1. Guenther Anders: Tesi sull’eta’ atomica
2. Guenther Anders: Comandamenti dell’era atomica
3. Et coetera ***
1. GUENTHER ANDERS: TESI SULL’ETA’ ATOMICA
Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e’ cominciata un nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, cio’ significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca e’ l’ultima: poiche’ la sua differenza specifica, la possibilita’ dell’autodistruzione del genere umano, non puo’ aver fine - che con la fine stessa.
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Eta’ finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come "dilazione"; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda "Come dobbiamo vivere?" si e’ sostituita quella: "Vivremo ancora?". Alla domanda del "come" c’e’ - per noi che viviamo in questa proroga - una sola risposta: "Dobbiamo fare in modo che l’eta’ finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo". Poiche’ crediamo alla possibilita’ di una "fine dei tempi", possiamo dirci apocalittici; ma poiche’ lottiamo contro l"apocalissi da noi stessi creata, siamo (e’ un tipo che non c’e’ mai stato finora) "nemici dell’apocalissi".
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Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche "armi atomiche", e’ un inganno. Poiche’ la situazione attuale e’ determinata esclusivamente dall’esistenza di "armi atomiche", e’ vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
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Non arma ma nemico. Cio’ contro cui lottiamo, non e’ questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in se’. Poiche’ questo nemico e’ nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
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Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss suona: "La minaccia totalitaria puo’ essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale". E’ un argomento che non regge.
1) La bomba atomica e’ stata impiegata, e in una situazione in cui
non c’era affatto il pericolo, per chi la impiego’, di soccombere a un
potere totalitario.
2) L’argomento e’ un relitto dell’epoca del monopolio
atomico; oggi e’ un argomento suicida.
3) Lo slogan "totalitario" e’ desunto
da una situazione politica, che non solo e’ gia’ essenzialmente mutata, ma
continuera’ a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita’
di trasformazione.
4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, e’ totalitaria per sua natura: poiche’ vive del ricatto e trasforma
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse
della liberta’, l’assoluta privazione della stessa, e’ il non plus ultra
dell’ipocrisia.
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Cio’ che puo’ colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Cosi’, nell’eta’ finale, non ci sono piu’ distanze. Ognuno puo’ colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di cio’ che ci riguarda, e cioe’ l’orizzonte della nostra responsabilita’, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe’ che diventi anch’esso globale. Non ci sono piu’ che "vicini".
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Internazionale delle generazioni. Cio’ che si tratta di ampliare, non e’ solo l’orizzonte spaziale della responsabilita’ per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiche’ le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del nostro presente. Tutto cio’ che e’ "venturo" e’ gia’ qui, presso di noi, poiche’ dipende da noi. C’e’, oggi, un’"internazionale delle generazioni", a cui appartengono gia’ anche i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa "internazionale": poiche’ con la nostra fine perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se cosi’ si puo’ dire) e definitivamente. Anche adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
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Il nulla non concepito. Cio’ che conferisce il massimo di pericolosita’ al pericolo apocalittico in cui viviamo, e’ il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) e’ gia’ di per se’ abbastanza difficile; ma e’ un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche’ questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioe’ il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione totale" (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell’immaginazione, alla nostra capacita’ di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale. "Trascendenza del negativo". Ma poiche’, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacita’ limitata della nostra immaginazione (la nostra "ottusita’") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla.
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Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: "Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un’immagine di cio’ che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre cio’ che concepiscono, noi non sappiamo immaginare cio’ che abbiamo prodotto.
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Lo "scarto prometeico". Non e’ questo un fatto fra gli altri; esso definisce, invece, la situazione morale dell’uomo odierno: la frattura che divide l’uomo (o l’umanita’) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacita’ produttiva e la nostra capacita’ immaginativa. Lo "scarto prometeico".
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Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilita’ e produzione. Si puo’ forse immaginare, sentire, o ci si puo’ assumere la responsabilita’, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto piu’ grande e’ l’effetto possibile dell’agire, e tanto piu’ e’ difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu’ grande lo "scarto", tanto piu’ debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, e’ infinitamente piu’ facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare gia’ una reazione), corrisponde il "sopraliminare": cio’ che e’ troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo inibitorio).
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La sensibilita’ deforma, la fantasia e’ realistica. Poiche’ il nostro orizzonte vitale (l’orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l’orizzonte dei nostri effetti e’ ormai illimitato, siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla "naturale ottusita’" della nostra immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato.
Nonostante la sua naturale insufficienza, e’ solo l’immaginazione che puo’ fungere da organo della verita’. In ogni caso, non e’ certo la percezione. Che e’ una "falsa testimone": molto, ma molto piu’ falsa di quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiche’ la sensibilita’ e’ - per principio - miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli "escapisti" di oggi non e’ la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioe’, secondo la prospettiva normale): benche’ realistici in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perche’ sono in contrasto con la realta’ del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente dilatati.
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Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si identifica con cio’ che si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non corrispondere alla realta’ e al grado della minaccia, e’ quindi il grado della nostra angoscia. - Nulla di piu’ falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo gia’ nell’"epoca dell’angoscia". Questa tesi ci e’ inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.
Postulato: "Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fa’ paura al tuo vicino come a te stesso". Va da se’ che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale:
1)
Un’angoscia senza timore, poiche’ esclude la paura di quelli che potrebbero
schernirci come paurosi.
2) Un’angoscia vivificante, poiche’ invece di
rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un’angoscia
amante, che ha paura per il mondo, e non solo di cio’ che potrebbe
capitarci.
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Fallimento produttivo. L’imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finche’ corrispondano a quella di cio’ che possiamo produrre e provocare, si rivelera’ continuamente irrealizzabile. Non e’ nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e’ salutare, poiche’ ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre cio’ che non possiamo immaginare.
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Trasferimento della distanza. Riassumendo cio’ che si e’ detto sulla "fine delle distanze" e sullo "scarto" tra le varie facolta’ (e solo cosi’ ci si puo’ fare un’idea completa della situazione), risulta che le distanze spaziali e temporali sono state bensi’ "soppresse"; ma questa soppressione e’ stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza": quella, che diventa ogni giorno piu’ grande, fra la produzione e la capacita’ di immaginare cio’ che si produce.
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Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo diventati maggiori di cio’ che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo assumerci la responsabilita’), ma anche maggiori di cio’ che possiamo utilizzare sensatamente. E’ noto che la nostra produzione e la nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Cosi’ ci siamo messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette "pulite", sono senza precedenti nel loro genere: poiche’ con essi cerchiamo di migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioe’ diminuendo i loro effetti.
L’aumento dei prodotti non ha quindi piu’ senso. Se il numero e gli effetti delle armi gia’ oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della distruzione del genere umano, l’aumento e miglioramento della produzione, che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora piu’ assurdi; e dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della concorrenza - ha perduto ogni senso. Piu’ morto che morto non e’ possibile diventare. Distruggere meglio di quanto gia’ si possa, non sara’ possibile neppure in seguito.
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Richiamarsi alla competenza e’ prova d’incompetenza morale. Sarebbe una leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori dell’apocalissi", quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano piu’ di noi all’altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare l’inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano consapevoli di doverlo fare. Assai piu’ legittimo e’ il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". L’uso di questi termini e’ addirittura la prova della loro incompetenza morale: poiche’ in tal modo essi mostrano di credere che la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del "to be or not to be" dell’umanita’; e di considerare l’apocalissi come un "ramo specifico". E’ vero che molti di loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, e’ proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno, cioe’, al di la’ della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si puo’ dire che cosi’ facendo ci "immischiamo" di nulla, poiche’ come cittadini e come uomini siamo "immischiati" da sempre, perche’ anche noi siamo la "res publica". E un problema piu’ "pubblico" dell’attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c’e’ mai stato e non ci sara’ mai.
Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
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Liquidazione dell’"agire". La distruzione possibile dell’umanita’ appare come un’"azione"; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E’ giusto? Si’ e no. Perche’ no?
Perche’ l’"agire"" in senso behavioristico non esiste pressoche’ piu’. E cioe’: poiche’ cio’ che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall’agente, e’ stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2) dall’azionare.
1) Lavoro come surrogato dell’azione. Gia’ quelli che erano impiegati negli impianti di liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di non aver fatto nulla perche’ si erano limitati a "lavorare". Per questo "lavorare" intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l’eidos del lavoro rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu’, e non puo’ ne’ deve piu’ riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e’ che esso resta moralmente neutrale: "non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo lavoro puo’ macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all’autore di un eccidio di sentirsi colpevole, poiche’ non solo non occorre rispondere del lavoro che si fa, ma esso - in teoria - non puo’ rendere colpevoli. Stando cosi’ le cose, dobbiamo rovesciare l’equazione attuale ("ogni agire e’ lavorare") nell’altra: "ogni lavorare e’ un agire".
2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio’ che vale per il lavoro, vale a maggior ragione per l’azionare, poiche’ l’azionare e’ il lavoro in cui e’ abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta’, si puo’ fare in tal modo pressoche’ tutto, si puo’ avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non e’ piu’ un lavoro (per non parlare di un’azione). Propriamente parlando non si fa nulla (anche se l’effetto di questo non-far-nulla e’ il nulla e l’annientamento). L’uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora necessario) non si accorge piu’ nemmeno di fare qualcosa; e poiche’ il luogo dell’azione e quello che la subisce non coincidono piu’, poiche’ la causa e l’effetto sono dissociati, non puo’ vedere che cosa fa. "Schizotopia", in analogia a "schizofrenia". E’ chiaro che solo chi arriva a immaginare l’effetto ha la possibilita’ della verita’; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento e’ senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell’azione, e cioe’ al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all’autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l’autore e’ una vittima; in questo senso Eatherly e’ una delle vittime della sua azione.
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Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche’ oggi le menzogne non hanno piu’ bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie").
La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento davanti a cui non puo’ piu’ sorgere il sospetto che possa trattarsi di menzogne; e cio’ perche’ questi travestimenti non sono piu’ asserzioni.
Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita’, ora si camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l’impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realta’, hanno gia’ in se’ il loro (bugiardo) predicato. Cosi’, per esempio, l’espressione "armi atomiche" e’ gia’ un’asserzione menzognera, poiche’ sottintende, poiche’ da’ per scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realta’ subentrano (e siamo al punto che abbiamo appena trattato) realta’ falsificate. Cosi’ determinate azioni, presentandosi come "lavori", sono rese diverse e irriconoscibili; cose’ irriconoscibili, e diverse da un’azione, che non rivelano piu’ (neppure all’agente) quello che sono (e cioe’ azioni); e gli permettono, purche’ lavori "coscienziosamente’, di essere un criminale con la miglior coscienza del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche’ l’agire si traveste ancora da "lavorare", e’ pur sempre l’uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioe’ che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest’ultimo residuo: il che e’ gia’ accaduto. Poiche’ l’agire si e’ trasferito (naturalmente in seguito all’agire degli uomini) dalle mani dell’uomo in tutt’altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per cosi’ dire, "azioni incarnate". La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) e’ un ricatto costante: e nessuno potra’ negare che il ricatto e’ un’azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma piu’ menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c’entriamo. Assurdita’ della situazione: nell’atto stesso in cui siamo capaci dell’azione piu’ enorme - la distruzione del mondo - l’"agire", in apparenza, e’ completamente scomparso. Poiche’ la semplice esistenza dei nostri prodotti e’ gia’ un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrent"), e’ una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
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Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l’espressione "reificazione" non si coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi’ dire, "agire incarnato", poiche’ essa indica esclusivamente il fatto che l’uomo e’ ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell’altro lato (trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe’ del fatto che cio’ che e’ sottratto all’uomo dalla reificazione, si aggiunge ai prodotti: i quali, facendo qualcosa gia’ per il semplice fatto di esistere, diventano pseudopersone.
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Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi principii. Cosi’, per esempio, il principio delle "armi atomiche" e’ affatto nichilistico, poiche’ per esse "tutto e’ uguale". In esse il nichilismo ha toccato il suo culmine, dando luogo all’"annichilismo" piu’ totale.
Poiche’ il nostro agire si e’ trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame di coscienza non puo’ consistere oggi soltanto nell’ascoltare la voce nel nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel trasferimento: e cioe’ nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell’avere solo quei prodotti la cui presenza "incarna" un agire che potremmo assumerci come agire personale.
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Macabra liquidazione dell’ostilita’. Se il luogo dell’azione e quello che la subisce sono, come si e’ detto, dissociati, e non si soffre piu’ nel luogo dell’azione, l’agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi’ un’assenza d’ostilita’, peraltro affatto fallace. La guerra atomica possibile sara’ la piu’ priva d’odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odiera’ il nemico, poiche’ non potra’ vederlo; e la vittima non odiera’ chi lo colpisce, poiche’ questi non sara’ reperibile. Nulla di piu’ macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l’amore positivo). Cio’ che piu’ sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, e’ quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.
Certo l’odio sara’ ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara’ quindi prodotto come articolo a se’. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al caso, s’inventeranno) oggetti d’odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche’ per poter odiare veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest’odio non potra’ entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelera’ anche in cio’, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
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Non solo per quest’ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che sono state scritte perche’ non risultino vere. Poiche’ esse potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilita’, e se agiremo in conseguenza. Nulla di piu’ terribile che aver ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita’ della catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!".
2. GUENTHER ANDERS: COMANDAMENTI DELL’ERA ATOMICA
[Nuovamente riproponiamo il seguente testo allegato alla lettera 4 (di Anders a Eatherly, del 2 luglio 1959), precedentemente apparso nella "Frankfurter Allgemeine Zeitung" del 13 luglio 1957, che estraiamo dalla corrispondenza tra Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d’ombra, Milano 1992, ivi alle pp. 38-50, nella traduzione di Renato Solmi]
Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo".
Poiche’ non devi cominciare un solo giorno nell’illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile. Quello che ti circonda e’ qualcosa che domani potrebbe essere gia’ semplicemente "stato"; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo piu’ "caduchi" di tutti quelli che finora sono stati considerati tali.
Poiche’ la nostra caducita’ non significa solo il nostro essere "mortali"; e neppure che ciascuno di noi puo’ essere ucciso. Questo era vero anche in passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo essere uccisi come "umanita’". Dove "umanita’" non e’ solo l’umanita’ attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni terrestri; ma e’ anche quella che si estende attraverso le regioni del tempo: poiche’, se l’umanita’ attuale sara’ uccisa, si estinguera’ con lei anche l’umanita’ passata, e anche quella futura. La porta davanti alla quale ci troviamo reca quindi la scritta: "Nulla sara’ stato", e sull’altro verso le parole: "Il tempo e’ stato solo un interludio". Ma, in questo caso, il tempo non sara’ stato un interludio fra due eternita’ (come speravano i nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di cio’ che, nessuno potendolo ricordare, "sara’ stato" come se non fosse mai stato, e il nulla di cio’ che non potra’ mai essere. E poiche’ non ci sara’ nessuno per distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco quindi la nuova, apocalittica forma di caducita’ che e’ la nostra, e accanto alla quale tutto cio’ che ha avuto finora questo nome e’ diventato un’inezia. - E perche’ questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo".
*
La possibilita’ dell’apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: "La possibilita’ dell’apocalisse e’ opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo".
No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono di essa; poiche’ anch’essi sono come noi; anch’essi sono noi; anch’essi sono radicalmente incompetenti. E’ vero che questa incompetenza non e’ colpa loro, ma e’ piuttosto l’effetto di una circostanza che non si puo’ attribuire a nessuno di loro ne’ di noi: la sproporzione continuamente crescente fra la nostra facolta’ produttiva e la nostra facolta’ immaginativa, fra cio’ che possiamo produrre e cio’ che possiamo immaginare.
Poiche’, nel corso dell’epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si e’ rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia "esorbitante", esuberante, eccessiva, e cioe’ tale che superava e trascendeval’ambitodel reale,oggii poteri della nostra fantasia (e i limitidellanostra sensibilita’ e della nostra responsabilita’)sonoinferiori a quelli della nostra prassi; per cui si puo’ dire che oggi la nostra fantasia non e’ all’altezza degli effetti che possiamo produrre. Non e’ solo la nostra ragione a essere kantianamente limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e - a maggior ragione - la nostra sensibilita’. Possiamo pentirci, tutt’al piu’, dell’uccisione di un uomo: e’ tutto cio’ che si puo’ chiedere alla nostra sensibilita’; possiamo rappresentarci, tutt’al piu’, l’uccisione di dieci uomini: e’ tutto cio’ che si puo’ chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila persone non presenta piu’ alcuna difficolta’. E cio’ non solo per ragioni tecniche; e non solo perche’ l’azione si e’ ridotta a semplice collaborazione e partecipazione, a un "azionare" che rende invisibile l’effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioe’ perche’ la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita dall’immaginazione o dai sentimenti.
Le tue verita’ successive dovrebbero quindi essere queste: "L’inibizione diminuisce progressivamente con l’ingrandirsi oltre misura dell’azione"; e "L’uomo e’ minore (piu’ piccolo) di se stesso". Questa e’ la formula della nostra attuale schizofrenia, e cioe’ del fatto che le nostre varie facolta’ operano separatamente, come entita’ isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra loro.
Ma non e’ per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su noi stessi che devi formulare queste verita’: ma, al contrario, per inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare; per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finche’ ti e’ concesso di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e rassegnarti alla tua schizofrenia.
Ma se non sei disposto a questo, devi cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E cio’ significa (questo e’ il tuo compito) che devi cercare di colmare l’abisso fra le due facolta’: la facolta’ produttiva e la facolta’ riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o, in altri termini, che devi sforzarti di allargare l’ambito limitato della tua immaginazione (e quello ancora piu’ ristretto del tuo sentimento), finche’ sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire l’enormita’ che sei stato in grado di produrre; finche’ tu possa accettare o respingere cio’ che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste nell’allargare la tua fantasia morale.
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Non aver paura di aver paura
Il tuo compito successivo e’ quello di allargare il tuo senso del tempo. Poiche’ decisivo per la nostra situazione attuale non e’ solo (cio’ che ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si e’ contratto, e che tutti i luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai localita’ viciniori; ma che anche lo spazio temporale si e’ contratto, e che tutti i punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunita’ attigue. Cio’ vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale.
Per il mondo orientale, poiche’ il futuro vi e’ pianificato in una misura senza precedenti; e il futuro pianificato non e’ piu’ un futuro "in grembo agli dei", ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere previsto, e’ gia’ visto come parte integrante dello spazio in cui ci si trova. In altri termini: poiche’ tutto cio’ che si fa, lo si fa per quel prodotto futuro, esso getta gia’ la sua ombra sul presente, appartiene gia’, in un senso pragmatico, al presente stesso. E cio’ vale, in secondo luogo (ed e’ il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale attuale; poiche’ questo, anche senza proporselo direttamente, opera gia’ sui futuri piu’ remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della degenerazione, e forse dell’esistenza o dell’inesistenza dei suoi nipoti. E non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a questo risultato: poiche’ cio’ che conta, da un punto di vista morale, e’ soltanto il fatto. E dal momento che il fatto - l’"azione a distanza" non pianificata - ci e’ noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: "Non esser vile, abbi il coraggio di aver paura! Astringiti a fornire quel tanto di paura che corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!"
Anche e proprio la paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e dire che abbiamo gia’ paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo, anzi, nell’"epoca della paura", e’ una frase priva di senso, che, se non e’ diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, e’ pur sempre uno strumento ideale per impedire l’avvento di una paura veramente adeguata all’enormita’ del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. - E’ vero piuttosto il contrario: che viviamo in un’epoca refrattaria all’angoscia e assistiamo quindi passivamente all’evoluzione in corso.
Percio’ vi e’ tutta una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacita’ di sentire), che non e’ possibile enumerare qui (1). Ma non possiamo fare a meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono un’attualita’ e un’importanza particolare. Si tratta della mania delle competenze, e cioe’ della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Cosi’, per esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei militari. E questo "non aver diritto" si trasforma subito e automaticamente in "non aver bisogno". In altri termini: non c’e’ bisogno che mi occupi dei problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi.
E posso fare a meno di aver paura, poiche’ la paura stessa viene "sbrigata" in un altro ressort. Percio’ ripeti dopo il tuo risveglio: "Res nostra agitur". Il che significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perche’ ci puo’ colpire; e 2) che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo e’ infondata, perche’ siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti.
Credere che in puncto "fine del mondo" possa aver luogo una competenza maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del lavoro, delle responsabilita’ e dei compiti) sono diventati politici o militari, e che si occupano della fabbricazione e dell’"impiego" della bomba piu’ attivamente o piu’ direttamente di noi, siano percio’ piu’ "competenti" di noi, e’ una follia pura e semplice. Chi cerca di farcelo credere (che si tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal momento che la coscienza morale implica una responsabilita’, e la responsabilita’ e’ affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura, con la nostra angoscia morale, invaderemmo - secondo loro - un campo di loro competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto privilegiato, un "clero dell’apocalisse": un gruppo che si arroghi una competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti. Se ci e’ lecito variare il detto rankiano ("ugualmente vicini a Dio"), potremmo dire che "ognuno di noi e’ ugualmente vicino alla fine possibile". E percio’ ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
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Contro la discussione di carattere tattico Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilita’ e la nostra responsabilita’ vengono meno di fronte alla "cosa": ma non siamo neppure in grado di pensarla. Poiche’ sotto qualunque categoria cercassimo di sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se puo’ esistere in molti esemplari, e’ unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: e’, quindi, un monstrum. Disgraziatamente e’ proprio questa ("mostruosa") inclassificabilita’ a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla addirittura. Tendiamo a considerare come inesistente tutto cio’ che non siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa (cio’ che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli uomini), tendiamo a classificarla (poiche’ e’ la soluzione piu’ comoda e meno inquietante) come un’arma, o piu’ in generale come un mezzo. Ma essa non e’ un mezzo, poiche’ e’ essenziale alla natura del mezzo risolversi nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non accade in questo caso. Poiche’ anzi l’effetto inevitabile (e perfino l’effetto consapevolmente ricercato) della cosa e’ maggiore di ogni scopo pensabile; poiche’ questo, per forza di cose, scompare e si annulla nell’effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c’erano ancora "fini e mezzi". Ed e’ chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola esistenza, lo schema "fini e mezzi", non puo’ essere un mezzo. Percio’ la tua massima successiva sia: "Nessuno mi fara’ credere che la bomba sia un mezzo". E dal momento che non e’ un mezzo come i milioni di mezzi che compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per costruire la quale nessuno ci interpella. - E come non devi credere a quelli che la chiamano un "mezzo", non devi credere nemmeno ai persuasori piu’ sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla "dissuasione", ed e’ prodotta, cioe’, solo allo scopo di non essere usata.
Poiche’ non si sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere usati; o, tutt’al piu’, vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non furono usati (e cioe’ quando la minaccia del loro uso, spesso gia’ avvenuto, si era gia’ rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare che la cosa e’ gia’ stata "usata" realmente (e senza giustificazione adeguata) a Hiroshima e Nagasaki. Infine, non dovresti permettere che l’oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo falso con un’etichetta sciocca e minimizzante. Quando l’esplosione di una bomba H e’ definita ufficialmente "azione Opa" o "azione nonnino", non e’ solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole. Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui semplice presenza e’ gia’ una forma di uso) e’ discussa da un punto di vista puramente "tattico". Questo tipo di discussione e’ assolutamente inadeguato, poiche’ l’idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche presuppone l’esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto stesso della loro esistenza. Ma questa e’ una supposizione affatto irreale, poiche’ la situazione politica (l’espressione "era atomica" e’ perfettamente giustificata) e’ definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli avvenimenti politici a svolgersi all’interno della situazione atomica; e la maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all’interno di questa situazione. I tentativi di utilizzare la possibilita’ della fine del mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale, indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento.
L’epoca delle astuzie e’ finita. Percio’ devi farti un principio di sabotare tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull’umanita’ di un’apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere deriso come persona priva di realismo politico. In realta’, ad essere poco realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di significato dall’uso (anzi, dalla semplice possibilita’ dell’uso) di questi mezzi.
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La decisione e’ gia’ stata presa Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle esperienze di laboratorio. Poiche’ questa e’ solo una frase. E non solo perche’ abbiamo gia’ gettato delle bombe (cio’ che molti stranamente dimenticano), e l’epoca "in cui si fa sul serio" e’ quindi gia’ cominciata da un pezzo; ma anche perche’ (ed e’ la ragione piu’ importante) non e’ possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima sara’, quindi, questa: "Per quanto felice possa essere l’esito degli esperimenti, e’ lo sperimentare stesso che fallisce". E fallisce perche’ si puo’ parlare di esperimenti solo dove l’evento sperimentale non esce e non spezza l’ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non si ritrova in questo caso. Poiche’ fa proprio parte dell’essenza della cosa, e dell’effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali, accrescere il piu’ possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo dell’arma; e cioe’, per quanto contraddittoria possa essere la formula, provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Cio’ che e’ prodotto dai cosiddetti "esperimenti" non rientra piu’, quindi, nella classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell’ambito della storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal fall-out) e perfino della storia futura, poiche’ e’ il futuro stesso ad essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si puo’ quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di Jungk, "e’ gia’ cominciato". E’ quindi del tutto illusoria e ingannevole l’affermazione a cui si ricorre cosi’ volentieri, che l’impiego della cosa non e’ stato ancora deciso. - E’ vero, invece, che la decisione e’ gia’ avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi doveri denunciare e distruggere l’apparenza che noi si viva ancora nella "preistoria" atomica: e chiamare per nome cio’ che e’.
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Siamo manipolati dai nostri apparecchi Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo comandamento: "Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le tue massime e quindi le massime di una legislazione universale".
E’ un postulato che puo’ lasciare interdetti: l’espressione "massime delle cose" puo’ sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perche’ strano e paradossale e’ il fatto stesso designato dall’espressione.
Cio’ che vogliamo dire e’ solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla natura degli apparecchi). Ma poiche’, d’altra parte, siamo gli utenti di questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo per trattare il nostro prossimo, anziche’ secondo i nostri principi, secondo i modi di operare degli apparecchi, e cioe’, in certo qual modo, secondo le loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di fatto); che la nostra coscienza morale, anziche’ dedicarsi all’esame di se stessa (che e’ ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello degli "impulsi nascosti" e dei "principi" dei nostri apparecchi. Esaminando scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente peccaminoso; ma esaminando la "vita intima" dei suoi aggeggi, vi troverebbe niente meno che l’erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiche’ erostratico e’ il modo in cui le armi atomiche trattano l’umanita’. Solo quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale ("l’analisi del cuore degli apparecchi"), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la conservazione del nostro essere.
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Impossibilita’ di non-potere Il tuo principio successivo sia: "Non credere che quando saremo riusciti a compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli allori". Poiche’ la fine degli esperimenti non significa ancora quella della produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che sono gia’ stati sperimentati e che sono pronti per l’uso.
Vi possono essere varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si puo’ risolvere, ad esempio, perche’ ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo, dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe esistenti bastano gia’ per ogni eventualita’; insomma, perche’ sarebbe assurdo e antieconomico uccidere l’umanita’ piu’ di una volta.
Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l’arresto della produzione di bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la distruzione di tutte le riserve). Anche in un mondo completamente "pulito" (e cioe’ in un mondo dove non ci fossero piu’ bombe A o H, e dove quindi, apparentemente, non "avremmo" bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle, poiche’ sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata dalla riproduzione meccanica non si puo’ dire che un oggetto possibile non esista, poiche’ cio’ che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro tipi, i loro "modelli". Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l’umanita’ potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora, che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo e’ impossibile, poiche’ i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica. Insomma, anche se ci riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro "modelli", e di salvare cosi’ la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua paura.
D’ora in poi l’umanita’ dovra’ vivere, per tutta l’eternita’, sotto l’ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva, insufficiente. Poiche’ la meta che dobbiamo raggiungere non puo’ consistere nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sara’ mai un giorno in cui non potremmo adoperarla.
Ecco quindi il tuo compito: far capire all’umanita’ che nessuna misura fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potra’ mai rappresentare una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sara’, in un certo senso, sempre possibile. Se non riusciamo - si’, tu, tu ed io - a infondere questa coscienza e questa convinzione nell’umanita’, siamo perduti.
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Note
1. Cfr. Guenther Anders, Die Antiquierheit des Menschen, C. H. Beksche Verlagsbuchhandlung, pp. 264 sgg.
3. ET COETERA
Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) e’ nato a Breslavia nel 1902, figlio dell’illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo’ in filosofia nel 1925. Costretto all’esilio dall’avvento del nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d’America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel 1950, si stabili’ a Vienna. E’ scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e’ uno dei maggiori filosofi contemporanei; e’ stato il pensatore che con piu’ rigore e concentrazione e tenacia ha pensato la condizione dell’umanita’ nell’epoca delle armi che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa della civilta’ umana; insieme a Hannah Arendt (di cui fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e’ tra gli ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire.
Opere di Guenther Anders:
Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961;
La
coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e
di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d’ombra, Milano 1992
(col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando);
L’uomo
e’ antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull’anima nell’era della
seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati
Boringhieri, Torino 2003;
L’uomo e’ antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla
distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale),
Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003;
Discorso sulle tre guerre mondiali,
Linea d’ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli
1991;
Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita’ e
legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi)
1997.
Si vedano inoltre:
Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989;
Uomo
senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991;
Patologia della liberta’, Palomar,
Bari 1993;
Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004;
L’odio e’
antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
In rivista testi di Anders sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita’", "Linea d’ombra", "Micromega".
Opere su Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e Renato Solmi.
*
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 88 del 28 luglio 2007
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E,
01100 Viterbo,
tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
"L’uomo è antiquato" (Günther Anders, 1956): "Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna farlo in modo violento. I metodi come quelli di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più in mente agli uomini. L’ideale sarebbe formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate.
In secondo luogo, si prosegue il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può ribellarsi.
L’accesso alla conoscenza deve diventare sempre più difficile ed elitario, il divario tra il popolo e la scienza deve aumentare, l’informazione destinata al grande pubblico anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo.
Soprattutto niente filosofia. Ancora una volta bisogna usare persuasione e non la violenza diretta: attraverso la televisione si diffonderanno intrattenimento lusinghiero, sempre più lusinghiero, emotivo o istintivo. Occuperemo gli spiriti con ciò che è inutile e divertente. È buono, in una chiacchierata e in una musica incessante, impedire che la mente pensi. Metteremo la sessualità in prima fila tra gli interessi umani, come tranquillante sociale non c’è niente di meglio.
Si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di girare in derisione tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza, in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana e il modello della libertà. Il condizionamento produrrà così da sé una tale integrazione, che l’unica paura - che bisognerà mantenere - sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie per la felicità.
L’uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere sorvegliato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di addormentare la sua lucidità è socialmente buono, ciò che minaccia di svegliarlo deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto. Qualsiasi dottrina che metta in discussione il sistema deve prima essere designata come sovversiva e terroristica e chi la sostiene dovrà poi essere trattato come tale."
L’uomo è antiquato? Günther Anders e la scena attuale *
Siamo tutti “umani”
di Pier Aldo Rovatti (Aut Aut, 14 marzo 2023, pp. 98-99)
Sulla scia del libro di Günther Anders (1956!), se dobbiamo ancora cercare di rispondere alla domanda se l’“uomo è antiquato” (alla quale reagiamo al tempo stesso con un sì e con un no), significa che non riusciamo a prenderla sul serio, forse perché può sembrarci troppo vaga. Credo che un modo per non scivolare in considerazioni generiche - per quanto “filosoficamente” attrezzate - sarebbe quello di entrarci dalla porta del linguaggio, cioè lavorando storicamente e criticamente sul senso da attribuire alla parola “uomo”. Ma se il sostantivo resta ovviamente decisivo (che cosa voleva dire in passato, cosa può indicarci nel nostro presente), potrebbe essere più utile cominciare da quell’aggettivo “umano” che adoperiamo comunemente.
La parola “uomo” potremmo addirittura scriverla con l’iniziale maiuscola e maneggiarla spostandola, come ormai accade nei discorsi che vogliono essere più “tecnici”, nell’equivalente anthropos (ancor più che nel latino homo) che preleviamo dal greco antico, come avviene per esempio nel caso della parola antropologia. Così ci sembra di correggere la vaghezza del termine con qualcosa di più preciso e specifico che ci dà l’illusione di restare nel mondo dei fenomeni visibili e studiarli senza fughe nella genericità.
L’uso corrente dell’aggettivo “umano” ha solo una debole parentela con la cultura dell’Umanesimo, alla quale torniamo molto spesso con grande interesse e anche nostalgia, come si verifica nella caratterizzazione (non solo universitaria) dei cosiddetti studi umanistici. Indicare un gesto come umano, inoltre, non significa neppure chiamare ogni volta in causa l’idea complessiva di umanità. Semmai è quest’ultimo termine che viene abbassato a un comportamento gentile opposto specularmente al suo contrario, cioè alla disumanità di un atto quotidiano.
Propongo allora di indebolire le accezioni alte di Uomo, sia scientifiche sia di rilevante impatto storico-culturale, tutte centrate sull’affermatività di un concetto generale ed eventualmente sulla sua perdita di valore, o magari sulle varianti attraverso cui ne riaffermiamo l’attualità.
Ricordate Fracchia, il personaggio comico creato da Paolo Villaggio, che si rivolge al suo capoufficio dicendogli: “Come è umano lei”? Proviamo a compararlo con le serissime e decisive pratiche “umanitarie” di cui leggiamo e sentiamo ogni giorno a proposito dei gesti che si contrappongono alle nequizie dello scenario
storico contemporaneo (razzismo e guerre in primis, ma sono tante e spuntano di continuo attorno a ciascuno di noi). Questo umanitarismo ha molta importanza, non possiamo chiudere gli occhi
o girarci dall’altra parte perché ci siamo dentro tutti: considerando
la questione da questa prospettiva, l’uomo è tutt’altro che antiquato, anzi è presso di noi, nessuno escluso, ogni momento.
Talmente poco invecchiato che la soglia di umanità di ogni
gesto resta un indicatore fondamentale del nostro esser-ci (per
dirla con Heidegger). E qui, però, iniziano le differenze e le
distinzioni, qui si collocano anche atteggiamenti ipocriti e variamente furbi per attribuire a sé e agli altri discutibili patenti di
umanità.
Ecco perché mi sono permesso di ricordare la battuta di Villaggio, la quale innesca un problema che forse ci fa capire meglio quale sia l’elemento che oggi può rendere oscillante l’idea di uomo, non nell’ipotetica fase del suo tramonto, piuttosto nella comprovata dinamica delle sue funzioni. Abbiamo più che mai bisogno di essere umani e umanitari, cioè “buoni” verso gli altri e quindi premianti verso noi stessi: è una delle molle vitali che ci tiene in piedi. Ma questa esperienza, da cui nessuno sembra potersi sottrarre, può essere giocata e manipolata in molti modi.
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L’uomo è antiquato? Günther Anders e la scena attuale
a cura di Micaela Latini e Vallori Rasini
Vallori Rasini Uomo e mondo in Günther Anders
Micaela Latini Le persone e le cose. Anders lettore di Rodin
Natascia Mattucci Il potere delle parole. Lingua e politica
Rossella Bonito Oliva Il dislivello prometeico e l’elaborazione estetica del lutto
Stefano Velotti Il nucleare tra orrore e seduzione
Fabio Polidori Distanze
Francesca R. Recchia Luciani Alfabetizzazione sentimentale e immaginazione empatica: Günther Anders e Hannah Arendt
Pier Aldo Rovatti Siamo tutti “umani”
Beatrice Bonato In ritardo sul (nostro) futuro
Marco Pacini L’uomo è inadeguato
Andrea Muni Un lusso tragicomico della Terra
Edoardo Greblo L’uomo non è antiquato. L’esempio dei diritti umani
VARIA
Sergio Benvenuto Freud e il godimento della guerra
Silvia Capodivacca Kazantzakis. Un periplo nietzschiano
Francesco Postorino Il “Sì” tra la vita e il sovrasensibile. Nietzsche e Capitini
Luigi Azzariti Fumaroli Michel Tournier. Fenomenologia dell’Impersonale
Pax Christi.
«Abolire subito le armi nucleari, anche l’Italia firmi il trattato»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 5 agosto 2020)
«Immorali». Non aveva usato mezzi termini papa Francesco in Giappone lo scorso novembre per condannare gli armamenti nucleari e il loro potere distruttivo che hanno lasciato un segno indelebile ad Hiroshima e Nagasaki dove il 6 e il 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche americane.
Le parole del Pontefice, la sua «condanna» della minaccia nucleare, la denuncia dell’«affronto mortale» che mina non solo il benessere della terra ma anche il rapporto con Dio tornano nella lettera aperta che Pax Christi invia alla Cei in occasione del 75° anniversario dei bombardamenti atomici in Giappone dove sollecita i vescovi italiani a chiedere al Governo di firmare il trattato sul bando totale delle armi atomiche approvato dall’Onu nel 2017.
Il testo «ha un sempre più crescente sostegno mondiale», scrivono il vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, e don Renato Sacco, rispettivamente presidente nazionale e coordinatore nazionale di Pax Christi. Tuttavia, aggiungono, «per diventare effettivo c’è bisogno di altre firme per superare la soglia necessaria di cinquanta Stati. Il Vaticano lo ha da tempo ratificato e le Conferenze dei vescovi cattolici di Giappone e Canada hanno chiesto ai loro esecutivi di fare altrettanto».
In Italia, invece, il tema sta passando sotto silenzio. «Nel nostro Paese - racconta don Sacco ad Avvenire - esistono due siti che ospitano ordigni nucleari: Aviano, in provincia di Pordenone, e Ghedi, nel Bresciano. Non sappiamo quanti siano ma il loro potenziale è di gran lunga più elevato di quello impiegato nel 1945. E, come dice il Papa, non va censurato solo l’uso ma anche il possesso».
Don Sacco ricorda il cartoncino fatto distribuire da Bergoglio a fine 2017 con la foto di un bambino di 10 anni che trasportava sulle spalle il cadavere del fratellino ucciso dalla bomba a Nagasaki. «Il Papa aveva scritto: “Il frutto della guerra...”. La tragedia avvenuta in Giappone è un monito per l’oggi, un grido sempre più attuale».
La lettera del Movimento cattolico per la pace prende spunto dall’emergenza Covid per riflettere sulla piaga atomica. «Le conseguenze dannose della pandemia impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare», affermano Ricchiuti e Sacco. E spiegano che, mentre si cerca un vaccino al virus, «stiamo sperimentando come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria».
Ancora. «Di fronte al coronavirus le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, ammonisce la Croce Rossa internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati».
Ecco il richiamo. «La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. A 75 anni dagli avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki è giunto il tempo per rifiutare questa logica di reciproca distruzione e costruire una vera sicurezza».
Pax Christi chiarisce che in caso di una guerra nucleare, «anche se limitata», la vita sul pianeta «sarebbe messa in grave pericolo». Serve allora eliminare gli armamenti atomici. «Ma - conclude il movimento - la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con l’estinzione totale».
Da Hiroshima a oggi, la corsa agli armamenti
«Guerra Nucleare. Il giorno prima» di Manlio Dinucci, edito da Zambon. È la storia di una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 20.02.2018)
La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» - il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare - è stata spostata da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2 minuti nel 2018. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.
Sembra di vivere in un film, in particolare in The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’Urss e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.
Questa la presentazione (e motivazione) del libro di Manlio Dinucci Guerra Nucleare. Il giorno prima (Zambon Editore, pp.304, euro 15). Il testo, molto documentato e allo stesso tempo di agevole lettura, ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione su questo tema di vitale importanza.
UNA STORIA, quella della Bomba, che potrebbe mettere fine alla Storia: per la prima volta è stata creata nel mondo una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema. Dal 1945, l’anno in cui con il bombardamento atomico Usa di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari, al 1991, l’anno in cui la disgregazione dell’Unione Sovietica segna la fine della guerra fredda, vengono fabbricate circa 125mila testate nucleari con una potenza complessiva equivalente a quella di oltre un milione di bombe di Hiroshima. In stragrande parte dagli Stati uniti e dall’Unione sovietica, il resto da Francia, Gran Bretagna, Cina, Pakistan, India, Israele e Sudafrica (l’unico paese che rinuncerà in seguito a tali armi). Più volte si corre il rischio di una guerra nucleare per errore, mentre i test nell’atmosfera e le fuoriuscite di radioattività provocano enormi danni ambientali e sanitari.
Con la fine della guerra fredda, i trattati vengono sempre più svuotati di reale contenuto fondamentalmente a causa del tentativo degli Stati uniti di accrescere il loro vantaggio strategico sulla Russia. E mentre la Nato si espande fin dentro il territorio dell’ex Urss, e le forze statunitensi e alleate passano di guerra in guerra presentata ai subalterni governati e teleguidati spesso come «umanitaria» (Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia e altre), la corsa agli armamenti nucleari, trainata dagli Stati uniti, si sposta sempre più dal piano quantitativo a quello qualitativo, ossia sul tipo di piattaforme di lancio (da terra, dal mare, dall’aria e probabilmente anche dallo spazio esterno) e sulle capacità offensive delle testate nucleari. Nel frattempo si aggiunge alle potenze nucleari la Corea del Nord.
SI ARRIVA COSÌ alla fase odierna, resa ulteriormente pericolosa dalla nuova dottrina nucleare degli Stati uniti. Dalla strategia della «mutua distruzione assicurata» (il cui acronimo Mad equivale alla parola inglese «pazzo») - adottata durante la guerra fredda quando ciascuna delle due superpotenze sapeva che, se avesse attaccato l’altra con armi nucleari, sarebbe stata a sua volta distrutta - il Pentagono passa alla strategia del first strike (primo colpo), cercando di acquisire la capacità di disarmare la Russia con un attacco di sorpresa. Grazie alle nuove tecnologie - scrive Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani - la capacità distruttiva dei missili balistici Usa si è triplicata.
ARMI NUCLEARI, sistemi spaziali, aerei robotici e cyber-armi vengono sempre più integrati, insieme ai mezzi di guerra elettronica e allo «scudo anti-missili», installato ormai in Polonia e con riarmo atlantico di tutti i Paesi dell’est, vale a dire dell’ex Patto di Varsavia che si è da tempo sciolto, nel 1995, mentre la Nato non solo non si estingue ma diventa sempre più l’unica sede della politica estera dell’inesistente Unione europea. Come contromisura la Russia sta rimuovendo sempre più i missili balistici intercontinentali dai silos, vulnerabili da un first strike, installandoli su lanciatori mobili tenuti costantemente in movimento per sfuggire ai satelliti militari e a un eventuale attacco missilistico di sorpresa.
Nel crescente confronto nucleare l’Italia - che sembra vivere nella «tranquilla» cittadina del Kansas del film Day after - è in prima fila, avendo sul proprio territorio bombe statunitensi B-61 che, dal 2020. saranno rimpiazzate dalle ancora più pericolose B61-12.
OCCORRE BATTERSI in campo aperto perché l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione, imponendo agli Stati uniti di rimuovere immediatamente le loro armi nucleari dal nostro territorio nazionale, e contemporaneamente perché l’Italia, liberandosene, aderisca al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari. Questo è l’unico modo concreto che abbiamo in Italia per contribuire alla eliminazione delle armi nucleari dalla faccia della Terra. A proposito: c’è qualcuno che nei programmi elettorali ha questo all’ordine del giorno? Sarebbe, tra le poche l’unica promessa accettabile. Finché siamo in tempo, il giorno prima.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Trovato relitto dell’incrociatore Uss Indianapolis, trasportò pezzi della bomba atomica di Hiroshima *
È stato ritrovato parte del relitto dell’incrociatore americano Uss Indianapolis, la nave che trasportò l’uranio impiegato nella costruzione della bomba atomica lanciata su Hiroshima. La scoperta, a quanto riferisce il sito della Cnn, è stata fatta da un team di ricercatori guidato dal co-fondatore di Microsoft, Paul Allen, che ha rintracciato il rimorchio dell’incrociatore sul fondo dell’Oceano Pacifico, a 18.000 piedi di profondità (poco più di 5.400 metri).
Un ritrovamento che segna un punto di svolta in uno dei più tragici disastri della storia navale statunitense. «Dobbiamo mostrare grande umiltà - ha detto Allen - per onorare gli uomini coraggiosi della Uss Indianapolis e le loro famiglie attraverso la scoperta del relitto di una nave che ha avuto un ruolo così importante nella fine della seconda guerra mondiale. Come americani, abbiamo tutti un debito di gratitudine nei confronti dell’equipaggio, per il coraggio, la determinazione e lo spirito di sacrificio mostrati di fronte a circostanze terribili», ha concluso.
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La Uss Indianapolis venne affondata il 30 luglio del 1945 da due siluri lanciati da un sottomarino giapponese, mentre si dirigeva verso l’arcipelago delle Filippine dopo avere consegnato nella base Usa di Tinian, il 26 luglio, la carica di uranio per la bomba di Hiroshima.
La nave affondò in 12 minuti senza neppure riuscire a lanciare un segnale di richiesta di soccorso e per i circa 900 dei 1.196 marinai dell’equipaggio, che erano riusciti a buttarsi a mare, iniziò un dramma che durò circa una settimana. La maggior parte di loro, infatti, morì per annegamento, per disidratazione o per gli squali. Solo 316 sopravvissero e di questi 22 sono ancora vivi. La storia della Uss Indianapolis è diventata un film diretto da Mario Van Peebles, con Nicolas Cage e Tom Sizemore, nelle sale italiane dal 19 luglio scorso.
HIROSHIMA SUL LUNGOMARE DI NIZZA. BREVE DISCORSO SUL NOSTRO ORRORE QUOTIDIANO E SUI COMPITI DELL’ORA
1. Ovunque e’ Hiroshima
In ogni luogo si puo’ essere sterminati.
Esistono armi cui non si puo’ sfuggire, e poteri assassini disposti ad usare quelle armi contro chiunque. L’umanita’ e unificata nel segno del dolore e della paura.
E questa violenza che dall’alto incombe su tutti, tutti contagia, e dagli eserciti passa alle milizie, dalle milizie alle mafie, e dai criminali ai reietti, dagli emarginati senza speranza alle persone fino a ieri integrate o equilibrate che un giorno il delirio offusca o la sventura abbatte e precipita nella sofferenza piu’ inesorabile e nel rancore che null’altro desidera se non che altri soffrano anch’essi, che anche ad altri sia strappato ogni bene, e di ogni bene il fondamento: la nuda vita.
E questa violenza trova sempre un’ideologia, infinite ideologie, che la giustifichino, che la glorifichino; e che effettualmente inducono esseri umani oppressi e infelici, o illusi e avidi, a farsi assassini.
I poteri imperiali hanno le atomiche, i proiettili a uranio impoverito, il fosforo bianco, i droni, gli equipaggiamenti robotici. Ma basta un mitra, una pistola, una daga. O anche: un aereo, un camion, un coltello per tagliare il pane che alla bisogna anche le gole squarcia, le nude mani del marito e del fidanzato.
*
2. La guerra ha raggiunto le nostre citta’
Fino a ieri i nostri governi - ed i potentati economici di cui sono asservita espressione - compivano o commissionavano stragi altrove, ma strage dopo strage la piena del fiume di sangue ha rotto gli argini dilagando ovunque, il massacro sta arrivando nei nostri quartieri, nei nostri bar, nella redazione del giornale da ridere, nel locale del concerto pop, nel ristorante degli imprenditori, sulla passeggiata della festa, e alle stazioni dei treni, negli aeroporti, dinanzi agli stadi.
Questo terrorismo cellulare e artigianale che raggiunge le nostre citta’ e’ il nostro terrorismo coloniale e imperiale che in un movimento pendolare ritorna e ci investe. Ne e’ il prodotto diretto. Pochi giorni fa i mass-media davano notizia dell’uccisione di uno dei principali capi dell’Isis, detto "il ceceno", ed aggiungevano con noncuranza che era stato addestrato dagli americani. La carriera di terrorista di Bin Laden inizio’ in Afghanistan finanziata dagli Usa. La nascita dell’Isis e il suo radicamento territoriale (con la sua enorme efficacia in termini propagandistici, di reclutamento e di possibilita’ di addestramento e armamento) e’ conseguenza diretta delle nostre infamissime e scelleratissime guerre che hanno destrutturato l’Iraq, la Siria, la Libia.
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3. Aprire gli occhi
Certo, noi vediamo solo le stragi che avvengono dove i nostri telefonini le riprendono, le nostre televisioni le trasmettono. E non vediamo il massacro quotidianamente eseguito dai nostri aerei, le nostre bombe, i nostri armamenti venduti ed usati nei continenti delle dittature e della fame, della schiavitu’ e della desertificazione, della rapina imperialista e razzista.
Certo, noi ci sentiamo il cuore spaccato quando muore un nostro concittadino, e non vediamo le innumerevoli vittime delle nostre guerre, che consentiamo che siano chiamate "missioni di pace", che arricchiscono il "made in Italy" dei mercanti di morte, e neppure ci accorgiamo che i milioni di esseri umani in fuga dall’Africa e dall’Asia che muoiono nei lager turchi e libici, che muoiono nel braccio di mare tra l’Anatolia e Lesbo, che stanno colmando di cadaveri il Mediterraneo, sono i nostri governi a trucidarli, in una immane mattanza. L’orrore e’ tale che non lo percepiamo piu’.
*
4. Tornare a sentire, tornare a pensare
Questo dovremmo innanzitutto fare: tornare a sentire, tornare a pensare.
Tornare a pensare alla condizione umana nell’eta’ atomica con Guenther Anders, tornare a pensare alle tre verita’ di Hiroshima di cui ci parlava Ernesto Balducci, tornare a pensare i nostri pensieri in dialogo con i pensieri di Mary Wollstonecraft, di Karl Marx, di Rosa Luxemburg, di Virginia Woolf, di Simone Weil, di Mohandas Gandhi, di Hannah Arendt, di Emmanuel Levinas, di Nelson Mandela, di Wangari Maathai, di Franca Ongaro Basaglia e di Luce Fabbri.
Riconoscere che ogni vittima ha il volto di Abele.
Riconoscere che vi e’ una sola umanita’, che esiste nella pluralita’ di esseri umani tutti diversi e tutti eguali in dignita’ e diritti, tutti ugualmente bisognosi di aiuto, tutti ugualmente viventi in quest’unico mondo vivente casa comune dell’umanita’, tutti ugualmente esposti al dolore e alla morte e quindi tutti in diritto di ricevere aiuto e tutti in dovere di recarlo altrui.
Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni. Giacche’ togliere la vita ad un essere umano (ovvero rapinarlo di quell’unico bene senza del quale nessun altro bene si da’) significa ed implica negare l’umanita’ di tutti e di ciascuno, anche la propria.
Opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni. Giacche’ negare la dignita’ umana di qualcuno significa ed implica estinguerla in tutti, innanzitutto in se stessi.
Opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni. Sapere che l’oppressione maschile che spacca in due l’umanita’ e pretende ridurre meta’ dell’umanita’ a servo e merce e cosa e possesso - e che cosi’ disumanizza l’umanita’ intera, nelle vittime e nei carnefici - e’ la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza.
Opporsi al totalitarismo e alla schiavitu’, opporsi alla violenza non solo nei confronti degli altri esseri umani, ma anche nei confronti degli esseri viventi e del mondo vivente tutto, quest’unico mondo vivente di cui siamo parte, quest’unico mondo vivente in cui possiamo vivere.
Ricordarsi di essere fallibili.
*
5. Cosa occorre fare subito
Abolire le armi.
Abolire gli eserciti.
Soccorrere, accogliere, assistere tutte le persone bisognose di aiuto.
Nei luoghi della sofferenza recare aiuti umanitari: tutto e’ interconnesso, tutto e’ interdipendente.
Del sapere e della tecnica fare uso non piu’ per opprimere e rapinare e asservire altri, ma per recare assistenza e giovamento.
Educare al rispetto di se’ e quindi al riconoscimento degli altri e quindi alla riconoscenza per gli altri, all’empatia ed alla responsabilita’. Educare alla consapevolezza che la civilta’ umana e’ un cammino unitario e un compito comune, che l’umanita’ e’ plurale e una, che ogni persona deve sentirsi responsabile di tutto.
Avere sempre come primo criterio di giudizio la liberta’ delle donne: dove sono negati, misconosciuti o violati i diritti umani delle donne, li’ e’ gia’ il fascismo.
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di muoversi su quest’unico mondo casa comune.
Prendere le decisioni che tutti riguardano sempre e solo col consenso di tutte le persone coinvolte.
Tutto cio’ puo’ esser detto con una sola parola: nonviolenza.
*
6. Solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’
Chiamiamo nonviolenza la lotta che a tutte le violenze si oppone ed opera in modo concreto e coerente affinche’ tutte le vite siano riconosciute, difese, salvate.
Chiamiamo nonviolenza la lotta delle oppresse e degli oppressi per la liberazione comune dell’umanita’ e la preservazione della biosfera.
Chiamiamo nonviolenza la consapevolezza che solo facendo il bene ci si puo’ opporre al male, solo salvando le vite si contrasta la morte, solo agendo umanamente si resta umani.
Trattare l’umanita’ con umanita’: tu sei il prossimo del tuo prossimo.
Questa e’ la politica necessaria, la sola politica adeguata alla tragica ora presente dell’umanita’.
Questo e’ l’unico modo per non dimenticare tutte le vittime.
Rispetto per la vita, forza della verita’, amore per il mondo: solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’ dalla catastrofe.
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 15 luglio 2016
Mittente: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, -e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
Hiroshima, Kerry: "Guerra ultima risorsa"
Storica visita al Memoriale che apre la strada a Obama
di Redazione ANSA *
Il segretario di Stato americano John Kerry è giunto al Parco della Pace di Hiroshima, diventando il più alto rappresentante di un’amministrazione Usa a visitare il Memoriale dedicato alle vittime della bomba atomica sganciata dagli Stati Uniti il 6 agosto del 1945. Kerry è nella città nipponica per la riunione di due giorni dei ministri degli Esteri del G7.
"Ognuno nel mondo dovrebbe vedere e sentire la forza di questo memoriale. E’ un crudele, duro e stringente monito non solo per i nostri doveri a porre fine alla minaccia delle armi nucleari, ma anche per ridedicare i nostri sforzi per scongiurare la guerra in se’: la guerra deve essere l’ultima risorsa, mai la prima scelta". E’ il messaggio scritto dal segretario di Stato americano John Kerry nel libro degli ospiti del Museo dell’atomica del Parco della Pace di Hiroshima.
"Questo memoriale ci obbliga tutti a raddoppiare gli sforzi per cambiare il mondo, trovare la pace e costruire un futuro tanto desiderato ovunque per i nostri cittadini", ha aggiunto Kerry nel suo messaggio. Il segretario di Stato ha visitato il Parco della Pace e deposto fiori al cenotafio dedicato alla memoria della vittime. Anche Philip Hammond e Jean-Marc Ayrault - rispettivamente a capo delle diplomazie di Regno Unito e Francia, le altre due potenze nucleari del G7 insieme agli Usa - si sono recati al Parco per la prima volta in oltre 70 anni nella veste di ministri degli Esteri dei rispettivi Paesi. A completare la storica visita, i ministri degli Esteri nipponico, Fumio Kishida, deputato di Hiroshima, di Germania, Italia e Canada, rispettivamente Frank-Walter Steinmeier, Paolo Gentiloni e Stephane Dion, e l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini. Tutti i leader dei Sette Grandi si sono poi recati al Duomo dell’Atomica, indossando le collane fatte con le gru di carta, diventate il simbolo anti-nucleare, riproducendo i colori delle bandiere dei singoli Stati. Quale unico Paese ad aver sofferto l’orrore distruttivo degli ordigni atomici, il Giappone è da anni impegnato in una campagna internazionale contro la non proliferazione e a favore del disarmo: tre giorni dopo la bomba su Hiroshima del 6 agosto del 1945 che causò 140mila vittime, gli Usa ne sganciarono un’altra su Nagasaki, provocando altre 74mila morti. Il 15 agosto, poi, il Giappone si arrese chiudendo la tragica pagina della Seconda guerra mondiale.
"Fukushima è come Chernobyl"
Allarme ufficiale dal Giappone
La comunicazione dalla Tepco e dal governo: è stato innalzato al "livello 7" l’incidente nucleare, il massimo raggiungibile. Ma le emissioni sono solo il 10% di quelle registrate nel 1986. "Effetti considerevoli su salute e ambiente". Nuova forte scossa: evacuata la centrale *
TOKYO - L’agenzia giapponese per la sicurezza nucleare ha innalzato al livello massimo di 7 la classificazione dell’incidente nucleare alla centrale di Fukushima seguito al terremoto e allo tsunami dell’ 11 marzo, classificandola al pari del disastro di Chernobyl del 1986, il più grave mai verificatosi. La stima era stata anticipata dagli esperti e dalla stampa giapponese, ma è stata ora ufficializzata. "La perdita radioattiva non si e’ ancora arrestata completamente - ha detto ai giornalisti un funzionario della società - e la nostra preoccupazione è che possa anche superare Chernobyl". L’agenzia ha comunque precisato che il livello delle emissioni radioattive registrato dall’inizio dell’incidente equivale solo al 10% di quelle misurate nel 1986 dopo la catastrofe presso la centrale situata in Ucraina.
E questa mattina si è registrata una nuova forte scossa dopo il terremoto del settimo gradi di ieri. La magnitudo è 6,3 con epicentro proprio nella prefettura di Fukushima. La Tepco, il gestore della centrale nucleare, ha ordinato ai lavoratori di evacuare l’ impianto.
* la Repubblica, 12 aprile 2011
Così Cernobil ha cambiato la nostra vita
di MIKHAIL GORBACIOV (La Stampa, 26/04/2016)
Quasi 70 anni fa un gruppo di scienziati del Progetto Manhattan, dopo aver constatato il potere distruttivo del nucleare, progettò quello che venne chiamato il Doomsday Clock. Un meccanismo concepito per avvisare il mondo della minaccia di un’imminente catastrofe globale. Quest’anno le lancette dell’«orologio dell’apocalisse» si sono fermate a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità.
La stessa posizione in cui si trovavano al culmine della Guerra Fredda. Perché? A livello globale, il numero di testate nucleari ha ripreso a crescere; oltre trenta Paesi sono in possesso di armi nucleari o possono disporne rapidamente; la Corea del Nord manda pericolosi segnali; il furto da parte dell’Isis non è una cosa priva di fondamento. A tutto questo si aggiungono i rischi e gli impatti di una futura Cernobil o Fukushima; gli incidenti all’interno dei siti di stoccaggio o quelli legati alla lavorazione e al trasporto dei materiali nucleari; i cambiamenti climatici, che interessano tutti gli organismi viventi.
Quest’anno ricorre il 30esimo anniversario della catastrofe di Cernobil: il peggior disastro con cui il genere umano si sia mai dovuto confrontare, legato all’incapacità di scienziati e ingegneri di prevedere come problemi apparentemente piccoli possano tramutarsi in disastri di scala quasi inimmaginabile.
A mio parere Cernobil rimane uno dei più tragici incidenti del nostro tempo. Dal momento in cui venni informato telefonicamente - alle 5 del mattino di quel fatidico 26 aprile 1986 - che un incendio era divampato nel Reattore 4 della centrale nucleare di Cernobil, la mia vita non è stata più la stessa. Sebbene in quel momento non si conoscesse la reale entità del disastro, fu subito evidente che stava accadendo qualcosa di orribile.
Le questioni sollevate da Cernobil e ribadite da Fukushima sono oggi più attuali che mai, e sono ancora senza risposta. Come possiamo essere sicuri che le nazioni che possiedono energia nucleare per scopi civili o militari si atterranno alle necessarie misure e norme di protezione? Come possiamo ridurre il rischio che grava sulle generazioni future? Non sarà che stiamo evitando di dare le risposte a queste domande quando tronchiamo il dibattito invocando ragioni di «sicurezza nazionale» o il nostro bisogno illimitato di energia?
Contrariamente a quanto affermano i sostenitori dell’energia nucleare, secondo cui ci sono stati solo due incidenti importanti, se si quantifica la gravità degli incidenti includendo sia la perdita di vite umane sia significativi danni alle strutture, emerge un quadro molto diverso.
Dal 1952 si sono verificati in tutto il mondo almeno 99 incidenti nucleari, che rientrano in questa definizione, con danni che ammontano a oltre 20,5 miliardi di dollari. Vale a dire più di un incidente nucleare ogni anno e danni per 330 milioni di dollari. Tutto questo dimostra che esistono molti rischi non gestiti o regolamentati in modo inadeguato, una cosa che è a dir poco preoccupante, data la gravità dei danni che anche un singolo incidente può provocare.
È fondamentale che qualsiasi discussione sull’energia nucleare venga affrontata sotto tutti i punti di vista e nella sua complessità. Gli impianti nucleari non rappresentano solo un problema di sicurezza, di ambiente o di energia. Ma tutte queste cose insieme. E come Green Cross International sostiene da anni, si tratta di aspetti del medesimo problema che vanno dibattuti nel loro complesso.
Fukushima, Giappone si ferma a sei anni dalla catastrofe
Incognita demolizione centrale, tensione su ’sfollati volontari’
di Redazione ANSA*
Il Giappone si è fermato in un minuto di raccoglimento per ricordare la triplice catastrofe dell’11 marzo 2011 quando il sisma/tsunami e la seguente crisi nucleare di Fukushima si abbatterono sulla parte nordorientale del Paese. Alle 14:46 in punto, le 4:46 in Italia, lungo la costa del Tohoku si sono sentite le sirene di allerta dello tsunami che 6 anni fa, a causa della scossa di magnitudo 9, raggiunse in alcuni punti i 40 metri di altezza e i 15 metri di fronte alla centrale di Fukushima, sufficienti a danneggiare tre reattori e creare la peggiore crisi atomica da Cernobyl.
Secondo gli ultimi dati della polizia nazionale, fino a ieri risultavano 15.893 vittime in 12 prefetture e 2.533 dispersi nel conteggio di sei regioni. L’agenzia per la Ricostruzione, ha reso noto che almeno 2.523 persone sono decedute in 10 prefetture a causa di problemi di salute e altre ragioni per la condizione di evacuati. A distanza di 6 anni, ci sono poco più di 123.000 persone che vivono in alloggi temporanei, in affitto o altre sistemazioni.
A sei anni dalla triplice catastrofe di Fukushima proseguono senza sosta gli sforzi del governo giapponese per il piano di ricostruzione. Ma i costi sono fin qui raddoppiati e resta lontana la demolizione della centrale nucleare duramente colpita dal terremoto-tsunami dell’11 marzo 2011, costato la vita a circa 18.000 persone. Inoltre, si registrano non pochi problemi sugli ’sfollati volontari’, che non riceveranno altri sussidi perché considerati non più a rischio.
Sul fronte della bonifica, il livello di radioattività attorno ai reattori 1, 2 e 3 della centrale atomica Daichi è ancora elevato, fino a 300 microsieverts all’ora, e la parete di ghiaccio progettata per isolare le falde acquifere dal liquido contaminato non funziona ancora a pieno regime. Dopo aver continuato a raffreddare la centrale, iniettando centinaia di tonnellate di acqua nelle vasche di contenimento, la società di gestione dell’impianto, la Tokyo Electric Power (Tepco), riconosce che il lavoro più delicato inizia adesso: l’estrazione del magma radioattivo, ossia il prodotto della fusione del nocciolo del reattore. I lavori di demolizione della centrale, secondo i programmi, non finiranno prima del decennio 2041-2051. La revisione al rialzo delle spese prodotte dalla catastrofe hanno costretto il governo di Tokyo a estendere il controllo della Tepco per un periodo più lungo del previsto. Le stime per smantellare la centrale, le operazioni di bonifica e gli indennizzi alla popolazione colpita dal disastro, sono quasi raddoppiati, superando la cifra di 188 miliardi di dollari, l’equivalente di 178 miliardi di euro.
Dopo 6 anni l’ordine di evacuazione all’interno della prefettura di Fukushima - la terza più grande del Giappone - riguarda ancora il 5% del territorio, ha indicato il ministro delle Ricostruzione Masahiro Imamura, un’estensione di 726 chilometri quadrati. I dati aggiornati al gennaio 2016 riscontrano un numero di sfollati pari a 127.000, da un picco di 470 mila. Alla fine dell’anno scorso le persone sgombrate che vivevano in alloggi temporanei ammontavano a 98.400, mentre gli ’sfollati volontari’ dalla prefettura di Fukushima erano 18.000 Un termine quest’ultimo, che ha inasprito il dibattito tra l’opinione pubblica e l’apparato statale. Dal marzo 2017 - infatti - i residenti che non intendono tornare nei paesi localizzati attorno alla centrale nucleare, non più considerati a rischio dal governo, non riceveranno più i sussidi. Molte delle persone - perlopiù madri con bambini - già separate dai mariti che invece hanno deciso di rimanere a Fukushima per motivi di lavoro - si troveranno ad affrontare ulteriori spese. Le incomprensioni sulla situazione critica degli ’sfollati volontari’ hanno dato origine recentemente a una serie di casi di bullismo che riguardano prevalentemente i bambini delle famiglie di sgombrati. Parte della società ritiene inoltre che gli ’sfollati volontari’ abbiano ricevuto un compenso sufficientemente equo dalla Tepco, oltre ai vari indennizzi per l’incidente.
Un’altra questione che preoccupa le associazioni di attivisti, sono i casi di ’kodokushi’, le morti in solitudine delle persone anziane negli alloggi temporanei. Dal marzo 2011, in base ai dati della polizia, sono state 230 le persone vittime di abbandono, oltre la metà delle quali con oltre 65 anni di età. Un sondaggio del canale pubblico Nhk evidenzia come il 60% degli interpellati tra i sopravvissuti e gli sfollati, accusi problemi psicologici legati a strascichi depressivi e casi di insonnia prolungata, oltre a sintomi di affaticamento fisico e la costante assunzione di medicinali. Secondo il professore Reo Kimura dell’Università di Hyogo, della facoltà di Scienze Umane e Ambiente, i sopravvissuti che non sono stati in grado di ritornare alle proprie abitazioni, o capaci di mettere in ordine le proprie esistenze, continueranno a vivere con un senso di frustrazione e isolamento. Da qui la necessità per il governo e le associazioni di volontari di occuparsi dei singoli casi su base individuale.
Die Zeit, Hamburg - 16 marzo 2011
Editoriale
Politica dell’atomo
Insegnamento dal Giappone per il mondo
Adesso l’umanità deve cambiare modo di pensare.
A questo fine non occorre neppure avere compassione, basta già l’intelletto.
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
http://www.zeit.de/2011/12/japan-kernenergie-leitartikel
I giapponesi ci sono estranei, molto estranei. La loro lingua, la loro cultura, la loro padronanza di sé, il loro aspetto. Eppure vi è un livello di sofferenza che rende simili tutte le persone. Questo livello è ora raggiunto, anzi, superato. Squassati dal terremoto, colpiti dallo tsunami, minacciati da radiazioni mortali - ognuno si può raffigurare che cosa tutto questo significhi. Le persone non sanno a chi dovrebbero rivolgersi, non trovano più loro congiunti, hanno sete e hanno paura del ticchettio dei contatori Geiger. Nessuno deve tradurci tutto questo, per quanto lontano arrivi la nostra fantasia, a tanto giunga anche l’amore per il prossimo. Ma quanto a lungo esso sarà sufficiente, per quante settimane o mesi?
Il mondo è stato interrotto dalla catastrofe giapponese nel mezzo di un’altra partecipazione al dolore, quella per le migliaia di vittime del tiranno Gheddafi. Il quale sembra ora conseguire una sporca vittoria, all’ombra di Fukushima. Non siamo forse più in condizioni se non di provare una vagante compassione, inaffidabile, sleale? Oppure siamo semplicemente super logorati da troppo mondo, da troppe vicinanze globali? Gli avvenimenti dell’ultima settimana non permettono qui di dare una rapida risposta, ma esigono innanzitutto una precisa analisi.
Ciò che è sbagliato in Giappone, non può essere giusto qui da noi No, Fukushima non è Cernobyl, perché stavolta non si tratta di un reattore ferrovecchio in una dittatura al tramonto, si tratta di un reattore a ebollizione, come ve ne sono anche in questo Paese [la Germania], e gli incidenti avvengono in un Paese democratico, tanto avanzato tecnicamente quanto lo sono la Germania o la Francia, Paesi al vertice della tecnologia. Ciò che è sbagliato in Giappone non può essere giusto qui da noi.
No, ancor meno questo dipende dalla natura. Essa fa ciò che nei casi estremi fa con determinazione, colpisce spietatamente. Eppure tutto questo lo si sarebbe potuto prevedere, mentre il governo giapponese fino a questo 11 marzo 2011 ha sempre detto che le sue centrali elettriche nucleari sono sicure, così come dice anche il nostro governo. Ma l’affermazione significa che le centrali sono sicure, che lo sono sempre, indipendentemente da quale disastro naturale ha effettivamente luogo.
Eh no, qui non si tratta solamente dell’energia atomica, qui al progresso si è spezzato l’apice. Forse l’11 marzo questo secolo è giunto alla fine di un ottimismo disinibito, infantile, anche immaturo. Da lungo tempo esso era tormentato dai dubbi e fuggiva pur sempre [in avanti] nel prossimo livello del progresso [tecnologico]. Dal carbone al petrolio, dal petrolio all’energia atomica. Questo ottimismo riteneva che tutti i problemi, anche quelli causati dalla tecnologia, presto o tardi sarebbero potuti essere risolti dalla tecnologia stessa. La rappresentazione dell’autolimitazione, della rinuncia a determinate tecnologie, tutta l’idea dell’ingovernabilità si fece bensì strada nel pensiero del mainstream, ma se ne temettero le conseguenze pratiche.
Anche il governo tedesco è impregnato da questo vecchio modo di pensare, non ultima la Cancelliera. Ella ha sempre guardato all’energia atomica come farebbe un’esperta di fisica e ciò le ha fornito un’aura di obiettività. Anche adesso, nell’ora delle sue difficoltà politiche, ella vede ancora la soluzione nella scienza. «La sicurezza sta sopra a tutto», ha detto per giustificare il suo cambiamento di rotta, l’abbandono dall’abbandono dell’abbandono [ndt.: dell’energia atomica, si allude qui ai numerosi voltafaccia della Merkel negli ultimi giorni]. Ma questo non funziona, in Germania tanto meno che in Giappone. Laggiù le centrali nucleari erano calcolate per terremoti fino a forza 8, sono state colte da una forza 9.
Ora, perché la politica giapponese si è accontentata di questo standard di sicurezza? Perché un terremoto di forza 9 è dieci volte più devastante di uno di forza 8 e perché i costi della relativa tecnologia di sicurezza sarebbero aumentati in misura esponenziale. Ciò avrebbe reso l’elettricità dall’atomo più costosa delle altre energie e ridotto radicalmente i profitti dei gestori. Per questo motivo dall’esame approfondito delle centrali elettriche nucleari tedesche, adesso promessoci, può risultare tutto il possibile, solamente non potrebbero mai essere tanto sicure da non diventare troppo costose. La sicurezza pertanto non sta totalmente al disopra, essa in ogni caso va di pari passo col calcolo economico. Il rischio residuale e il profitto sono agganciati l’uno all’altro, l’uno aumenta con l’aumentare dell’altro.
Verosimilmente i giapponesi si sono fidati del loro governo, presumibilmente hanno pensato che esso lo avrebbe detto loro, se l’energia prodotta con l’atomo fosse entrata nella zona di profitto marginale, se fosse diventata o non sicura o non redditizia in misura eccessiva. Questa speranza è stata tradita. E adesso qui da noi? Ci si deve fidare di questo governo nero-giallo [ndt.: dai colori dell’attuale coalizione in Germania]? Che pure senza necessità ha deciso di prolungare il periodo di attività dei reattori nucleari più vecchi e più pericolosi. Perché il governo lo ha fatto? Perché questi reattori da rottamare erano irrinunciabili come tecnologia-ponte verso l’età delle energie rinnovabili? Ma se essi lo sono anche adesso, allora nello stesso tempo ci si poteva risparmiare la moratoria [ndt.: attuale, incandescente polemica circa la sospensione per tre mesi delle centrali più vecchie]. Purtroppo molti elementi suggeriscono il pensiero che il governo Nero-Giallo voleva soltanto dare qualcosa all’industria dell’atomo, da tutto ciò parrebbe che le somme enormi, infilate nella lobby atomica, abbiano fruttato qualcosa [ndt.: maligna insinuazione?].
Quella dell’atomo è la più pericolosa tecnologia che questo Paese utilizza. E nonostante ciò mai c’è stata una consultazione popolare [referendum] su questa materia. Adesso, a causa di quelle terribili catastrofi in Giappone, ci sarà questo referendum. Angela Merkel ha voluto far diventare l’elezione del Consiglio regionale del Land Baden-Württemberg un plebiscito sulla stazione ferroviaria di Stoccarda [ndt.: v. opposizione popolare a progetto di nuova stazione con distruzione di un parco], adesso è divenuta una votazione sull’indirizzo preso dalla Merkel circa l’atomo. Non perché l’opposizione lo vuole, ma perché al momento non vi è argomento più importante. Inoltre la costellazione [di posizioni] a Stoccarda è ideale per un plebiscito reale. Entrambi i partiti al governo sono entusiasti alfieri dell’energia dall’atomo, tutti i partiti dell’opposizione sono per una riduzione dei tempi di funzionamento.
E dopo, e dopo tutto va nuovamente bene, se fra due domeniche finalmente viene decisa l’uscita più veloce possibile[dall’atomo]?
Come si è detto, non si tratta solamente di energia nucleare. Chi ha tenuto d’occhio la situazione dell’ultimo week-end noterà che ha avuto luogo non soltanto una delle maggiori catastrofi del nostro tempo, ma anche la più grande concentrazione di avvenimenti drammatici da decenni a questa parte. In realtà questo fine settimana del 2 marzo avrebbe potuto essere determinato dai titoloni cubitali sul superamento della crisi dell’euro e sul nuovo ordinamento finanziario. Ciò che non è avvenuto, perché la domanda più importante e più urgente era se si dovesse imporre in Libia una no-flight zone. Cosa che retrocesse comunque nello sfondo, perché il Giappone era stato colpito da un terremoto prima, da uno tsunami poi, ciò che un’altra volta è stato coperto dalla catastrofe atomica.
(...)
Il mondo diventa più veloce, più angusto, più vivo, più libero - più pericoloso. E vi è un mondo delle reazioni a catena e degli effetti esponenziali. Da ciò realizzare l’esigenza di un ampio, per così dire miliardario [ndt.: in termini di popolazione mondiale], amore del vicino e del lontano non porterebbe via nulla al sovraccarico, al contrario.
Perciò si dovrebbe provare a considerare questo mondo con occhio freddo. In che cosa quindi ci riguardano gli arabi? Ora, per lo meno, perché ci forniscono petrolio o prossimamente l’energia elettrica dal sole mediante lunghissimi elettrodotti. O perché diventano profughi, quando le rivoluzioni vanno storte. E che cosa abbiamo a che fare noi con i giapponesi, che vivono a 9.000 km di distanza da Berlino? Almeno per il fatto che hanno reattori nucleari che sono maledettamente simili ai nostri.
Non occorre amore per la nuova cittadinanza mondiale, basta già la comprensione.
Tuttavia si potrebbe impazzire di fronte alle nuove esigenze. Quindi dalla catastrofe di Fukushima devono essere tratti insegnamenti di fatto. L’undicesimo comandamento per il moderno cittadino suona così: Non devi azzardare - le poste sono troppo alte, troppe persone ne sono colpite. Anche questo è una diversità rispetto a Cernobyl, qui è non colpito un territorio quasi disabitato. Il disastro riguarda una regione industriale fittamente popolata, se poi le cose volgono al peggio, perfino una delle più grandi città del mondo, Tokyo e i suoi dintorni, con quasi 40 milioni di abitanti.
Che nel campo dell’energia atomica entri in azione il rischio residuale è cosa estremamente improbabile. Ma nel caso di emergenza le conseguenze sono nondimeno estremamente inimmaginabili.
L’altro insegnamento di questi giorni dice: Non puoi essere indifferente. Per decenni si è ignorato e negato ciò che si è accumulato in Arabia e adesso tutto finisce fuori controllo, un Paese appicca il fuoco al suo vicino e alla fine di questo decennio la maggior parte dei potenti dovrebbero essere stati spazzati via.
Sarebbe temerario voler affrontare soltanto con un paio di regole il mondo che diventa più veloce e più complicato. Dunque per ora si possono trarre dalle prime settimane, dense di storia, di quest’anno due cose diverse: ci si deve guardare dai rischi residuali e dagli effetti esponenziali. E: Là dove per lungo tempo non si è osservato correttamente presto o tardi accade qualcosa di temibile.
E: Salvi il Giappone, chi può!
GIAPPONE - LA REAZIONE DEL PAESE
"Noi di Hiroshima sappiamo che l’atomo non è per l’uomo"
Gli ultimi Hibakusa, i superstiti della Bomba, chiedono
la rinuncia al nucleare:
«E’ un’energia disumana»
di ILARIA MARIA SALA (La Stampa, 17/03/2011) HIROSHIMA Hiroshima conosce la forza del nucleare. Prima città al mondo ad essere bombardata con l’atomica, il 6 agosto del 1945, è da allora diventata il simbolo del potere distruttivo di quest’arma. Le fotografie aeree di quei giorni la mostrano appiattita, una manciata di edifici soltanto rimasti ancora in piedi in un vasto, desolato paesaggio di macerie minute come fiammiferi, che si estende da tutti i lati. Ancora oggi, 66 anni dopo, quelle foto così famose lasciano increduli: un solo ordigno, e una devastazione tanto capillare. Da allora, Hiroshima ha saputo ricostruirsi davvero dal nulla, diventando oggi una città molto piacevole, vivace e prospera, con abitanti che uniscono alla proverbiale gentilezza giapponese un fare amichevole, aperto e disponibile.
Certo, avendone avuta la scelta avrebbe volentieri fatto a meno di essere divenuta il simbolo del potere distruttivo della bomba atomica, ma l’Hiroshima odierna sembra aver accettato con grazia la missione che si è data, di adoperarsi per promuovere la pace in ogni modo possibile. Toshiko Tanaka, una bella signora di 73 anni piena di energia e di sorrisi, annuncia subito, appena la si incontra, di essere una hibakusha, una vittima della bomba nucleare. «Avevo 6 anni e dieci mesi. Mi trovavo a 2 chilometri dalla Hall per la promozione industriale (uno dei pochi edifici parzialmente rimasti in piedi, divenuto il famoso Duomo della Bomba-A), e fino a pochi giorni prima abitavo proprio lì vicino. Come molti altri ero stata evacuata. Era una bellissima giornata di sole, e ricordo di aver visto l’aereo passare in cielo. L’ho visto. E ho visto le fiamme scoppiare nella città: poi in un secondo, tutti i miei capelli erano spariti, e avevo le braccia e la schiena ustionate», dice, seria ma con una strana serenità.
«Per noi hibakusha quello che sta succedendo a Fukushima è assolutamente terribile!», esclama: «Dopo la tragedia del terremoto, nessuno poteva immaginare che si sarebbe aggiunto qualcosa di così spaventoso e terribile. Io non sono mai stata per l’energia nucleare, perché è evidente che si tratta di qualcosa di molto, molto pericoloso, e questo che vediamo ora ogni giorno in televisione è un incubo tremendo, davvero tremendo». Scuote la testa, allargando gli occhi, e poi respinge le lacrime dicendo: «Penso alle persone che sono lì vicino, esposte al pericolo delle radiazioni, e ho una paura tremenda per loro». Per Haruko Moritaki, direttrice dell’Alleanza di Hiroshima per l’abolizione delle armi atomiche, la questione è molto semplice: «Dalla nostra umile esperienza di Hiroshima, è ovvio che gli esseri umani non possono convivere con la potenza nucleare», dice.
Anche lei era appena una bambina quando la bomba scoppiò, ma era stata evacuata in campagna, e non riportò nessun danno fisico: «Mio padre, però, Ichiro Moritaki, da molti è stato chiamato il padre del movimento anti-nucleare. Era un insegnante, e insieme ai suoi studenti era stato messo a fare lavoro manuale per l’esercito. Venne colpito in pieno viso da una massa di vetri che si spaccarono appena esplose la bomba, e oltre a molte gravi ferite, perse un occhio. Passò sei mesi in ospedale, poi cominciò a dedicarsi agli altri sopravvissuti, in particolare i tanti bambini che chiamiamo gli ‘’orfani della bomba’’. Sono cresciuta con non so nemmeno io quanti altri bambini! Dopo un po’ di titubanza iniziale, quando le forze di occupazione americane cercavano di proporre l’energia nucleare come qualcosa di positivo, di scindere energia nucleare da arma nucleare, mio padre decise di no: questa è una forza troppo pericolosa, non possiamo illuderci di controllarla. Così, noi da Hiroshima chiediamo che non si utilizzi assolutamente nessuna energia nucleare: né armi nucleari, né armi all’uranio impoverito (depleted uranium o du), né energia nucleare», dice Moritaki, trafelata per aver appena finito di scrivere un comunicato stampa su Fukushima, di corsa da un incontro all’altro.
«Quando ho visto quello che stava succedendo ho provato un’ansia terribile, anche perché ci sono così tante centrali nucleari in Giappone! Il mio Paese esporta tecnologia nucleare, da molti anni propone il nucleare come un’energia pulita, ecologica perfino. E’ una follia totale, guarda che incubo si è scatenato, bisogna opporsi in modo molto netto», dice.
E gli attivisti di Hiroshima lo fanno: ieri mercoledì una piccola manifestazione davanti agli uffici della Chugoku Electric City Company, proprio a pochi passi dal Museo del Memoriale della pace e dal Duomo sopravvissuto all’esplosione, chiedeva la sospensione della costruzione di due centrali nucleari nei pressi della città. Organizzata dalla Hiroshima Great Action, composta da alcuni hibakusha, alcuni giovani ecologisti appassionati, e i loro sostenitori, che con un altoparlante si apprestano a un sit-in davanti alla Chugoku cercando di consegnare una lettera. «Lunedì si sono rifiutati di prenderla», spiega Kyoko Taniguchi, «così riproviamo. È lo stesso atteggiamento della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale di Fukushima), arroganza totale, non gliene importa nulla. Ma il nucleare non è sicuro, punto e basta, Fukushima ne è la prova.
Certo, il Giappone ha poche fonti di energia: non abbiamo carbone o petrolio, e l’energia nucleare è producibile su spazi relativamente ridotti. Ma quest’incubo, quest’orrore a Fukushima, che non sappiamo nemmeno come proseguirà, ci insegna quali sono i costi del nucleare! Noi siamo di Hiroshima: abbiamo il dovere di essere in prima linea su questo tema, che è semplice: se non siamo in grado di garantire la sicurezza di quello che facciamo, dobbiamo cambiare strada, non possiamo permetterci altro». Tutti a Hiroshima ripetono la stessa cosa: il nucleare, tutto il nucleare, è troppo pericoloso e l’esperienza lo dimostra.
Paul Tibbets diede il nome della madre all’aereo che il 6 agosto 1945
colpì il Giappone con la bomba ’Little Boy’. Morirono 140mila persone
Usa, morto il pilota dell’Enola Gay
sganciò l’atomica su Hiroshima
"Sono orgoglioso di essere partito dal niente, aver pianificato l’intera operazione
ed essere riuscito ad eseguire il lavoro perfettamente. La notte dormo bene" *
WASHINGTON - E’ morto a 92 anni Paul Tibbets, il pilota del B-29 ’Enola Gay’ che sganciò la bomba atomica su Hiroshima. Tibbets si è spento a Columbus, in Ohio. Lo ha reso noto un portavoce della famiglia.
Tibbets, all’epoca colonnello, diede al bombardiere B-29 Superfortress il nome della madre (dall’eroina di un romanzo). Le cronache raccontano che il comandante regolarmente assegnato dell’aereo si infuriò per essere stato scavalcato da Tibbets per questa importante missione, e diede in escandescenze quando la mattina del 6 agosto, nella base aerea sull’isola di Tinian, nelle Marianne, vide l’aereo dipinto con il nuovo nome. Lo stesso Tibbets, intervistato dopo il bombardamento atomico, confessò il suo imbarazzo per aver associato il nome di sua madre a un’operazione bellica di quel tipo.
La missione fu compiuta il 6 agosto 1945, con un equipaggio di 14 persone. L’ordigno da 4,2 tonnellate, battezzato ’Little Boy’, venne sganciato alle 8,15. Esplodendo in aria poco prima di toccare il suolo di Hiroshima, la bomba sviluppò un’ondata di calore che raggiunse i 4.000 gradi centigradi in un raggio di oltre 4 chilometri, seguita da un sinistro fungo di fumo. Centoquarantamila dei 350 mila abitanti della città morirono sul colpo, ma l’esplosione atomica lasciò per anni sulla città una sinistra scia di morte e sofferenza. Alla fine, a Hiroshima le vittime accertate della bomba atomica furono 221.823, con quelle che hanno perso la vita per i danni provocati dalle radiazioni nucleari. "Non sono orgoglioso di aver ucciso quelle persone - ha detto Tibbets anni fa, in un’intervista - ma sono orgoglioso di essere partito dal niente, aver pianificato l’intera operazione ed essere riuscito ad eseguire il lavoro perfettamente. La notte dormo bene".
La missione su Hiroshima, infatti, venne descritta come impeccabile dal punto di vista tattico. Al contrario, quella effettuata tre giorni dopo su Nagasaki dal B-29 Bockscar pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney, che sganciò un secondo ordigno nucleare, "Fat Man", provocando 74mila morti, è stata bollata come tatticamente errata, anche se raggiunse lo scopo, spingendo il Giappone alla resa e chiudendo così la Seconda guerra mondiale.
Tibbets lasciò l’aeronautica militare Usa nel 1966 con il grado di generale e mise in piedi una società di taxi-jet in Ohio. Secondo quanto ha riferito l’amico di famiglia Gerry Newhouse, ha lasciato detto di non celebrare un funerale e di non porre una lapide sulla sua tomba, per il timore che divenga un luogo per manifestazioni di protesta.
* la Repubblica, 1 novembre 2007
Il 6 agosto 1945 una testata venne sganciata sul Giappone: 250mila vittime
Il sindaco Akiba attacca la poltica Usa sulle armi atomiche: "Antiquata e sbagliata"
Hiroshima, la cerimonia del ricordo
a 62 anni dalla bomba atomica
HIROSHIMA - Un minuto di silenzio, mille colombe in volo e una frecciata allo politica nucleare statunitense. Hiroshima ricorda la bomba atomica che, il 6 agosto 1945, venne sganciata sulla città facendo 140mila morti. Ma negli anni successivi le radiazioni e i loro effetti portarono le vittime a quasi 250mila.
Sopravvissuti, politici e cittadini si sono stretti attorno al memoriale della pace per la cerimonia. Di fronte alla cupola della bomba-A, lo scheletro di un edificio che si trova accanto al punto in cui cadde la testata, è stato osservato un minuto di silenzio alle 8.15, l’ora in cui l’aereo B-29 Enola Gay scaricava "Little boy" (così era stata chiamata la bomba) sulla città. Alla stessa ora due bambini hanno fatto risuonare la campana della pace: poi, mille colombe sono state liberate in cielo.
Il sindaco di Hiroshima Tadatoshi Akiba, rievocando l’inferno che si era scatenato 62 anni fa, ha anche sottolineato la posizione del Giappone nei confronti delle armi nucleari: "Il governo giapponese, che ha il dovere di lavorare per l’abolizione degli armamenti nucleari attraverso una legge internazionale, deve proteggere la sua costituzione pacifista di cui deve essere fiero e deve dire un no chiaro alle politiche antiquate e sbagliate degli Usa".
All’attualità ha fatto riferimento anche il primo ministro giapponese Shinzo Abe, presente alla cerimonia. Ieri Abe aveva infatti chiesto scusa ai sopravvissuti per le parole pronunciate un mese fa dal ministro della Difesa Fumio Kyuma, che aveva definito "inevitabili" le bombe su Hiroshima e Nagasaki (9 agosto 1945) per chiudere la guerra. Kyuma si era dovuto dimettere.
In tutto il mondo sono state ricordate le vittime di Hiroshima. In Italia il comitato "Terra di Pace" ha organizzato una cerimonia al Pantheon di Roma. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio sottolineando l’importanza di trasmettere la memoria alle nuove generazioni, affinché una simile tragedia "non possa più ripetersi": perché questo accada, ha aggiunto, "dobbiamo assumere tutti l’impegno di lavorare perché pace e disarmo non rimangano enunciazioni di principio".
Anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha richiamato la necessità di realizzare "un sistema di convivenza tra i popoli fondato sul pieno rispetto delle diversità, sulla cultura del dialogo e della solidarietà". Il presidente del Senato Franco Marini ha parlato dell’anniversario come di "un’occasione importante per continuità a diffondere gli ideali di pace e di democrazia e perseguire il definitivo ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
* la Repubblica, 6 agosto 2007
Hiroshima, oggi come allora l’indicibile orrore dell’atomica
62 anni fa la prima bomba nucleare *
Nel 62esimo anniversario dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima il premier giapponese Shinzo Abe ha chiesto l’abolizione delle armi nucleari, nel giorno in cui la città rende omaggio alle 140mila vittime dell’ordigno. Sopravvissuti, abitanti e visitatori hanno osservato un minuto di silenzio alle 8.05 ora locale (le 1.15 in Italia) quando il bombardiere B-29 Enola Gay sganciò il suo carico di morte su Hiroshima, il 6 agosto 1945. Tre giorni dopo un altro aereo americano lanciò una bomba al plutonio sulla città di Nagasaki uccidendo circa 80mila persone. Sono previste cerimonie di commemorazione anche giovedì.
«Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, per 62 anni il Giappone ha seguito un cammino di pace» ha dichiarato il primo ministro Abe nel discorso ufficiale pronunciato al Parco della Pace di Hiroshima, vicino al punto di impatto dell’ordigno nucleare. «Prenderemo un’iniziativa nella comunità internazionale e ci dedicheremo senza riserve all’abolizione delle armi nucleari e alla realizzazione della pace»- ha detto Abe.
Il primo ministro, reduce da una sconfitta elettorale, ha ribadito che il Giappone resterà fermo sui principi di non possedere, sviluppare o autorizzare le armi nucleari sul suolo giapponese. Dichiarazioni che seguono le polemiche sollevate dalle affermazioni del ministro della Difesa il mese scorso, secondo cui i bombardamenti atomici americani potevano essere giustificati. Il ministro della Difesa Fumio Kyuma era stato costretto a dimettersi e il premier Abe ha presentato le sue scuse in proposito ieri, promettendo al tempo stesso un maggior sostegno medico ai sopravvissuti e un piano contro malattie dovute alle radiazioni. Dopo le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il Giappone si arrese il 15 agosto 1945, mettendo così fine alla Seconda Guerra mondiale.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.08.07, Modificato il: 06.08.07 alle ore 8.21
1. La prima lettera di Guenther Anders a Claude Eatherly
2. La prima lettera di Claude Eatherly a Guenther Anders *
1. DOCUMENTI. LA PRIMA LETTERA DI GUENTHER ANDERS A CLAUDE EATHERLY
Al signor Claude R. Eatherly
ex maggiore della A. F.
Veterans’ Administration Hospital
Waco, Texas
3 giugno 1959
Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei e’ noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verra’ (o non verra’) a capo della Sua sventura, e’ seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokio o a
Vienna) col cuore in sospeso. E non per curiosita’, o perche’ il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici ne’
psicologi. Ma perche’ ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare - questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto si’ che si possa diventare "incolpevolmente colpevoli", in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiche’ Lei e’ uno dei primi che si e’ invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere - oggi o domani - ciascuno di noi. A Lei e’ capitato cio’
che potrebbe capitare domani a noi tutti. E’ per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l’indiscrezione piace cosi’ poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l’indiscrezione e’ - purtroppo - inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita e’ diventata anche il nostro business. Poiche’ il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha piu’ diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non e’ colpa Sua, ed e’ certamente spaventoso. Ma cosi’ e’, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiche’
tutti noi dobbiamo vivere in quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, cosi’
anche noi non abbiamo scelto quest’epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, "on the same boat", nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunita’, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui e’ capitata la disgrazia di fare realmente cio’ che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora.
Ma allora cio’ non era possibile: il meccanismo dei comandi funziono’
perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento.
Dunque lo ha fatto. Ma poiche’ lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci e’ estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei e’, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiutera’ questo titolo. "Tutt’altro, dira’, poiche’ io non riesco a venire a capo del mio stato".
*
Si stupira’, ma e’ proprio questo "non" a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Percio’ qualche parola di spiegazione.
Non dico "consolante per Lei". Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: "La cosa non e’ poi cosi grave"; cerca, insomma, di impicciolire l’accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. E’ proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici. Non e’ difficile scoprire perche’ agiscano cosi’. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un’azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilita’ di questa condanna; e che percio’ devono difendere in ogni caso l’irreprensibilita’ di un’azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perche’ i Suoi medici affermano: "Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour", cio’ che in un linguaggio meno lambiccato significa: "Hiroshima e’ meno terribile di quanto sembra"; ecco perche’ si limitano a criticare, invece dell’azione stessa (o "dello stato del mondo" che l’ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perche’ devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una "malattia" ("classical guilt complex"); ed ecco perche’ devono considerare e trattare la Sua azione come un "self-imagined wrong", un delitto inventato da Lei. C’e’ da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitu’ morale a sostenere l’irreprensibilita’ della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse cosi’ bugiarde ottengano dalle loro cure risultati cosi’ poco brillanti?
Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulita’ e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione.
Hiroshima-self-imagined!
Non c’e’ dubbio: Lei la sa piu’ lunga di loro. Non e’ senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l’accaduto e’ accaduto veramente, e, non e’
un’immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste "consolazioni".
No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a "venire a capo"
dell’accaduto, e’ consolante. E questo perche’ ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all’effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perche’ questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo e’
possibile, e che dev’essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) e’, per noi, consolante.
"Anche se dovesse fallire", ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Gia’ quando si e’ fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l’azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, e’ tutt’altro che semplice "venirne a capo". Ma qui si tratta di ben altro.
Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di se’ duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200.000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200.000 vittime?
Non solo Lei non lo puo’, non solo noi non lo possiamo: non e’ possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L’inutilita’ dei Suoi sforzi non e’ quindi colpa Sua, Eatherly: ma e’ una conseguenza di cio’ che ho definito prima come la novita’ decisiva della nostra situazione: del fatto, cioe’, che siamo in grado di produrre piu’ di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono cosi’ enormi che non siamo piu’ attrezzati per concepirli. Al di la’, cioe’, di cio’ che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo "venire a capo". Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non puo’ riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi e’ la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiche’ al di fuori di questa esperienza non c’e’ nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni cosi tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, e’ quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che e’ un segno della Sua salute morale. Poiche’ la Sua reazione attesta la vitalita’ della Sua coscienza.
*
Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi e’ una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull’Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perche’ continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che "e’ stata solo una bomba un po’ piu’ grossa delle altre". E questo metodo e’ esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il "via" a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell’apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare cio’ che Lei ha fatto. Tant’e’ che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un’intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi "pangs of conscience", che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo "clean sheet". Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d’innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non e’ un personaggio ridicolo, un uomo che fugge cosi’ davanti a se stesso? Lei non ha agito cosi’, Eatherly; Lei non e’ un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto e’ umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l’azione. Ed e’ questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perche’ e’ rimasto identico con la Sua azione, si e’ trasformato in seguito ad essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che e’ o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto "comuni": sono gesti di disperazione. Poiche’ essere colpevole come Lei lo e’ ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come "eroi sorridenti", dev’essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si puo’ anche commettere qualche scorrettezza. Poiche’ l’enormita’ che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costi’, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny nei termini della societa’ stessa. Cosi’ Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non Le e’ riuscito.
E’ sempre condannato a passare per malato, anziche’ per colpevole. E proprio per questo, perche’ - per cosi’ dire - non Le si concede la Sua colpa Lei e’ e rimane un uomo infelice.
*
E ora, per finire, un suggerimento.
L’anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c’e’ nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell’ingranaggio di una macchina militare (cio’ che Lei era, quando, a ventisei anni, esegui’ la Sua "missione"); non c’e’ nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, e’ rimasto, a differenza degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avra’ modo di riflettere.
Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrera’, come tutti gli anni, il giorno in cui "e’ avvenuto". A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: "Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovra’ piu’ accadere; e che nessuno puo’ chiedere a un altro di compierla"; e: "La vostra lotta contro il ripetersi di un’azione simile e’ anche la mia lotta, e il vostro ’no more Hiroshima’ e’ anche il mio ’no more Hiroshima`, o qualcosa di simile puo’ essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che cio’ accadrebbe a ragione, poiche’ anche Lei, Eatherly, e’ una vittima di Hiroshima. E cio’ sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Col sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto Guenther Anders
2. DOCUMENTI. LA PRIMA LETTERA DI CLAUDE EATHERLY A GUENTHER ANDERS [Riproponiamo il testo della prima lettera di Claude Eatherly a Guenther Anders, del 12 giugno 1959, riprendendola dalla corrispondenza tra Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d’ombra, Milano 1992 (ivi alle pp. 34-36), nella classica traduzione di Renato Solmi]
12 giugno 1959
Dear Sir,
molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdi’ della scorsa settimana.
Dopo aver letto piu’ volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.
Durante tutto il corso della mia vita sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, ne’ dal punto di vista religioso ne’ da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta.
Ma oggi e’ relativamente chiaro che la nostra epoca non e’ di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilita’ dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato).
Nessuna di queste istituzioni e’ oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e percio’ bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. L’esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.
Se Lei ha l’impressione che questo concetto sia importante e piu’ o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.
Ho l’impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.
Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riusciro’ a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.
Guenther, mi fa piacere di scriverLe. Forse potremo stabilire, col nostro carteggio, un’amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta in cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporro’ le mie opinioni.
RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo Claude Eatherly
*FONTE (RIPRESA PARZIALE): LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA = Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino" - Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it - Numero 123 del 5 agosto 2007
RIFLESSIONE. ERNESTO BALDUCCI: LE TRE VERITA’ DI HIROSHIMA *
[Riproponiamo ancora una volta il seguente brano estratto dall’introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un’utopia, Principato, Milano 1983 (un ottimo libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders. L’introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione piu’ alti e profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell’est e dell’ovest); piu’ volte abbiamo riprodotto sul nostro notiziario il testo integrale dell’ntroduzione, da ultimo in "Minime" n. 34 del 20 marzo 2007. Ernesto Balducci e’ nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e’ deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta’. Fondatore della rivista "Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. .... Per contattare la Fondazione Ernesto Balducci: tel. 055599147, e-mail: fondazionebalducci@virgilio.it, sito: www.fondazionebalducci.it]
Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale prospettiva, si fa piu’ serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali e’ possibile, in ragione della stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta’ della guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo’ essere custodito solo dall’equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e’ antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare acuto agli inizi dell’eta’ moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro l’arte e la natura" ... "e tra le ridde de’ suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso di Niccolo’ Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e’ durato fino ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e’ che il tempo in cui siamo rende possibile all’utopia di appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se’
le ragioni dell’utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu’ gli emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene comune. Com’e’ noto, il maestro dei realisti affidava alla virtu’ (che nel suo linguaggio voleva dire abilita’ conforme a ragione) il compito di far fronte alla fortuna e cioe’ al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo giudizio, fortuna e virtu’ potevano governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento primo della virtu’ di un principe. Uno strumento peraltro da usare all’interno di una preveggenza multiforme delle eventualita’ della fortuna. "Assomiglio quella - dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap.
XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’
piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, senza potervi in alcuna parte obstare. E benche’ sieno cosi’ fatti, non resta pero’ che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe ne’ si’
licenzioso ne’ si’ dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non e’ ordinata virtu’ a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e’ il fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta’" affidata al principe oggi e’, secondo la "verita’ effettuale", vorremmo dire materialistica, non Firenze o l’Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all’imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico, legato cioe’ a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano, anche l’imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L’umanita’ e’ entrata in un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e’ trovata di fronte al dilemma:
o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e’ avvenuta e noi siamo vivi! Non e’ forse vero che l’abisso si e’ spaventosamente allargato dinanzi a noi? D’altronde le mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo’ gia’ dire, con fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui e’ facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verita’ contenuta in quel messaggio e’ che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita’ intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l’immagine eurocentrica della storia, essa si e’ dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu’ recente e piu’ organica e’ quella del Rapporto Brandt. L’unita’ del genere umano e’
ormai una verita’ economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e’ il Sud a dipendere dal Nord ma e’ il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco e’ resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e’ sottoposto e poi, piu’ specificamente, perche’ esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l’aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell’ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l’appunto, nel solo anno 1979. E piu’ comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non e’ un prodotto fatale dell’avarizia della natura o dell’ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un’immensa quota dei profitti nell’industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe’ 10 volte di piu’ del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa.
Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno piu’ la coscienza tranquilla.
La seconda verita’ di Hiroshima e’ che ormai l’imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e’ arrivato a coincidere con l’istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell’aggressivita’ distruttiva. Fino ad oggi e’ stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell’istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un’ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell’istinto di conservazione (di cui la paura e’ un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualita’.
La terza verita’ di Hiroshima e’ che la guerra e’ uscita per sempre dalla sfera della razionalita’. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l’hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioe’ come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l’"accadimento" funesto generava l’"avvenimento" fausto. Ma ora, nell’ipotesi atomica, l’accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l’avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell’accadimento.
*FONTE (RIPRESA PARZIALE): LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA = Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino" - Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it - Numero 123 del 5 agosto 2007
Hiroshima e Nagasaki
A cura di Enrico Peyretti
Nell’anniversario di Hiroshima e Nagasaki, memoria sempre più tragica, minacciosa, impegnativa, ripropongo, a chi la trovasse utile lettura, questa riflessione di John Rawls del 1995, "Hiroshima, non dovevamo", una preziosa autocritica dall’interno del paese autore della prima violenza atomica. Enrico Peyretti *
Hiroshima 1945-1995
POTENZA E COSCIENZA
Da: Enrico Peyretti, La politica è pace, Cittadella editrice, Assisi 1998
Cap. 6, par. 5, pp. 184-188
«L’uomo politico pensa alle future elezioni, l’uomo di stato alle future generazioni» (John Rawls)
Ho letto due esami di coscienza, scritti a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro: la coscienza della Germania sconfitta nel 1945, e la coscienza degli Stati Uniti vincitori, che oggi si interroga sull’impiego fatto allora della bomba atomica. Le voci sono quella di Thomas Mann, in La Germania e i tedeschi, un discorso del 6 giugno 1945 (allegato ad un numero di settembre de il manifesto) e quella del filosofo John Rawls (autore di Teoria della giustizia, 1971) insieme ad altri studiosi statunitensi, in Hiroshima, non dovevamo (I libri di Reset, Donzelli 1995. Questi articoli escono anche sulla rivista americana Dissent).
Thomas Mann parlava negli Usa, nel breve spazio di tempo tra il crollo tedesco e la bomba di Hiroshima. Rawls scrive a cinquant’anni da quell’agosto atomico. Il dibattito su Hiroshima (cfr paragrafo 3 di questo capitolo) è riesploso negli Usa: ufficialmente si è chiuso sulle posizioni governative, uguali a quelle del 1945, ma è vivace e approfondito nella cultura, come dimostra questo libretto, e persino nelle televisioni (v. Le Monde Radio-Télévision, 13-14.8.1995, p.3). La mostra sull’Enola Gay, per l’insorgere dei veterani e della destra, ha dovuto sostituire il catalogo ampiamente critico, con poche pagine asettiche.
Il problema morale di Hiroshima si differenzia per le lunghe profonde conseguenze, in qualche caso (Dresda) non per il numero di vittime immediate, da quello dei bombardamenti terroristici dei civili con bombe convenzionali, praticato prima dai tedeschi e poi dagli alleati.
Oggi la cultura di pace disconosce lo jus ad bellum (diritto di far guerra). Rawls, entro i vecchi limiti dello jus in bello (regole da rispettare nella guerra), propone sei princìpi o postulati che impegnano «una società democratica decente». Li riassumo: 1) lo scopo di una guerra giusta è una pace giusta e duratura anche coi nemici del momento (osservo che lo stesso chiede Kant, Per la pace perpetua, 6° articolo preliminare); 2) una società democratica combatte soltanto contro uno stato non democratico, espansionista, minaccioso; 3) nella guerra contro un tale nemico, una società democratica distingue attentamente tra governanti, soldati, popolazione civile e considera responsabili della guerra soltanto i primi; 4) una società democratica rispetta i diritti umani dei nemici, sia civili che militari, primo perché sono sempre membri della società umana, secondo per insegnare loro con l’esempio, perciò non li attacca mai direttamente salvo che in caso di crisi estrema; 5) i popoli giusti devono prefigurare, durante la guerra, il tipo di pace e di rapporti internazionali a cui mirano (cfr Kant citato); 6) la valutazione pratica dell’opportunità di un’azione deve sempre essere severamente limitata dai princìpi suesposti. Qui Rawls propone la distinzione che ho citato in epigrafe tra l’uomo politico e l’uomo di stato.
Si può dedurre dall’insieme che non furono veri "uomini di stato" né quelli che imposero alla Germania nel 1919 la pace punitiva di Versailles, culla del nazismo, né quelli che decisero l’uso dell’atomica. Hiroshima - dice Rawls ed è ormai accertato - non configurava il caso di crisi estrema; Truman e Churchill, che non ripettarono quei limiti alla conduzione della guerra, non furono veri "uomini di stato"; Truman è «fallito come uomo di stato» (p. 31); sia Hiroshima che i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi o su Dresda furono «gravi torti» e «gravi errori» (p. 29). I governanti non ebbero tempo per riflettere, la guerra impedisce di pensare. E’ ciò che il pensiero della pace afferma: la guerra non continua la politica, ma la nega. E nega la democrazia. Dobbiamo infatti dedurre (pur distinguendo fra i loro governanti e la società civile, da cui vennero subito alcune condanne dell’uso dell’atomica: v. p. 46), che gli Stati Uniti non furono «una società democratica decente» in quella circostanza che ha determinato la storia universale successiva. Il guaio grave è che ancora oggi la tesi ufficiale giustifica accanitamente le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Clinton ha concluso: «Truman ha fatto quel che si doveva fare» (Le Monde, 3.8.1995). Il 76% degli americani (84% oltre i 65 anni) ritiene che gli Usa non debbano presentare scuse al Giappone (New York Times 1.8.1995 e Le Monde 8.8.1995). Ergo, non appare assurdo il severo giudizio di Gandhi in risposta ad un amico americano nel maggio 1940: «La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo» (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 140). Rawls oggi ne dà una implicita trasparente conferma, pur dimostrando giustamente che dove c’è possibilità di dibattito c’è correggibilità. Potremmo dire che il modello statunitense, oggi idolatrato, configura una società che può diventare democratica e giusta, all’esterno come all’interno, anche se non lo è ancora, purché guarisca dai propri mali spirituali profondi.
Lo spazio mi manca per riferire di Thomas Mann, dapprima nazionalista e poi apertamente antinazista. Simone Weil dice che «la forza pietrifica le anime», eppure ciò che accomuna questi due scritti è lo scaturire della coscienza umana dalla pietra della potenza politico-militare: per Rawls una potenza in auge che non capisce ancora il proprio limite, per Mann una potenza già precipitata nel proprio nulla distruttore. Ne colgo solo queste parole da meditare: «Il concetto tedesco di libertà fu sempre rivolto soltanto all’esterno. (...) Un popolo che non è interiormente libero e responsabile di fronte a se stesso non merita la libertà esteriore. (...) La sventura tedesca è soltanto il paradigma per la tragicità della vita umana, in generale» (pp. 41 e 57). (15 dicembre 1995)
Da Castel Gandolfo il Papa, ricordando il 50mo anniverario dell’Aiea,
riafferma la necessità di fermare la proliferazione nucleare
Benedetto XVI: stop al riarmo nuclare
"Meglio impiegare risorse per i poveri"
Condanna anche per i sequestri di innocenti nel mondo: "Vanno contro la civiltà e la legge divina"
E lancia un appello per i prigionieri coreani nelle mani dei talebani, in Afghanistan *
CASTELGANDOLFO (Roma) - Benedetto XVI è tornato oggi a chiedere il disarmo nucleare. Lo ha fatto nel messaggio che ha preceduto l’Angelus, ricordando il cinquantesimo anniversario dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), l’organismo dell’Onu che vigila contro il proliferare delle armi nucleari. Ma nel suo intervento il Papa ha anche condannato i sequestri di innocenti, in tutto il mondo; lanciando, esplicitamente, "un appello per gli ostaggi coreani in Afghanistan", che non era presente nel testo scritto diffuso alla stampa.
Il nucleare. "Alla corsa agli armamenti - ha detto il Papa alla folla di fedeli presenti nel cortile della residenza estiva di Castel Gandolfo - si deve sostituire uno sforzo comune per mobilitare le risorse verso obiettivi di sviluppo morale, culturale ed economico, ridefinendo le priorità e le scale di valori". E impiegando le risorse liberate "in progetti di sviluppo a vantaggio di tutti gli abitanti e, in primo luogo, dei più poveri". "Affidiamo nuovamente all’intercessione di Maria Santissima - ha aggiunto - la nostra preghiera per la pace, in particolare affinché le conoscenze scientifiche e tecniche vengano sempre applicate con senso di responsabilità e per il bene comune, nel pieno rispetto del diritto internazionale. Preghiamo perché gli uomini vivano in pace, e si sentano tutti fratelli, figli di un unico Padre: Dio".
I sequestri. Cambiando poi argomento, il Pontefice - a pochi giorni dalla liberazione di padre Bossi, sequestrato da guerriglieri nelle Filippine - ha condannato la pratica, sempre più diffusa, dei rapimenti. "Si va diffondendo tra gruppi armati - ha dichiarato - la prassi di strumentalizzare persone innocenti per rivendicare fini di parte. Si tratta di gravi violazioni della dignità umana, che contrastano con ogni elementare norma di civiltà e di diritto e offendono gravemente la legge divina". "Rivolgo il mio appello - ha aggiunto - affinché gli autori di tali atti criminosi desistano dal male compiuto e restituiscano incolumi le loro vittime".
Il grazie ai fedeli. Benedetto XVI non ha dimenticato di ringraziare la gente che lo segue con affetto: "Sento il vivo desiderio - ha detto infatti, all’inizio del suo discorso - di ringraziare ancora una volta il Signore per aver potuto trascorrere giorni sereni tra le montagne del Cadore, e sono riconoscente a tutti coloro che hanno organizzato efficacemente questo mio soggiorno e vegliato con cura su di esso". "Con uguale affetto - ha aggiunto - vorrei salutare ed esprimere i miei grati sentimenti a voi, cari pellegrini, e soprattutto a voi, cari abitanti di Castel Gandolfo, che mi avete accolto con la vostra tipica cordialità e mi accompagnate sempre con discrezione durante il tempo che trascorro tra voi".
* la Repubblica, 29 luglio 2007
E’ morto a 85 anni uno dei più grandi testimoni del secolo scorso
Era con i marine in Giappone un mese dopo le due bombe nucleari
Addio a Joe O’Donnell l’uomo che fotografò Hiroshima
In seguito lavorò alla Casa Bianca e fece altri scatti storici ma non riuscì mai a liberarsi dall’angoscia della devastazione
WASHINGTON - Nonostante quelle radiazioni a cui si era sottoposto poco più che trentenne per documentare il più grande orrore bellico della storia, l’appuntamento con la morte è stato a lungo rimandato. Fino a venerdì scorso, anche se la notizia viene data soltanto oggi. Joe O’Donnell, l’uomo che fotografò le conseguenze del bombardamento atomico a Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 1945, è morto all’età di 85 anni.
Secondo alcuni giornali giapponesi, gli unici a dare rilievo al fatto, O’Donnell, che la cui salute fu minata per essersi esposto alle radiazioni nelle due città giapponesi rase al suolo dalle esplosioni nucleari, è morto venerdì scorso in un ospedale di Nashville.
O’Donnell, sposato con una fotografa giapponese, Kimiko Sakai, si ritirò nel Tennessee una volta raggiunta l’età della pensione, nel 1968. La coppia aveva tre figli e una figlia.
Se ne va così uno dei testimoni più importanti del secolo, anche perché dal 1949 in poi O’Donnell fu fotografo ufficiale della Casa Bianca sotto tre presidenze e in piena Guerra fredda.
Hiroshima fu bombardata il 6 agosto 1945, i morti furono 140 mila. Nagasaki venne devastata 3 giorni dopo e i morti furono settantamila. Quello fu il prezzo che il Giappone dovette pagare prima di arrendersi e deporre le armi. O’Donnell aveva scattato le fotografie un mese dopo le esplosioni, mentre era in servizio in Giappone come fotografo dei marine nel settembre 1945.
Chi lo conosceva bene dice che Joe, dopo aver testimoniato con le sue foto quanto aveva visto, non fu mai più la stessa persona. "Joe era una persona molto divertente - ricorda Anne Brown, la curatrice di una mostra dedicata alle sue fotografie - ma allo stesso tempo aveva una grande tristezza nello sguardo. Ha sofferto moltissimo, ma non ne parlava volentieri, convinto che la sofferenza dei giapponesi fosse molto più profonda della sua".
Una delle foto divenuta manifesto dell’orrore è quella di un bambino di Nagasaki, lo sguardo fisso, che trasporta sulle spalle il cadavere del fratellino portandolo al crematorio.
In seguito O’Donnell di immagini storiche ne avrebbe scattate altre, come fotografo ufficiale della Casa Bianca. Franklin Roosevelt insieme a Stalin e a Winston Churchill a Yalta; la famosa stretta di mano, sull’isola di Wake, nel 1950, tra il presidente Harry Truman e il generale Douglas MacArthur, da lui rimosso pochi mesi dopo per avere minacciato un attacco contro la Cina in piena guerra di Corea; il piccolo John John Kennedy che saluta militarmente la bara del padre presidente assassinato pochi giorni prima, il 22 novembre del 1963, a Dallas, in Texas.
Eppure, sono stati i giapponesi più che gli americani in queste ore a rendere onore a O’Donnell. La notizia della sua scomparsa è stata data solo da un quotidiano locale.
* la Repubblica, 12 agosto 2007
Secondo un rapporto, gli ordigni si trovano ad Aviano e Ghedi
La loro presenza è vietata dalla legge e da trattati internazionali
Nucleare, rivelazione dagli Usa
"In Italia 90 bombe atomiche"
Lidia Menapace (Prc): "Lo denunciamo da molto tempo" *
ROMA - Lo vieta la legge e in più occasioni in passato lo ha dichiarato anche il governo, ma l’Italia è un paese nucleare. A rivelarlo è uno studio americano, secondo il quale sul territorio italiano ci sono 90 bombe atomiche statunitensi. Una presenza della quale si parla molto poco, ma che ha un peso strategico importante negli equilibri internazionali. Sul tema sono intervenuti alcuni esponenti di Rifondazione, che stanno anche promuovendo una raccolta di firme.
A rigor di legge, la presenza di questi ordigni non sarebbe consentita: la legislazione la vieta espressamente dal 1990. Il nostro Paese ha inoltre sottoscritto i trattati internazionali di non proliferazione nucleare e ha dichiarato di non far parte del club atomico, con tutti gli obblighi internazionali che ne derivano.
Secondo il rapporto "Us nuclear weapons in Europe" dell’analista statunitense Hans Kristensen del Natural Resources Defence Council di Washington, invece, l’Italia ospita 90 delle 481 bombe nucleari americane presenti nel Vecchio continente. Cinquanta sono nella base di Aviano, in Friuli, e altre 40 si trovano a Ghedi, nel Bresciano.
Tra Italia e Stati Uniti esisterebbe anche un accordo segreto per la difesa nucleare, rinnovato dopo il 2001. William Arkin, un esperto dell’associazione degli scienziati nucleari, ne ha rivelato recentemente il nome in codice: "Stone Ax" (Ascia di Pietra). Le bombe atomiche in Italia sono di tre modelli: B 61-3, B 61-4 e B61-10. Il primo ha una potenza massima di 107 kiloton, dieci volte superiore all’atomica di Hiroshima; il secondo modello ha una potenza massima di 45 kiloton e il terzo di 80 kiloton.
Il governo di George Bush ha ribadito molte volte di non escludere l’opzione nucleare per rispondere ad attacchi con armi biologiche o chimiche ed ha avviato la produzione di bombe atomiche tattiche di potenza limitata, non escludendo di servirsene contro i Paesi considerati terroristi. Almeno due di questi, Siria e Iran, si trovano nel raggio dei bombardieri di stanza in Italia.
I risultati dello studio hanno dato forza alle proteste di alcuni esponenti di Rifondazione. "E’ da molto tempo che denunciamo la presenza di bombe atomiche sul territorio italiano", dice la senatrice Lidia Menapace della commissione Difesa. "Quando siamo stati ad Aviano in missione per la commissione abbiamo chiesto al comandante italiano se era a conoscenza della presenza di armi nucleari nella base e lui rispose che non lo sapeva". "Stiamo raccogliendo le firme per una legge di iniziativa popolare per liberare il territorio dalle armi nucleari americane", aggiunge il senatore Francesco Martone, capogruppo Prc in commissione Esteri.