In concorso lo sconvolgente film tedesco "Die Welle" tratto da una storia vera
L’esperimento di un insegnante con gli studenti: la creazione di una dittatura
E IL PROFESSOR JONES RICREO’ IL NAZISMO.
L’onda anomala del professor Jones
così in classe si costruisce il nazismo
All’uscita in Germania qualche mese fa scatenò un fiume di polemiche e divise l’opinione pubblica
C’è chi lo ha definito il più importante film degli ultimi anni perché spiega il fascino del totalitarismo
di Curzio Maltese (la Repubblica, 24.11.2008)
TORINO S’intitola L’Onda, ma non parla di studenti e rivolta. Racconta piuttosto il contrario, le conseguenze di una deliberata estrema obbedienza di un gruppo di ragazzi al loro professore. E’ una storia vera che ha ispirato un libro di successo e ora un film tedesco in concorso al Festival di Torino: Die Welle, L’Onda.
La trama è fedelissima al fatto reale, l’esperimento ideato dal professor Ron Jones nel liceo Cubberley di Palo Alto, California, nel 1967. Lo scopo era di capire come si diventa nazisti. «La domanda degli studenti è stata: come ha potuto il popolo tedesco tollerare, anzi aderire in massa al totalitarismo, accettare i campi di sterminio, obbedire ciecamente a Hitler?» scrive Jones nel suo diario.
La lezione di storia naturale si rivela inadeguata. Gli studenti prendono un’aria annoiata, del genere: «Ok, abbiamo capito, oggi da noi non potrebbe succedere». Il professore allora propone un esperimento. Per qualche giorno i ragazzi dovranno sottomettersi alla sua autorità, chiamarlo «signor professore» e seguire le lezioni con la testa dritta e il petto all’infuori. La risposta degli studenti è dapprima divertita, poi entusiasta. Sono loro stessi a proporre i sistemi per rendere compatto e disciplinato il gruppo. Si danno un nome, l’Onda con un logo e un saluto: una mano tesa all’altezza del cuore.
Quindi una divisa, jeans e camicia bianca, per diventare tutti uguali. Si alzano in piedi all’ingresso del signor professore, compiono esercizi ginnici, urlano slogan ad alta voce: «La forza è nella comunità». Il professor Jones è stupito del suo successo e anche affascinato.
Confida alla moglie: «In un certo senso, ho scoperto un metodo di insegnamento che funziona. I ragazzi imparano in fretta e alla grande. E’ assurdo, ma prima non avevano neppure posti fissi in classe, e ora che non c’è più libertà stanno seduti ai loro posti, rispondono a tutte le domande e si aiutano a vicenda». Dopo i primi giorni, compaiono alcuni effetti collaterali. Gli studenti isolano e denunciano i compagni che esprimono dubbi. Gli alunni delle altre classi si dividono, alcuni chiedono di far parte dell’Onda, altri sono disgustati e reclamano la fine dell’esperimento.
Scoppiano le prime violenze. Un mattino Jones viene affiancato da un suo studente che si qualifica come guardia del corpo. Capisce che l’esperimento gli è completamente sfuggito di mano, ha creato un nucleo perfetto di nazisti, ma è troppo tardi. Si corre verso l’epilogo, dal gioco al massacro.
La storia vera racchiusa nel diario di Ron Jones, il bel libro di Morton Ruhe ("Die Welle") divenuto un classico della letteratura per ragazzi, e il notevole film di Dennis Gansel presentato a Torino, hanno in comune una doppia lettura. Una antropologica, il bisogno primordiale della scimmia umana di sottoporsi al comando di un capo. Un bisogno tanto più emergente nell’età della crisi, nell’adolescenza in cui non si sa chi si è e quindi si può diventare qualsiasi cosa.
L’altra lettura è l’attualità. A metà dell’esperimento il professore il protagonista del film, ambientato nella Germania di oggi, scrive sulla lavagna, sotto dettatura degli studenti, l’elenco delle cause che possono portare a un regime. Nell’ordine: la globalizzazione, la crisi economica, la disoccupazione, l’aumento dell’ingiustizia sociale, la manipolazione dei mezzi di informazione, la delusione della politica democratica, il ritorno del nazionalismo e la xenofobia. Sono le sementi che negli anni Venti hanno fecondato il terreno del fascismo e del nazismo in Europa. Sono gli stessi problemi, qui e ora.
All’uscita in Germania, nella primavera scorsa, Die Welle ha scatenato un prevedibile fiume di polemiche. "Der Spiegel" l’ha definito uno dei film più importanti degli ultimi anni, perché racconta l’eterno fascino del totalitarismo. Un fascino reale e in definitiva anche semplice da capire, quasi naturale, per quanto negato da un eccesso di politicamente corretto. "Die Welt" ha opposto l’opinione che i meccanismi totalitari, così inesorabili sulla pellicola, troverebbero oggi enormi resistenze nella realtà. Una parte della stampa ha mosso un’obiezione etica: i giovani neonazisti dell’Onda, nel loro solidarismo, possono risultare al pubblico delle sale assai più simpatici e normali degli studenti anarcoidi degli altri corsi.
L’obiezione sarebbe giustificata, se non fosse che nella realtà funziona quasi sempre così. Fra molte brave persone del Nord, per rimanere dalle nostre parti, i protagonisti delle ronde padane risultano assai più vicini degli intellettualoidi difensori di Rom e immigrati. Ron Jones, la cui vita è stata sconvolta per sempre dal gioco dell’Onda, ha scritto: «L’esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato qualcuno a dirgli: io posso darvi tutto questo».
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Hitler e il Discobolo, memoria e spettri vecchi e nuovi
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 1 agosto 2018)
Nel 1936 Adolf Hitler scelse la regista Leni Riefenstahl per realizzare un’opera cinematografica che fosse, grazie alle immagini dei Giochi Olimpici di Berlino, formidabile strumento di propaganda. L’Olympiastadion di Berlino diventò così un gigantesco set, il cui fine era l’esaltazione della razza ariana.
Leni Riefenstahl, affascinata dall’antichità classica, con un escamotage cinematografico, fece “animare” la statua del Discobolo Lancellotti, una delle copie migliori dell’originale in bronzo di Mirone, con una dissolvenza. Il marmo si trasformava in un atleta, ariano, impegnato nella rotazione del lancio del disco.
Adolf Hitler, innamorato del genio della Riefenstahl e stregato da quelle immagini decise di acquistare la statua dalla famiglia Lancellotti per un milione di Marchi. Fu presentata il 9 luglio 1938 nel Museo Glyptothek di Monaco, alla presenza del Führer. Esiste una foto, oggi esposta nella pancia dell’Olympiastadion, che ritrae Hitler, in posa davanti al Discobolo. Impietosa. Raffigura un omino con dei ridicoli baffetti e la svastica al braccio dominato, anzi sovrastato dalla bellezza, dall’armonia, dalla perfezione di quella statua che guarda giù e sembra sorridere di fronte a tanta imbecille arroganza.
Il Discobolo nel 1948 tornò in Italia e oggi si può ammirare al Museo di Palazzo Massimo alle Terme, a due passi dalla stazione Termini di Roma.
Tre giorni fa Daisy Osakue, discobola azzurra, torinese, è stata gratuitamente aggredita e ferita. Ennesimo episodio di una spaventosa (nel senso letterale, che fa paura) sequenza di violenze che si stanno diffondendo nel nostro Paese. Episodi che hanno un tratto comune: colpire chi è debole, perché donna o vecchio o fragile, e chi è diverso per colore, etnia o confessione religiosa. I capisaldi del disprezzo per gli “altri”, il motore della xenofobia e del razzismo, insomma. Daisy difende la maglia azzurra della Nazionale di Atletica Leggera, non è una spacciatrice, una ladra, un’immigrata irregolare. È una bella ragazza, nata a Torino, con alle spalle tanti anni di allenamento e studio negli Stati Uniti, che quando lancia il disco si tinge le treccine di azzurro e quando vince canta fieramente l’Inno di Mameli. Il razzismo, tuttavia, non fa distinzioni. Si fonda sull’ignoranza. Ignoranza che genera paura. Paura che genera violenza. Violenza che genera odio. Odio che genera ignoranza. Da lì si riparte, su un livello sempre più alto. È sempre stato così.
William Sheridan Allen, storico americano, pubblicò nel 1965 un saggio che si intitola: “Come si diventa nazisti”, la storia di una piccola città della Germania durante la Repubblica di Weimar i primi anni del Terzo Reich. Una tranquilla e normalissima cittadina di diecimila abitanti, Nordheim, tra il 1930 e il 1935, come tutta la Germania, cambiò volto, quasi senza accorgersene, tra sottovalutazione e silenzio degli indifferenti.
«La fine della democrazia è sempre possibile e, oggi come allora, gli avversari della democrazia stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà», commenta il sociologo Luciano Gallino nell’introduzione a quel saggio. Chissà che cosa ne pensa il Ministro dell’Interno, colui che dovrebbe garantire la sicurezza del Paese. Fra un tweet e l’altro, fra un’emoticon e un “bacione” ai suoi detrattori, viene da pensare che il clima che respiriamo sia frutto di una sorta di tragico lasciapassare.
Nel frattempo Daisy Osakue tornerà a lanciare il disco per la maglia azzurra. Lo farà presto ai Campionati europei di Atletica Leggera che si disputeranno a Berlino, proprio all’Olympiastadion. Quello dove Hitler guardava le gare, quello dove Leni Riefenstahl girava il suo documentario, quello soprattutto dove Jesse Owens diventò simbolo di quei Giochi Olimpici voluti per celebrare la razza ariana. Lui, nero dell’Alabama, vincitore di 4 medaglie d’oro. Perché la storia ha sempre in sé tanto la malattia che l’antidoto.
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.0720,18)
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone.
Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
Hitler secondo l’anarchico Feyerabend
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.06.2016)
Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche».
Finalmente un libertario, un democratico capace di non cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà.
Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler.
Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia.
Libri e film il ritorno del grande dittatore
Non solo “Mein Kampf”: così tra letteratura e cinema rivive in Germania la figura di Hitler
Un’ossessione che si manifesta in chiave critica e a volte comica
Ma che fa i conti con un passato mai risolto
di Angelo Bolaffi (la Repubblica, 06.05.2016)
“Lui è tornato”: e lui è Adolf Hitler. Non è solo il titolo provocatorio e grottesco di un bestseller letterario diventato commedia cinematografica, ma un fatto: la rinnovata attenzione per la figura del dittatore nazista. All’inizio di quest’anno, come si ricorderà, a cura dell’Istituto tedesco per la storia contemporanea è apparsa tra mille
polemiche e non pochi dubbi l’edizione scientifica del Mein Kampf andata esaurita in pochissimi giorni.
E nelle scorse settimane sempre in Germania è stata pubblicata una monumentale ricerca sulla vita di Hitler: Das Itinerar, questo il titolo dell’opera in quattro volumi di ben 2.432 pagine scritta da Harald Sandner, ricostruisce passo dopo passo tutti gli episodi documentabili della sua biografia (compresi anche quelli più curiosi e sconosciuti, come la richiesta presentata all’ambasciata italiana di un autografo di Mussolini) dalla nascita nel 1889 a Braunau, allora Austria- Ungheria, fino al 30 aprile del 1945, giorno in cui si suicidò nel suo bunker di Berlino.
Inevitabilmente questo ritorno di interesse per la persona di Hitler ha sollevato molti interrogativi legati al timore che possa nascondere una più o meno consapevole “banalizzazione del male”. Una specie di inflazione della sua figura che, soprattutto sulle nuove generazioni, potrebbe avere come conseguenza una “normalizzazione” e relativizzazione della condanna del nazismo.
Certo, in una Germania com’è quella di oggi, profondamente lacerata e messa in ansia dal fenomeno migratorio e di fronte, sia pure in settori (ancora) minoritari, all’emergere di pulsioni identitarie e idiosincrasie xenofobe, la cautela è d’obbligo. E tuttavia questa rinnovata presenza mediatica di Hitler non è affatto espressione di revisionismo storico. Né, come nel film Lui è tornato di David Wnendt, l’idea tra il comico e l’assurdo per altro filmicamente molto efficace di far ricomparire Hitler nella odierna Berlino capitale della Germania riunificata, rappresenta un’allarmante rottura di un tabù.
Intanto perché c’è un precedente illustre: il film realizzato nel 1940 da Charlie Chaplin intitolato Il grande dittatore nel quale il monologo di Hitler nella scena del mappamondo è non solo un’icona cinematografica ma anche la denuncia politicamente lungimirante (in quell’anno era ancora in vigore il Patto tra Unione Sovietica di Stalin e Hitler) del pericolo planetario rappresentato dalla dittatura nazista.
E poi: non è forse vero che un approccio ironico e il ricorso al linguaggio della satira possono favorire grazie alla funzione maieutica del sorriso la resa dei conti di un individuo o di un popolo col proprio passato? Infatti, a differenza di quanto accaduto in altri paesi (ad esempio in Austria e Giappone ma anche nella Russia di Putin che rivendica l’eredità del comunismo di Stalin) la Germania ha cercato (e continuamente cerca) di fare i conti col proprio passato.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, fino alla metà degli anni Sessanta, dominante nell’opinione pubblica tedesca era stato il “principio di rimozione” fondato su una vera e propria connivenza, spazzata via dalla rivolta studentesca del ’67-’68. Una congiura omertosa raccontata dal recente film di Lars Kraume intitolato Lo Stato contro Fritz Bauer (lo stesso tema, anche se da una diversa angolatura, era stato affrontato in precedenza da Giulio Ricciarelli nel suo Il labirinto del silenzio): dirigente del movimento socialista ed ebreo, Fritz Bauer era stato costretto a emigrare. Alla fine della guerra, come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Ernst Fraenkel o Richard Löwenthal, fu uno di quei “generosi remigranti”, come li ha definiti Jürgen Habermas, che decisero di tornare in Germania. Diventato procuratore del tribunale a Francoforte, nonostante l’isolamento e il sospetto che lo circondavano e lo portarono poi al suicidio, gettò le basi per la ricostruzione di un sistema giuridico democratico e aiutò il Mossad a individuare e arrestare Adolf Eichmann.
Per sempre all’ombra di Hitler?
Il titolo di una importante raccolta di saggi pubblicata qualche anno fa dallo studioso Heinrich August Winkler solleva un interrogativo che forse ci aiuta a capire l’odierna, ossessiva presenza della figura di Hitler. La Germania e la coscienza europea sono condannate infatti, per un tempo ancora imprevedibile, a confrontarsi con quella “frattura della civiltà” (così lo storico ebreo tedesco Dan Diner) che è stato il nazismo, i cui delitti ancora attendono - nonostante le decine di migliaia di pagine scritte sul tema - di essere ricostruiti in tutta la loro terrificante dimensione.
Ne è conferma KL: A History of the Nazi Concentration Camps, la monumentale indagine sul sistema nazista dei campi, oltre duemila pagine frutto di una ricerca durata dieci anni, dello storico tedesco (residente in Inghilterra) Nikolaus Wachsmann, apparsa l’anno scorso in inglese e proprio in questi giorni in Germania. Una discesa agli inferi in cui la documentazione raccolta è costituita per gran parte dalle testimonianze fino ad oggi sconosciute delle vittime. Prende le mosse dal campo di Dachau, nei pressi di Monaco di Baviera, messo in funzione in modo ancora provvisorio e artigianale dopo la vittoria elettorale di Hitler nelle elezioni del 5 marzo 1933, per rinchiudervi gli oppositori politici, e si conclude sempre a Dachau con l’arrivo degli americani alla fine di aprile del 1945.
Nel mezzo, il capitolo più buio della storia tedesca. Un capitolo che più viene studiato ed esaminato più ci appare incomprensibile: «Nonostante ci siano migliaia di letture possibili», il nazismo - ha affermato l’ex Cancelliere Helmut Schmidt - «è inspiegabile. Ed è proprio questo che mi opprime nel profondo dell’animo». Dunque Adolf Hitler nonostante il passare dei decenni resta un vero e proprio mistero, come genialmente intuito da Salvador Dalí che nel 1939 intitolò El enigma de Hitler un suo piccolo quadro oggi esposto al museo madrileno Reina Sofia.
Class enemy: Kant torna in cattedra
di Mattia Maistri (Nazione Indiana, 01.11.2014)
L’opera prima di Rok Bicek ha una trama piuttosto semplice: un professore di tedesco, Robert Zupan, sostituisce una collega in congedo di maternità in un liceo sloveno.
Da quel momento in poi, tutto il film ruota attorno al difficile rapporto tra l’uomo e la classe, esasperato dal tragico suicidio di una studentessa e dalla ribellione degli studenti che attribuiscono al docente la responsabilità dell’accaduto. Il conflitto acuisce la sua asprezza giorno dopo giorno, nella completa incapacità dell’istituzione scolastica di trovare il bandolo della matassa.
Matassa che si sbroglia da sola in un finale che non ha nulla di epico o eclatante, ma che pone i due soggetti (classe e docente) per la prima volta a confrontarsi su un orizzonte comune, benché conciliante nell’inevitabile separazione.
Se il film offrisse soltanto la narrazione di un’amara vicenda generazionale, potrebbe tranquillamente finire nel calderone dei film sulla scuola, senza infamia e senza lode. Ma è proprio la sua capacità meta-narrativa a renderlo un’opera apprezzabile e stimolante.
Lo scenario è così inquadrato: sullo sfondo gli studenti, divisi nelle loro peculiarità e bassezze adolescenziali, privi di riferimenti che non siano le etichette del “si dice” o del “si deve” - i trasgressivi e gli obbedienti - e, davanti a loro, la sfilata dei veri padroni della scena, gli adulti, che il regista è riuscito a trasformare in efficaci metafore dei portatori di senso, con i quali gli studenti si incrociano in una caotica e inconsapevole ricerca di risposte.
Le caratteristiche degli adulti sono costruite al fine di delineare dei “tòpoi”, alle prese con un reale al quale attribuire significato. Troviamo così l’utilitarismo cinico di una preside che si affanna per far tornare la calma apparente che accontenti tutti; il sentimentalismo ottuso della docente in maternità che, da perfetta anima bella, crede che basti un poco di zucchero per far ingoiare l’amara pillola dell’esistenza; la schizofrenia etica dell’insegnante di educazione fisica che alterna rigore e pettegolezzo, distacco e seduzione, in un’alternanza priva di coerenza e soggetta agli istinti del momento; l’egoismo autistico dei genitori, incapaci di affrontare i figli senza essere autoreferenziali.
Infine, l’illuminismo prussiano del professore di tedesco: perfetta immagine di un Kant redivivo, giunto in una classe del XXI secolo a gettare un sasso che non sia preda dei flutti della cosiddetta società liquida.
Al pari del romanticismo esistenziale del professor Keating ne “L’attimo fuggente” e del sociologismo tragico (figlio di Adorno e Marcuse) del professor Wenger ne “L’onda”, l’illuminismo kantiano del professor Zupan supera i confini del lungometraggio e diventa strumento per scardinare la realtà del senso comune.
Mentre tutti gli altri personaggi, studenti in primis, sono preda di condizionamenti, sia interni che esterni, che ne offuscano la capacità analitica, generando un crescendo incontrollabile di drammi e frustrazioni, il rigore razionale di Zupan, fedele alla lezione kantiana, non mostra segni di cedimento, anche quando è facilmente equivocabile, anche quando impedisce qualsiasi forma di empatia, anche quando, masticando uno “stronzo” che riemerge dal lontano vissuto scolastico, ti fa trasalire sulla sedia del cinema.
Zupan è il vessillo della ragione decarnificata, libera dagli orpelli individuali che producono alibi, moventi e paraventi alle nostre dipendenze.
La forza con cui prende forma l’imperativo categorico della ragione soffoca le emozioni che - in poche scene - il professore sembra provare.
Perché non c’è spazio per i condizionamenti ma solo per la riflessione pura, scevra da buonismi o isterismi e svincolata da odio o pietà.
E al pari del filosofo sbeffeggiato e, infine, ucciso nel platonico mito della caverna, il kantiano Zupan offre agli studenti una lezione di libertà, capace di tracciare una via d’uscita alla cultura del nozionismo (utile alla carriera) o del miope relativismo per cui “tutti la pensano come cazzo vogliono”.
Acquisire la consapevolezza che, nonostante gli avvenimenti che singolarmente ci colpiscono, sia possibile vivere da uomini tra uomini, è più di uno spiraglio di luce per coloro che ogni giorno entrano in classe. E’ il filo di Arianna grazie al quale scoprire che una comunicazione è sempre possibile. Senza dover invocare roghi o ghigliottine.
La storia
Quel padre-dio che ha chiuso l’Austria in cantina
Il premio Nobel Jelinek: un paese abituato a tenere tutto nascosto
di ELFRIEDE JELINEK (la Repubblica, 19.03.2009).
L’Austria è un mondo piccolo, nel quale quello grande fa le sue prove. Nella cantina di Amstetten (molto più piccola ancora) ha luogo la rappresentazione - tutti i giorni, tutte le notti. Nessuna rappresentazione viene mai cancellata per nessun motivo. Anche le nascite sono parte dello svolgimento della giornata e della rappresentazione. Infatti, ci possono solo essere rappresentazioni. Nessuna cortina di ferro, neanche sbarre di ferro; le sbarre non sono necessarie, abbiamo creato la porta di cemento colato tra piastre di lamiera.
Le sbarre possono offrire una qualche visuale che - seppur parziale - sarebbe comunque meglio di non avere luce per niente. Ecco perché proprio qui non vale il detto: nessuna luce fra mille sbarre. Qui vale la parola del padre, che è pure già nonno, ma non è una cosa speciale: ci sono padri e nonni anche in una sola persona, c’è perfino la Santissima Trinità con le sue tre persone. Qui abbiamo un Dio-Padre, che riunisce in sé tutte le persone e che dice tutto quello che c’è da dire.
Lo zelante padre si è anche dato molto da fare per abbellire le segrete. Forse ha perfino chiesto il parere della figlia abusata, la madre dei suoi secondi sette figli, sul colore delle piastrelle e su altri oggetti di arredamento, forse anche lei poteva dire la sua, ma non credo.
Probabilmente ciò avrebbe comportato la rinuncia ad un millimetro di potere da parte di questo Dio-Padre, Dio-Nonno, Padre-Elettricista, e magari questo millimetro di potere sarebbe venuto a mancare a quella gioiosa virilità, quando ne avrebbe avuto bisogno. Ma la nostra virilità l’abbiamo sempre a portata di mano, ecco perché dobbiamo avere sempre a portata di mano anche la femminilità - la legge è uguale per tutti, e se ad esempio in Tailandia vogliamo fare bella figura davanti alla macchina fotografica, la virilità serve (e molto), e questa virilità, nei momenti in cui non ce ne vogliamo servire, rimane ben custodita nel piccolo sacchetto variopinto che si trova sotto la grossa pancia, custodita per il viatico in questo sacchetto per ostie, il cui contenuto può trasformarsi: da parola a carne per poi tornare parola. E poi si procede alla distribuzione.
In questo sacchetto ci sta tutto quello che ha rappresentato l’inferno per gli altri, che invece dicono dovrebbe essere il paradiso, un contenitore variopinto di impudicizia; siamo sicuri che Dio, il signor Nonno e Padre, se l’è tolto volentieri. In questi casi non conosceva pudore. Nel giardinetto di vita decorato con adesivi e disegni dei bambini (le rappresentazioni, come già detto, si svolgono al posto delle prove, perché non abbiamo più bisogno di provare, conosciamo già tutte le scene) Lui rappresenta se stesso, può rappresentarsi come vuole, può disturbare la rappresentazione quando vuole, perché è la sua rappresentazione. La rappresentazione di questo Dio-Padre-Nonno, il quale aveva creato un suo idillio seguendo - senza arte né parte - il modello del corpo femminile, con molte nicchie e corridoi. Non si può vedere il tutto da ogni parte. Non è difficile usare qualcosa come fosse un corpo di donna, quando non ce n’è uno vero a disposizione: ci sono bambole gonfiabili, mele svuotate, animali - ma è già più difficile costruire delle stanze secondo il modello della donna e di decorarle con dei bei motivi, un tempio, costruito soltanto per la brama del Padre, un tempio sempre pronto, continuamente pronto per ricevere la presenza, che può anche essere un corpo di donna, basta che stia tranquillo. Là sotto la donna è (ed i bambini sono) l’unica presenza che conta. Forse avrebbe perso il diritto alla vita, se non ci fosse più servita per servircene. Chi non sta tranquillo, chi grida, viene liberato ed ha accesso alla casa di sopra. Non vogliamo problemi, si dice in Austria, quando non si vuole una sommossa.
Nel 1848 c’è stata una sommossa, ma non è durata a lungo, e nell’anno memoriale che finisce con l’8 non se ne parla, almeno non finora. Qui le sommosse non hanno mai avuto grande seguito e di solito rimangono senza conseguenza. I nazisti, nel 1938, quelli sì che hanno avuto maggior seguito. In questo paese non piacciono né i problemi né le sommosse, a meno che non si tratti di persone inermi, allora torniamo ad essere forti.
Qui in Austria tutto è una prova per qualcosa di futuro, di là da venire, e sembra che anche per la piccola famiglia delle segrete la libertà fosse già stata pianificata e progettata. Al più tardi in estate la figlia doveva essere ripresa da quella setta inventata e riportata a casa amorevolmente per essere posta nel talamo nuziale. Al più tardi in estate doveva essere trasferita. Col tempo sarebbe anche diventato troppo faticoso per il pater familias infilarsi ogni volta là sotto - l’età c’è, e cosa succede se mi ammalo? I figli. Sono faticosi. Al più tardi a 18 anni se ne vanno comunque dal villaggio, dove arrivano soltanto se non hanno nessuno e nessuno li vuole avere. La 19enne figlia/nipote si è data fuoco là sotto in quella cantina, si è sacrificata per la famiglia. Forse morirà, questa Giovanna d’Arco: Non è stata bruciata da neonata, quanto meno non ancora, e questo è un bene, così la si poteva bruciare più tardi come una nave, con la quale non si vuole mai più tornare indietro; non è stata bruciata perché forse ci servirà più tardi per salvare la famiglia. Ed in effetti ci è servita. Ne avevamo tanto bisogno!
Quando avremo bisogno di questa figlia, non importa per che cosa, lei sarà lì. Meno male che l’abbiamo fatta a suo tempo! Senza il sacrificio dell’anello più debole, dell’unica figlia/nipote là sotto, non ci sarebbe stata salvezza. Adesso che tutti coloro, che ancora potevano essere salvati, sono salvi, i politici temono che la reputazione dell’Austria possa subire un danno - sarebbe terribile. Già non si sentono più le grida, che provenivano dalla cantina, perché ovviamente era impossibile sentirle, non c’erano fenditure o crepe grandi abbastanza da far passare le urla, anche se avessero cercato di trovare un passaggio. C’erano solo delle fessure per l’aerazione. Il padre è un esperto in fessure, anche quelle dei corpi umani, soprattutto femminili, dato che è lui che le ha fatte. E’ lui che ha fatto tutto, perché sapeva fare tutto. Dio sia lodato. Niente urli, per carità! Non trapela nessun urlo, neanche quello di una partoriente. Forse, dopo tanti figli, ci si abitua un po’ a partorire. Se ne è rotto soltanto uno, ed infatti è stato smaltito nella caldaia.
Ci sono molte cose per le quali l’Austria è famosa, conosciuta, ben voluta, forse anche: desiderata. Una di queste cose è la parlantina delle donne allegre ed intelligenti, anche se non la possiamo sentire, ma è un’altra cosa che prendiamo e ci portiamo via, insieme alle cose che dice il signore e che sono importanti, che dicono i signori per telefono al gestore di bordelli, che dicono alla squillo di lusso, le cui memorie una volta sono apparse brevemente in una rivista per poi scomparire di nuovo. Nessuno deve crescere troppo, tutto deve rimanere tra noi, non vogliamo far trapelare nulla, altrimenti all’estero sparlano di noi. Volentieri diffondiamo la parola del padre attraverso i canali della patria, ed è lì che la riporteremo, quando ne avremo goduto abbastanza. Voi all’estero: ascoltate la nostra parola, ascoltate il Ballo dell’Opera ed il Concerto di Capodanno, ascoltate tutto!, ma non le nostre urla! Vi preghiamo di non farci assolutamente caso, tanto neanche noi ci facciamo caso, e noi dovremmo essere i primi a saperlo. Ma le urla non giungono nemmeno fino alla casa del vicino o dalla cantina fino al soggiorno della propria casa.
L’autrice è Premio Nobel per la letteratura 2004.
Im Verlassenen@Elfriede Jelinek
Traduzione di Fransiska Dorr-Syllabos TC, Roma
Il regista Gansel nell’«Onda» racconta gli studenti e la violenza
«Sono i figli delle nuove frustrazioni
Uccidono per trascinare giù tutti»
La situazione si è complicata: alle pulsioni naturali si aggiungono le pressioni sociali
di D. Ta. (Corriere della Sera. 12.03.2009)
WINNENDEN (Germania) - Dennis Gansel ha studiato a lungo i comportamenti dei giovani studenti, i meccanismi di gruppo nelle scuole. È il regista de L’Onda («Die Welle»), il film su un esperimento psico-sociologico nel quale un insegnante forza i comportamenti degli alunni e provoca reazioni impensabili, violente, irrazionali. Fino all’epilogo: uno di loro spara contro gli altri compagni e poi si ammazza. In questa intervista, dice che sono le aspettative eccessive che la società getta addosso ai giovani a farne, in qualche caso, killer non solo potenziali. Soprattutto, naturalmente, quando hanno libero accesso alle armi.
Lei si poteva aspettare che un episodio del genere potesse succedere di nuovo in Germania?
«Sono senza parole, sconvolto. Quando abbiamo fatto il film, ci siamo chiesti a lungo se rappresentasse qualcosa di reale. Abbiamo studiato i caratteri delle persone che in passato provocarono stragi simili a Emsdetten e a Erfurt. Ma avevamo dubbi. Oggi non ne ho più: la violenza nelle scuole è diversa da quella di 40 anni fa, è molto reale».
Pensa che sia la scuola a produrre questi risultati, il sistema di selezione tedesco, che già si applica a ragazzi giovani?
«No, in questi casi non si può fare l’errore di essere Küchenpsychologe, psicologi per diletto. Colpisce di più la biografia dei protagonisti, ragazzi con complessi di inferiorità, in qualche caso presi in giro dai loro pari e, soprattutto, sotto una pressione che non sono capaci di sopportare».
Quale pressione?
«Tra i giovani non è strano che ci siano aggressività che hanno bisogno di esplodere, spesso per esprimere le loro frustrazioni. Una volta questo significava fare a pugni. Oggi, la situazione si è complicata perché alle pulsioni naturali si aggiungono le pressioni sociali, il dovere a tutti costi di avere successo, rispondere a richieste sempre più impegnative, preparare il futuro, studiare le lingue. Se, in questo ambiente, un ragazzo non ha la fidanzata, non ha lavoro, non ha amici e magari non è un bravo studente può succedere qualcosa di inspiegabile nella sua psiche».
I giovani sono più esposti?
«Non c’è dubbio. Un teenager ha reazioni diverse, più radicali, più disperate di un adulto. Anche quando quest’ultimo è in crisi, perde il lavoro, deve vivere di contributi sociali».
E il cortocircuito arriva quando hanno accesso alle armi.
«È un problema serio. Cominciato in America, ma poi diventato generale, in Germania, Olanda, Finlandia. Non credevo fosse così facile procurarsi armi, da noi. Invece, durante le ricerche per il mio film, un ragazzo di 16 anni mi ha mostrato come sia semplice procurarsele su Internet. Temo che non sia un problema di leggi, è che sono scesi di molto i freni inibitori».
Media, film violenti, videogiochi: c’entrano?
«È un collegamento che non vedo. È vero che ci sono film, musiche, videogiochi violenti. Ma, finora, i giovani che hanno commesso delitti del genere avevano sempre qualche problema. In questo, la scuola dovrebbe aiutarli, dovrebbe impiegare psicologi che li aiutino. Ma non so se basti».
RASSEGNA
Tff, chi ha paura oggi del documentario?
In gara, «L’onda» del tedesco Gansel e «Demain» del canadese Giroux
Molti festival non separano più i generi, ma qui accade ancora. Così, Tonino De Bernardi traveste un doc da fiction, Guadagnino affronta Pippo Delbono e «L’onda» sfiora l’omaggio ai movimenti degli anni ’70 per poi deviare sul nazismo
di Roberto Silvestri (il manifesto, 26.11.2008)
TORINO.
Anche i festival internazionali di prima fascia ormai non separano più nettamente la documentazione analogica o digitale di una storia inventata, di un cartone animato e di una cronaca vera. Quel che conta infatti oggi è la guerra di guerriglia che si combatte tra l’immagine (libertà, polisenso, apertura) e il «visuale» (l’embedded, aa parola d’ordine trasmessa dai media in flusso autoritario, il soffocamento dell’immaginazione, la semplificazione demagogica). Ma il Torino Film Festival, rigido come il granito dei marciapiedi cittadini, separa ancora nettamente i generi. Niente promiscuità, niente contaminazioni infettive, niente virus pericolosi e antisistemici. Per esempio. Grande successo del «Torino FilmLab», appuntamento internazionale di produttori, agenti e distributori internazionali per sostenere i nuovi talenti. Con 1 milione di euro di budget si invitano i cineasti emergenti, dal Portogallo alla Cekia, a presentare e discutere le loro sceneggiature, e poi se ne premiano sei. Questi progetti, in collegamento con l’ufficio Script&Pitch del programma Media dell’Unione Europea, saranno «ottimizzati» nel corso dell’anno dal Tff. Diventeranno opere indipendenti, perché catalizzano intanto l’interesse dei produttori invitati e poi, come avviene da anni a Rotterdam e Berlino, rappresenteranno il marchio Tff, lo stile di questo festival nel mondo. Oltre a allevare in anticipo cineasti che potrebbero, una volta famosi, lasciare in esclusiva le loro opere proprio a Torino, innalzando la competitività del concorso. Solo che i progetti richiesti e presentati sono tutti ed esclusivamente per film di finzione. Perché?
Saranno però allora, ironia della sorte, i doc a travestirsi da fiction (come succede in Pane/Piazza delle Camelie di Tonino De Bernardi, che infatti è stato presentato nella sezione più indecifrabile e dark, La Zona) o viceversa, non c’è più un solo film «inventato» che non abbia nel suo motorino d’avviamento una cospicua professione di fede documentaristica, con annessi e connessi stilistici (camera ubriaca, bassa definizione, messa a fuoco «improvvisata») e contenutistici (l’occhio puntato verso la realtà per spezzare una serie di lance a favore di).
***
In gara L’onda (Die Welle) di Dennis Gansel, che già dal titolo si presenta avvincente e d’attualità. Se poi si parte con i Ramones sparati, e precisamente con l’hit fine anni ’70 Rock’n’roll High School, citazione del più rivoluzionario film liceale del secolo scorso (regia Alan Arkush, star Paul Bartel e Mary Woronov) la promessa è di stare al cospetto di un omaggio dedicato al primo movimento studentesco di questo secolo. Invece no. Si parte da un corso di storia moderna per terze liceo bavaresi. Tema, il nazismo. I ragazzi sono esasperati. Basta. Che palle. Tanto ormai in Germania il nazismo è storia passata. Invece il professore, che è di estrema sinistra, ha fatto le occupazioni di case, ne sa una più del diavolo, vuole primeggiare tra i colleghi come il più cool, si inventa uno stratagemma facile facile che qualunque maestro potrebbe utilizzare e se non lo fa e solo perché conosce la pericolosità pedagogica di abusare del proprio carisma. Mette in scena con i ragazzi la rappresentazione del nazismo, ma di nuovo tipo, in una aula sola. Con tanto di führer (lui) ordine, disciplina, divisa (camicia bianca, come le «giovani italiane»), marce, postura, respiro, uguaglianza dentro il gruppo (tra donne e uomini, per esempio, ma c’è anche un turco), forte sospetto dell’altro, del diverso, del traditore, del ragazzo dell’aula accanto...
I teenager si divertono un sacco al gioco inedito e spregiudicato, quasi bizzarro, dell’essere educati, anzi arrivano allievi dagli altri corsi, due abbandonano perfino quello, «noiosissimo» sull’anarchia, ma tenuto da un prof all’antica. È meglio di un acido. Il problema del docente di successo è che non è un «maestro unico» (fa anche ginnastica, anzi dirige parallelamente una poco concentrata squadra di pallanuoto, scene che devono aver inebriato Moretti) e si sente molto frustrato. Naturalmente questa frustrazione, sommata al successo del suo metodo, lo porta troppo in là. Inizia la violenza, la prevaricazione, il mobbing nei confronti di chi pensa con la sua testa (esattamente tutto ciò che accade nelle autocrazie, siano essere democratiche o autoritarie, o tutte e due contemporaneamente, come succede in Italia oggi), la tragedia.
Curiosamente quando in classe si discute il nome da dare a questo movimento-setta di purificazione dall’egoismo e dai difetti del neoliberismo sterminatore dei deboli, spunta perfino il nome di «La Base». Al Qaeda. Per fortuna il prof non usa quel nome. Se no, in manette, lo avrebbero portato via subito per abuso di potere su minori. Le leggi che in Baviera proteggono la dittatura della maggioranza dalle provocazioni dei minoritari, comunisti, come questo prof, sono infatti antiche. Che ci sia dietro questo film lo zampino del «Berufverbot», e della sua vitalità, non mi stupirebbe. I cattivi maestri sono solo «comunisti», soprattutto quando fingono di mettere in scena gli orrori delle dittature. Perché sono loro, e non gli almeno patriottici nazisti, una vera azienda leader.
Demain, esordio grigio perla del canadese del Québec Maxime Giroux, che viene dal corto, e adora la secchezza della narrazione documentaristica (ambienti operai, cantieri, lavoro nero, morti bianche...) è stato scelto per la gara ed è una specie di cupo In cerca di mister Goodbar, con Sophie, donna tutta sola, che si butta sempre solo sugli uomini che lei crede sbagliati perché è più che altro occupata a curare il vecchio ricco padre diabetico che, pericolosamente anche ubriacone, sbanda sia alla guida delle auto che del suo yacht, perché sta perdendo anche la vista e dunque il piacere del suo salotto con vista (sul lago). E la figlia, impiegata, ha come un processo di irreversibile simbiosi emozionale «paterna», trovando goduria negli inutili e barbosi giri in barca con papà, e assolutamente sconvenienti gli amplessi del suo amante vigoroso ma, come si dice a Genova «Pittafiga», dall’ossessione sessuale unica, solitaria e incantata.
A proposito di Genova e di Pittafiga. Luca Guadagnino torna critico d’arte e body artist in Bisogna morire, 61 minuti con, mai su, Pippo Delbono, attore e regista di teatro e di cinema, che si definisce «anarchico comunista marxista buddista», e che dialoga ipnoticamente di vita, teatro, nirvana, amore, cinema, mega Pc, ricchi e barboni, Thyssen Krupp, droga, terroristi&santi (equiparando ovviamente questi ultimi in intensità desiderante), uccelli, sesso, viaggi... cantando, infine, una melodia sulla morte vitalissima. Intanto la camera digitale corrode via via quelle rughe mobili, la barba ispida, l’occhio autoironico, la bocca perfino buffa, rendendo il quadro sempre più giallo, in una decomposizione elettronica che sarebbe piaciuto a un monaco tibetano. È la terza parte di The Love Factory (dopo gli episodi dedicati a Tilda Swinton e Arto Lindsay). La lunga (ma non sembra) intervista in primissimo piano, anzi in primissimo semi-piano, è intervallata da frammenti meno che digitali, quasi «cellulari», di un diario di viaggio di Delbono, il tutto per arrivare a 61’, tentare la via di Venezia e arrivare al Tff.
Il celebre romanzo di Hans Fallada sulle radici della tragedia tedesca
Dove nascono i nazisti
Gente comune prima dell’abisso
Scritto tra il 1931 e il 1932, "E adesso pover’uomo?" racconta la genesi del dramma, cogliendone i segnali premonitori. Fu un bestseller
L’autore scioglie un enigma intorno a cui s’arrovellano Heinrich Böll e Günter Grass
Il segreto è in quel tratto unificante che identifica "das Volk"
di Ralf Dahrendorf (la Repubblica, 10.12.2008)
In Germania entrambe le guerre mondiali hanno dato luogo a una notevolissima attività letteraria, i cui esiti - i romanzi in modo particolare - sono tuttavia diversi come diversi furono i due conflitti. Dopo la seconda guerra mondiale il tema dominante era: «Come è potuto accadere?». L’Olocausto era sempre sullo sfondo dei romanzi di Heinrich Böll, Günter Grass, Uwe Johnson, Sigfried Lenz ed altri ancora. I raduni degli scrittori del Gruppo 47 in giro per il paese costituivano una sorta di centro itinerante della cultura tedesca, dove si incoraggiava uno stile letterario che mettesse insieme la descrizione dettagliata e l’immaginazione storica. Grass, probabilmente il maggiore scrittore del gruppo, ha descritto quel momento in L’incontro di Telgte.
Dopo la prima guerra mondiale la scena era molto più confusa. Alcuni dei protagonisti della fase neoclassica erano ancora attivi, sebbene scossi da quanto era accaduto. Il contrasto tra la parte pre-bellica e quella post-bellica della Montagna incantata di Thomas Mann è alquanto indicativo. La guerra provocò idealizzazione estetica a Destra (Ernst Jünger) e indignazione morale a Sinistra (Erich Maria Remarque). Ma con la breve e drammatica vicenda della Repubblica di Weimar (1919-1933) un altro tema diverrà dominante.
Philip Brady, nella sua profonda introduzione a E adesso pover’uomo? di Hans Fallada, ricorda la Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), quella forma di neorealismo che regolò i conti con l’emotività senza limiti dell’Espressionismo tanto nelle arti figurative che in letteratura, e che era «contrassegnata dalla sobrietà del gesto, dal linguaggio contenuto, dal mettere in primo piano il fatto e l’autenticità, dal culto del reportage».
Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Ditzen) aveva ventisei anni nel 1919, allorché l’assemblea costituente di Weimar portava a termine le sue deliberazioni. Nato in una tipica famiglia borghese tedesca, figlio di un alto funzionario statale (un magistrato), condivideva con altri intellettuali dell’epoca una vulnerabile inquietudine che nel suo caso sarebbe sfociata nella cocaina e nei tentativi di suicidio, nella delinquenza e in temporanei internamenti, e altresì in alcuni libri di una certa importanza, tutti pervasi da una curiosa miscela di motivi. Fallada ebbe a scrivere di Erich Kästner: «Consegna ai suoi lettori un segmento del loro universo quotidiano: preciso, sobrio, senza illusioni. O forse un’illusione c’è: infanzia, madre, cresima, alberi. E infine un monito: se stai male, non far stare male pure gli altri. Ognuno deve fare quello che può». Reportage e insieme una cauta speranza di ordine morale, leggermente romantica: il neorealismo non fu mai solo realismo, né per Kästner, né per Fallada, né per Alfred Döblin, Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann.
Questi scrittori non formarono il loro Gruppo 47: bastava loro Berlino, quel «simbolo degli anni Venti, dello scambio di idee e del dibattito letterario» (come la descrisse poi Walter Jens). Berlino negli anni Venti possedeva una «forza magnetica» perché, quantomeno per gli scrittori, esemplificava quella sfuggente «realtà» da loro ricercata e al contempo promossa, la Groástadtromantik («romanticismo metropolitano») - più sentimentalismo che romanticismo - che ne divenne indispensabile ingrediente.
Il ventitreenne Johannes Pinneberg, fragile eroe di questo bestseller del 1932, inizia la sua carriera in Pomerania, ma il nucleo della sua vicenda ha luogo a Berlino, nei grandi magazzini dove, in qualità di commesso, dal senso di sicurezza e dal successo iniziali scivolerà nel pantano della crisi economica, vivrà l’atmosfera di invidia e di «ansia da status» tra colleghi di lavoro, la disonestà dei padroncini e l’arbitrio dei grandi padroni. E finirà daccapo in provincia, a pochi chilometri dalla città ma di fatto senza opportunità né speranze.
Questa però è soltanto metà della storia, quella triste (o quella realistica?). L’altra metà è Lämmchen, la proletaria che Pinneberg ha la fortuna di incontrare, e poi il loro bambino, il «piccolo». In qualche modo Lämmchen rappresenta l’illusione: infanzia, madre, alberi (ma niente cresima). Lei non si arrende mai. Rimane un mistero da dove prenda la forza per affrontare la povertà, le tentazioni criminali, la mancanza di qualsiasi prospettiva. Forse è proprio la sua visione terra-terra di un mondo alquanto orribile, nel quale piccoli uomini e piccole donne hanno ben poco in cui sperare, a spingerla verso l’amore, la lealtà e l’onestà. Alla fine, quando Pinneberg è messo male davvero, non solo povero ma anche umiliato e scoraggiato, Lämmchen e Johannes sprofondano l’uno nelle amorose braccia dell’altra mentre il piccolo grida felice «pepp-pepp». Nuova Oggettività?
Fallada racconta una bella storia, e la racconta bene. Non sorprende perciò l’immediato successo nel 1932 e le numerose traduzioni in lingue straniere fra cui - ma solo in versione ridotta - l’inglese. Il romanzo risulta avvincente per la combinazione di turbolenze storiche, misere condizioni di vita e intensi rapporti umani, il che è già una buona ragione per ripubblicarlo. Ma la ragione principale è di altro ordine. Intorno all’enigma del Sonderweg («eccezionale percorso storico») della Germania si sono arrovellati non soltanto Böll, Grass e il Gruppo 47, ma anche un’intera generazione di storici tedeschi attivi dopo il 1945. La soluzione dell’enigma dipende quantomeno in parte dalla visione che si ha della Germania prima dell’Olocausto, prima dell’apogeo hitleriano delle Olimpiadi del 1936, prima della presa del potere da parte dei nazisti nel 1933. E qui i neorealisti, e Fallada in particolare, hanno parecchie cose da dire.
Johannes Pinneberg è in larga misura un apolitico, ma certo non voterebbe mai per i centristi cattolici, né sosterrebbe i nazional-liberali di Stresemann. Quando è particolarmente arrabbiato con i suoi datori di lavoro prende in considerazione l’idea di iscriversi al Partito Comunista. Lämmchen condivide in un primo momento queste tendenze, ma dopo la nascita del piccolo lascia perdere l’attivismo anche per paura della violenza tanto diffusa a Berlino durante l’ultima fase di Weimar. Al negozio di abbigliamento presso cui lavora Pinneberg viene accusato di aver scribacchiato degli slogan di marca nazista, ivi inclusi attacchi al principale ebreo, sui muri del gabinetto degli uomini. Intorno a lui si muovono personaggi di ogni sorta: nazisti e nudisti, socialdemocratici catacombali e codardi veri e propri. Il suo primo datore di lavoro, in Pomerania, è un certo Kleinholz, riluttante a licenziare un impiegato buonannulla che milita nelle fila naziste, perché non si sa mai (ricordiamo che il libro fu scritto tra il 1931 e il 1932, prima dunque del fatidico 30 gennaio 1933: ma i segnali premonitori erano chiari). (...)
Fallada - così come Döblin e Mann, come Kracauer e Geiger - si sforza di comprendere gli eventi in termini di classe: nel suo caso ne risulta una panoramica sociale dai tratti alquanto standardizzati. (...) Ne restano sostanzialmente esclusi i contadini, i lavoratori autonomi e le altre categorie che avrebbero complicato l’affresco sociale. Che in ogni caso è già abbastanza complicato così com’è, perché da dove esattamente vengono fuori i nazisti? Non sono proprio come tutti gli altri? Qui occorre esaminare più da vicino il concetto del «pover’uomo» del titolo, letteralmente il «piccolo uomo», che non è semplicemente «piccolo» a paragone dei pezzi grossi.
Le parole tedesche kleiner Mann presentano le sfumature di significato più differenti. Si riferiscono anche ai bambini, ai «piccoli» per antonomasia, e la domanda «e adesso?» del titolo potrebbe benissimo riguardare la prole dei Pinneberg. Ma nel linguaggio quotidiano, «piccolo uomo» significa soprattutto la gente comune, l’uomo della strada. Questo non comprende tutti, ovviamente, ma comprende la grande maggioranza, e per certi aspetti «siamo tutti piccoli uomini», pover’uomini. Il Leitmotiv della storia tedesca non è la classe e il conflitto di classe, bensì quel comune denominatore che identifica das Volk, il popolo. Qua e là il reportage di Fallada tradisce questo «segreto» della società tedesca.
Il potere unico
di EZIO MAURO *
SIAMO dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l’intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l’obiettivo del premier è più ambizioso.
O la modifica del principio previsto in Costituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.
Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall’origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall’Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.
Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall’inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l’establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.
Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l’attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l’obbligatorietà dell’azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell’esercizio dell’accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.
Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell’equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell’eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell’investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l’organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".
Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c’è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato.
* la Repubblica, 11 dicembre 2008
Ronde, come spaccare l’Italia
Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato percorrono le nostre strade con poteri incostituzionali di controllo del «territorio»
di Furio Colombo (l’Unità, 1.03.2009)
La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei «territori».
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di “ronde” a cui si danno poteri di controllo del «territorio» che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola «territorio». Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: «L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni». La Lega Nord ha imposto le parole «territori» e «popoli» perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini “padani” da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare «La Padania» nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate “Roma ladrona”?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le «ronde di Penati», ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . «Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno». (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di «cultura locale» per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.