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UMUDUFU è un’associazione di volontariato che intende promuovere una cultura di pace e di solidarietà e l’affermazione dei diritti umani attraverso la realizzazione e il sostegno di progetti in ambito socio-sanitario ed educativo, in un’ottica di sviluppo e valorizzazione delle risorse locali.
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UMUDUFU ha nel cuore il Rwanda, con i suoi paesaggi da mozzare il fiato, gli sguardi intensi e i grandi sorrisi dei bambini, l’affetto e la calda accoglienza di un popolo caratterizzato da profonde umanità e dignità.
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UMUDUFU nasce dall’idea di un gruppo di amici che hanno vissuto insieme in Rwanda ed è costituita esclusivamente da volontari che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze. Tutte le risorse raccolte sono così destinate alla realizzazione e al finanziamento dei progetti. *
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Come ogni anno,
è uscito il calendario di Umudufu.
Quest’anno è dedicato completamente
ai bambini della Scuola Primaria di Kivumu,
in prossimità del
Centro di Sanità delle Suore Francescane
che aiutiamo da anni.
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Come potete vedere sul sito di "la Repubblica"(cliccare su: QUI)
sono stati gli stessi bambini che ci hanno permesso di “costruire” il calendario!
I proventi della vendita finiranno interamente per la costruzione e per la gestione del progetto “mensa” per i bambini più bisognosi che frequentano questa scuola (un dato su tutti: su 1615 alunni, 336 non mangiano MAI durante la pausa tra la mattina e il pomeriggio perché troppo poveri o malati...) Il nostro intento è di dare da mangiare a più bambini bisognosi possibile, per farli crescere al meglio e far sì che migliorino il loro rendimento scolastico (compromesso dalla mancanza di forze e cali di concentrazioni dovuti alla fame).
Chi volesse uno o più calendari può contattarci via mail a
umudufu@yahoo.it
umudufu@umudufu.org o
al numero 3497929609, il costo è di 5 euro cad.
Murakoze! (grazie!)
Associazione Umudufu Onlus
-Associazione di volontariato UMUDUFU onlus
tel. 349 7929609
Via delle Forze Armate 351
20152 Milano
umudufu@umudufu.org
UMUDUFU ONLUS (FACEBOOK)
Lutto.
Addio a Pierantonio Costa, da console in Ruanda salvò migliaia dal genocidio
«Ho solo risposto alla mia coscienza», diceva l’imprenditore spentosi nei giorni scorsi a 81 anni, quando veniva interpellato sul suo ruolo durante il genocidio ruandese del 1994
di Matteo Fraschini Koffi, Dakar (Avvenire, giovedì 7 gennaio 2021)
«Ho solo risposto alla mia coscienza». Era questa la risposta più frequente di Pierantonio Costa, spentosi nei giorni scorsi a 81 anni, quando veniva interpellato sul suo ruolo durante il genocidio ruandese nel 1994. Oltre duemila le persone che è stato in grado di salvare. «Riusciva a creare dei corridori umanitari attraverso cui ha fatto fuggire verso il vicino Burundi centinaia di persone, straniere e locali - ha scritto Collins Mwai sul quotidiano ruandese New Times -. Oltre 300 bambini sono stati salvati grazie alla sua opera».
Abile imprenditore e console onorario nella capitale ruandese, Kigali, trasformatosi durante le violenze in nobile umanitario suo malgrado. Eroe per caso nella follia generale di quei 90 giorni di morte.
Una rara combinazione che gli ha valso la candidatura per il Premio Nobel per la pace nel 2011. Per «l’angelo italiano del Ruanda» ricordato nel «Giardino dei giusti del mondo” a Milano e Padova. "È stato un uomo molto buono - ha detto Bruno Puggia, attuale console onorario italiano in Ruanda -. Ha fatto molto sia per la comunità ruandese sia per quella italiana».
Visioni
The Good Ones, dal Ruanda profondo con molto amore
Un disco e un libro. Il nuovo album del trio che è riuscito a curare le ferite del genocidio con la musicoterapia degli impasti vocali. Ennesimo capitolo della sfida per la giustizia nell’arte del produttore Ian Brennan
di Marco Boccitto *
La più raffinata musica rurale del pianeta è una sorta di bluegrass tropicale che viene su dal Ruanda profondo e racconta una storia lunga e accidentata di redenzione collettiva. Alla fine della quale risulta chiaro che The Good Ones, «i buoni», con i brutti e i cattivi hanno chiuso per sempre.
È LA LOGICA EVOLUZIONE di un percorso che inizia alla fine degli anni ’70, attraversa con perdite l’orrore genocidiario del 1994 e a quell’intersezione dolorosa in cui avevamo lasciato il paese, 25 anni fa, si rigenera. Qui ci sono solo sopravvissuti, sulla base del canone che nasce spontaneo nell’intima relazione stabilita da tre voci, il temibile tridente tutsi-hutu-abatwa che si scioglie in rigogliose armonizzazioni vocali e una sontuosa economia di gesti, ingredienti, strumenti musicali in parte inventati, all’insegna di un minimalismo squisitamente contadino.
Il brano che lancia il loro nuovo album - Rwanda, You Should Be Loved (Anti-) - si chiama appunto The Farmer e celebra il pilastro della catena alimentare comunitaria, la figura archetipica del piccolo agricoltore locale. Ma insieme ne certifica lo sgomento, quando si rende conto che da sola la sua volontà non basta neanche a produrre il cibo per sé e la propria famiglia.
IL RESTO SI CAPISCE quanto basta, anche per chi mastica poco il kyniarwanda dialettale dei loro ristretti paraggi, semplicemente scorrendo l’inglese di cortesia adottato per i titoli: «Malgrado tutto ancora ti voglio bene», «Mia moglie è stupenda come un tramonto», «Il più intelligente dei miei amici è uscito fuori di testa»... Quanto basta è la parola d’ordine che istruisce anche gli esotici contributi di Nels Cline (Wilco), Tunde Adebimpe (TV on the Radio), Corin Tucker (Sleater-Kinney), Joe Lally (Fugazi) e Kevin Shields (My Bloody Valentine), che entrano ed escono da molte delle 12 tracce che compongono il disco in punta di piedi. Folate leggere e dolcemente pennellate da Ian Brennan, che ha prodotto anche questo terzo disco del trio ruandese, registrandolo in totale naturalezza e comfort creativo a casa di Adrien Kazigira, che con Janvier Havuglmana e Javan Mahoro forma The Good Ones. Nella stessa fattoria priva di luce e acqua - luogo di dolore pietrificato e di inaudita speranza, a distanza siderale dalla fibra ottica che inorgoglisce la capitale Kigali e il volto disinvolto del presidente Paul Kagame - in cui li aveva scovati una decina di anni fa. E che hanno lasciato solo recentemente per imbarcarsi nel loro primo tour americano.
BRENNAN DEL RESTO ne ha fatto un ariete tricefalo nella sua battaglia per un’equa distribuzione dell’arte e il giusto riconoscimento del talento musicale a prescindere dal passaporto che uno può avere o non avere in tasca. Come i veterani vietnamiti della “guerra americana” di cui ha risvegliato le voci silenziate in Hanoi Masters, come gli albini della Tanzania che hanno intonato il senso del loro riscatto in African White Power; per non dire dell’energia sprigionata dalle canzoni nate in un carcere di massima sicurezza del Malawi - Zomba Prison Project - che ha finito per investire e spettinare anche gli inamidati premi Grammy.
Una battaglia vinta, in questo caso, dopo secoli di palesi ingiustizie. Gli effetti benefici di una ribellione convinta e bene argomentata da Brennan, che ha un ennesimo sussulto nel suo quinto libro, Silenced by Sound - The Music Meritocracy Myth (PM Press 2019), pubblicato insieme al disco dei suoi amici ruandesi. I custodi di turno di un canzoniere potenzialmente inesauribile, una forma suprema di musicoterapia in cui anche il lamento più inconsolabile contiene in sé la gioia di essere e di esprimere uno stato di grazia fuggente che varrebbe davvero la pena condividere col resto del mondo.
Il disco Rwanda, You Should Be Loved e il libro di Ian Brennan Silenced by Sound - The Music Meritocracy Myth (PM Press) verranno presentati oggi 6 dicembre a Roma alle 19, con le immagini di Marilena Delli, presso la libreria Griot
* il manifesto, 06.12.2019 (ripresa parziale).
Rwanda: Vince il "Si" al referendum per il terzo mandato di Kagame
La popolazione rwandese ha votato in massa per le modifiche alla Costituzione che permetterebbero al presidente Paul Kagame la possibilità di correre per altri tre mandati, restando al potere fino al 2034. È quanto emerge dai risultati provvisori del referendum costituzionale di venerdì scorso, annunciati sabato dal presidente della Commissione elettorale nazionale Kalisa Mbanda in una conferenza stampa..
Si tratta, come era previsto, di una netta affermazione dei voti favorevoli a una candidatura di Kagame nel 2017. Erano chiamate al voto 6,4 milioni di persone. Secondo i dati forniti con il 70% circa degli scrutini completati, i “sì” hanno ottenuto il 98,13% dei voti contro l’1,71% dei “no”.
Il referendum è l’ultimo passaggio di un processo di riforma partito con una petizione popolare firmata - secondo il governo - da 3,7 milioni di cittadini e proseguito con il voto favorevole delle due Camere.
L’unico partito d’opposizione mobilitato contro il referendum, quello Verde, ha rinunciato a fare campagna elettorale. Troppo pochi i dieci giorni trascorsi tra l’annuncio della consultazione e il voto: appena 10 giorni, ricordano i responsabili di questa forza politica.
Immediata la reazione degli Stati Uniti. La Casa Bianca ha rinnovato il suo appello al presidente rwandese Kagame affinché rinunci a correre per un terzo mandato in vista delle elezioni presidenziali del 2017, nonostante la vittoria schiacciante dei “sì” al referendum. In una dichiarazione diffusa ieri, il governo di Washington si è inoltre detto “deluso” dal dall’esito del referendum. "Congratulandoci con il popolo del Rwanda per il pacifico esercizio dei suoi diritti civili, ci rammarichiamo circa le modalità con cui si è svolto il referendum, che non hanno dato tempo e modo sufficienti a favorire un dibattito politico serio", si legge nella dichiarazione.
Secondo la Casa Bianca, “il presidente Kagame, che per molti versi ha contribuito a consolidare e sviluppare il Ruanda, ha ora l’opportunità storica di onorare il proprio impegno a rispettare i limiti dei mandati presidenziali". (Reuters / Agenzia Nova)
Un libro sul genocidio del 1994
La strage, la memoria, il dolore. Il Ruanda visto da dentro
di Martcello Flores (Corriere della Sera, 07.09.2015)
Le grandi tragedie hanno sempre spinto i migliori giornalisti e reporter a misurarsi con la loro enormità e il genocidio del Ruanda non ha fatto eccezione. Si può dire che sono stati dei reportage giornalistici a far conoscere meglio e ovunque - insieme ad alcune testimonianze terribili e belle - i massacri che dall’aprile del 1994, nel giro di pochi mesi, uccisero circa un milione di persone. Chi ha letto molto delle centinaia di libri e articoli che sono stati scritti sul Ruanda, pensava che difficilmente si sarebbe potuto ancora aggiungere qualcosa, anche se i genocidi del passato ci hanno mostrato quanto possa essere lunga l’onda delle testimonianze, delle memorie, delle analisi.
Il libro del reporter polacco Wojciech L. Tochman Oggi disegneremo la morte , tradotto in italiano dall’editore Keller, mostra quanto l’abilità professionale, una curiosità attenta, un’empatia solida ma non acritica, una capacità letteraria non comune possano produrre un libro nuovo e originale, informato e capace di emozionare e comprendere le contraddizioni di un presente che ci è ormai lontano e ignoto (quello del Ruanda vent’anni dopo il genocidio).
È un libro straordinario, capace di entrare nella memoria dei sopravvissuti, delle vittime e dei carnefici, dei testimoni impauriti o compiacenti di quella che è stata la tragedia collettiva più spaventosa degli ultimi decenni. Capace di farci capire cosa possa significare attendere ancora giustizia dopo vent’anni, ricordare senza timori solo una volta all’anno (nell’anniversario del genocidio) e poi cercare di vivere in un presente senza più razze e discriminazioni (ci sono solo cittadini ruandesi oggi, guai a parlare di tutsi o hutu, se non nei giorni di aprile), ma non poter evitare di riconoscere il massacratore di tua madre, di tuo padre, dei tuoi fratelli, che vive poche strade lontano da te. Capace di raccontare lo strazio di una giustizia originale (tradizionale e nuova al tempo stesso), quella delle corti gacaca , dove puoi vedere gli assassini intrattenersi amichevolmente coi giudici o puoi riuscire a mandare all’ergastolo il tuo stupratore che si sentiva ormai immune da ogni giustizia.
Il libro di Tochman, che si fonda soprattutto sulle testimonianze degli orfani sopravvissuti e delle donne stuprate e martoriate con una violenza inimmaginabile (chi è sopravvissuta ha in genere preso l’Aids, e in poche hanno avuto la possibilità di curarsi), è una memoria di come il corpo possa essere violato nei modi più terribili, per colpire gli «scarafaggi» tutsi che si vogliono sterminare, ma anche per terrorizzare i loro parenti o chi volesse difenderli tra gli hutu ancora capaci di sentimenti umani (e non furono pochi).
Tochman s’interroga continuamente sul modo in cui parlare, interrogare, far affiorare i ricordi, accettare i silenzi e i dinieghi di persone il cui racconto, quando riesce a farsi parola, ci reimmette, con una verità brutale e semplice, nella realtà di un genocidio di cui ancora ignoriamo troppo, timorosi di scendere fino in fondo all’abisso di cui l’Occidente è stato particolarmente responsabile. È un libro da leggere, da far leggere nelle scuole. E andrebbe costretto a leggerlo chi ancora predica l’odio per l’altro, il diverso, il nemico.
Lucca e il Rwanda, amici da 25 anni
di Lorenzo Maffei *
La diocesi di Lucca da 25 anni è presente con una missione in Rwanda, per la precisione a Nyarurema, nella diocesi di Byumba. Proprio a Nyarurema dal 3 al 13 ottobre, significativamente nel mese missionario, l’arcivescovo di Lucca, mons. Italo Castellani si è recato per festeggiare insieme alla comunità locale i 25 anni di fondazione della parrocchia del paese.
Vi è ritornato dopo 5 anni dall’ultima visita. Ma questa volta si è trattato di una visita speciale perché?
«Cinque anni fa ero andato in occasione dell’ordinazione presbiterale di don Fiorenzo e don Floriano: due giovani seminaristi rwandesi che erano stati accolti nel nostro seminario per la loro formazione e che ora svolgono il ministero presbiterale nella loro terra nativa. Questa volta sono stato in Rwanda proprio in “Visita Pastorale” alla parrocchia di Nyarurema, nel Nord est del Rwanda, in occasione dei 25 anni di fondazione. Fu sotto mons. Agresti, allora vescovo di Lucca, che la nostra Diocesi attraverso preti lucchesi fidei donum - don Giancarlo Bucchianeri, don Silvio Righi, don Fulvio Calloni e don Giorgio Simonetti - fondò questa parrocchia».
Adesso come è costituita la presenza di missionari lucchesi?
«Da 32 anni è presente una laica, Carla Frediani, che ha sempre collaborato con i nostri preti e da quando loro sono rientrati definitivamente a Lucca nel 2003, è il punto di riferimento della nostra Diocesi e per diversi laici che offrono temporaneamente il servizio di volontariato. Oggi, Federico Teani, un giovane della parrocchia di Fibbialla, vive e collabora con Carla».
Quali sono i progetti attualmente in atto?
«Attorno alla Chiesa parrocchiale e alla casa per i preti costruite venticinque anni fa dai preti lucchesi appena citati, man mano sono cresciute altre opere che hanno una chiara finalità di sostenere l’annuncio del Vangelo insieme alla promozione umana di quella popolazione ancora poverissima e che vive con un euro al giorno. È quindi attiva, oltre le scuole primarie, una Scuola Superiore - un convitto per giovani e ragazze specializzati in informatica: è ritenuta la migliore del Rwanda, ci arrivano giovani da tutto il Paese, e attualmente ospita circa 600 tra ragazzi e ragazze. Sono poi attivi un Dispensario medico, una scuola di cucito, una casa per malati di Aids. Questa, denominata “Casa della Misericordia”, negli ultimi anni si è arricchita di un’altra struttura attigua per bambini e adolescenti ammalati di Aids: attualmente ne ospita dieci stabilmente ed è punto di riferimento sul territorio. Quest’opera è davvero per la sua bellezza e funzionalità il “fiore all’occhiello” della generosità lucchese».
Come ha trovato i Rwandesi e in particolare la comunità cattolica della parrocchia dove si è recato?
«I rwandesi hanno un profondo senso religioso come tutti gli Africani. Sono molto praticanti. Le Chiese la domenica sono strapiene, con un’alta partecipazione anche di ragazzi e giovani. La gente non ha fretta: la celebrazione domenicale dura oltre due ore ed è ben preparata: da chi cura l’accoglienza alla porta di chiesa, a chi anima il canto favorendo il canto di tutta l’assemblea, da chi svolge il servizio del lettore a chi anima la carità, la danza... Quello che colpisce è però la spiritualità, la fede che motiva e ispira la vita quotidiana. Inoltre su un territorio molto esteso, in comunità di base assimilabili a nostre parrocchie di qualche centinaio di abitanti, anche senza chiesa le persone si incontrano dove e come possono per la preghiera e ascolto della Parola di Dio quotidiana, la celebrazione dei funerali per esempio è guidata da un fedele laico adulto; nelle cosiddette “chiese centrali” - corrispondenti alle chiese principali delle nostre unità pastorali - si celebrano i battesimi, si porta avanti la catechesi, si cura l’amministrazione dei beni... E i catechisti con le famiglie sono responsabili della iniziazione alla vita cristiana dei più piccoli e tengono alta la vita di fede della comunità cristiana. Il prete arriva in quella comunità quando può e come può per celebrare l’Eucaristia domenicale, dico quando può e come può, viste anche le difficoltà nei trasferimenti e nei viaggi per la insufficienza o addirittura la mancanza di strade o per la carenza di mezzi di trasporto adeguati. Ci si muove, anche per distanze di due ore, per lo più a piedi. Per i più provveduti c’è qualche bicicletta o qualche rara moto che, per lo più offre il servizio di moto-taxi!».
Come ha trovato la situazione sociale?
«Il governo è fortemente centralizzato. La gente è povera, molto povera. L’agricoltura, l’unica risorsa del paese, è arretratissima. Lo strumento di lavoro è la zappa. La risorsa e il nutrimento di base - se la stagione accompagna il raccolto con piogge adeguati - è costituito da riso, fagioli, patate, un po’ di verdure e banane. Di fatto acquistare questi beni è pressoché impossibile. Per intenderci basta questo dato: chi trova lavoro in campagna, o altro, guadagna appena un euro al giorno... e un chilo di zucchero costa un euro! Le medicine, altro esempio, non si possono comprare. La corrente elettrica è arrivata nei centri da tre anni; le case - se così possono chiamarsi - sono piccole strutture di 60 metri quadrati costruite con blocchi di sabbia cotti al sole».
Da questo suo viaggio sono partiti altri progetti per la diocesi di Byumba e la parrocchia di Nyarurema?
«Ritengo opportuno avviare in diocesi una riflessione per tenera alta la dimensione missionaria della nostra Chiesa anche attraverso dei “chiari segni”, magari riprendendo la disponibilità ad accogliere nel nostro seminario almeno due seminaristi e, come abbiamo fatto per il passato, preparali a diventare preti per la loro gente. Poi è necessario impegnarci di più per mantenere tutte le numerose opere già realizzate. Per il resto, ringrazio il Signore che con la presenza e l’opera dei nostri missionari fedeli laici e preti, presenti in Rwanda, come in Brasile, Burkina Faso e Perù, ci permette come comunità diocesana di “annunciare il Vangelo a tutte le creature”».
Ruanda 18 anni dopo: sul "paradiso in rosa" l’ombra lunga dei massacri
Il 6 aprile del 1994 un missile abbatteva l’aereo del presidente.
Il giorno dopo iniziava il dominio
del machete e la strage infinita
di LORENZO CAIROLI (La Stampa, 06/04/2012)
Diciotto anni fa il Ruanda chiese time out alla Storia, si allontanò dal parquet della razza umana e per cento giorni macellò la sua gente negli spogliatoi dell’inferno. Il 6 aprile di diciotto anni fa un missile terra aria abbattè l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana. Il giorno dopo i machete degli hutu diedero vita a una delle pagine più aberranti della storia umana. Qualche considerazione....
La Storia, come un idiota, meccanicamente si ripete
Era la la primavera del 1994 e l’Africa festeggiava una delle sue pagine più felici: in Sudafrica l’apartheid veniva bandito per sempre, tornava la democrazia, andava al potere Mandela. Johannesburg pullulava di giornalisti accorsi da ogni parte del mondo, come accade solo per un Olimpiade. Il sette aprile, i primi lanci d’agenzia dal Ruanda, contraddittori, confusi, superficiali. A Johannesburg ci sono tutti i "professionisti" dell’Africa come il tedesco Grill o il polacco Kapuscinski ma nessuno di loro coglie la gravità della situazione. La liquidano tutti come una faida tribale. Scrive Grill: «Le prime immagini televisive dei massacri furono talmente colossali, talmente inconcepibili che i commentatori parlarono di un ‘traviamento della natura’, di un accesso sanguinario, di una maladie de tuer, una malattia dell’uccidere - come se il genocidio fosse un virus propagatosi in Ruanda. Io, a 3000 chilometri dal luogo dell’accaduto, ricorsi a un’insulsa formuletta bellum omnium contra omnes. La guerra di tutti contro tutti. E’ qualcosa che funziona sempre quando non si conoscono i fatti».
I ‘professionisti’ dell’Africa avrebbero dovuto ricordarsi il monito di Paul Morand: «La storia, come un idiota, meccanicamente si ripete». Avrebbero dovuto ricordarsi la rivolta contadina del 1959, quando gli Hutu rovesciarono i Tutsi al potere. Il paese fu messo a ferro e fuoco, il bestiame Tutsi sterminato in massa, e i Tutsi massacrati a decine di migliaia. E ancora: i ‘professionisti’ dell’Africa avrebbero dovuto ricordarsi i massacri del 1963 e del 1965, quando i machete degli Hutu sventrarono quasi 50.000 Tutsi. E i centomila Hutu sterminati in Burundi dai Tutsi al potere. Altro che maladie de tuer.
Quello che accadeva nell’aprile del 1994 in Ruanda era stato pianificato già da tre anni, una soluzione finale cominciata col rafforzamento dell’esercito che da 5000 unità fu portato a 35.000, un esercito armato e addestrato dalla Francia di Mitterand. Tre anni in cui si addestrarono gli squadroni della morte degli Interahamwe, di cui facevano parte contadini poveri, giovani disoccupati, scolari, studenti, funzionari. Tre anni in cui il Governo pretese da prefetti e sottoprefetti liste nere con i nomi dei Tutsi da sterminare e di tutti gli Hutu che avrebbero potuto osteggiare il progetto: oppositori, sospetti, ambigui, incerti. Nessuna faida tribale, dunque, ma un freddo perfezionismo degno degli artefici dell’Olocausto nazista, con i vari Ferdinand Nahimana, Casimir Bizimungu, Leon Mugesira, Théoneste Bagosora, nei panni di Heydrich e di Goebbels, a codificare l’ideologia che avrebbe legittimato il genocidio come unica via d’uscita, come solo mezzo di sopravvivenza
La decisione più vergognosa nella storia delle Nazioni Unite
Le superpotenze, però, già dopo 24 ore dai primi massacri, avevano compreso l’entità dell’apocalisse scatenatasi in Ruanda. Malgrado ciò, Washington vietò ai suoi rappresentanti l’uso del termine-G. G come genocidio. A Clinton bruciava ancora la batosta rimediata in Somalia e pur di non intervenire liquidò i massacri ruandesi come tribal resentment, scontri a sfondo tribale. Mitterand invece, che aveva armato e addestrato i carnefici, se ne uscì con una frase vergognosa che ancora oggi il mondo ricorda: «Un genocidio in Africa non è così terribile come altrove».
Quello che trovo ancora più beffardo in tutta questa vicenda è che all’epoca, il capo del dipartimento per gli interventi di pace all’Onu era l’africano Kofi Annan. Quando il 21 aprile 1994 il genocidio ruandese toccò il suo picco più drammatico, Annan consigliò il ritiro dei caschi blu dal Ruanda, lasciando a Kigali solo 270 militari e abbandonando centinaia di migliaia di Tutsi al loro atroce destino. Fu la decisione più vergognosa nella storia delle Nazioni Unite. I caschi blu richiamati sul campo d’aviazione di Kigali si strapparono le mostrine dalle uniformi. Come soldati avevano perso l’onore. Grill incontrò anni dopo il generale Roméo Dallaire. Viveva dilaniato dai rimorsi, costretto ogni santo giorno a inghiottire decine di pillole per sedare gli attacchi di panico. ” Con la nostra inerzia - non faceva che ripetere - abbiamo reso possibile un genocidio”.
Alison Des Forges e la favola delle quote rosa
Oggi il Ruanda viene raccontato come il paradiso delle quote rosa, il primo Paese al mondo in cui le donne parlamentari sono più numerose degli uomini - 56% dei seggi assegnati a candidati di sesso femminile - geniale (e farisaica) propaganda di regime per surrogare al Ruanda delle pulizie etniche una nuova immagine di paese dinamico, evoluto, moderno. Il Ruanda, ricordiamolo, non è un paese libero.
Paul Kagame è da anni nella lista nera dei famigerati ‘predators of press freedom’ di Reporters without borders. Odia i giornalisti che definisce sprezzante ‘mercenari’ e ‘barboni’, a seconda del suo stato d’animo. Un anno dopo la sua elezione fece approvare una legge che prevedeva carcere duro per i crimini di stampa. Con l’avvento di Kagame, la libertà di stampa in Ruanda ha cessato d’esistere. Nel 2009 ci furono forti tensioni diplomatiche tra Ruanda e Uganda per l’espulsione di un giornalista del ‘Daily Monitor’. Molti giornalisti ruandesi hanno scelto la via dell’esilio, dopo aver conosciuto il carcere e le torture.
Ma in questa commemorazione dell’anniversario del genocidio ruandese non potevo mancare il ricordo di una donna straordinaria: Alison Des Forges di Human Rights. Molti di voi non l’avranno mai sentita nominare perché di lei i media italiani non hanno scritto quasi nulla. Nemmeno il 13 febbraio 2009 quando perse la vita in un incidente aereo - ricordo solo una laconica Adnkronos, peraltro ignorata dai quotidiani. Era la memoria storica di quel genocidio, la piccola, coraggiosa, implacabile signora che si batteva perchè le vittime avessero giustizia e i loro aguzzini pagassero per il sangue versato.
Aveva indagato con una tenacia d’altri tempi, ascoltato migliaia di testimoni, raccolto una mole impressionante di prove, documentato in più di 800 pagine tutti gli orrori del genocidio. Quando Kagame non era ancora presidente e combatteva nel bush era lei a tradurgli dal Kinyarwanda perchè il futuro dittatore avendo vissuto da rifugiato in Uganda era ancora poco pratico dei dialetti ruandesi. Ma quando Kagame prese il comando della nazione, non perse un istante a segnare quella donna scomoda sulla sua lista nera.
Il genocisio ruandese sui libri e al cinema
Se volete saperne di più attraverso la lettura vi consiglio Lezione sul Ruanda (da ‘Ebano’ di R.Kapuscinski, Feltrinelli), Il Genocidio negato (Da ‘Africa’ di B. Grill, Fandango), A colpi di machete, di Jean Hatzfeld, Bompiani, La memoria delle ossa, di Clea Koff, Sperling&Kupfer, e, soprattutto, Una domenica in piscina a Kigali, di Gil Courtemanche, Feltrinelli, che pur essendo un romanzo è l’opera che spiega meglio l’abominio ruandese.
Se volete saperne di più attraverso il cinema, meglio ‘Shooting dogs’ di Caton-Jones che non Hotel Rwanda, il cui unico merito, secondo me, è quello di essere stato il primo film a parlare del genocidio ruandese. Ciò detto, i meriti finiscono qui e iniziano i demeriti. Più che parlare del genocidio ruandese il film usa il genocidio come sfondo per raccontare la storia vera di uno Schindler nero, Paul Rusesabagina, direttore di un hotel a 4 stelle della Sabena che nei giorni dei massacri salvò più di 1200 Tutsi dai machete degli Hutu. Quando però cerca di spiegare cosa accadde in quei giorni in Ruanda, e soprattutto perché, il film è lacunoso.
Fa intuire che in Ruanda avvenne un’eruzione di violenza che ha pochi, pochissimi precedenti nella Storia - 800.000 mila vittime, forse un milione, massacrate in cento giorni in un piccolo paese dell’Africa che per dimensioni, equivale grosso modo a un terzo della Danimarca; 416 persone massacrate ogni ora, 7 persone ogni minuto, massacrate a colpi di machete, martelli, lance e bastoni, in una delle pagine più folli del ventesimo secolo, in una vera e propria catena di montaggio dell’orrore. Ma il film non è abbastanza esplicito, non approfondisce mai, e lascia troppe domande insolute. A questo aggiungiamo un protagonista come Don Cheadle, strepitoso per molti, ma troppo afro-americano per la parte - più che il direttore di un hotel ruandese sembra il manager di Beyonce - e una rappresentazione del genocidio troppo edulcorata.
Il regista Terry George voleva che il film fosse visto soprattutto dai giovani, ma se avesse cercato di riprodurre anche una piccolissima parte di quei massacri il film sarebbe stato vietato ai minori. “Negli Stati Uniti - ammise - la combinazione della parola “Rwanda” nel titolo con un divieto ai minori avrebbe tenuto lontano il pubblico”. Perciò non mostra quasi nulla, il sangue è razionato, gli orrori si intuiscono, gli orrori affiorano a volte nei dialoghi dei protagonisti. Un esempio. Un operatore filma i massacri ma quando mostra il girato a un collega la macchina da presa non va in dettaglio, e quello che lo spettatore vede sono uomini che colpiscono con i machete qualcosa, ma cosa esattamente non si distingue.
C’è solo una scena in cui l’orrore si tocca con mano. E’ notte. Paul ha lasciato l’Hotel per fare provviste. Uno dei capi degli Interahamwe, gli squadroni della morte Hutu, gli suggerisce di rientrare in Hotel passando per una via secondaria. “E’ la più sicura” - gli assicura sardonico. C’è nebbia, il furgone dell’hotel avanza a fatica, a un certo punto comincia a sobbalzare come se la strada fosse disseminata di dossi dissuasori. Il furgone ondeggia rischiosamente poi si ferma. Paul scende e per poco non perde l’equilibrio; la strada è lastricata di cadaveri: uomini, donne, bimbi, anziani, tutti massacrati e mutilati. ‘Shooting dogs’ è meno reticente, più esplicito, più crudo. E mostra le strade di Kigali per quel che erano in quei giorni. Un mattatoio a cielo aperto.
REPORTAGE
Ruanda, la rinascita corre sul web
di Alessandra Rocca (Avvenire, 30 gennaio 2011)
Una recente statistica indica che il Ruanda, il Paese delle mille colline, ha appena superato l’Italia nella classifiche dei Paesi con le pubbliche amministrazioni più corrotte. Ora siamo al sessantasettesimo posto mentre il piccolo Paese africano è al sessantaseiesimo. Ancora peggio se si guardano i due Paesi dal punto di vista delle donne. Il Ruanda, oltre ad avere da qualche mese eletto il Parlamento con la più alta percentuale di gentil sesso nel mondo, ci supera nella classifica internazionale stilata dal Social Watch per quanto riguarda la condizione della donna. È forse questo il Paese che il presidente del Ruanda, Paul Kagame, ha concepito nel documento Vision 2020 : un progetto visionario, un libro dei sogni, che porterà il Paese nel XXI secolo. Al momento il progresso passa attraverso il lavoro di migliaia di persone che da oltre un anno scavano le trincee per depositarvi dentro i cavi della fibra ottica.
È questa una delle immagini più frequenti del Ruanda di oggi: precisa un funzionario che «i cavi sono tre, di tre di colori diversi, uno per il governo e le istituzioni e gli altri per la popolazione». «La fibra ottica - ricorda Abraham Atta Ogwu, direttore dell’Istituto di scienza e tecnologia di Kigali, raggiunge ormai l’ottanta per cento del territorio e in pochi mesi sarà ultimato». In Ruanda, prevede il programma governativo, dovrebbe già essere possibile collegarsi a internet e vedere la tv digitale gratis in quasi tutto il Paese, poco più grande del Piemonte.
Il divario digitale viene superato anche grazie all’’internet bus’. Due autobus, che presto diventeranno quattro, raggiungono i villaggi più remoti per far scoprire alla gente, che spesso non sa nemmeno leggere (quasi il cinquanta per cento della popolazione è analfabeta), il mondo del web. Yahya Hassani, il coordinatore del progetto, dice: «Gli autobus che arrivano nei villaggi sono aperti dalle otto del mattino alle sei di sera. Ci sono venti postazioni, stampante, connessione e schermo per proiezioni. Organizziamo corsi; gli studenti arrivano da tutta la zona e dopo due settimane rilasciamo un diploma. Non si paga nulla e abbiamo già visitato cinquanta villaggi e rilasciato millecinquecento certificati.
Il sabato e la domenica il bus è a disposizione dei contadini e delle comunità locali. A loro facciamo vedere filmati su come si coltivano il mais e le banane, oppure corsi di igiene primaria per proteggersi dall’Aids e dalla malaria. Abbiamo un bilancio di millenovecento euro al mese per il carburante, il generatore, l’insegnante e l’autista. Al momento rimane il problema della connessione: qualche volta, nella stagione delle piogge, non c’è». È un Paese che sembra viaggiare a due velocità, come conferma Françoise Kankindi, presidente di Bene-Rwanda: un’onlus - il nome in lingua kinyarwanda significa ’figli del Rwanda’ - fondata e diretta da ruandesi che risiedono e lavorano da anni in Italia, i cui principali obiettivi la conservazione e la valorizzazione della memoria del genocidio del 1994 e la promozione degli strumenti per riconoscere la ’cultura del genocidio’ nella sua genesi.
Françoise, che vive in Italia dal 1992 e che qui ha studiato e si è laureata, racconta che quando tornava in Ruanda nei primi tempi subito dopo il genocidio la gente camminava più lenta di lei per strada: tutti le chiedevano dove andasse così di fretta. Solo dopo qualche tempo i ruandesi si sono resi conto che per ricostruire bisognava incominciare a correre. Ora quando torna a trovare sua sorella è lei quella che cammina più lenta, i ruandesi hanno tutti fretta, fretta di diventare un Paese che possa competere con le potenze occidentali. Altro punto di forza per avvicinare il Paese al suo futuro è il progetto ’Un computer per ogni bambino’. L’intenzione del governo è quella di distribuirne centomila, ma al momento di quei piccoli Pc ’gommati’ con i bordi verdi e la grande X frontale pare ce ne siano pochi in giro. Ne abbiamo trovati solo in tre scuole della città, per un totale di circa cinquemila computer.
Ma il futuro del Ruanda è già presente. Da tre anni sono proibiti i sacchetti di plastica (in Italia solo dal 1 gennaio 2011). Multe e pene pesanti per chi butta oggetti o carta per terra: da un mese a un anno di prigione e fino a centomila franchi di ammenda. Da anni è vietato costruire case nel letto dei fiumi. Per contro, il nuovo piano regolatore presto stravolgerà il centro di Kigali, la capitale, conosciuta per le sue colline e gli edifici che superano di rado i dieci metri di altezza. Il piano prevede, per i proprietari di immobili di una determinata aerea centrale, l’innalzamento degli stessi dagli attuali uno o due piani fino a tredici. Ci si può opporre, ovviamente, ma allora il governo ti compra la palazzina sottocosto e costruisce lui. Tutto ciò avvicinerà inevitabilmente Kigali alle altre megalopoli africane. E ancora, il Ruanda è stato dichiarato nel 2009 il primo Paese al mondo ’liberao da mine’ secondo la convenzione di Ottawa. Altro punto di forza di Vision 2020 è il piano energetico nazionale, che nel giro di pochi anni dovrebbe rendere indipendente il Ruanda. Il piano prevede tre punti: lo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas metano presenti sotto il lago Kivu (una centrale è già in funzione); il solare, attraverso la più grande centrale dell’Africa che sarà costruita sulla collina di fronte a Kigali, quasi inaccessibile (devi consegnare il passaporto a due militari armati per accedervi); il biogas, con il progetto attuato nelle scuole che saranno autonome grazie all’utilizzo di scarichi fognari ed escrementi degli animali. Grandi ambizioni per un piccolo Paese, con la più alta densità di popolazione di tutta l’Africa, una crescita demografica in aumento e più della metà degli abitanti con meno di quindici anni. Il futuro è nelle loro mani, anche per scacciare i fantasmi del passato.
Alessandra Rocca
Sull’argomento, cercando la parola "Ruanda", si trovano numerosi articoli in:
Giusti del Ruanda
LE STORIE
Fu un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate. Ma in quell’orrore rifulse anche il coraggio di eroi rimasti nell’anonimato. Qui raccontiamo le loro storie
30 eroi in mostra
I trenta Giusti del Ruanda, uomini e donne, sono stati fotografati da Riccardo Gangale e intervistati da Leora Kahn. I ritratti di questi trenta eroi sinora sconosciuti, di cui pubblichiamo un’anteprima, sono stati esposti ai primi di febbraio al Memoriale del Genocidio di Kigali. Nei prossimi mesi la mostra sarà esposta nelle scuole superiori del Ruanda. Da gennaio del 2010 il salto oltreoceano: l’esposizione sarà in mostra a Huston, Denver, Seattle, New York. Storie e ritratti diventeranno inoltre un libro, a cura di Leora Kahn, fondatrice dell’associazione no-profit Proof ( media for social justice), che promuove la responsabilità sociale dei media, e docente della Yale University. Kahn ha già firmato i volumi fotografici When they came to take my Father e Darfur: twenty years of war and genocide, sul genocidio in Darfur. (R.C.)
di Rita Cenni (Avvenire, 29.03.2009 - senza le foto)
Tutte le notti ne radunava un gruppetto. Spiegava che avrebbero dovuto marciare nella foresta in fila indiana, in silenzio, senza fiatare. Le mani appoggiate alle spalle della persona davanti, per non perdersi. « Mi mettevo io in testa alla fila ».
Yari Silas Ntamfurigiris vive a Nyamata, la cittadina dove sorge la chiesa simbolo dello sterminio ruandese, una trentina chilometri dalla capitale. Nel 1994, quindici anni fa, era un militare, venticinquenne. Yari rifiutò di farsi assassino. Anche se, con quelli che portava in salvo, respirava la paura, il terrore, a ogni passo. « Se mi avessero scoperto, avrei fatto la loro fine, forse peggio. Ma ero un soldato. Il mio dovere era mettere in fila quelle persone, farle marciare tutta la notte. Fino alla salvezza, sull’altra sponda del lago. In Burundi » .
Yari Silas è uno dei Giusti che, nel 1994, mentre in Ruanda impazzava il genocidio dei tutsi, uno dei massacri più atroci della storia dell’umanità, misero a repentaglio la propria vita. È stato rintracciato, con altri trenta eroi sinora anonimi, da Riccardo Gangale, fotografo romano, da dieci anni in Africa, e Leora Kahn. Di Giusti ruandesi si è già parlato: mai abbastanza, come nel caso di Pierantonio Costa, il console italiano che si mise in gioco in prima persona, assieme alla moglie e al figlio maggiore, spese tutto quello che possedeva, e con viaggi incessanti, a dispetto delle minacce esplicite, portò in salvo, da solo, duemila persone, adulti ma soprattutto bambini: seicento da un orfanotrofio dei padri rogazionisti, settecentocinquanta di un campo della Croce Rossa. O esagerando, come accaduto per l’ambiguo direttore dell’hotel, divenuto protagonista di un best seller e di una pellicola di hollywoodiana, anche se alla fine si è scoperto che la versione corretta della vicenda era tutt’altra.
Dopo i famosi, oggi è l’ora dei tanti Giusti qualsiasi, uomini e donne del popolo, le cui storie non sono mai state raccontate: persone normali, contadini, allevatori, insegnanti, sacerdoti, suore, pastori, venditrici di frutta.
Qualche storia: Gisimba Damas Mutezintare, direttore di un orfanotrofio di Kigali, anche se le milizie Interahamwe entrarono e uccisero alcuni rifugiati sotto i suoi occhi, riuscì a proteggere una cinquantina di bambini nascondendoli dietro le cucine; Josephine Mukashyaka, che col marito gestiva una rivendita di birra, a Kibuye: aspettava il terzo figlio, ma protesse le famiglie dei vicini di casa che conosceva da sempre; Gracien Mitsinda, pastore protestante: salvò 322 uomini e donne, anche grazie a una buca scavata al centro della chiesa, dove sistemò i ragazzi più giovani; John Mukambuguje, meccanico, musulmano, manomise il camion per non consegnarlo ai miliziani; Sabiti Hakizimana, autista dell’ambasciata tedesca, nascose nella residenza dell’ambasciatore alcune famiglie e portò in salvo molti tutsi sulle vetture della delegazione, facendoli passare per collaboratori; Joseph Habineza e la moglie, agricoltori analfabeti, costruirono una finta capanna per gli animali, per nascondere una famiglia con sei bambini; Laurien Ntwzimana, professore universitario, tutte le notti portava da mangiare e da bere alla gente che si era rifugiata in una chiesa.
Grazie al lavoro di Gangale e Kahn, un anno di ricerche, finanziate da Open Society, la fondazione di George Soros, i nomi di trenta Giusti sono stati aggiunti agli elenchi ufficiali raccolti da Ibuka ( che in lingua kinyarwanda vuol dire non dimenticare), l’associazione internazionale che gestisce l’archivio della memoria ruandese.
Lo sguardo del fotografo ruba la memoria al passato, la riporta al presente. I Giusti sono ritratti nella tranquillità della vita quotidiana; ed è proprio la serena normalità dell’oggi a farsi strumento per indagare la follia che trasformò il paese delle mille colline in un campo di sterminio. Aprile, maggio, giugno, fino ai primi di luglio: bastarono, quei cento e pochi più giorni, per un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, il più grande esodo di profughi nella storia dell’umanità, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate, stuprate. Le vittime erano ammassate nelle fosse comuni, fatte a pezzi, gettate dalle scarpate, uccise nelle case, nelle chiese, nelle scuole, nei villaggi, date in pasto al fuoco. Nell’assenza, nel silenzio totale dei media internazionali.
Uno dei tabù dell’olocausto ruandese è la comprensione tardiva, complice, colpevole, di quello che accadeva, da parte della comunità internazionale. « Siamo tutti colpevoli, tardammo ad aprire gli occhi » , ricorda Anna Maria Gentili, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna.
Per un tempo troppo lungo, accanto agli innocenti, ci furono solo loro, i Giusti, eroi per caso, per necessità, che incarnarono, anche qui, la banalità del bene. I Giusti si somigliano, in tutto il mondo: sopravvissuti all’orrore, come le mancate vittime, preferiscono il silenzio, l’ombra, la complicità dell’oblio. Sembra inevitabile, la storia di suor Jean de la Croix, da Gitarama: « I primi si presentarono davanti ai cancelli della nostra diocesi il 9 di aprile. Da un momento all’altro erano divenuti tutti Inkotanyi, scarafaggi da uccidere. Nei giorni successivi continuarono ad arrivare da Rukara. C’erano sessanta stanze, presto furono tutte piene. A un certo punto arrivarono le milizie. Cercavano gli uomini, i ragazzi: io e una consorella ci mettemmo davanti, li provocammo. « Prima uccidete me » , dicevamo. Non so come. Se ne andarono, non tornarono più. Ai primi di luglio la situazione nel nostro convento era diventata intollerabile, non c’era più una goccia d’acqua e niente da mangiare. Alcuni bambini morirono comunque, di stenti ».
Nel tempo lungo dei quindici anni che superano il passato, il Ruanda è cresciuto, cambiato. Sotto il governo di Paul Kagame, il Paese ha trovato rapidamente la stabilità, ha giocato un ruolo centrale negli equilibri geopolitici dell’area, ha vinto la sfida di far decollare l’economia, soprattutto grazie al rientro in patria di molti tutsi espatriati, tiene sotto controllo le malattie più devastanti; la capitale, Kigali, è una delle città più vivaci e sicure della regione dei Grandi Laghi. Il Ruanda ha intrapreso con determinazione la strada della riconciliazione nazionale, attraverso un processo che vuole cancellare ogni differenza tra tutsi e hutu.
E mentre ad Arusha, in Tanzania, proseguono i lavori del Tribunale Penale Internazionale che ha visto imputati, e condannati, ministri, capi civili e militari, intellettuali di spicco, imprenditori, esponenti del clero, per i crimini meno gravi, dal 2001 si svolgono i Gacaca, i processi di villaggio, che riprendono la formula dei tribunali tradizionali.
Nel 2004 è stato inaugurato a Kigali il Memoriale del Genocidio, nel sito dove morirono 250mila tutsi. Ma nel tempo corto dei quindici anni che non bastano a farsi storia, resta, sottotraccia, irrisolta, la questione delle ragioni più profonde. « La memoria rischia di svuotarsi e diventare retorica, a senso unico » , ammoniva Alison Des Forges, attivista di Human Rights Watch, scomparsa un mese fa, in un incidente aereo. Persino la riconciliazione si trasforma in un leitmotiv ossessivo, svuotato di contenuto: « Prevale la richiesta di evitare, addirittura negare, ogni analisi che si basi sul conflitto etnico » , commenta Anna Maria Gentili. « Dal punto di vista della politica, è un atteggiamento corretto; ma risulta semplificante per chi fa analisi storica. Se si proibisce anche solo l’accenno all’idea del conflitto interetnico, non si indaga l’odio che fu alla base dello sterminio ». E restano aperte difficoltà oggettive, nemmeno troppo sotterranee, con la società che stenta a seguire, a farsi coinvolgere nel processo di riconciliazione. Con la sensazione, vagamente inquietante, che il governo preferisca che i Giusti restino nell’ombra. Perché, con i loro cuori che non vollero farsi di tenebra, anche loro suscitano domande, più che offrire risposte.
Fantasma Rwanda
Quindici anni fa l’alba del genocidio
di Pietro Del Soldà (il Riformista, 07.04.2009)
7 aprile ’94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio. In cento giorni le milizie estremiste hutu uccidono a colpi di machete 800.000 persone, tutsi ma anche hutu moderati. Oggi il Paese guidato da Kagame e dalle donne, che hanno preso per mano una società di orfani, seppellisce il ricordo con uno sviluppo economico invidiabile. Ma la riconciliazione è lontana.
«Il trauma è ancora vivo, palpabile, ma i rwandesi hanno deciso di andare avanti». A parlare è Jean Pierre Ruhigisha, rappresentante della comunità rwandese a Roma, in Italia dal 2000. Jean Pierre durante il genocidio del ’94 non si trovava in Rwanda. Se n’era andato molti anni prima, nel ’73, fuggendo con la sua famiglia dal secondo massacro che insanguinò la storia del suo popolo. Allora aveva quasi quattro anni, ma i ricordi, aiutati anche dai racconti della madre, sono ancora vivi e terribili.
«In questo mese di commemorazioni, quando si avvicina il 7 aprile, data d’inizio del genocidio, il ricordo dei massacri ritorna vivo. Le reazioni dei singoli, di chi ha perso i familiari o gli amici o è scampato per miracolo ai colpi di machete, sono diverse, ma indicano tutte che la paura c’è ancora: c’è chi scappa, c’è chi si rinchiude in casa per stare da solo, la gente non è ancora in grado di affrontare quel capitolo della storia come qualcosa di superato. Poi, passato il mese di aprile, si riesce a gestire il trauma e ad andare avanti con la vita di tutti i giorni».
La memoria fa male, dunque, ma non c’è alternativa. La storia del Rwanda deve ripartire da lì, da quel 7 aprile di 15 anni fa, quando l’alba illuminò, come sempre, il Rwanda delle mille colline, e scoprì che il paese non era più lo stesso. L’abbattimento del jet Mystere Falcon, avvenuto la sera prima sui cieli di Kigali, non aveva soltanto posto fine alla vita del presidente Habyarimana, colpevole agli occhi degli hutu più oltranzisti di aver firmato un accordo con i tutsi del Fronte Patrottico Ruandese. Quel razzo lanciato da "ignoti" fece qualcosa di più. L’offensiva contro gli oppositori del regime, tutsi ma anche hutu moderati, nacque da un disegno di morte cinico e organizzato.
Il Rwanda sia chiaro non era nuovo ai massacri reciproci tra hutu e tutsi. La rivolta del 1959, quando i contadini massacrarono i loro padroni tutsi a colpi di zappe e machete, provocò una strage. L’indipendenza del Rwanda è stata poi segnata da violenze continue: lo stesso Habyarimana aveva contribuito ad acuire la spaccatura del paese, una divisione a cui aveva largamente contribuito il potere coloniale belga ed alla quale venne imposta dall’alto, per fini politici, una natura "etnica" che storicamente non ha grande fondamento. Ma nel 1994 le cose acquistarono un tono diverso, da "sterminio programmato" di un’intera categoria di rwandesi, i tutsi, che l’ideologia estremista al potere definiva una razza diversa, venuta da lontano a rubare la terra e il bestiame degli autoctoni hutu. Una menzogna diffusa ad arte, che convinse e coinvolse un numero impressionante di cittadini hutu.
La notte del 6 aprile cominciò l’annientamento degli «scarafaggi», come li definisce la famigerata Radio Mille Colline, accusati in massa della morte del presidente: un massacro che avrebbe potuto svolgersi a colpi d’artiglieria. Ma così non fu: lo sterminio doveva avvenire a colpi di machete, guidato da una milizia di massa, l’Interahamwe, che includeva contadini, studenti, impiegati, affinché fossero migliaia le mani sporche di sangue, e nascesse un nuovo paese fondato sulla colpa condivisa, sulla rimozione, sulla paura della verità.
In tre mesi vennero trucidate circa 800mila persone. Poi, i tutsi del Fpr ripresero il potere per non lasciarlo più. Oggi, il presidente Paul Kagame appare come una figura sfuggente dietro i grandi occhiali che coprono il suo viso magro: è il padre del nuovo Rwanda, un paese moderno, che cerca di seppellire il ricordo con uno sviluppo economico e sociale da far invidia ai paesi vicini. Kigali è una città cantiere, il fermento si vede già sorvolandola dall’alto. E poi, record dei record, la maggioranza dei parlamentari è donna.
«Sono le donne la vera guida del paese» - ci spiega Benedetta Lauricella di "Progetto Rwanda", onlus italiana impegnata nel pese dal 1997 (www.progettorwanda.it). «All’indomani del genocidio, che aveva colpito soprattutto ragazzi e uomini adulti, le donne rimaste sole presero per mano il paese e allevarono 500mila orfani». Potere alle donne e sviluppo economico, dunque, e anche un fermo no alla deriva etnica: Kagame ha infatti vietato le mortifere etichette hutu e tutsi. Ma la riconciliazione è lontana. I "gacaca", tribunali del popolo, hanno contribuito a fare un po’ di luce, ma nessun colpevole ha davvero chiesto perdono. Nessuna commissione per la verità e la riconciliazione, sul modello del Sudafrica, ha affrontato davvero il trauma: le ombre del genocidio si allungano ancora sul futuro del Rwanda.
«L’odio etnico è ancora vivo e le violenze continuano»
Yolande Mukagasana. La denuncia al "Riformista" della donna simbolo della memoria rwandese. «Profanano le nostre sepolture. Uccidono i testimoni. E i governi europei accolgono gli assassini».
di P.D.S. (il Riformista, 07.04.2009)
«L’ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana, l’infermiera rifugiata politica in Belgio. È la donna simbolo del genocidio ruandese, la sua vicenda ha colpito i tanti spettatori della pièce Ruanda 94 e i lettori del suo libro La morte non mi ha voluta. Nata a Butare da una famiglia tutsi, subì già nel 1959, quando aveva solo cinque anni, le prime ferite della violenza hutu durante il primo grande massacro nella storia del suo paese. Nel 1972 ottenne il diploma, ma solo 16 anni dopo le autorità hutu le riconobbero il titolo di infermiera anestesista. Fu allora che scoprì la divisone etnica che lacerava il paese. Nel 1992, nonostante la difficoltà di vivere e lavorare in una società che guardava i tutsi con ostilità crescente, aprì un ambulatorio privato. Un’iniziativa coraggiosa per l’epoca, che infatti la espose a critiche e minacce. Poi, quando scoppiò il genocidio del 1994, l’ostilità nei suoi confronti degenerò. Perse marito e figli, che vide morire trucidati davanti a lei. Ma lei fu risparmiata, la morte non l’ha voluta.
Una donna hutu, Jacqueline Mukansonera, la tenne nascosta nella sua casa mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Yolande oggi ricambia, con la paura e la morte negli occhi anche a distanza di 15 anni, lavorando affinché la memoria non si perda, e soprattutto perché la riconciliazione abbia la meglio sul desiderio di vendetta. Yolande ci parla da Roma, dov’è arrivata per partecipare alla manifestazione che stasera ricorderà il più terribile sterminio della storia recente (parlerà alle 21, al teatro Piccolo Eliseo). «La violenza non è affatto finita - ci dice ancora - ogni anno, e con frequenza ancora maggiore in prossimità dell’anniversario dell’inizio del genocidio, il 7 aprile, i colpevoli cercano ed eliminano i testimoni delle loro atrocità. Solo in questi giorni sono state uccise 16 persone, una ragazza è stata accoltellata a Bruxelles. Anch’io, nella mia casa in Belgio, continuo a vivere nella paura». La comunità internazionale non ci pensa più e Yolande accusa: «I governi europei sono di fatto negazionisti, continuano ad accogliere gli assassini sul loro territorio».
Cosa ne pensa, le chiediamo, dei tribunali del popolo, i gacaca, favoriti dallo stesso governo? «La giustizia ha cominciato ad agire su tre livelli differenti - risponde - Il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda è il livello più elevato, quello che si è occupato solo degli imputati eccellenti, e non ha mai previsto un risarcimento per le vittime. Poi c’è la giustizia ordinaria del Rwanda, un sistema che ha già cent’anni di storia, e che in nessun modo poteva affrontare decine di migliaia di processi». Si calcolò, infatti, che ci sarebbe voluto un secolo. «I gacaca quindi, istituzioni tradizionali che prevedono che vittime, testimoni e colpevoli si riuniscano sul luogo del delitto, hanno consentito di far emergere un po’ di verità».
Qualche forma di ricompensa effettivamente c’è stata, continua Yolande, il ruolo dei gacaca che si sono occupati dei «genocidari comuni», è stato utile. Ma certo non è sufficiente perché le ferite si rimarginino e cessi la paura.