Magris: "L’Italia scivola mi fa paura il populismo"
a cura di Alessandra Longo (la Repubblica, 02.11.2009)
Nel discorso di ringraziamento che Claudio Magris ha fatto a Francoforte, dove gli è stato consegnato il Premio per la Pace, ha evocato il crescente «populismo» e «l’insofferenza per la legge» che affliggono il nostro Paese. Quanto basta per essere definito da certa stampa «un intellettuale da esportazione», un «antiitaliano».
Professor Magris, si può ancora dissentire?
«Non mi sento certo né minacciato né coartato, dico e scrivo quello che penso. C’è un’atmosfera complessiva di profonda intolleranza ma non mi sento in un Fort Apache assediato dai vincenti di oggi, non so vincenti per quanto ancora. Quello che è impressionante invece è che non c’è più differenza tra la realtà e la sua parodia».
Vale a dire?
«Io e mia moglie, qualche settimana fa, abbiamo aperto la televisione e per quasi un minuto abbiamo creduto di assistere ad una volgare parodia di Berlusconi, tanto che mi stava nascendo un sentimento di spontaneo garantismo in sua difesa. Pensavo che sullo schermo ci fosse un imitatore: con la sciarpa bianca, con un gruppo di giovani. Lui che diceva: «Fate le corna tutti, così non potranno dire che le faccio solo io!». E chiedeva: «Chi è che mi ha toccato il culo?». Ma non era una parodia, era la realtà. E io mi chiedo come si possa non rimanere esterrefatti di fronte ad un presidente del consiglio che dà vita ad una scena così. Qui non c’entrano la vita privata, le vicende personali, sulle quali non direi mai nulla. Non è un fatto moralmente grave, è semplicemente un ’indecenza».
Lei conosce bene la Germania, la considera una «seconda patria», crede che ci sarebbe spazio per una situazione politica come quella italiana?
«Assolutamente no. Se Angela Merkel si permettesse di invitare a boicottare i giornali che la criticano questo segnerebbe la sua fine».
Perché da noi allora può succedere?
«Per la verità, non solo da noi. Anche in Francia e in Spagna, due Paesi che amo tanto, vedo segnali di progressivo slittamento verso il populismo. C’è una trasformazione sociale in atto che noi non abbiamo capito ed è una grande colpa dal punto di vista intellettuale e politico. Berlusconi è certo intelligente. Il suo gioco, magari l’unico che sa fare, lo fa benissimo. Il centrosinistra, o meglio quello schieramento che ha cercato di opporsi alla nuova politica italiana, ha peccato spesso di aristocraticità, di disprezzo. Invece un fenomeno negativo bisogna conoscerlo per combatterlo».
Professore, per forza finisce nella lista nera. Il Giornale ha ironizzato sui suoi tanti premi, sulla sua «fascinazione» per Di Pietro.
«Per i premi bisogna rivolgersi a chi me li dà. Ho votato e voterei Pd. Alle Europee, dove non c’è una logica di governo e opposizione, ho appoggiato Giorgio Pressburger che si presentava con l ’Italia dei Valori e consideravo un ottimo candidato, specie per la politica culturale europea. Tutto qui».
È un fatto che comunque lei è entrato in collisione con il pensiero unico dominante, l’hanno bollata come «antiitaliano».
«Io invece mi considero un patriota, e scrivo ossessivamente in difesa dell’unità d’Italia e della sua bandiera. Criticare un governo non vuol dire criticare un Paese. Chi ama il proprio Paese critica ciò che, a suo avviso, lo peggiora. E’ lecito, anzi doveroso, no?»
Parrebbe di no.
«Non mi preoccupo delle reazioni. Cerco anch’io di mandar giù l’avversario, non di colpirlo sotto la cintola, ma di mandarlo giù sì ed è ovvio che lui faccia altrettanto».
Lei riceve molte lettere?
«Sì, di lettori di ogni genere e cultura, anche da ospedali, da carceri. Molti consensi e anche lettere piene di astio. Rispondo a tutte. C’è una profonda differenza tra chi, anche dall’altra parte, ha il senso di aver partecipato ad una storia comune e chi no. Non è un caso che io non abbia mai ricevuto missive di insulti da persone riferibili al vecchio Msi o ad Alleanza Nazionale; polemiche sì, ma senza astio. Gran parte delle volgarità arrivano dall’area Forza Italia e Lega. E’ come se parlassimo una lingua diversa, con un’altra sintassi in cui uno mette il soggetto al nominativo e l ’altro all’accusativo».
Chi ha votato alle primarie?
«Franceschini».
Che gente ha trovato ai gazebo?
«Un’Italia di gente tranquilla, senza alcuno spirito di crociata. Mi ha fatto un’eccellente impressione. Io sono uno che fa politica solo per spinta etica, e vorrebbe non farla. Non ho mai partecipato ad un’assemblea da studente. Però quando viene il momento bisogna...»,
Il momento c’è tutto?
«Un po’ sì. "Vendere il mantello e acquistare una spada", dice il Vangelo (Luca, 22, 36)».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La costituzione immateriale
Di bugiardi ce n’è molti. Qualcuno ogni tanto dice la verità e racconta che il re è nudo: ma da noi troppo pochi gli credono. Per ora. Corriere della sera, 31 ottobre 2009 *
Uno dei quesiti messi in evidenza dalla sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano è se il capo del governo sia, in Italia, un primus inter pares oppure un primus super pares . In nome della «costituzione formale» (il testo della costituzione vigente) la Corte ha ribadito che è un «primo tra pari». Ma in Italia viene invece diffusa l’idea che la costituzione formale sia oramai superata da una «costituzione materiale » per la quale Berlusconi incarna la volontà della maggioranza degli italiani; il che gli attribuisce il diritto, in nome del popolo, di scavalcare, occorrendo, la volontà degli organi che non sono eletti dal popolo (tra i quali la Corte costituzionale e il capo dello Stato). Ora, la distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale, e cioè la prassi costituzionale, è una distinzione largamente accolta dalla dottrina. Ma si applica al caso in esame?
Precisiamo bene la tesi. Intemperanze verbali a parte, la tesi di fondo di Berlusconi è che lui ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (questione di diritto), perché lui e soltanto lui è «eletto direttamente dal popolo» (questione di fatto). Va da sé che se l’asserzione di fatto è falsa, anche la tesi giuridica che ne deriva risulta infondata. Allora, Berlusconi è davvero un premier insediato «direttamente » dalla volontà popolare?
Per Ilvo Diamanti questa asserzione è «quantomeno dubbia» perché è smentita da tutti i dati dei quali disponiamo. Purtroppo è vero che sulla scheda elettorale viene indicato il nome del premier designato dai partiti (un colpo di mano che fu a suo tempo lasciato incautamente passare dal presidente Ciampi); ma il fatto resta che il voto viene dato ai partiti. Pertanto il voto per Berlusconi è in realtà soltanto il voto conseguito dal Pdl. Che ha ottenuto nel 2008 (cito Diamanti) «il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Insomma, intorno a un terzo del ’popolo’». Aggiungi che in questa maggiore minoranza (o maggioranza relativa) sono inclusi i voti di An, in buona parte ancora fedeli a Fini; e che se guardiamo agli anni precedenti FI non ha mai superato il 30%. Deve anche essere chiaro che il voto per FI, e ora per il Pdl, non equivale automaticamente ad un voto per Berlusconi. Una parte degli elettori di destra vota contro la sinistra, non necessariamente per Berlusconi. Fa una bella differenza.
Dunque la tesi del popolo che si identifica, quantomeno nella sua maggioranza assoluta di almeno il 51%, con un leader che vorrebbe onnipotente (o quasi), è di fatto falsa. Chi la sostiene è un imbroglione oppure un imbrogliato. E questa conclusione è dettata dai numeri.
Ciò fermato, torniamo alla costituzione materiale. In sede di Consulta gli avvocati di Berlusconi hanno sostenuto che per la costituzione vivente (come dicono gli inglesi) il principio che vale per Berlusconi è che sta «sopra », che è un primus super pares . E siccome è possibile che questa formula l’abbia inventata io in un libro del 1994, mi preme che non venga storpiata. Io l’ho usata per precisare la differenza tra parlamentarismo classico e la sua variante inglese e anche tedesca del premierato. Ma in Italia il fatto è che questa variante non è mai stata messa in pratica. E dunque in Italia non c’è differenza, a questo proposito, tra costituzione formale e costituzione materiale. Come dicevo, la tesi del premierato di Berlusconi voluto dal popolo è seppellita dai numeri. Sul punto, il punto è soltanto questo.
Campo della Gloria del cimitero monumentale di Milano, 1 novembre 2009
Intervento di Mons. Gianfranco Bottoni a nome dell’arcivescovado della Diocesi di Milano
La memoria dei morti qui, al Campo della Gloria, esige che ci interroghiamo sempre su come abbiamo raccolto l’eredità spirituale che Caduti e Combattenti per la Liberazione ci hanno lasciato. Rispetto a questo interrogativo mai, finora, ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro paese, ad una caduta senza precedenti della democrazia e dell’etica pubblica. Non è per me facile prendere la parola e dare voce al sentimento di chi nella propria coscienza intende coniugare fede e impegno civile. Preferirei tacere, ma è l’evangelo che chiede di vigilare e di non perdere la speranza.
È giusto riconoscere che la nostra carenza del senso delle istituzioni pubbliche e della loro etica viene da lontano. Affonda le sue radici nella storia di un’Italia frammentata tra signorie e dominazioni, divisa tra guelfi e ghibellini. In essa tentativi di riforma spirituale non hanno potuto imprimere, come invece in altri paesi europei, un alto senso dello stato e della moralità pubblica. Infine, in questi ultimi 150 anni di storia della sua unità, l’Italia si è sempre ritrovata con la “questione democratica” aperta e irrisolta, anche se solo con il fascismo l’involuzione giunse alla morte della democrazia. La Liberazione e l’avvento della Costituzione repubblicana hanno invece fatto rinascere un’Italia democratica, che, per quanto segnata dal noto limite politico di una “democrazia bloccata” (come fu definito), è stata comunque democrazia a sovranità popolare.
La caduta del muro di Berlino aveva creato condizioni favorevoli per superare questo limite posto alla nostra sovranità popolare fin dai tempi di “Yalta”. Infatti la normale fisiologia di una libera democrazia comporta la reale possibilità di alternanze politiche nel governo della cosa pubblica. Ma proprio questo risulta sgradito a poteri che, già prima e ancora oggi, sottopongono a continui contraccolpi le istituzioni democratiche. L’elenco dei fatti che l’attestano sarebbe lungo ma è noto.
Tutti comunque riconosciamo che ad indebolire la tenuta democratica del paese possono, ad esempio, contribuire: campagne di discredito della cultura politica dei partiti; illecite operazioni dei poteri occulti; monopolizzazioni private dei mezzi di comunicazione sociale; mancanza di rigorose norme per sancire incompatibilità e regolare i cosiddetti conflitti di interesse; alleanze segrete con le potenti mafie in cambio della loro sempre più capillare e garantita penetrazione economica e sociale; mito della governabilità a scapito della funzione parlamentare della rappresentanza; progressiva riduzione dello stato di diritto a favore dello stato padrone a conduzione tendenzialmente personale; sconfinamenti di potere dalle proprie competenze da parte di organi statali e conseguenti scontri tra istituzioni; tentativi di imbavagliare la giustizia e di piegarla a interessi privati; devastazione del costume sociale e dell’etica pubblica attraverso corruzioni, legittimazioni dell’illecito, spettacolari esibizioni della trasgressione quale liberatoria opportunità per tutti di dare stura ai più diversi appetiti...
Di questo degrado che indebolisce la democrazia dobbiamo sentirci tutti corresponsabili; nessuno è esente da colpe, neppure le istituzioni religiose. Differente invece resta la valutazione politica se oggi in Italia possiamo ancora, o non più, dire di essere in una reale democrazia. È una valutazione che non compete a questo mio intervento, che intende restare estraneo alla dialettica delle parti e delle opinioni. Al di là delle diverse e opinabili diagnosi, c’è il fatto che oggi molti, forse i più, non si accorgono del processo, comunque in atto, di morte lenta e indolore della democrazia, del processo che potremmo definire di progressiva “eutanasia” della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
Fascismo di ieri e populismo di oggi sono fenomeni storicamente differenti, ma hanno in comune la necessità di disfarsi di tutto ciò che è democratico, ritenuto ingombro inutile e avverso. Allo scopo può persino servire la ridicola volgarità dell’ignoranza o della malafede di chi pensa di liquidare come “comunista” o “cattocomunista” ogni forma di difesa dei principi e delle regole della democrazia, ogni denuncia dei soprusi che sono sotto gli occhi di chiunque non sia affetto da miopia e che, non a caso, preoccupano la stampa democratica mondiale.
Il senso della realtà deve però condurci a prendere atto che non serve restare ancorati ad atteggiamenti nostalgici e recriminatori, ignorando i cambiamenti irreversibili avvenuti negli ultimi decenni. Servono invece proposte positivamente innovative e democraticamente qualificate, capaci di rispondere ai reali problemi, alle giuste attese della gente e, negli attuali tempi di crisi, ai sempre più gravi e urgenti bisogni del paese. Perché finisca la deriva dell’antipolitica e della sua abile strumentalizzazione è necessaria una politica nuova e intelligente.
Ci attendiamo non una politica che dica “cose nuove ma non giuste”, secondo la prassi oggi dominante. Neppure ci può bastare la retorica petulante che ripete “cose giuste ma non nuove”. È invece indispensabile che “giusto e nuovo” stiano insieme. Urge perciò progettualità politica, capacità di dire parole e realizzare fatti che sappiano coniugare novità e rettitudine, etica e cultura, unità nazionale e pluralismi, ecc. nel costruire libertà e democrazia, giustizia e pace.
Solo così, nella vita civile, può rinascere la speranza. Certamente la speranza cristiana guarda oltre le contingenza della città terrena. E desidero dirlo proprio pensando ai morti che ricordiamo in questi giorni. La fede ne attende la risurrezione dei corpi alla pienezza della vita e dello shalom biblico. Ma questa grande attesa alimenta anche la speranza umana per l’oggi della storia e per il suo prossimo futuro. Pertanto, perché questa speranza resti accesa, vorrei che idealmente qui, dal Campo della Gloria, si levasse come un appello a tutte le donne e gli uomini di buona volontà.
Vorrei che l’appello si rivolgesse in particolare a coloro che, nell’una e nell’altra parte dei diversi e opposti schieramenti politici, dentro la maggioranza e l’opposizione, si richiamano ai principi della libertà e della democrazia e non hanno del tutto perso il senso delle istituzioni e dell’etica pubblica. A voi diciamo che dinanzi alla storia - e, per chi crede, dinanzi a Dio - avete la responsabilità di fermare l’eutanasia della Repubblica democratica. L’appello è invito a dialogare al di là della dialettica e conflittualità politica, a unirvi nel difendere e rilanciare la democrazia nei suoi fondamenti costituzionali. Non è tempo di contrapposizioni propagandistiche, né di beghe di basso profilo.
L’attuale emergenza e la memoria di chi ha combattuto per la Liberazione vi chiedono di cercare politicamente insieme come uscire, prima che sia troppo tardi, dal rischio di una possibile deriva delle istituzioni repubblicane. Prima delle giuste e necessarie battaglie politiche, ci sta a cuore la salute costituzionale della Repubblica, il bene supremo di un’Italia unitaria e pluralista, che insieme vogliamo “libera e democratica”.
Il crocifisso, simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 7 novembre 2009)
Il giovane Sami Albertin - la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano - dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se, com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.
Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.
La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno - ed è questa la conseguenza più grave
un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace -
ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda - solo se non travolge il
buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora
Bersani, non possono essere offensive per nessuno.
La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio - uno fra i tanti - il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.
Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio - è solo un altro esempio fra i tanti - che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile.
«Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi. Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità - che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze. L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa - tutte le Chiese - non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso.
La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto. Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.
Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.
Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione. Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» - massimo diritto, massima ingiustizia.
E così forse è il caso del crocifisso. Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide. Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta. Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra. Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni. Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.
Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini. Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri).
Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi. Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio. Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci. In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini. Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.
L’elenco potrebbe continuare a piacere. Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica.
E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra. Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio.
La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati». Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei - laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora- aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti. Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.
In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare. È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.