la dona ai mortali, è l’eroe eponimo della civiltà. Il personaggio simbolo della techne, cioè la capacità tutta umana di trasformare la natura con il lavoro. “Sudate o fuochi a preparar metalli”, dicevano i poeti barocchi che di questo tornante sono stati i più geniali esploratori. Perché lo hanno detto in poesia e dipinto in immagini esonerandosi dal tentativo, peraltro vano, di spiegarlo in concetti.
Come dire che hanno usato le lenti potentissime della metafora alata, che sorvola spazi e tempi. Ed è quel che fanno i curatori della mostra spingendo il visitatore verso un autentico volo pindarico che avvicina lembi estremi della storia e della geografia.
E perfino la parola Eurasia, più che un semplice titolo, è un programma. Un ponte fra mondi lontani ma soprattutto una password di questo progetto nato nell’alveo della candidatura di Cagliari a capitale europea della cultura per il 2019. E che si è concretizzato in questa bellissima esposizione.
Eurasia, infatti è anche un acronimo. Ciascuna lettera fornisce una chiave di lettura.
E, come Ermitage, il prestigioso museo di San Pietroburgo che ha prestato le sue preziose collezioni archeologiche.
U come unione di culture.
R come la rivoluzione neolitica che ha mutato le sorti dell’umanità.
A come antropologia, la disciplina che studia le diverse dimensioni del pianeta-uomo.
S come Sardegna, l’isola-continente che con la sua storia millenaria e con la cultura nuragica diventa un paradigma del Mediterraneo.
I come immaginazione, la facoltà che apre la scatola nera dell’umano e ritrova i fili nascosti che costituiscono il tessuto comune della storia.
A come archeo-logia, che indaga le profondità del passato e ce lo rende di nuovo contemporaneo.
E in questa Eurasia del quinto millennio avanti Cristo ritroviamo le tracce di noi stessi, le premesse di quel che siamo diventati. Il nostro Oriente. Quella dimensione aurorale che da Erodoto in poi ha fatto del Caucaso, dell’Indo e della Mezzaluna Fertile le regioni dell’anima di un Occidente in cerca di orientamento e di origine. Parole che non per nulla hanno la stessa etimologia. E anche quando l’origine è svanita nelle nebbie del tempo ne restano le tracce e le connessioni.
Consegnate, come dice Pietro Clemente, in un bellissimo testo che arricchisce il catalogo, al mondo delle cose, alla cultura materiale, agli oggetti del lavoro contadino, agli strumenti del mondo nuragico o caucasico. Dove è possibile riconoscere forme, stabilire nessi, tra modi di vita apparentemente lontani e incomunicanti. È in questo mare, dove è facile naufragare, che è bello navigare oscillando tra lo stupore della differenza e la fascinazione della somiglianza.
Come quando il visitatore si trova davanti le perturbanti statue sarde di Monte Prama, grande attrattiva del Palazzo di Città. Cui i curatori, con felice scelta espositiva, hanno accostato i Kurgan di Majkop, straordinari monumenti funerari della Repubblica russa di Adigezia. Con i loro scheletri colorati che affiorano da millenni anni di storia in tutta la loro carica engmatica.
Amplificata da uno straordinario corredo di leoni rampanti, di anelli preziosi, di monili principeschi, di placche ornamentali. Chili di oro e d’argento che dovevano accompagnarli nell’ultimo viaggio. Entrambi eroi, i giganti sardi e i simulacri russi, hanno bucato la barriera del tempo e si ripresentano ai nostri occhi come emergenze del senso. Pieni di una ulteriorità onirica che ci invita ad addentrarci in quella foresta di simboli che separa e unisce il nostro Oriente e il nostro Occidente.
Così Cagliari è diventata capitale culturale
di Mauro Lissia (la Repubblica, 22.12.2015)
CAGLIARI In principio era un sogno: Cagliari capitale europea della cultura. Ceduto il passo alle meraviglie di Matera, alla fine è arrivato comunque il sigillo del Mibact: il capoluogo della Sardegna è una delle capitali italiane della cultura per il 2015. È bastato perché la città si trasformasse in una fabbrica di progetti che nelle speranze dell’amministrazione guidata dal sindaco Massimo Zedda dovrà ridisegnarne il volto. Maria Paola Zedda, nessuna parentela col capo dell’esecutivo comunale, è stata uno dei motori organizzativi e ideativi del programma. Programma ambizioso, anche complesso, che i cagliaritani hanno vissuto come novità assoluta. Difficile stabilire tra le iniziative una graduatoria di valore. Certo è che il rapporto avviato tra Cagliari e il Museo Ermitage di San Pietroburgo offre alla città una prospettiva culturale di respiro internazionale: si tratta di una collaborazione triennale che parte con questa esposizione dai contenuti inediti Eurasia, fino alle soglie della storia, capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna.
A promuoverla sono il Comune di Cagliari, il Museo Statale Ermitage con il Mibact-Soprintendenza Archeologia Cagliari e il Polo Museale Regionale della Sardegna, la Regione Sardegna e la Fondazione Banco di Sardegna. I curatori: Marco Minoja, Anna Maria Montaldo e Yuri Piotrowsky con l’allestimento di Angelo Figus. Per Maria Paola Zedda «non è solo di un evento importantissimo dal punto di vista scientifico e culturale - oltre 250 le opere dal museo russo tra ori, bronzi, corredi funebri e oggetti d’uso comune dal 5000 a.C., 100 dai musei sardi e 30 da altre istituzioni italiane a testimoniare parallelismi e incroci nello sviluppo della civiltà preistorica dai popoli del Caucaso alla civiltà nuragica - ma soprattutto è un momento fondamentale del processo di ricostruzione e di apertura della città». Il tutto all’interno di un programma - Space in the place/ percorsi d’arte pubblica - che «ha reso Cagliari cantiere culturale, un laboratorio di sperimentazione e produzione nell’arte, nella musica, nel teatro, nella danza, che ha coinvolto nelle sue varie fasi grandi artisti internazionali e le diverse comunità che compongono la città».
Spesso i progetti sono come le speranze, il 2015 ha offerto ai cagliaritani occasioni reali di sperimentare la città che si vorrebbe. Le cifre rendono l’idea: dallo scorso aprile 175 eventi organizzati dal Comune di Cagliari, coinvolti 1468 artisti, operatori e professionisti del settore creativo, 50 associazioni partner, 20 comuni, 71 volontari della capitale, 3750 bambini hanno partecipato attivamente alla costruzione degli eventi e sono 5348 i cittadini coinvolti nei progetti culturali. Grandi nomi del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo si sono confrontati con Cagliari in un intreccio tra arte, danza, musica, fotografia e cinema, dai Future Farmers a Enzo Cosimi e Fabio Quaranta, da Mike Cooper al premio Oscar Luis Bacalov.
Ancora il coreografo Maurizio Saiu e l’artista e performer turco-tedesca Nezaket Ekici, Maria Papadimitriou, Signe Lidèn, il canadese Christof Migone, Daniela Cascella, il grande coreografo greco Dimitris Papaioannou, Ettore Favini, Tellas, Pierre Sauvageot, artista e compositore e direttore di Lieux Publics. A Cagliari - città che insieme a Londra, Barcellona e Nantes sperimenta il progetto pilota Zeus per autobus elettrici, al secondo posto in Italia per la mobilità pubblica dopo Milano «la cultura - raccontano con orgoglio gli organizzatori - è diventata spettacolo, emozione, contaminazione, ma soprattutto parte integrante e motore del processo di cambiamento».
SCIENZA
Mediterraneo, ecco i primi navigatori
di Aristide Malnati (Avvenire, 5 giugno 2011)
Tutti a bordo! Si salpa! L’invito ad affrettarsi nella salita su un’imbarcazione pronta a prendere la via del mare, monito ormai consueto per passeggeri e marinai di ogni genere di natante, potrebbe trovare la prima ipotetica formulazione in un passato remotissimo, agli albori dell’avventura terrena, ancora in corso, dell’homo sapiens. Una recente scoperta ad opera di una missione archeologica greco-americana sta riscrivendo la storia della navigazione (e più in generale delle migrazioni di gruppi umani in ere lontanissime), facendone retrocedere l’origine di decine di migliaia di anni; viene enormemente spostato a ritroso il momento in cui i nostri lontanissimi antenati si avventurarono arditi a solcare tratti di mare, certamente limitati nella distanza, ma non per questo privi di incognite.
Gli scavi, diretti da Thomas Strasser (Providence College del Rhode Island) e da Eleni Passagopoulou (dipartimento di Paleoantropologia e speleologia della Grecia del Sud), sono stati eseguiti a Creta, e precisamente sul sito di Plakias. In particolare l’indagine si è concentrata su terrazzamenti in calcare, in grotte e in piccoli rifugi naturali, sede accertata di gruppi umani (l’homo sapiens, già nella sua fase di diversificazione) per un periodo lunghissimo: dal Pleistocene (130.000 anni or sono) fino all’Olocene (9.000 anni fa).
È in questo contesto è emerso un piccolo tesoro archeologico, capace di fornire informazioni preziose nella ricostruzione di momenti di quotidianità e di attività di quelle remotissime popolazioni: più di duemila pietre (o frammenti di pietra) palesemente antropiche, vale a dire intagliate dall’uomo. Piccoli oggetti di dimensioni minuscole (da un centimetro a un massimo di venti) in quarzo bianco, quarzite e rocce silicee: «Si tratta senza dubbio alcuno di rudimentali strumenti di lavoro, pensati per costruire qualcosa: una sorta di piccole asce, strumenti da taglio, oggetti affilati per limare, levigare e addirittura per forare», fa notare Eleni Passagopoulou dopo accurata analisi. E, sulla base della loro collocazione stratigrafica e di un’analisi geologica, si colloca la datazione di questi arnesi addirittura alla prima fase di occupazione dell’area, dunque a 130.000 anni or sono.
Ma quale fu la funzione di utensili litici così specifici, trovati in così gran numero e soprattutto gli unici reperti lì rinvenuti? Gli studiosi avanzano un’ipotesi affascinante e per nulla peregrina, in quanto basata sulla comparazione con manufatti simili, anche se di epoche molto più recenti: sarebbero serviti a costruire forme arcaiche di imbarcazioni, la cui conformazione ovviamente non possiamo neppur minimamente immaginare; imbarcazioni destinate però a percorrere piccoli tratti di mare così da permettere a gruppi umani seminomadi la costante ricerca di nuovi territori ideali per periodi di stanzialità più o meno lunghi. Alla luce di tale interpretazione compirebbe un notevole balzo a ritroso il momento in cui l’uomo iniziò a solcare la distesa marina; momento fino a un recente passato collocato attorno al 30.000 a. C. I primi uomini iniziarono a percorrere le acque dei mari e dei grandi fiumi, secondo lo storico della navigazione Piero Dell’Amico, utilizzando galleggianti fortuiti: si reputa che il tronco d’albero più o meno sagomato, incavato già di propria natura o espressamente scavato dall’uomo - definito tecnicamente "imbarcazione monossile" - sia stato il primo manufatto a comparire in epoca preistorica aprendo la strada allo sviluppo della nautica; e si potrebbe supporre che proprio un simile natante, preparato con gli strumenti litici rinvenuti, sia stato utilizzato dai protonavigatori cretesi.
Ma c’è di più. È evidente che i primi tentativi di compiere tragitti sull’acqua siano stati fatti mantenendosi lungo le coste, compiendo un percorso il più possibile privo di incognite. Nel caso dei navigatori di Creta siamo di fronte già a piccole traversate in mare aperto, facilitate certo dal gran numero di isole presenti nell’Egeo, ma non per questo semplici e sicuramente possibili solo con navi in qualche modo solide.
Questo aspetto risulta comprensibile, tenendo conto che la piccola comunità del sito di Plakias non fu certamente autoctona, ma che lì arrivò a più ondate da terre lontanissime, come già hanno mostrato ricerche di paletnologia; probabilmente questo ceppo, autore di più passaggi migratori intermedi prima di arrivare a Creta, si originò nel continente africano (nelle vallate dell’attuale Kenya o Etiopia), culla di quei gruppi umani vincenti nell’arcaica lotta di selezione e capaci poi di spingersi fino al bacino del Mediterraneo e nell’area del Vicino Oriente. E simili movimenti migratori - hanno stabilito i ricercatori - iniziarono in un periodo attorno al 200.000 a. C. e continuarono oltre il 130.000, quando appuntò si formò e rimase lungo tempo stabile la remota comunità di Plakias.
Aristide Malnati
Madonna della Lettera
(LA)
« Vos et ipsam Civitatem benedicimus »
(IT)
« Benediciamo voi e la vostra Città »
(Dalla Lettera di Maria ai messinesi)
"Madonna della Lettera" è uno degli appellativi utilizzati dalla religione cattolica nella venerazione di Maria, madre di Gesù. La Madonna della Lettera è venerata dalla Chiesa cattolica come santa patrona di Messina, di Palmi (RC) e di Finale di Pollina (PA).
La tradizione, avvalendosi di una affermazione dello storico Flavio Lucio Destro (II secolo d.C.), narra che san Paolo, giunto a Messina per predicare il Vangelo, trovò la popolazione ben disposta a lasciarsi convertire. Ben presto molti cittadini aderirono all’invito convertendosi al cristianesimo, e nel 42, quando Paolo si accingeva a tornare in Palestina, alcuni messinesi chiesero di accompagnarlo per poter conoscere la Madonna di persona. Così una delegazione di messinesi si recò in Palestina con una missiva, nella quale i molti concittadini convertiti alla fede di Cristo professavano la loro fede e chiedevano la protezione di Maria.
Maria li accolse e, in risposta alla missiva, inviò indietro una sua Lettera, scritta in ebraico, arrotolata e legata con una ciocca dei suoi capelli. La delegazione tornò a Messina l’8 settembre del 42 recando l’importante missiva: in essa Maria lodava la loro fede, diceva di gradire la loro devozione ed assicurava loro la sua perpetua protezione.
Così termina la Lettera: "Vos et Ipsam civitatem benedicimus", ovvero "Benedico voi e la vostra città". Il testo oggi è scritto a caratteri cubitali alla base della stele della Madonnina sul braccio estremo del porto falcato di Messina. Da allora la città di Messina la celebra il 3 giugno con una affollata processione del fercolo argenteo della Madonna e il 15 agosto di ogni anno con la processione della colossale Vara, trascinata da centinaia di fedeli vestiti di bianco, che vede la partecipazione di diverse centinaia di migliaia di fedeli e curiosi da tutta Europa.
Il culto della Madonna della Lettera a Finale di Pollina
Il culto della Madonna della Lettera arrivò a Finale di Pollina tramite il casato dei Ventimiglia, marchesi di Geraci, proprietari feudali delle Madonie, comprendente anche il feudo di Finale. La borgata, residenza estiva della nobile famiglia, comprendeva una torre spagnola a picco sul mare, appositamente scelta dai marchesi come abitazione di sicurezza, mentre i cortigiani al seguito alloggiavano in una maestosa villa con ampia foresteria e grandi depositi di derrate alimentari. Antedecente al culto della Madonna della Lettera, i Ventimiglia veneravano il mistero dell’Ascensione. La ricorrenza era molto sentita nella piccolissima comunità che contava allora poco più di 50 abitanti.
La parentela collaterale con la famiglia Moncada di Messina, portò a Finale un originale riproduzione di un quadro dell’1800, di gusto bizantino, raffigurante una Madonna con in braccio il bambino Gesù, reggente il mondo. Nella corona della Madonna era inciso "Regina Coeli Laetare Alleluya".
La solenne celebrazione veniva celebrata nella cappella di famiglia dei marchesi, tuttora esistente, in posizione antistante la torre bizantina. Essa era parte integrante della villa, alloggio di corte.
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera - ripresa parziale.
Questa interpretazione è molto fantasiosa ma non spiega in dettaglio il significato ne di tutti i simboli ne la loro disposizione. Sarebbe opportuno leggere un grande capolavoro sul disco di festo "The Bronze Age Computer Disc" e noterete come alla fine il disco acquisti un senso ben preciso, così pure la dsposizione a spirale dei simboli, il motivo per cui il numero di simboli e i settori sono diversi dal lato A al lato B. Un anticipo: serviva a calibrare il calendario Minoico! A seguire
Buona Lettura
PS. Basti solo pensare a che modo assurdo di scrivere una storia, su un disco e con simboli disposti a spirale!